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Economia

Guerra economica alla Russia, il ruolo chiave di Draghi: Possiamo permettercelo?

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Mario Draghi avrebbe avuto un ruolo da protagonista nella vicenda del sequestro dei fondi russi all’estero, la più grande confisca (qualcuno dice: furto) mai avvenuta nella storia umana. Lo riporta il Financial Times in una serie di articoli che sta pubblicando in questi giorni.

 

Non si tratta di qualcosa di marginale, né da un punto di vista politico e neppure da un punto di vista storico: perché, scrive FT, «questo è un nuovo tipo di guerra: l’armamento del dollaro USA e di altre valute occidentali per punire i loro avversari».

 

Parliamo insomma di una guerra a tutti gli effetti, già dichiarata ai russi – e i russi, come abbiamo riportato, ne sono pienamente consapevoli. È la guerra economica, ma non si tratta più di un modo di dire, bensì di una realtà che ha impatto geopolitico rilevante.

 

«È un approccio al conflitto in corso da due decenni. Poiché gli elettori negli Stati Uniti si sono stancati degli interventi militari e delle cosiddette “guerre infinite”, la guerra finanziaria ha in parte colmato il divario. In assenza di un’ovvia opzione militare o diplomatica, le sanzioni – e sempre più sanzioni finanziarie – sono diventate la politica di sicurezza nazionale preferita» spiega FT.

 

Juan Zarate, ex alto funzionario della Casa Bianca che ha contribuito a ideare le sanzioni finanziarie che l’America ha sviluppato negli ultimi 20 anni, ha parlato «shock and awe» (la dottrina militare del colpisci-e-terrorizza) impiegata su vasta scala.

 

«Si tratta di uno smantellamento aggressivo del sistema finanziario e commerciale russo come è possibile immaginarlo».

 

Siamo in un territorio della polemologia (lo studio della guerra) di fatto non ancora completamente esplorato o assimilato dagli storici.

 

«L’armamento della finanza ha profonde implicazioni per il futuro della politica e dell’economia internazionali. Molti dei presupposti di base sull’era del dopoguerra fredda vengono capovolti» scrive la rivista.

 

Che arriva ad ammettere qualcosa di inaspettato: «la globalizzazione un tempo veniva venduta come una barriera al conflitto, una rete di dipendenze che avrebbe avvicinato sempre più gli ex nemici. Invece, è diventato un nuovo campo di battaglia».

 

La globalizzazione invece che la pace, come andavano ripetendo tutti i corifei del neoliberismo, ha portato la guerra?

 

Il potere bellico delle sanzioni alla Russia è stato compreso perfino dal sempre più confuso presidente statunitense Joe Biden:

 

«Queste sanzioni economiche sono un nuovo tipo di arte economica di governo con il potere di infliggere danni che rivaleggia con la potenza militare», ha detto il presidente degli Stati Uniti Joe Biden nel suo sfrontato discorso a Varsavia a fine marzo.

 

Il Financial Times quindi descrive in dettaglio come si sono svolti gli eventi nelle stanze dei bottoni occidentali, e il ruolo da protagonista dell’attuale premier italiano Draghi.

 

Secondo la prima delle due puntate intitolata «Weaponization of Finance: How the West Unleashed ‘Shock and Awe’ on Russia» («La militarizzazione della finanza: come l’Occidente ha scatenato un “colpisci e terrorizza” sulla Russia”), due figure sono state fondamentali in Europa per forzare la decisione di congelare la banca centrale della Banca di Russia riserve nel terzo giorno dell’intervento militare in Ucraina: Mario Draghi e il capo di Stato maggiore di Ursula von der Leyen, Björn Seibert.

 

«Von der Leyen ha chiamato Mario Draghi, Primo Ministro italiano, e gli ha chiesto di discutere i dettagli direttamente con [il segretario del Tesoro USA Janet] Yellen. “Stavamo tutti aspettando, chiedendo: “Perché così tanto tempo?” ricorda un funzionario dell’UE».

 

«Poi è arrivata la risposta: “Draghi deve fare la sua magia sulla Yellen”. Entro la sera, l’accordo era stato raggiunto», scrive FT.

 

«A Washington, i piani delle sanzioni sono stati guidati da Daleep Singh, un ex funzionario della FED di New York che ora è vice consigliere per la sicurezza nazionale per l’economia internazionale alla Casa Bianca, e Wally Adeyemo, un ex dirigente di BlackRock che serve come vice segretario al Tesoro».

 

«L’altra figura centrale era il ministro delle finanze canadese Chrystia Freeland, che è di origine ucraina ed è stato in stretto contatto con i funzionari a Kiev. Poche ore dopo che i carri armati russi hanno iniziato ad arrivare in Ucraina, Freeland ha inviato una proposta scritta sia al Tesoro degli Stati Uniti che al Dipartimento di Stato con un piano specifico per punire la banca centrale russa, afferma un funzionario occidentale. Quel giorno, Justin Trudeau, il primo ministro canadese, ha sollevato l’idea in un vertice di emergenza dei leader del G7».

 

Ricordiamo al lettore di Renovatio 21 chi è la Freeland: la donna dietro alla proposta di congelare i conti in banca dei camionisti che hanno protestato contro l’obbligo vaccinale in Canada. Lo stesso ministro delle Finanze di Ottawa che ha disintegrato raccolte di fondi e detto che anche la criptovalute sarebbero state messe sotto la lente delle leggi anti-riciclaggio e anti-terrorismo. La Freeland, come abbiamo ricordato, la Freeland è membra del consiglio di amministrazione del World Economic Forum di Davos, la creatura di Klaus Schwab che vanta l’«infiltrazione» di numerosi governi del pianeta.

 

Il Financial Times continua il suo racconto del «colpisci e terrorizza», titolando un paragrafo «Draghi takes the initiative» («Draghi prende l’iniziativa»)

 

«In Europa, è stato Draghi a spingere l’idea di sanzionare la Banca Centrale al vertice di emergenza dell’UE la notte dell’invasione. L’Italia, grande importatore di gas russo, in passato era stata spesso titubante riguardo alle sanzioni. Ma il leader italiano ha sostenuto che le scorte di riserve della Russia potrebbero essere utilizzate per attutire il colpo di altre sanzioni, secondo un funzionario dell’UE».

 

«”Per contrastarlo… devi congelare i beni”, dice il funzionario”».

 

La decisione repentina aveva una vulnerabilità: se la Russia avrebbe comunciato a sospettare dell’immane, inedito blocco posto ai fondi di una banca centrale, avrebbe potuto cominciare a rimuovere le sue riserve in altre valute..

 

 

Uno dei funzionari dell’UE citati da FT afferma che, dati i rapporti che Mosca aveva iniziato a effettuare ordini, le misure dovevano essere pronte prima dell’apertura dei mercati lunedì in modo che le banche non elaborasse alcuna operazione.

 

«Abbiamo colto di sorpresa i russi: non l’hanno ripreso fino a troppo tardi» afferma il papavero UE fonte della ricostruzione del giornale.

 

Un vero colpo gobbo, non c’è che dire. Un colpo gobbo mondiale.

 

Quindi: l’Occidente ha rubato i miliardi russi per tenerseli e tamponare la catastrofe della fine del gas russo? Un furto per mitigare l’autolesionismo delle sanzioni a Mosca?

 

E questa idea verrebbe secondo il prestigioso Financial Times, dal premier italiano Draghi?

 

Si stenterebbe a crederlo. Tuttavia, c’è un precedente. Un discorso, che all’epoca ci era sembrata anche un po’ bizzarro, accennato da Draghi in Senato qualche settimana fa:

 

«Era stato tutto premeditato da tanto tempo, le riserve della Banca centrale russa dalla guerra di Crimea ad oggi sono state aumentate sei volte, alcune sono state lasciate in deposito presso altre Banche centrali in giro per il mondo, altre presso banche normali. Non c’è quasi più nulla, è stato portato via tutto, queste cose non si fanno in giorno, in mesi, mesi e mesi. Non ho alcun dubbio che ci fosse molta premeditazione e preparazione».

 

 

Ci era parso, avevamo scritto, una sorta di superficiale «complottismo» del Premier, a riprova della non profondissima capacità di analisi politica dimostrata in questi mesi.

 

Invece, con probabilità stava dicendo, o non dicendo, altro.

 

In poche parole, Draghi ci ha portato in guerra. Effettivamente. Lo ricorda già nelle prime righe l’articolo del Financial Times.

 

«Il piano concordato dalla Yellen e Draghi per congelare gran parte dei 643 miliardi di dollari di riserve in valuta estera di Mosca era qualcosa di molto diverso: stavano effettivamente dichiarando guerra finanziaria alla Russia».

 

643 miliardi di dollari in totale sono una quantità impressionante di danaro: una cifra tale da cambiare il destino del mondo. Non era mai successo: perfino durante la Seconda Guerra Mondiale, con Hitler e soci a invadere e distruggere mezzo mondo, i fondi tedeschi presso la Banca Centrale del Regno Unito non furono toccati, e la Germania continuò ad averne disponibilità. Esisteva, insomma, come in tanti altri rami dell’attività umana, la Civiltà – sì, perfino una Civiltà finanziaria è possibile, con il diritto rispettato perfino durante il più sanguinoso dei conflitti.

 

Ora, con la manovra di Draghi e compagnia, possiamo dire che non è più così. Anche qui, siamo passati di fase. E la finanza è divenuta ufficialmente un’arma.

 

Alcuni sostengono che al momento i beni della Banca Centrale russa sequestrati ammonterebbero a 300 miliardi. I russi hanno ovviamente calcolato tutto prima di partire con l’Operazione Z: possono farcela nonostante la rapina inflitta dall’Impero delle Menzogne e dai suoi premier-banchieri. Di liquidità in casa ne hanno, e altro danaro arriverà con i nuovi mercati su cui si sposterà il focus economico russo: l’India e la Cina, ad esempio, non hanno votato all’ONU la condanna per l’Ucraina, e in tutto contano circa tre miliardi di individui, cioè quasi metà della popolazione terrestre.

 

Il rublo ha già più che recuperato, e si candida a divenire la moneta di riserva internazionale in un mondo avviato alla de-dollarizzazione: con il rublo potrai comprare gas, petrolio, grano, nickel, uranio, palladio, neon, e tanta tecnologia militare, che sarà sempre più necessaria.

 

E con il dollaro? Se i Saud tradiscono il patto fatto decenni fa con gli USA – la protezione della real casa in cambio dell’uso del petroldollaro – per l’economia USA è finita.

 

Ciononostante, è difficile pensare che una mossa come quella che FT accusa Draghi di aver fatto possa essere perdonata.

 

Avevamo visto altre mosse governative da stropicciarsi gli occhi: il capo della diplomazia italiana Luigi Di Maio che in diretta TV definisce il presidente della Federazione Russa «più atroce di qualsiasi animale», gongolando genialmente poi sul 30% perso dal rublo, ora totalmente già recuperato.

 

Avevamo riportato di Draghi che interviene pubblicamente per definire un articolo dove si discute l’assassinio di Putin, un articolo per il quale l’ambasciatore russo Razov ha sporto denuncia in tribunale, come «libertà di stampa» – il tutto il giorno prima di una telefonata con lo Zar per trattare del gas che manca al Paese e alle sue aziende.

 

«Forse non è una sorpresa che l’ambasciatore russo si sia così inquietato: lui è l’ambasciatore di un Paese in cui non c’è libertà di stampa, da noi c’è, è garantita dalla Costituzione» aveva affermato il premier del green pass. «Da noi si sta molto meglio».

 

Poche ore dopo: «Pronto, presidente Putin, sono qui per parlare del gas…». Incredibile. Possiamo insomma godere della libertà di scrivere riguardo a attentati ai vertici di Paesi che erano partner economici fino a poco fa, mentre vediamo le aziende fallire e andiamo verso la fame.

 

Basta, ci era sembrata già tanta roba così. Già con questi episodi, era chiaro che il nostro governo era squalificato nei rapporti con Mosca. Con evidenza, non avevamo visto ancora niente.

 

In nessun modo, crediamo, l’Italia con Draghi alla sua testa può trattare alcunché con la Russia. Non con l’uomo che il Financial Times ritiene protagonista del sequestro ai danni dei russi di centinaia di miliardi di dollari.

 

Draghi protagonista di un’azione senza precedenti, che perfino i giornalisti occidentali possono ora chiamare come guerra economica.

 

La domanda che deve farsi la Nazione, a questo punto, è piuttosto semplice.

 

Possiamo permettercelo?

 

Possiamo permetterci di avere a Palazzo Chigi qualcuno che in nessun modo può ottenere alcunché dal più grande fornitore di energia e materia prima del pianeta?

 

Possiamo permetterci di avere alla presidenza del Consiglio un uomo, peraltro mai eletto da nessuno, ora noto per aver pianificato il ferimento dell’economia della più grande superpotenza atomica della Terra?

 

Sono domande che ci poniamo qui su Renovatio 21: da altre parti, pare che nessuno abbia notato questa incongruenza. Anzi, qualcuno addirittura aveva azzardato che Putin stimava Draghi, per cui avrebbe potuto fare lui da mediatore.

 

Sì, è incredibile il livello di menzogna a cui siamo arrivati. È incredibile quanto oramai cerchino di disorientarci, narcotizzarci, ingannarci, di ribaltare la realtà in modo osceno.

 

C’è solo una realtà da tenere a mente nell’ora presente: Draghi ci ha trascinato nella guerra economica contro la Russia. Ci saranno, come in ogni guerra, delle conseguenze.

 

Siamo pronti ad accettarle? Siamo in tempo per cambiare il corso degli eventi?

 

Siamo in grado di salvare l’Italia dalla prospettiva di distruzione, economica e materiale, che potrebbe essere lì dietro l’angolo?

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

 

Immagine di World Economic Forum via Flickr pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-NonCommercial-ShareAlike 2.0 Generic (CC BY-NC-SA 2.0); immagine ritoccata e modificata per scopi artistici ed espressivi

Economia

Apple sposta la produzione di iPhone in India

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Apple prevede di spostare l’assemblaggio di tutti gli iPhone destinati agli Stati Uniti dalla Cina all’India, alla luce delle crescenti tensioni commerciali tra Washington e Pechino. Lo riporta il Finacial Times.

 

All’inizio di questo mese, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha imposto dazi doganali ingenti su numerosi paesi, con dazi che hanno raggiunto il 145% sulle merci cinesi. Ha sostenuto che le misure contribuiranno a rilanciare la produzione manifatturiera nazionale e a riequilibrare la bilancia commerciale sbilanciata. Pechino ha risposto imponendo dazi e restrizioni alle esportazioni.

 

L’agenzia statunitense per la protezione delle dogane e delle frontiere (CPD) ha poi pubblicato un elenco di articoli esentati, soggetti solo a un’aliquota separata del 20%, tra cui computer, laptop, smartphone e altri dispositivi e componenti tecnologici. Commentando la decisione, la Casa Bianca ha affermato che le esenzioni hanno lo scopo di dare alle aziende il tempo necessario per localizzare la loro produzione sul suolo statunitense.

 

Venerdì, FT ha riferito, citando fonti a conoscenza della questione, che Apple spera di completare lo spostamento delle sue linee di assemblaggio in India entro la fine del 2026, interessando oltre 60 milioni di iPhone venduti ogni anno negli Stati Uniti.

 

 

Secondo la pubblicazione, il colosso della tecnologia ha dovuto accelerare la sua strategia di diversificazione preesistente a causa dell’intensificarsi della guerra commerciale e ora punta a raddoppiare la produzione di iPhone in India.

 

Sebbene l’azienda abbia già trasferito alcune delle sue linee di assemblaggio in India e Vietnam, la Cina rimane il principale centro di produzione di iPhone a livello globale. Apple vi ha investito massicciamente per quasi due decenni.

 

Molti dei componenti costitutivi che vengono assemblati durante l’assemblaggio provengono dalla Cina, ha osservato il FT.

 

All’inizio di questo mese, il Times of India, citando alti funzionari anonimi, ha affermato che Apple aveva trasportato cinque aerei carichi di iPhone e altri dispositivi dall’India agli Stati Uniti nell’arco di tre giorni a fine marzo. La spedizione sarebbe stata effettuata in previsione di una tariffa reciproca del 10% sui prodotti indiani introdotta da Trump, entrata in vigore il 5 aprile.

 

Il modello di iPhone 16 più economico è stato lanciato negli Stati Uniti a 799 dollari lo scorso settembre. Il prezzo potrebbe ora aumentare del 43%, raggiungendo i 1.142 dollari, se Apple dovesse scaricare l’onere sui consumatori, secondo le stime di Reuters, che cita calcoli basati sulle proiezioni degli analisti di Rosenblatt Securities.

 

Come riportato da Renovatio 21, nelle scorse settimane per evitare costi aggiuntivi dovuti ai nuovi dazi del presidente Trump, Apple ha trasportato via aerea 600 tonnellate di iPhone negli Stati Uniti.

 

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Immagine di Jakub CA via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International

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Economia

Gli USA impongono dazi fino al 3.521% sulle importazioni di energia solare legate alla Cina

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Washington ha imposto dazi fino al 3.521% sulle importazioni di energia solare dal Sud-Est asiatico, secondo le informazioni pubblicate lunedì dal dipartimento del Commercio degli Stati Uniti. Gli aumenti fanno seguito alle accuse secondo cui i produttori di proprietà cinese che operano nella regione avrebbero violato le norme commerciali. Lo riporta Bloomberg.   Secondo la testata economica neoeboracena, i dazi colpiscono le importazioni da Malesia, Cambogia, Thailandia e Vietnam, Paesi che complessivamente lo scorso anno hanno fornito agli Stati Uniti apparecchiature solari per un valore di oltre 12,9 miliardi di dollari.   Note come dazi antidumping e compensativi, le misure mirano a contrastare l’impatto di quelle che il Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti ritiene essere pratiche di sussidi e prezzi ingiusti.

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La decisione è stata presa a seguito di una petizione presentata dall’American Alliance for Solar Manufacturing Trade Committee, che rappresenta diversi produttori statunitensi. Le aziende nazionali hanno affermato che i produttori cinesi di pannelli solari con stabilimenti nei quattro paesi del Sud-Est asiatico esportavano pannelli a prezzi inferiori ai costi di produzione e beneficiavano di sussidi ingiusti che compromettevano la competitività dei prodotti americani.   Le sanzioni variano a seconda dell’azienda e del Paese: i prodotti Jinko Solar provenienti dalla Malesia sono soggetti a dazi antidumping e compensativi combinati del 41,56%, i prodotti Trina Solar realizzati in Thailandia sono soggetti a tariffe del 375,19% e i fornitori cambogiani, che non hanno collaborato all’indagine, rischiano tasse punitive fino al 3.521%.   I critici del provvedimento, come la Solar Energy Industries Association (SEIA), sostengono che i dazi danneggerebbero i produttori di energia solare statunitensi, aumentando il costo delle celle importate, che le fabbriche americane utilizzano per assemblare i pannelli, ha osservato Reuters.   La Commissione per il commercio internazionale, un’agenzia federale statunitense indipendente e imparziale che indaga su questioni legate al commercio, voterà a giugno per determinare se l’industria nazionale ha subito danni materiali a causa delle importazioni, un passaggio necessario affinché i dazi entrino in vigore pienamente.   Dopo che circa 12 anni fa erano stati imposti dazi simili sulle importazioni di energia solare dalla Cina, le aziende cinesi hanno reagito aprendo attività in altri Paesi che non erano state interessate dai dazi, ha osservato Bloomberg.   Le nuove imposte si aggiungeranno ai dazi doganali introdotti dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che hanno scosso i mercati globali. Finora, Trump ha imposto dazi del 145% sulle importazioni cinesi e ha minacciato un ulteriore possibile aumento al 245%.   La Cina ha accusato gli Stati Uniti di «bullismo», ha reagito imponendo una tassa del 125% sui prodotti statunitensi e ha promesso di «combattere fino alla fine».

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Immagine di AgnosticPreachersKid via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported  
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Economia

Il dollaro ai minimi storici: Trump tira dritto

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Lunedì il dollaro statunitense è crollato al minimo degli ultimi tre anni, mentre aumentava l’agitazione sui mercati per la guerra tariffaria del presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il suo crescente disaccordo con il presidente della Federal Reserve Jerome Powell.

 

L’indice del dollaro statunitense ICE, che replica l’andamento del biglietto verde rispetto a un paniere di valute principali, è sceso di oltre l’1% a 97,923, il minimo da marzo 2022. Il dollaro ha toccato nuovi minimi anche nei confronti di euro, sterlina, yen e franco svizzero, e si è indebolito nei confronti del rublo, scendendo sotto quota 80 per la prima volta da giugno 2024.

 

La valuta è sottoposta a crescenti pressioni da quando Trump ha lanciato i dazi, definiti «Giorno della Liberazione», il 2 aprile, prendendo di mira i partner commerciali globali. La fiducia dei mercati è stata ulteriormente scossa dopo che Trump ha pubblicamente attaccato Powell giovedì sui tassi di interesse.

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Il presidente ha attaccato duramente il presidente della Fed, chiedendo tagli ai tassi e avvertendo che Powell potrebbe essere rimosso. «Se lo vuole fuori, se ne andrà molto velocemente», ha detto Trump. I suoi commenti sono arrivati ​​dopo che Powell aveva avvertito che i dazi avrebbero “molto probabilmente generato almeno un aumento temporaneo dell’inflazione” e aveva segnalato che non ci sarebbero stati tagli imminenti ai tassi.

 

Il consigliere economico della Casa Bianca, Kevin Hassett, ha dichiarato in seguito che l’amministrazione sta valutando se sia possibile licenziare legalmente Powell prima della scadenza del suo mandato.

 

 

Lo scontro ha allarmato gli investitori, nonostante Powell abbia affermato di non avere intenzione di dimettersi anticipatamente e abbia sottolineato che l’indipendenza della Fed è una «questione di diritto».

 

Lunedì Trump ha rinnovato i suoi attacchi, definendo Powell «il signor Too Late, un grande perdente» in un post su Truth Social e avvertendo che l’economia rallenterà se i tassi non verranno tagliati.

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Le azioni statunitensi hanno subito un altro colpo: il Dow Jones, il Nasdaq e l’S&P 500 hanno tutti perso più del 3%.

 

«Gli investitori stanno affrontando una nuova fonte di ansia macroeconomica: le minacce di Trump all’indipendenza della Fed», ha detto lunedì alla CNBC l’esperto del settore Adam Crisafulli di Vital Knowledge.

 

Ogni tentativo di licenziare Powell probabilmente innescherebbe una forte svendita sui mercati azionari statunitensi, ha dichiarato al quotidiano il vicepresidente di Evercore ISI, Krishna Guha.

 

Trump ha nominato Powell alla Fed nel 2018 e lo ha riconfermato l’ex presidente Joe Biden nel 2022. Il suo mandato come presidente durerà fino a maggio 2026.

 

Come riportato da Renovatio 21, durante il Forum del Club Valdai dello scorso 7 novembre, il presidente russo Vladimir Putin è stato interrogato dall’ex vicepresidente brasiliano della New Development Bank ed ex funzionario del FMI. Paulo Nogueira Batista jr. sul ruolo delle valute alternative, assicurando che la Russia non ha «cercato di abbandonare il dollaro».

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Come riportato da Renovatio 21, vari Paesi che stanno attuando politiche di allontanamento dal dollaro come l’India, l’Indonesia, il Bangladeshla Malesialo Sri Lankail Pakistan la Bolivia, l’Argentina e altre Nazioni del Sud del mondo (con timidi accenni perfino in Isvizzera) stanno seguendo si stanno sganciando dal biglietto verde. A inizio 2023 la Banca Centrale Irachena ha annunciato che consentirà scambi con la Cina direttamente in yuan cinesi, senza passare dal dollaro, mentre il Ghana si è rivolto non alla moneta statunitense, ma all’oro per stabilizzare la propria valuta nazionale.

 

Il processo di de-dollarizzazione è stato incontrovertibilmente innescato con le sanzioni anti-russe. Lo stesso Putin la scorsa estate aveva definito il fenomeno come «irreversibile». Il presidente russo mesi fa aveva dichiarato che è l’Occidente stesso a distruggere il proprio sistema finanziario.

 

Come riportato da Renovatio 21, in campagna elettorale ad un comizio in Wisconsin l’ora presidente eletto Donald Trump ha accennato ad un piano per fermare la de-dollarizzazione innescata dalle folle politiche di Biden.

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