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Giorgia Meloni tace davanti al «figlio» di Castro

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Grazie a Justin Trudeau abbiamo avuto una bella dimostrazione di cosa sia ora al governo in Italia.

 

Come noto, il Trudeau avrebbe teso al premier Meloni una piccola imboscata nel suo incontro bilaterale al G7 di Hiroshima.

 

Secondo quanto riportato dai media canadesi, Trudeau ha esordito dicendosi «preoccupato da alcune» delle posizioni «che l’Italia sta assumendo in merito ai diritti LGBT». Il Presidente del Consiglio italiano, stando alla nota diffusa dal Canada, avrebbe risposto «che il suo governo sta seguendo le decisioni dei tribunali e non si sta discostando dalle precedenti amministrazioni».

 

L’ANSA riporta le reazioni delle sue «fonti italiane». «Quella di Justin Trudeau sui diritti LGBT è stata una frase “sorprendente”. Lo riferiscono fonti italiane spiegando che l’incontro a margine del G7 di Hiroshima era stato preparto dalle due diplomazie e il tema non era uno degli argomenti chiave del bilaterale».

 

«La presidente del Consiglio, ribadiscono le stesse fonti, ha risposto a Trudeau che non è cambiato nulla e non c’è nulla di cui preoccuparsi. Un episodio cominciato e finito lì nella fase iniziale dell’incontro, che è andato bene. Si è passati, sottolineano le stesse fonti, rapidamente ad altro.

 

In seguito, in conferenza stampa, la Meloni dice che la dichiarazione di Trudeau è stata «un po’ avventata, ma ne siamo venuti a capo». Anzi, l’aggressore diventa vittima: «Credo che Trudeau fosse vittima di una fake news e lui stesso se n’è poi reso conto».

 

«Questo accade quando si è particolarmente vittime della propaganda che non corrisponde alla verità. Sono cose che possono accadere». In pratica, Giorgia dice: stiamo lavorando anche noi per il nuovo mondo NATO-LGBT, altrimenti non sarei qui ad Hiroshima, a fare gli occhi dolci a Biden (era quella che al vegliardo della Casa Bianca sull’Ucraina aveva detto, un anno fa, che gli avrebbe detto che «non saremo i muli da soma dell’Occidente»?) e re-incontrare, dopo una manciata di giorni dal festone di Roma, il Volodymyr Zelens’kyj in tour mendicante (più denaro! Più armi!) anche a Hiroshima, e ci sembra giusto: nella prima città del martirio atomico, ecco che bisogna accogliere uno che vuole trascinare il mondo nell’Armageddon termonucleare. Non una grinza.

 

Trudeau vittima delle fake news, sì, eccerto: perché il ruolino di marcia della Cultura della Morte Giorgia non lo tocca nemmeno per ischerzo, e anzi v’è chi sospetta che le è stato permesso di arrivare lì per quello.

 

Ricordate? Appena eletto, fu ribadito dalla sorella che lei era a favore dell’aborto – tema padre di quello LGBT – poi il compagno ribadì che Peppa Pig con due mamme lui alla figlia glielo farebbe vedere.

 

Non bastò: nel suo primo discorso al Parlamento, ecco che Giorgia si produce in quello che abbiamo chiamato l’inchino a Moloch: il feticidio di Stato non si tocca, punto. L’immutabilità della 194/78 viene quindi ribadita dal suo ministro della Famiglia, che in gioventù aveva fatto parte di un gruppo femminista e scritto il manuale Aborto facciamolo da noi, per poi divenire, per ragioni che sa spiegarvi solo Renovatio 21, proiezione politica gradita all’episcopato alle consorterie residuali neodemocristiane.

 

Non preoccuparti, o mondo. Anche a Roma stiamo lavorando per la dissoluzione, al nostro ritmo. Niente leggi «omofobe» per la libertà di espressione, figurarsi: anzi seguiamo quello che dicono i giudici – di cui oramai si confessa spudoratamente la supplenza politica per i temi bioetici – e in Italia sappiamo cosa vuol dire (avete presente, la Consulta, negli ultimi mesi: e gli assist servitile dal governo melonico).

 

È, di fatto, disperante.  E non solo per quelli che si erano illusi che con la «destra» al potere, cioè quella che si è fatta anni, decenni di «opposizione» al sistema, sarebbe cambiato qualcosa rispetto a Draghi, Conte, Gentiloni, Renzi, Letta, Monti (quest’ultimo votato con passione dalla Meloni del 2011, e pure dal suo straripante sottosegretario alla Presidenza, il leccese Alfredo Mantovano, en passant, l’ex magistrato, «cattolico» fece la tesi di laurea sulla 194 nel 1981).

 

Nulla cambia: continua la catastrofe biologica e morale. Il gattopardismo della Necrocultura nazionale è vivo e passeggia anche ad Hiroshima al guinzaglio del Patto Atlantico.

 

Tuttavia, non di questa disfatta, pienamente comprensibile per chi ha capito il personaggio e il quadro storico, vogliamo dire qualcosa.

 

Vorremmo, in verità, dare qualche suggerimento per la prossima volta che Giorgia incontrerà il Justino, che la leggenda internautica vuole sia figlio biologico di Fidel Castro (i Trudeau erano una coppia libera: lui strambo premier di Ottawa, lei giovanissima amante dei party allo Studio 54 di Nuova York, all’epoca discoteca del degrado più indicibile).

 

La voce è talmente insistente, con in genere accompagnamento di foto a due, che nel 2018 il Canada fece una smentita ufficiale – che, come noto, è una notizia data due volte, e infatti non convinse nessuno degli utenti della rete, che tirarono fuori una foto in cui il Fidel lo porta in braccio da bambino all’aeroporto dell’Avana. (Il Canada, a differenza degli USA, non aveva l’embargo con Cuba, e quindi agiva da valvola politica e aerea con l’isola)

 

Ma la Meloni non è che deve rispondergli con la genetica famigliare, anche se il MSI ci ha campato per decenni con la campagna anticastrista. Invece, di base, ha taciuto.

 

Ci sono cose un po’ più serie da dire a Trudeau junior. Più serie anche delle fandonie della politica omosessualista globale. Perché il Canada è il Paese dove non i diritti LGBT, ma lo Stato di diritto stesso è venuto meno. Altro che la Cuba di Castro.

 

Vogliamo ricordare, la protesta dei camionisti? Gli arresti, le requisizioni? Lo Stato che arriva a bloccare le raccolte fondi su internet, per poi passare – incredibile – al congelamento dei conti correnti di chi protestava? È la grande prova della guerra finanziaria totale contro il popolo stesso: furono bloccati perfino i conti online in criptovalute.

 

Ricordiamo la fuga di Trudeau dalla capitale, e la caterva di insulti e falsità – quelle sì erano fake news, di Stato – che riversò ancora una volta sui manifestanti, accusati di essere nazisti?

 

Il Canada pro-LGBT è lo stesso che manda in piazza con lo striscione dei nazi-banderisti ucraini la vicepremier Chrystia Freeland, architetto della repressione bancaria contro la dissidenza? Sì la Freeland: la stessa che a Davos quattro mesi fa disse che c’è bisogno della guerra per rilanciare l’economia globale.

 

Il Canada che ha addestrato le milizie neonaziste ucraine, con scandalo di alcuni giornali canadesi e del Centro Wiesenthal?

 

Vogliamo rammentare, per un attimo, le proposte di tassazione maggiorata per i non vaccinati? La loro esclusione dall’acquisto di alcolici?

 

E non è che la Meloni al Castreau junior può anche dire, con l’accento della Garbatella «abbelloh, ma che te parli de diritti, che te stai ad amazzà tutta aa popolazzione?»

 

Non sarebbe inesatto. Il Canada è divenuto Paese capofila del fondamentalismo eutanatico. Chiedi di morire, e lo Stato ti uccide.

 

Sei disabile? Chiedi, e lo Stato ti ammazza.

 

Sei malato? Chiedi, e lo Stato ti ammazza.

 

Sei senzatetto? Chiedi, e lo Stato ti ammazza.

 

Sei depresso? Chiedi, e lo Stato ti ammazza.

 

Sei carcerato? Chiedi, e lo Stato ti ammazza.

 

Sei veterano disabile? Lo Stato può arrivare a proporsi di ucciderti, anche se non glielo chiedi. Tutto perfettamente normalizzato, con buona pace degli obiettori coscienza.

 

E attenti: perché, prima di spegnerti il cuore, lo Stato canadese di asporta gli organi: ecco il segreto del leader mondiale della «donazione» – cioè della predazione – degli organi. Siamo dalle parti della «morte per donazione», ossia l’eutanasia per predare gli organi.

 

Nessuno è escluso da questa follia. Non i vecchi, non i bambini (e parliamo anche dei neonati), non i malati, non i sani. Ogni anno le cifre divengono sempre più allucinanti, anche grazie al lockdown: una motivazione accettabile, per i pazienti delle case di cura canadesi, è la stanchezza da lockdown. E poi, come nascondere il risparmio di danaro pubblico?

 

È un furore continuo, uno sterminio legale che oramai è considerato al limite del sacro. Oramai, ci si scherza con i video sui social: «nonna, sei eccitata all’idea di morire?». I bambini a scuola colorano libri sulla MAiD, come la chiamano lì: l’assistenza medica nella morta.

 

E non si pensi sia solo una questione di leggi e di governo: abbiamo assistito increduli al lancio di un costoso, immaginifico spot da parte del primo gruppo pronto moda canadese che celebrava il suicidio assistito, dove qualcuno ci ha visto perfino dei riferimenti al «gioco» della Blue Whale.

 

Leggi perverse, creano popoli perversi: il 30% dei canadesi oggi è d’accordo con l’eutanasia per i poveri.

 

Siamo all’eugenetica bancaria, l’Aktion T4 da conto corrente, lo stipendio basso come sintomo di quella che i tedeschi chiamavano Lebensunwertes Leben, «vita indegna di essere vissuta».

 

Nonostante in Canada con il COVID siano tornati i lager, bisogna pure ammetterlo: i nazisti non erano arrivati a pensare di uccidere i non abbienti.

 

Ad un’idea talmente allucinante ci può arrivare, e anche con grande tranquillità, un potere immerso nel mondialismo più infame, o meglio, un governo «penetrato» (parole di Klaus Schwab) dal World Economic Forum. Perché è impossibile non notare l’allineamento, anche piuttosto osceno, tra Trudeau e l’establishment canadese e il WEF, qualcosa che è stato ammesso di recente anche dal nuovo premier dell’Alberta Danielle Smith, che dopo aver chiesto scusa ai non vaccinati, ha confermato uno strano legame tra il World Economic Forum e il sistema sanitario statale.

 

Abbiamo visto, in concomitanza con le proteste dei camionisti antivaccinisti a cui toglievano il conto, come le banche canadesi, citando proprio Davos, stessero lanciando l’ID digitale unico con il governo di Ottawa.

 

Era con probabilità parte di un piano più grande. Documenti condivisi dal sito Rebel News hanno mostrato che nel dicembre 2020 l’allora ministro degli Affari globali Christia Freeland ha descritto il piano canadese di utilizzare il COVID-19 come leva per aderire agli obiettivi del World Economic Forum (WEF) di Davos, l’ente creato da Klaus Schwab.

 

Perché la Freeland, va ricordato, è parte del board del WEF. E il suo guru Klaus Schwab non ha mai nascosto che tra i governi «penetrati» dal WEF con il suo programma Young Global Leaders, quello di Trudeau è un bell’esempio, con 5 o 6 ministri tirati su a Davos.

 

Non abbiamo pensato ad una coincidenza quando abbiamo visto Trudeau, in collegamento ad una riunione ONU nel disastro del 2020, usare letteralmente l’espressione «Grande Reset», così, apertis verbis, senza dissimulazione alcuna. Perché il Canada, anche per il Grande Reset, è oramai chiaramente il Paese pilota.

 

La memoria di chi ci segue da un po’ non può che andare a quella «strana lettera dal Canada» pubblicata da Renovatio 21 oramai tre anni fa, dove un sedicente politico, anonimo, scriveva ad un sito per raccontare di un programma di cambiamento sociopolitico massivo in via di caricamento nel Paese (al punto da essere già spiegato a rappresentati di tutti i partiti con corsi appositi) e fors’anche nel mondo tutto: sottomissione ai diktat pandemici ed emarginazione anche fisica finale dei dissidenti, sparizione dei debiti, ma anche della proprietà privata.

 

Non avrai nulla è sarai felice: basta che tu ci obbedisca ciecamente. Altrimenti…

 

Ecco, un po’ di argomenti – un po’ tanti – con cui un premier sincero-democratico poteva rispondere a Trudeau ci erano. Ma non è andata così.

 

Il lettore riesce a capire perché?

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

 

 

Immagine screenshot da YouTube

 

 

 

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Festa della Repubblica a sovranità limitata. Senza Silvio Berlusconi, le «sue» crocerossine e la Pax eurasiatica

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Oggi l’Italia celebra pomposamente la nascita della Repubblica. Sono 76 anni.

 

La «democrazia» nostrana è quindi giovane, giovanissima. Pensate che quella americana ha 246 anni – quasi un quarto di millennio. Alla faccia degli yankee senza storia: una forma sociale mantenuta integra per così tanto tempo fanno di Washington giustamente la Nazione guida delle cosiddette «democrazie» occidentali e non.

 

Cioè, vogliamo dire: la «sovranità limitata» – che mica è solo italiana, è tedesca, è giapponese, etc. – ce la meritiamo, visto che abbiamo non solo perso la Guerra, ma anche voluto giuocare al giuochino della democrazia.

 

Il lettore sa che Renovatio 21 porta avanti una visione storica precisa, abbastanza inedita a dire il vero, per cui il partito che si impossessò del Paese dopo il 1945 fu preparato, ideologicamente (con la diffusione delle idee di Jacques Maritain) e pragmaticamente da acute forze americane, che necessitavano di una qualche forma di Stato partitico che riuscisse a mettere radici presso un popolo che repubblicano e democratico non lo era stato mai: nacque così la Democrazia Cristiana, che per quanto ci riguarda è un ossimoro già nel nome, una contradictio in adecto, perché Cristianesimo e democrazia mai hanno avuto qualcosa a che fare se non negli alambicchi di chi ci ha inflitto il quadro presente.

 

Il lettore di Renovatio 21 sa pure che qui spingiamo assai per un riconoscimento definitivo a James Jesus Angleton, poetica altissima mente dei servizi americani, cui va riconosciuto l’enorme contributo alla creazione dell’Italia repubblicana – magari pure con qualche «spintarella» durante il referendum Monarchia versus Repubblica.

 

Purtroppo, ci troviamo con tanti viali Mazzini, piazze Mazzini, più oscuri e magari effettivamente impresentabili «eroi» del Risorgimento (c’est-à-dire, la conquista della Penisola da parte della massoneria), e neanche un accenno toponomastico all’Angletone.

 

È per pudicizia, immaginiamo. Questa cosa della sovranità limitata, che una volta, ai tempi del PCI, si poteva pure dire liberamente, deve ancora impensierire chi regge il teatrino: attenzione, che non si scopra che Roma è vassallo di Washington, di Foggy Bottom, di Langley, di Bruxelles – nel senso non solo della UE, ma soprattutto della NATO, che casualmente ha sede proprio nella capitale belga.

 

Non è che i vertici dello Stato stiano facendo qualcosa per farcelo dimenticare.

 

«Ad oltre un anno di distanza, la Repubblica Italiana, insieme alla comunità internazionale, è ancora impegnata a contrastare l’aggressione condotta dalla Federazione Russa al popolo ucraino» scrive il presidente della Repubblica Italiana Sergio Mattarella in un messaggio inviato al Capo di Stato Maggiore della Difesa, l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone.

 

«L’Italia è fermamente schierata per la difesa della sua libertà, integrità territoriale e indipendenza, perché non vi sia un futuro nel quale la forza del diritto viene sostituita dal diritto del più forte. Una ordinata comunità internazionale non può che basarsi sul rispetto di questi principi».

 

Il 2 giugno come volano per la guerra di Zelens’kyj. Vabbè, forse non poteva andare diversamente.

 

Poi il messaggio va avanti. «Libertà, uguaglianza, solidarietà, rispetto dei diritti dei singoli e delle comunità sono pilastri fondamentali della nostra Carta costituzionale» scrive il presidente. È innegabile che quando sentiamo parlare di «diritti dei singoli» scivoliamo nel pensiero che ci stiano parlando di LGBT (o meglio, «2LGBTI+»), oppure, al massimo, del feticidio di Stato, o le masse importate dall’Africa, cose così.

 

Se ti parlano di «libertà, uguaglianza, solidarietà», stai tranquillo che non sta per partire un mea culpa sul green pass, l’apartheid biotica, le persone ridotte alla fame perché renitenti alla siringa mRNA e al suo sistema di sorveglianza cibernetico biosecuritario.

 

Ma vabbè anche qui. Non che ci aspettassimo altro. Del resto, quello è stato un apice della storia repubblicana, quello in cui si è dimostrato il valore degli organi della Repubblica, della Costituzione, delle forze dell’ordine e pure delle forze armate (memento generale Figliuolo!)

 

Poi però arriva lei. Sempre più fotogenica, sembra Emma Stone in una commedia hollywoodiana sbarazzina, è a tratti elegante, il tacco è portato con grande esperienza.

 

«Niente che si chiami pace può essere scambiata per invasione. C’è una Nazione aggredita ed un aggressore», ha detto il primo ministro Meloni a margine della parata ai Fori Imperiali.

 

Certo che c’è: c’è una pulizia etnica durata otto anni, quella contro i russi del Donbass, che evidentemente si è dimenticata anche donna Giorgia, come i tantissimi sottoposti al lavaggio del cervello occidentale.

 

C’è un’organizzazione, quella del Trattato del Nord Atlantico, che sta circondando la Russia – perfino, da dietro, nel Pacifico, con Giappone e Corea che stanno entrando) con la più grande forza militare della storia (Putin dixit), dotata di potenza termonucleare distribuita in vari Paesi.

 

C’è una dirigenza, quella USA, che non fa mistero della sua volontà di praticare un regime change a Mosca, anzi vuole proprio smembrare la Russia, fare uno spezzatino del più grande Paese del mondo (e il più ricco di ogni ben di Dio di risorsa), terminare lo Stato-civiltà millenario resistito ai mongoli e a Hitler – al prezzo di decine di milioni di morti.

 

Bisogna capire la giovane premier: quanto durerebbe, se non dicesse così? Quanto potrebbe andare avanti se dicesse la verità? La verità, diceva Nostro Signore, ci renderà liberi: e quindi, sentire vivere in una Nazione di menzogna ci fa capire che siamo schiavi, pardon, «a sovranità limitata».

 

Ci tocca tornare, ancora una volta, a rimpiangere quello che è tecnicamente ancora il leader di un partito impresentabile ed invotabile. Perché qui, alla fine, non c’entra la politica, c’entra la qualità intima dell’uomo, la sua anima, oseremmo dire.

 

Rammenta, o lettore, il tempo in cui la notizia della parata del 2 giugno non erano proclami di alleanza con un regime sanguinario e spietato: no, era il fatto che Silvio Berlusconi allungava gli occhi sulle crocerossine che sfilavano, e pure applaudiva felice rimirandone le forme.

 

Ricordate? Quanta innocenza. Quanta leggerezza, quanto umorismo, quanta vita c’era in quei momenti – che pure facevano schiumare di rabbia i giornali del gruppo De Benedetti (ora Agnelli), gli stessi che oggi cantano le gesta di Battaglione Azov ed affini e sbianchettano via da Internet i vecchi articoli sull’ucronazismo.

 

La sinistra, cioè l’opinione pubblica di intere classi parassite drogate dai loro circuiti mediatici, impazziva dall’ira: forse perché Silvio, implicitamente, sembrava non rivendicare un diritto LGBT, ma vivere secondo la legge naturale eterosessuata. (La questione è analizzata in varie battute e barzellette che circolavano, alcune fatte dallo stesso interessato e perfino da Vladimir Vladimirovich Putin)

 

E se proprio vogliamo vederci la politica, bisogna ricordare che con il Berlusconi si andava molto oltre alla politica, si volava verso la grande geopolitica, o addirittura la superpolitica, la metapolitica.

 

Berlusconi aveva posto le basi per quella che di fatto era un Pax eurasiatica: ogni conflitto con la Russia era stato neutralizzato da Pratica di Mare (un accordo Russia – NATO: fantascienza pura, oggi) e dall’amicizia innegabile fiorita con Vladimir Putin.

 

Si erano imbastite cooperazioni immense tra il nostro Paese e Mosca. C’era il gas, diligentemente consegnato dai russi a prezzo accessibile e senza sorprese. C’erano collaborazioni in ambito aerospaziale – un tema caro all’attuale ministro della Difesa Crosetto, quello che adesso è in prima fila nel ringhiare alla Russia (prendendosi, di conseguenza, qualche parola da Medvedev).

 

Il mondo, in quei due giugno delle crocerossine procaci, era diverso. Anche, e soprattutto perché erano ancora vivi decine, forse centinaia di migliaia di ragazzi ucraini, e russi, che sono stati sacrificati sull’altare del niente al fine di far crollare per sempre la pace in Eurasia.

 

Non ci resta che dirlo, e con immensa amarezza, e nostalgia.

 

Aridatece Silvio Berlusconi. Aridatece la Pax eurasiatica, lo sviluppo e la prosperità, la joie de vivre.

 

Ridateci la Vita contro la morte!

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

 

Immagine della Presidenza della Repubblica Italiana via Wikimedia; fonte Quirinale.it

 

 

 

 

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Leggere Dostoevskij per comprendere il presente (e anche il futuro)

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Lo spettacolo indecoroso cui stiamo assistendo non è inedito, anche perché i suoi ingredienti fondamentali ne fanno solo una replica – con qualche sostituzione degli attori nelle parti secondarie – di quello a cui assisteva con sconsolata lucidità Dostoevskij, e che annotava nel suo Diario.

 

Aveva sotto gli occhi l’ingrossarsi come un fiume in piena della «questione d’Oriente». Quando cioè centinaia di migliaia di cristiani venivano massacrati nella indifferenza delle potenze occidentali concentrate nell’accaparramento di propri vantaggi territoriali dalla dissoluzione dell’impero turco, e quindi quasi ansiose che la pulizia etnico religiosa fosse portata a termine, quale arma di contenimento della Russia. Questa, infatti, una volta tolto di mezzo l’Impero Ottomano «si getterà sull’Europa e ne distruggerà la civiltà».

 

«Si mentiva spudoratamente su tutto, allo scopo di eccitare all’odio le masse del popolo non contro i massacratori musulmani, ma contro il presunto imminente nemico».

 

Così come oggi, per bocca di mentitori seriali televisivi, la guerra travestita e preparata dagli Stati Uniti su una terra di confine, per avviare la guerra contro la Russia, capovolge fatti e responsabilità.

 

«E per di più in Europa si negano i fatti», scriveva il nostro autore, «li si smentiscono nei Parlamenti, non si crede, si fa finta di non credere: no, non è successo, è esagerato, sono loro stessi, i bulgari, che hanno trucidato sessantamila dei loro per accusare i turchi». Forse prendendo spunto dal memorabile «Eccellenza, Lei si è frustata da sé» che si legge nell’Ispettore generale di Gogol’.

 

Lo stesso paradosso che non solo viene servito con imperturbabile sfrontatezza dai cucinieri occidentali e dai loro alleati ad est, ma anche digerito beotamente dalle moltitudini teleemancipate. Non per nulla, e per l’eterno ritorno dell’uguale, a queste, comprese forse anche quelle tedesche, è apparso subito evidente che, con straordinario slancio autopunitivo, anche i gasdotti siano stati messi fuori uso dai legittimi proprietari, come le popolazioni russofone del Donbass si siano state autoperseguitate e uccise nel corso di quasi un decennio. Tutti del resto conosciamo una vecchia metafora un po’ scabrosa su certe possibili vendette coniugali autolesioniste che è sconveniente citare per esteso.

 

In quei fatti Dostoevskij ravvisava «l’ultima parola di una civiltà dopo diciotto secoli di evoluzione, di tutta quella umanizzazione del genere umano per cui l’Europa ha distrutto il commercio dei negrieri e il dispotismo, ha proclamato i diritti dell’uomo, creato la scienza, celebrato l’anima umana con l’arte, promesso agli uomini giustizia e verità, per poi voltare le spalle ai cristiani massacrati per ordine del sultano».

 

Del resto, vale la pena di ricordare come qualche decennio dopo quei fatti, con lo stesso cinismo, gli evoluti occidentali abbiano voltato le spalle anche di fronte al genocidio armeno sul quale rimane steso a distanza di più di un secolo un imbarazzante e imbarazzato silenzio, a fronte del clamore attivato su quello hitleriano, almeno finché il suo ricordo è tornato utile. Infatti, ora anche Auschwitz rischia di tornare in penombra perché, se da un lato i tedeschi hanno interiorizzato la colpa fino a cambiare pelle, mettere da parte ogni orgoglio e memoria identitaria, per adattarsi infine anche alla nuova povertà energetica ed economica, dall’altro il nuovo nazismo ucraino a uso e consumo angloamericano viene alimentato e potenziato in vista di una nuova ma da sempre vagheggiata operazione Barbarossa.

 

È il nazismo esibito impunemente sul petto da un signore in visita al vescovo di Roma insieme a un plotone di commilitoni in tuta mimetica, secondo la nuovissima etichetta approvata dalla Segreteria di Stato Vaticana. Una aggiornata etichetta nazionalpopolare che ha esteso il bianco, riservato da secoli alle regine cattoliche in visita al pontefice, anche a quelle delle borgate romane rappresentate per competenza territoriale dalla disinvolta signora Giorgia.

 

Ma leggiamo ancora nel Diario«da che deriva tutto ciò? Perché non si vuol vedere, sentire, e si mente? perché si getta del fango su se stessi? È perché c’è di mezzo la Russia. Infatti, la Russia disturba, è colpevole di essere la Russia, che come un’orda barbarica si getterà sull’Europa e ne distruggerà la civiltà, quella civiltà, appunto, che ad un tratto si è rivela un bluff» 

 

Dunque, nulla pare cambiato da allora. E la civiltà è quella che è capace di sequestrare le opere d’arte dell’Hermitage in prestito alle gallerie occidentali. Di impossessarsi indebitamente dei beni privati e dei depositi bancari dei cittadini russi. Che ha sottoscritto trattati di pace solo allo scopo di ingannare strategicamente la controparte, trasgredendo la sola regola cogente vantata dal vantato diritto internazionale elaborato dalla civiltà occidentale, ovvero il pacta sunt servanda. Mentre questa stessa regola rimane «intangibile» per continuare a stringere al collo gli inermi sudditi europei imprigionati a Maastrichtt.

 

Ma occorre essere realisti. Ha vinto a tutto campo l’utilitarismo anglosassone, versione plebea e becera del fine che giustifica i mezzi adottato anche dagli ottusi abitatori continentali delle istituzioni europee, forniti o meno di titoli nobiliari o accademici che non impediscono di fare affari milionari privati con tutti i malfattori transatlantici, a spese dell’ignaro contribuente della stessa UE. Senza contare gli svizzeri che, dell’utilitarismo essendo i cultori assoluti, hanno messo l’armatura anche alla loro amata e proverbiale neutralità.

 

Del resto, la separazione tra politica ed etica, era problema antico e presente alla coscienza ben prima di Machiavelli che tuttavia, scriveva Croce, «scopre la necessità e l’autonomia della politica, che è di là, o piuttosto di qua, dal bene e dal male morale, che ha le sue leggi a cui è vano ribellarsi, che non si può esorcizzare e cacciare dal mondo con l’acqua benedetta».

 

Anche se, aggiungeva, «quello che di solito non viene osservato, è l’acre amarezza con la quale il Machiavelli accompagna questa asserzione della politica e della sua necessità».

 

Infatti, in ogni caso, l’utilità del tranello e della strage di Senigallia ordita dal duca Valentino si iscrive, nelle intenzioni dell’autore, nell’utile ma non certo nell’onore.

 

Come nel caso di Remirro de Orco, luogotenente del duca, che pacificata la regione per mezzo di inaudite efferatezze, fu messo una mattina sulla piazza di Cesena «in due parti con un coltello sanguinoso a lato sicché i cittadini rimasero satisfatti e stupidi».

 

Possiamo inoltre osservare come la stessa politica internazionale abbia uno statuto «etico» a sua volta differenziato anche rispetto a quello della politica interna. Si tratta di una diversità venuta a formarsi spontaneamente per la diversità degli interessi e degli obiettivi in gioco, che sono, anzi dovrebbero essere, in una visione ideale, la pacifica convivenza fra i popoli da un lato, e il bene della comunità nazionale dall’altro.

 

Ma anche questa differenza cade, quando, come oggi, le nazioni europee, non più indipendenti e sovrane, non godono più di autonomia politica perché in stato di vassallaggio rispetto gli Stati Uniti, non solo dal punto di vista militare, ma anche, tramite l’UE che ne è la longa manus, per le direttive educative, culturali, economiche e «ideologiche». Sicché neppure di vassallaggio è corretto parlare, quanto di totale, mortificante asservimento.

 

Ma Dostoevskij, a partire dalla autonomia di fatto riconosciuta proprio della politica internazionale, fa un passo ulteriore. Egli non era di certo un ingenuo e sprovveduto idealista incapace di afferrare il problema filosofico della doppia moralità che segna rispettivamente il proprium della politica e della vita individuale.

 

Tuttavia, si chiede: «Dove sono le verità conquistate con tante sofferenze? Basta una causa pratica, e tutto vola via?».

 

Infatti, aveva ben presente quello che Machiavelli non poteva ancora prendere in considerazione perché venuto dopo di lui. Tutto il lavorio di pensiero, tutta quella riflessione sulla realtà della politica, e tutti quei fatti storici che avevano portato, attraverso un travaglio interconnesso di eventi e di idee, alla concezione dello stato moderno e alle altre conquiste di cui si fregia il pensiero politico della cosiddetta civiltà occidentale.

 

Quella approdata poi malamente alla vuota retorica sui diritti, sulla democrazia, sulla coesistenza pacifica, sulla libertà e l’uguaglianza, sullo stato di diritto, sulla protezione delle minoranze, e chi più ne ha più ne metta, ovvero su tutta una congerie di parole prive di senso vero che servono a mascherare l’involuzione verso il rinnegamento di quello che era stato venduto, ma anche sentito dalle masse, come progresso.

 

Così leggiamo ancora nel Diario:

 

«Tuttavia non è neppure giustificato rimanere attestati sul piano brutale del doppio binario e non elevarsi ad un piano speculativo più alto e convincente. Infatti, con questo riconoscimento della santità degli interessi correnti, del guadagno diretto e immediato, del diritto di sputare sull’onore e la coscienza pur di strappare per sé un fiocco di lana, si può andare di certo molto lontani. Ma solo i vantaggi pratici, solo i guadagni correnti rappresentano il vantaggio vero di una nazione e la sua politica “alta”? Al contrario, non è per una grande nazione proprio questa politica dell’onore, della magnanimità e della giustizia la migliore politica, anche se apparentemente in contrasto, ma in realtà non in contrasto, con i suoi interessi? La politica del disinteresse e dell’onore, ovvero le idee grandi e oneste sono quelle che trionfano alla fine nei popoli e nelle nazioni. La politica dell’onore e del disinteresse non è soltanto la più nobile ma forse anche la più vantaggiosa per una grande nazione, appunto perché nobile… mentre il continuo gettarsi di qua e di là, dove è più vantaggioso, riduce uno stato alla meschinità, alla interiore impotenza».

 

Non avrebbe dovuto essere questo il nuovo traguardo della civilizzazione almeno per l’Europa?

 

E ripudiare quelle leggi belluine per cui anche Machiavelli sentiva disgusto? Dopo gli esiti osceni di una rivoluzione approdata nella follia e nelle rapine napoleoniche, dopo le guerre fratricide e i crimini del colonialismo?

 

Ma quell’auspicio era utopistico e la contraddizione è risultata ben più paradossale, perché siamo approdati ad un grado allora inimmaginabile di dissennata disumanizzazione, con le immani tragedie e le oscenità in cui è sfociato nel Novecento il miraggio e la presunzione del progresso dell’umanità, nella degenerazione e nella contraddizione delle idee che avrebbe dovuto assicurarlo.

 

L’Europa è stata risucchiata dentro la egemonia tentacolare statunitense in cambio della distruzione materiale subita, mentre la sbandierata democrazia indigena o di importazione si è trasformata nel dispotismo formalmente autorizzato, modello 1933. E sempre in virtù di un trasformismo indisturbato, ora, dopo ottant’anni di pacifismo di facciata, interrotto senza remore ogni volta che un potere egemone lo ha deciso, dopo ogni tipo di inganno perpetrato ai danni della popolazione inerme in balia delle oligarchie anglosassoni, si getta a capofitto nella guerra che queste hanno programmato ad hoc.

 

Oligarchie tentacolari e aperte ad ogni corruttela, guidate dall’utilitarismo e dalla volontà di potenza che possono sfoggiare impunemente in ogni sorta di menzogna, in ogni rovesciamento di principi prima sbandierati, in ogni falsa morale e farisaica decisione, ogni tradimento e ogni meschinità, ogni intento distruttivo senza pudore e senza assunzione di responsabilità, dietro varie maschere di scena.

 

Come quelle andate a commemorare senza ritegno le vittime della bomba atomica insieme a chi quella bomba non si vergogna di averla sganciata e di quell’orrore non si è mai pentito. Un quadro desolante che sembrava impensabile, quello dei due tristi figuri, l’europea e l’americano insieme, in mezzo ad altrettanti tristi e meschini figuranti. Di cartapesta, si dirà, eppure in grado di muovere indisturbati i destini di infinite e irripetibili vite perché il gregge da cui traggono esistenza è stato debitamente narcotizzato e svirilizzato.

 

Le oligarchie dominanti hanno preso in mano il potere politico grazie alle degenerazioni del sistema democratico e rappresentativo, ma soprattutto alla riduzione preventiva delle capacità di comprensione e reazione dei sudditi. Di uomini a una dimensione, figurine piatte incollate nell’album della storia da burattinai capaci di tutto perché mancanti della coscienza propria degli uomini veri.

 

I politicanti e le politicanti che pullulano oggi nel prestigioso mondo occidentale, ovvero nel giardino fiorito di Borrell, di qua e di là dell’Oceano, prefigurano i pericolosi automi progettati per sollevare l’umanità residuale del futuro dalla fatica di vivere umanamente e di pensare.

 

Non per nulla quelle che erano un tempo le arti della diplomazia, disciplina troppo impegnativa per essere coltivata dalle menti deboli di automi semianalfabeti, sono state soppresse e sostituite da un vaniloquio che oscilla minacciosamente fra tracotanza, stupidità, e menzogna. Cosa che scopre la pericolosità di costoro e degli apparati in cui essi sono annidati.

 

Basti pensare alle dichiarazioni del sempre querulo Stoltenberg, che non perde mai nessuna occasione per mostrare la propria caratura. Esemplare il discorso recentissimo sull’avvicinamento ad una applicazione estensiva dell’articolo 5 del trattato della NATO.

 

Un capolavoro di ipocrisia farisaica per dire in soldoni che sulla lettera della norma prevarrà manu militari l’interpretazione, sicché tutti i firmatari saranno obbligati a partecipare anche con i propri eserciti alla guerra accanto alla Ucraina, anche se questa non fa parte della alleanza. Ovvero ha fatto balenare nella nebulosa truffaldina delle parole l’istituzione di fatto di una belligeranza diretta obbligatoria.

 

Più esplicito, nella volgarità della sua violenza primigenia, il ministro ucraino che dopo l’attentato di Lugansk dice: se non ci darete le armi che chiediamo, anche voi dovrete aspettarvi degli attentati. Cosa che penalmente parlando si chiama minaccia, ma la cui abnormità e volgarità sembrano non arrivare ad essere percepite come tali neppure da quanti dovrebbero avere dimestichezza, diretta o attraverso la filmografia, con il codice comunicativo e operativo delle varie cose nostre, gloria nazionale universalmente conosciuta ed esportata.

 

Ora, a proposito di tante manifestazioni eloquenti di un degrado generalizzato, di strumenti truffaldini della politica sempre più sfacciatamente ostentati, c’è da osservare che, a giustificare ogni aporia in nome della ragion di Stato, nell’epoca dell’azzeramento mediatico di ogni coscienza critica, la massa finisce per assorbire l’idea della normalità di quell’etica e di poterla fare propria anche nella vita quotidiana.

 

Se non si percepiscono più come tali la menzogna o il tradimento, il discorso truffaldino e il ricatto, l’obiettivo distruttivo nascosto o la falsificazione della realtà, anche perché genericamente normalizzati e dunque genericamente legittimati; se non li si inseriscono più neppure nel recinto chiuso di una politica che obbedisce ad un codice proprio e particolare, il passaggio verso l’assorbimento di quell’habitus nella morale corrente è quasi obbligato. Quell’etica deviata e particolare di cui non si vedono più la genesi e le articolazioni finisce per diventare moneta corrente anche al di fuori del recinto della politica e anzi diventa un modello accettabile per i rapporti privati arrivando a pervertire la coscienza individuale.

 

Dunque, inutile dire come, in un momento storico al quale non sappiamo neppure se ne potrà seguire realmente un altro, l’auspicio di Dostoevskij di una politica «alta», suoni inattuale. Quanto mai lontana e utopistica appare la possibilità della messa a frutto della ricchezza di storia accumulata dal pensiero occidentale, insieme ad una ininterrotta riflessione filosofica, e al patrimonio della spiritualità cristiana prima della sua contaminazione. Sembra impossibile in questo sfascio culturale, la sublimazione con cui la vita matura controlla gli eventi guardando al di là di ciò che è meschino e particolare, fasullo e insignificante da un orizzonte più ampio ed elevato.

 

Questo è il momento degli sciacalli e delle iene, o forse dei marabunta. E nell’avvento di animali superiori pare quasi impossibile anche poter sperare.

 

Tuttavia, non bisogna neppure dimenticare che anche i figuranti di cartapesta, per quanto nefasti, al pari del terribile giudice Morton nemico di Roger Rabbit, con un po’ di impegno e tanta fortuna potrebbero essere dissolti nel nulla proprio grazie alla loro reale inconsistenza.

 

Almeno in questo dobbiamo tornare a sperare, forse… anche al di là di ogni ragionevole dubbio!?

 

 

Patrizia Fermani

 

 

 

 

Articolo previamente apparso su Ricognizioni.

 

 

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Geopolitica

Zelens’kyj è fuori controllo

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In pratica è venuto a Roma, e ha rifiutato l’offerta del papa. Lui può: è più re del vicario del Re dei re.

 

Povero Bergolio, ci teneva tanto. Lui ha capito che la narrativa atlantica non porta da nessuna parte – o meglio, ha capito che così come sono le cose, lui non può ricavarne niente. Aveva fatto figure da cioccolataio a ripetizione. Dice che la NATO abbaia, poi fa una foto mentre bacia una bandiera di Maidan. Insulta i ceceni e i buriati, poi difende i monaci della Lavra. Insomma, aveva voglia di provarci. Del resto i papi servono anche a quello – e lui magari ha compreso pure che ad una certa deve dimostrare – materialmente, formalmente, mediaticamente – di esserne uno.

 

E invece no. Quello arriva, con la felpetta nera con il tridente che pare proprio quello delle milizie di Bandera che collaborarono con Hitler nella pulizia etnica (apice assoluto raggiunto da Vespa: Zelens’kyj che accusa Putin di aver inventato e diffuso l’idea che in Ucraina ci sono i nazisti, e lo dice con il logo ucronazista sul petto e sulle spalline).

 

Dimentichiamoci il dress code: il giorno prima, ad un evento «familiota», gli era toccato di sedersi a fianco di Giorgia Meloni che, in barba ad ogni regola nota nei secoli (ma qualcuno del protocollo non glielo ha detto?) si è presentata vestita di bianco come lui, pantaloni e taccazzi, e in più la manina a toccare il braccio del papa, quasi come faceva il suo amico rivale Macron, che gli metteva le mani in faccia.

 

Zelens’kyj non ha avuto bisogno di toccare il papa, perché gli è superiore. Se il cristianesimo si basa su un Dio che si fa vittima dell’umanità, ecco qui il presidente di una Nazione che ha battuto ogni record di vittimismo globale, al punto che potrebbe rubare alla Polonia il titolo di «Cristo fra le Nazioni», se non fosse che di fatto a Kiev e dintorni va in onda ora una vera persecuzione anticristiana.

 

Eccolo allora che si siede prima del pontefice, non aspetta che l’anziano vicario di Cristo in terra, che lo accoglie con il bastone, si sieda in casa sua. Dettagli, direte. Maddeché. Se lo pensate non avete capito come funziona la diplomazia, né la prossemica, né le semplici relazioni interpersonali.

 

«Con tutto il rispetto per Sua Santità, noi non abbiamo bisogno di mediatori, noi abbiamo bisogno di una pace giusta. E invitiamo il Papa, come altri leader, per lavorare ad una pace giusta ma prima dobbiamo fare tutto il resto», dice il re di Kiev dinanzi ad una pletora di direttori di giornaloni chez Bruno Vespa, che peraltro era quello, se non erriamo, che si commuoveva fino alle lagrime quando il papa polacco (un’etnia massacrata da Bandera, lì rappresentato dal simboletto sul maglione) lo chiamò in studio.

 

«Non si può fare una mediazione con Putin, nessun Paese al mondo lo può fare». Punto. Caro omino bianco, mettitela via.

 

«Nessun Paese al mondo». Neppure un Paese curioso come il Vaticano, sembra dire l’attore divenuto presidente – votato per una piattaforma, va ripetuto, che garantiva una pace ritrovata con la Russia.

 

Non che sia esattamente comune, rifiutare un’offerta diplomatica della Santa Sede. Una delle Nazioni più spietatamente militariste che la storia recente rammenti, il Giappone imperiale, chiese verso la fine della guerra la mediazione del papato per un armistizio con gli americani. È una storia che raccontiamo, su Renovatio 21, ogni anno dal 6 al 9 agosto, le date del bombardamento di Hiroshima e Nagasaki.

 

L’azione dei diplomatici nipponici, da poco accreditati presso la Santa Sede, fu, a quanto sembra, bloccata da Montini, allora sostituto segretario di Stato. Montini, è stato talvolta accusato, fra le altre cose, di essere stato in rapporti con il vero padre dell’Italia postbellica, la superspia USA James Jesus Angleton. Insomma: la mediazione vaticana avrebbe potuto evitare l’olocausto termonucleare di due splendide città giapponesi…

 

Con il regime di Kiev abbiamo a che fare con tutt’altra creatura. Respinge la mano che gli viene data, schifa la pace, manca di rispetto all’autorità perfino religiosa, non pare aver nessun interesse riguardo al rischio di annichilimento della sua terra. I militari giapponesi, quelli per cui si creano problemi ogni agosto per la commemorazione di tanti passati alla storia come «criminali di guerra», a confronto della banda di Kiev erano dei bambini. Qui invece c’è uno serio.

 

Chi insinua che sia la cocaina a rendere così il presidente-comico TV ucraino, con forniture costanti da parte della cintura di neonazisti che ne cura la sicurezza personale – e che sono gli stessi probabilmente che hanno detto che lo avrebbero impiccato sul principale viale di Kiev se avesse retrocesso di un centimetro rispetto alla Russia – non ha alcuna prova per dirlo. E nemmeno una fonte di qualche tipo, visto che quello che aveva raccolto la voce per le strade ucraine, chiamandolo «the cokehead of Kiev» («il cocainomane di Kiev»), è stato ri-arrestato, ed è sparito: nessuno sa dove sia Gonzalo Lira, e crediamo sia il caso di dire una preghiera, visto che, come notava Maria Zakharova, nessun giornalista ne sta chiedendo la liberazione, né il Gabriel Boric presidente goscista del suo Paese, il Cile (Nazione portata all’indipendenza da un avo di Lira, il libertador José Miguel Carrera) sembra aver voglia di chiederlo indietro ai servizi segreti interni ucraini.

 

Zelens’kyj ha fatto il tour d’Europa, in una versione avanzata della questua per le armi – vuole i caccia occidentali, magari pilotati da occidentali, altro che la pace del papa. A Roma è venuto sì, ma aveva giri più importanti da fare, per esempio a Berlino, dove c’è il governo più ridicolmente desovranizzato dell’universo, ha accettato il premio Carlo Magno (quando si parla di grandi re) assieme a 3 miliardi in armamenti. In Olanda è passato perché doveva dare un messaggio simbolico: io all’Aia ci vado da eroe, Putin ci arriverà da detenuto. Londra poi, non poteva mancare – ovvio.

 

Sono giorni tuttavia, che il Volodymyr è nervoso. Domenica a Berlino ha lasciato il suo cellulare in un’auto, prima che un agente di polizia lo ricongiungesse con esso. Si era recato in macchina alla Cancelleria tedesca domenica pomeriggio, dove ha tenuto un incontro con il cancelliere Olaf Scholz. Le foto pubblicate da Bild mostrano che è stato portato su un elicottero dopo l’appuntamento, ma ha lasciato il cellulare in macchina. Immediatamente prima della partenza dell’elicottero, un ufficiale della polizia criminale federale ha individuato il dispositivo e lo ha portato di corsa all’ucraino.

 

Tutto questo è stato riferito il tabloid tedesco Bild. Bisogna tenere a mente che, secondo i documenti del Pentagono trapelati, quel telefono non può che essere intercettato come nessun altro.

 

Anzi diciamo pure che le intercettazioni su Zelens’kyj uscite in questi giorni – sul Washington Post, non su un canale Telegram russofilo – fanno capire che la figura è più preoccupante di quanto già non pensiate.

 

Secondo i nuovi Pentagon leaks, nonostante l’assicurazione pubblica che avrebbe limitato l’azione militare ai confini del suo paese nel 1991, Zelens’kyj ha elaborato piani per condurre attacchi in profondità all’interno della Russia e ha suggerito di «distruggere» l’industria dell’Ungheria.

 

Citando i rapporti dell’intelligence statunitense recentemente pubblicati su un server di gioco, il WaPo ha scrive che Zelenskyj avrebbe suggerito in una riunione dello scorso gennaio che le sue truppe «conducessero attacchi in Russia», mentre attraversavano il confine per «occupare città di confine russe non specificate» al fine di «dare La leva di Kiev nei colloqui con Mosca». Ricorderete, in quei giorni, un attacco terroristico nell’oblast’ di Brjansk che fece due morti; i perpetratori dissero di agire con l’approvazione di Kiev, ma al tempo era difficile capire cosa stessa accadendo.

 

Mentre i sostenitori occidentali dell’Ucraina erano fino a poco fa riluttanti a fornirgli missili a lungo raggio per paura che li usasse contro obiettivi all’interno della Russia, Zelens’kyj già suggeriva al suo principale comandante militare, il generale Valery Zaluzhny, di usare i droni per «attaccare luoghi di schieramento non specificati a Rostov», che è una città russa distante dai confini. Detto, fatto: prima e dopo il presunto incontro, le forze ucraine hanno utilizzato i droni per attaccare le infrastrutture nella regione di Rostov, che confina con l’ex territorio ucraino di Lugansk.

 

Poi il capolavoro. L’operazione da vero, grande amico della UE e della NATO, cui anela fortemente di far parte. In un incontro con il vice primo ministro Yulia Svridenko a febbraio, Zelensky avrebbe suggerito all’Ucraina di «far saltare in aria» l’oleodotto Druzhba («amicizia», in russo), che trasporta il petrolio russo in Ungheria. Secondo i documenti citati dal quotidiano di Washington, lo Zelens’kyj avrebbe detto che «l’Ucraina dovrebbe semplicemente far saltare in aria l’oleodotto e distruggere… l’industria ungherese [del primo ministro] Viktor Orban, che si basa pesantemente sul petrolio russo».

 

Le spie americane che intercettavano Zelens’kyj minimizzavano: si trattava di «minacce iperboliche e senza senso». Eccerto. Tuttavia, l’oleodotto Druzhba è stato attaccato in diverse occasioni dall’incontro, l’ultima volta quando è stato colpito da esplosivi lanciati da droni lo scorso mercoledì. L’Ungheria, rammentiamo, è sia nella UE che soprattutto nella NATO. Un attacco a Budapest farebbe scattare l’articolo 5, quindi tutti contro Kiev. No? Non è andata esattamente così quando gli ucraini hanno ammazzato cittadini polacchi, su territorio polacco, con dei missili chissà come andati a Nord-Ovest invece che a Sud-Est. Misteri.

 

Non è finita. In un episodio che mostra la vetta inimmaginabile raggiunta dalla censura in Occidente, abbiamo visto uno dei maggiori quotidiani del pianeta autocensurare, per carità di patria (ucraina), alcuni commenti rilasciati da Zelens’kyj, oramai incontrovertibilmente fuori controllo.

 

Il Washington Post infatti ha tagliato un ampio segmento da un’intervista con il presidente-attore, in cui questi spingeva il giornale a rivelare presunti traditori tra le sue fila e accusava con rabbia i giornalisti del WaPo di aiutare la Russia pubblicando informazioni da documenti trapelati.

Citando documenti del Pentagono trapelati di recente, il Post stava spiegando a Zelens’kyj durante le interviste che le spie americane avevano preso nota un incontro tra il presidente e il capo del servizio ucraino GUR Kirill Budanov a febbraio in cui questi gli aveva detto di aver appreso di un piano Wagner per «destabilizzare la Moldavia», dicendo altresì che era in grado contrastare questo presunto piano esponendo i suoi «affari» con Prigozhin, descrivendo il boss Wagner come «un traditore che ha lavorato con l’Ucraina».

 

Zelens’kyj ha risposto con rabbia, prima chiedendo chi all’interno del suo governo avesse consegnato questo documento al Post. Chiunque fosse, ha detto, stava commettendo «alto tradimento», che «è il crimine più grave nel nostro Paese». Non sappiamo in Ucraina, ma negli USA la pena per il tradimento è la morte per esecuzione. È questo che il re di Kiev sta invocando? Pena di morte immediata?

 

Ad occhio, l’eroe non deve fidarsi moltissimo di chi gli sta intorno. Nonostante gli fosse stato detto che il documento non proveniva da Kiev, ma da Washington, Zelens’kyj ha chiesto al suo intervistatore «con quale funzionario ucraino ha parlato?»

 

Insomma, giornalista, fuori la fonte: che devo mettere al muro qualcuno, mi sa.

 

Sissì, nervosetto. E non chiedete come mai, perché la spiegazione più semplice – quella da Rasoio di Occam – è solo un’illazione disgustosa. La paranoia magari gli è venuta così, naturalmente, senza bisogni di aiuti.

Il WaPo tuttavia non ha ancora pubblicato un articolo basato su quel documento, e quando è stato informato che era il primo funzionario ucraino con cui il giornale aveva parlato, lo Zelens’kyj ha esortato il suo intervistatore a non pubblicare l’articolo, sostenendo che così facendo avrebbe «demotivato l’Ucraina» e accusando i giornalisti di «giocare con me».

 

«In questo momento stai giocando con, credo, cose che non vanno bene per la nostra gente», ha tuonato il presidente ucraino, chiedendo al giornalista del Washington Post: «il tuo obiettivo è aiutare la Russia?» Quando il giornalista ha detto che non era così, Zelens’kyj ha ribattuto che «beh, sembra diversamente».

Qui arriva il colpo di scena – e il colpo di grazia per l’attendibilità del giornalismo occidentale. Domenica, però, la conversazione di cui sopra – durante il quale Zelensky non ha contestato che l’incontro con Budanov fosse avvenuto – era stato fatto sparire dalla trascrizione online della conversazione sul Washington Post. Sul documento l’intero scambio di ben 1.400 parole è stato rimosso, senza spiegazione alcuna.

 

L’autocensura del prestigioso quotidiano della capitale USA non è il primo incidente in cui in Occidente si cancella informazioni potenzialmente imbarazzanti o dannose per il regime Kiev. A dicembre, la Commissione europea aveva cancellato un video e la relativa trascrizione in cui il presidente della Commissione Ursula von der Leyen affermava che l’esercito ucraino aveva subito 100.000 vittime dall’inizio dell’operazione militare russa dieci mesi prima. «Sono solo 10 mila» attaccò subito il consigliere di Zelens’kyj Oleksij Arestovich – lo stesso che, come riportato da Renovatio 21, ad una certa saltò fuori con l’idea di Zelens’kyj monarca alla Tolkien.

 

Lo avevamo scritto quando, sbalorditi, avevamo notato che non vi era stata nessuna reazione da parte di giornali e politica in Europa e America quando, nei primi giorni del conflitto, venne giustiziato brutalmente per strada uno dei negoziatori ucraini, Denis Kireev. Un omicidio efferato di cui sappiamo ancora poco, se non che sono stati gli ucraini, che neanche hanno fatto lo sforzo di dare la colpa ad improbabili agenti russi.

 

Lo sbalordimento è continuato: parlamentari assassinati, ragazze russe fatte saltare in aria, intellettuali russi disintegrati nei caffè o per strada: e il tutto oramai rivendicato apertamente dai vertici, da quello stesso capo dei servizi Budanov dell’intercettazione sulla Moldavia. E poi ancora, un ignaro camionista mandato sul ponte di Crimea a morire nella detonazione che doveva rovinare il compleanno di Putin.

 

C’è, dietro a tutto questo sangue, una mente infantile, psicotica, nichilista, oscena – goffa, pure. C’è ovviamente un netto divorzio dalla realtà, che permette spargimenti di sangue indicibili, che vediamo talvolta in scene di crudeltà che arrivano dal fronte.

 

Lo ripetiamo a quelli che si spellano le manine con gli applausi e, prosciutto oftalmico ben saldo in faccia, sbianchettano i vecchi articoli in rete: non avete capito con chi avete a che fare.

 

Non avete capito lo stato psicologico di Zelens’kyj, e di quelli che gli stanno intorno. Non avete capito che l’intero apparato apocalittico sopranazionale che gli sta dietro vuole che sia proprio così – scostante, furioso, incerto, scollato dalla realtà, paranoide, fuori controllo: quindi totalmente manipolabile. Il pupazzo giusto per portare il mondo alla catastrofe.

 

Perché, a questo punto lo crediamo, è questo che vogliono.

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

 

 

Immagine di Pubblico Dominio CC0 via Flickr.

 

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