Pensiero
La storiella di Hitler ebreo e l’oscuro specchio dell’odio
Il premier israeliano Naftali Bennet ha detto che Putin ha telefonato per scusarsi. L’apparizione di Lavrov alla TV italiana ha fatto il giro del mondo, perché questa cosa delle possibili origini ebraiche di Hitler ha colpito tutti.
In ispecie, vogliamo ricordare la reazione di disgusto del grande intellettuale italiano Mario Draghi, incidentalmente Presidente del Consiglio dei ministri, oltre che tra gli ideatori del sequestro dei 300 miliardi della Federazione Russa depositati presso banche estere.
Hitler «ebreo»? Che storia è? Ma come si permettono?
Tuttavia, come ha avuto il coraggio di ricordare qualcuno, la storiella di Adolfo il giudeo circolava già negli anni Venti, quando il nostro faceva discorsi in birreria a Monaco associandosi ad un partito di ferrovieri, poi divenuto il Partito Nazional-Socialista dei Lavoratori Tedeschi (NSDAP).
La voce non si spense nemmeno dopo il bunker. Chi scrive crede di ricordare di averlo letto un quarto di secolo fa nel classico Le origini culturali del III Reich di Georg Mosse, storico ebreo del nazismo, che confessò che, quattordicenne, partecipò ad un comizio del führer e ne fu ipnotizzato al punto di gridare anche lui, nella psicosi di formazione di massa, «morte agli ebrei».
Per anni, nell’ambito storico era una voce o poco più, ma non così scandalosa. La storia della nonna di servizio in casa dell’agiata famiglia ebrea sembra indisputabile, e viene ricordato che una delle prime leggi del suo partito raggiunto il potere (dopo le leggi animaliste, antivivisezione, antifumo, etc.) fu quella di proibire che le fanciulle «ariane» prestassero servizio come cameriere presso le famiglie ebree. Di fatto, succedeva: la ragazza rimane incinta del padre o del figlio padroni di casa, di certo non può sposarsi (per ragioni che forse immaginate), quindi, non esistendo pienamente all’epoca l’aborto, ella viene allontanata con una congrua somma di danaro – insomma una sorta di ridistribuzione della ricchezza, tanto che un intellettuale di sinistra, anni fa, me la raccontava come un fatto positivo, di progressismo materiale quasi ammirevole.
Poi è arrivato lo studio genomico del 2010, quello di cui hanno parlato quelle testate che, di recente, hanno avuto il coraggio di ammettere che fino a poco fa questa cosa la potevi perfino rendere un fatto scientifico – genetico! – senza che nessuno, a differenza che col Lavrov, si scandalizzasse.
Ricordo anche io nitidamente gli anni in cui una cosa del genere poteva al massimo suonare provocatoria, ma non richiedere scuse diplomatiche tra vertici di Stato.
Non abbiamo idea di cosa sia successo da allora: notiamo, tuttavia come il tema sia cambiato nell’intimo significato, cioè ciò che automaticamente passa all’opinione pubblica, ciò che, in ultima analisi, ha fatto saltare i nervi al mondo intero pochi giorni fa.
Se fino a qualche anno fa dicevi che Hitler poteva avere origine ebraiche stavi significando la sua mostruosa follia, un suo contorto, oscuro complesso di inferiorità. Se lo ripeti oggi, invece, non solo gli ebrei si sentono offesi a morte. Perché? Facciamo fatica a spiegarcelo: una proiezione delle colpe di Hitler sullo stesso popolo da lui sterminato, come dice qualche rabbino apocalittico che ritiene l’Olocausto come una punizione? Un’offesa ad una qualche purezza etnica, spirituale di sorta ? Una macchia revisionista su una storia oramai ritenibile kosher? Una menzogna per screditare lo Stato di Israele?
E soprattutto: rispetto agli studi a base di DNA dei ricercatori belgi, che una dozzina di anni fa non scandalizzavano nessuno, qualcuno ha argomentato la tesi contraria?
In realtà, non ci interessa. Il vespaio ce lo risparmiamo volentieri.
Certo, c’è di che rimanere basiti. Mentre sventolano bandiere runiche del battaglione Azov, tra svastiche (pardon, kolovrat) e Sonnenrad himmleriani, spariscono interi tropi della cultura mitteleuropea.
Uno, per esempio, che ricordiamo vividamente dagli studi universitari nella città più comunista d’Italia, è quello del jüdischer Selbsthass, l’«odio di sé ebraico», l’«autoantisemitismo», che era già un termine che dava il titolo ad un libro del 1930 del filosofo ebreo tedesco Theodor Lessing. Gli usi di questi concetti, negli ultimi cento anni, sono stati i più svariati, a partire dagli stessi ambienti sionisti, che usano il termine per descrivere gli ebrei che non abbracciano totalmente la causa.
L’idea che un ebreo possa odiare il suo stesso popolo non era così indicibile. Ci fu poi, negli USA del dopoguerra, il caso inarrivabile di Daniel Burros, ebreo di Nuova York, che nascondendo le sue origini, divenne dirigente del Partito Nazista Americano e reclutatore del Ku Klux Klan.
Il Burros, sucida una volta scoperto nel 1965, fu l’ispirazione del capolavoro cinematografico The Believer, pellicola con un giovanissimo Ryan Gosling skinhead-ebreo secchione che fa perdere lo spettatore in labirinti mistici e ideologici tra l’ebraismo e l’antisemitismo: guardare questo film vale più che leggere un trattato, e potrebbe costituire una parziale risposta alle Erinni scatenatesi contro il Lavrov.
Tuttavia, ci emerge un altro ricordo.
Da qualche parte, nelle sterminate Conversazioni a Tavola – testo che riprodurrebbe i discorsi del dittatore tedesco durante i suoi pasti vegetariani – fu chiesto a Hitler se vi era mai un ebreo che egli aveva potuto ammirare.
Egli diede una risposta subitanea: egli aveva avuto stima di Otto Weininger. Si tratta di una figura non conosciutissima in Italia, se non per l’assimilazione che in genere se ne fa con un altro pensatore giovane ebreo e suicida, il Carlo Michelstaedter de La Persuasione e la Rettorica.
Weininger fu un filosofo austriaco divenuto assai popolare a cavallo tra Otto e Novecento, autore di un’opera, Sesso e carattere, che si si intonava nel fermento psicosessualizzante della Vienna freudiana, e che fu letto da generazioni di pensatori, da Ludwig Wittgenstein al teorico della destra esoterica Julius Evola, che ne scopiazzò alcune tesi fra le sue compilazioni di Metafisica del Sesso.
Sesso e carattere, che vede nell’archetipo della «donna ebraica» il fattore di disgregazione della società moderna, è considerato oggi un caposaldo della letteratura antisemita. Weininger, che si convertì al cristianesimo protestante, poteva ben definirsi anche lui campione del jüdischer Selbsthass.
Weininger, già famosissimo a poco più di 23 anni, si suicidò: si sparò nel petto (esattamente come avrebbe fatto Dan Burros 62 anni dopo in Pennsylvania).
E quindi, ecco il motivo per cui lo Hitler aveva una buona considerazione del giovane filosofo: perché si era ammazzato. Egli aveva «conosciuto un unico ebreo decente, Otto Weininger, che si è tolto la vita quando ha compreso che l’ebreo vive della dissoluzione dei costumi nazionali altrui».
Si tratta di un argomento deludente, ma ricordare Weininger oggi può esserci estremamente prezioso – più che altro per capire come sia stato possibile che il mondo moderno abbia, improvvisamente, fatto finta di non vedere svastiche e insegne runiche in Ucraina, anzi, le abbia nutrite di armi e di miliardi di dollari.
Al di là delle riflessioni percepite come autoantisemite, Weininger in realtà dava una grammatica precisa dell’odio di sé in generale.
«Per amare o odiare altri esseri umani occorre innanzitutto amare o odiare se stessi. L’uomo ama o odia ciò che ha una somiglianza con lui» scrive il libro di Weininger Intorno alle cose supreme.
In Sesso e carattere va molto più a fondo, e dettaglia come funziona questo sistema della «somiglianza» dell’odio.
«Come amiamo negli altri ciò che vorremmo essere interamente ma non siamo mai interamente, così noi odiamo negli altri solo ciò che non vorremmo mai essere, ma che per sempre saremo in parte».
«Così si spiega che gli antisemiti più virulenti si trovano fra gli stessi ebrei. (…) Non per questo è meno certo che chiunque odia il carattere ebraico, l’odia dapprima in sé stesso; il combatterlo nella persona di altri non è che un tentativo di liberarsene; localizzatolo totalmente fuori di sé, per un momento ci si illude di esserne liberi».
«L’odio, come l’amore, è un fenomeno di proiezione: l’uomo non odia che colui che gli ricorda sgradevolmente ciò che egli stesso è».
Il filosofo sosteneva quindi che quando si odia qualcuno, è perché egli è una parte di noi, una nostra proiezione, una piccola immagine di noi stessi che possiamo vedere allo specchio.
E quindi, vuoi che l’odio per Hitler impartitoci per decenni, fosse solo la proiezione di qualcosa che il mondo moderno percepiva come una parte di sé?
La nostra società moderna è la continuazione dello spirito hitleriano? Per carità non si tratta di un’idea nuova. La teoria del «modernismo reazionario» dello storico Jeffrey Herf dava conto di come la Germania regredita a culto sanguinario in realtà fosse il Paese più avanzato in termini di missili balistici, progettati dai medesimi scienziati che, deportati a fine conflitto, hanno spedito USA e URSS nel cosmo.
In ambito artistico, a provare a dire quest’enormità fu l’oscuro, fluviale film di Hans-Juergen Syberberg Hitler, un film dalla Germania, otto ore di riflessione abissale tra musiche wagneriane e scenografie di cartapesta, in cui, alla fine, un pupazzo del dittatore rivendicava tante cose della società attuale che, diceva, potevano venire da lui stesso.
In realtà, Renovatio 21 propone qualcosa di ancora più radicale: l’identità tra il mondo moderno e il pensiero e l’opera di Hitler ci pare talmente abbagliante che ci chiediamo, da tempo, come sia possibile non vederla.
Il nostro mondo, il nostro lettore lo sa, va verso l’eugenetica – o meglio, ci è già. I padroni del vapore lavorano per riprogrammare la razza umana, creare una specie superiore realizzata in individui nati al di fuori della famiglia naturale: non vi chiediamo di guardare ai progetti di Jeffrey Epstein e né agli investimenti CRISPR di Bill Gates, e nemmeno ai mirror humans di George Church.
Vi basta guardare la riproduzione artificiale (eterologa, omologa: ma che differenza è?) praticata ora sulle coppie sterili a spese del contribuente: tanti embrioni prodotti, tanti scartati, alcuni impiantati per avere il bambino eugenetico – quello che Hitler, con i suoi arretrati mezzi analogici, faceva con le stazioni di monta delle SS chiamate Lebensborn («fonte della vita», dove allo scopo si offrivano (volontariamente?) bionde dolicocefale fanciulle locali.
(Privi di vera famiglia, generati solo per idealismo genetico, i bambini Lebensborn sono finiti in gran parte male, come i tanti della cosiddetta «fabbrica dei geni», cioè i bambini concepiti negli anni Sessanta con sperma di premio Nobel: ne scriveremo altrove)
Vi basta guardare gli articoli pietosi sui poveri bambini figli di «surrogate» ucraine – cioè, affittatrici del proprio utero a benefizio retribuito di coppiette abbienti – ora in difficoltà con la guerra che preme. Il New York Times ha appena pubblicato un lungo articolo in cui descrive le consegne dei pargoli appena nati al confine tra l’Ucraina e l’Europa, con implicazioni strazianti e rivoltanti. Bambini concepiti macchinalmente per avere il miglior prodotto possibile, madre e forse ovuli scelti in cataloghi dove abbondano, ma guarda, esemplari biondi e dolicocefali.
Vi basta guardare la preminenza dello sperma danese (biondo dolicocefalo, sempre) nelle banche del seme d’Europa.
Insomma lo vedete da voi: tra capitalismo e neofemminismo, tra individualismo utiltarista e orgoglio gay, l’eugenetica procede trionfante verso la razza superiore, come da sogno nazista.
Chiedetevelo: Hitler disapproverebbe il disegno biologico innestato sotto la società attuale?
Hitler sarebbe contro la diagnosi pre-impianto?
Hitler sarebbe contro l’aborto «terapeutico», eufemismo con cui si tratta dell’uccisione di feti ritenuti non-normali? (In realtà, qui abbiamo già la risposta: no, non lo era)
Hitler combatterebbe la bioingegneria CRISPR?
Hitler si opporrebbe all’ascesa della libera eutanasia, che ci permette di sbarazzarci pure volontariamente della lebensunwerten lebens, la «vita indegna di essere vissuta»?
Hitler sarebbe un nemico della Necrocultura?
E ancora: Hitler sarebbe contro la vaccinazione mondiale con siero in grado di «migliorare» geneticamente la razza?
Hitler si opporrebbe ai lasciapassare che consentono al cittadino di non essere segregato?
Hitler sarebbe contro il greenpass, i lockdown, l’apartheid per una porzione della popolazione ritenuta difforme dalla volontà dello Stato e per questo cacciata senza pietà?
Hitler sarebbe contro i campi di concentramento australiani , in Canada, e forse anche in USA, in Gran Bretagna, in Germania, in Austria?
Sarebbe contrario, lo Hitler, a piattaforme di sorveglianza totale e di controllo del comportamento umano, che riducono lo spionaggio e la repressione della Gestapo a mera barzelletta?
Sarebbe contrario, lo Hitler, ad un ordine mondiale basato sulla violenza, sul diritto del più forte?
Sarebbe contrario, lo Hitler, ad un ordine sociale basato sulla prepotenza, per esempio delle multinazionali informatiche, sul singolo debole cittadino?
Sarebbe contrario ad una scuola che, su modello sempre più spartano, agisce come sei i figli non appartenessero più alle famiglie ma allo Stato?
Sarebbe contrario all’indottrinamento razzista nelle scuole, dove, nell’esempio battistrada americano, insegnano a giudicare le persone dal colore della pelle?
Andiamo oltre. Hitler conquistava il mondo al grido di «Ein Volk, ein Reich, ein führer». In cosa ciò differisce, di grazia, dalla globalizzazione?
In cosa la sua battaglia genocida per il Neuordnung, il «Nuovo Ordine» differisce dalla volontà di chi vuole imporre al mondo il Grande Reset, il Novus Ordo Seculorum?
Ecco, quindi, che forse possiamo dirlo. Il mondo moderno ha odiato Hitler perché sapeva, in cuor suo, che egli ne costituiva una parte interiore.
Ora, alla fine dei tempi, questo incredibile specchio si è disvelato.
Ecco che per combattere per l’«Ordine Nuovo», il mondo moderno si serve alle porte della Russia di soldati con la svastica. I giornali ci dicono che dobbiamo esserne affascinati. Nazionalismo, romanticismo, difesa della patria degli uteri in affitto.
È finito il tempo dell’odio. È stato compreso che si tratta di una parte di sé, che oggi torna utile, che in realtà fornisce i muscoli necessari per portar aventi l’unico grande progetto anglo-hitleriano della ricreazione della razza umana tramite il suo sterminio.
Ecco che quindi, ora le democrazie liberali possono guadare lo specchio, e vedervi il battaglione Azov.
Che importanza può avere, a questo punto, la storiella di Hitler di origine ebrea? Nessuna. Perché il vero tema qui è che l’intero mondo moderno, possiamo dire, potrebbe avere origini hitleriane – o quantomeno, attingere dalla medesima radice assassina.
Stanno a disquisire sulla nonna di Hitler, quando di fatto il suo zombie è tornato fra noi, armato e finanziato per miliardi di dollari.
Si sono offesi gli ebrei, ma la realtà orrende è che, tra provette e guerre sanguinarie, abbiamo accettato che Hitler fosse e rimanesse una parte di noi. Senza che la cosa, a quanto pare, offenda nessuno.
Realizzarlo, lo capiamo bene, può essere un’esperienza rivoltante – ecco perché tutti si evitano questa dissonanza cognitiva.
Tuttavia, è il momento di farsi coraggio: adesso, cari miei, guardate lo specchio. Fissatelo bene.
Ammettete che avete combattuto il mostro al punto da divenirlo voi stessi, avete guardato l’abisso al punto che esso guardasse in voi.
Il mostro, siete voi, e probabilmente lo siete sempre stati. L’abisso è la vostra casa, e avete accettato di viverci, nonostante fosse costruita sul niente irrorato di sangue innocente.
Roberto Dal Bosco
Immagine via Wikimedia di Bundesarchiv, Bild 102-13774 / Heinrich Hoffmann / CC-BY-SA 3.0; immagine modificata
Pensiero
Gli elettori americani rifiutano l’aborto fino alla nascita. Mentre il papa incontra Emma Bonino
Trump ha ottenuto la valanga di voti che avevano predetto i più ottimisti, ribaltando il colore degli Stati democratici e umiliando la campagna Harris in altri.
Tuttavia, un altro dato non ha mancato di allarmare i media dell’establishment: gli elettori della Florida, oltre a eleggere il loro conterraneo The Donald, ha votato in massa no ad un referendum che estendeva grandemente la tempistica degli aborti. La proposta avrebbe consentito i cosiddetti aborti «prima della vitalità», solitamente intorno alle 24 settimane di gravidanza.
La legislazione floridiana vieta la maggior parte degli aborti dopo sei settimane, prima che molte donne sappiano di essere incinte.
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La misura proposta dai democrats in Florida, nota come Emendamento 4, ha ottenuto il 57% dei voti, non raggiungendo il 60% richiesto per l’approvazione. Si tratta di una vittoria politica per il governatore Ron DeSantis, che nel 2022 aveva promulgato il bando degli aborti di 15 settimane, portando nel 2023 il divieto a 6 settimane. In precedenza, la Florida aveva consentito aborti fino a 24 settimane ed «era considerata una destinazione per le donne di altri stati del sud con leggi più severe», scrive il quotidiano neoeboraceno.
L’emendamento 4, detto «Emendamento per limitare l’interferenza del governo con l’aborto», affermava che «nessuna legge proibirà, penalizzerà, ritarderà o limiterà l’aborto prima della vitalità o quando necessario per proteggere la salute del paziente, come determinato dal medico curante del paziente». Esso avrebbe richiesto che l’aborto fosse consentito per qualsiasi motivo prima della «vitalità» fetale e avrebbe reso i divieti successivi alla «vitalità» di fatto privi di significato esentando qualsiasi aborto che un abortista afferma essere per motivi di «salute».
In pratica, se fosse passato, l’Emendamento 4 avrebbe consentito l’aborto dopo la vitalità per qualsiasi motivo ritenuto correlato alla salute da un operatore sanitario da quando il feto ha 23 settimane alla nascita.
Si trattava di una proposta radicale, con lo stesso DeSantis che ha dichiarato che, secondo il testo dell’emendamento, gli aborti potevano essere legalmente consentiti «fino alla nascita».
Ad un passo, notiamo noi, dall’infanticidio, pardon, dall’«aborto post-natale».
La sconfitta, pur non essendo inaspettata, ha interrotto quella che era stata una serie ininterrotta di vittorie per i gruppi per i diritti all’aborto sulle misure elettorali da quando la Corte Suprema ha annullato la sentenza Roe v. Wade nel 2022, scrive il New York Times. Gli elettori si sono schierati a favore dei diritti all’aborto in tutti e sette gli stati che avevano domande elettorali sulla questione prima di quest’anno, in stati diversi come Kansas e California.
Gli organizzatori della campagna chiamata «Yes on 4» avevano raccolto più di 100 milioni di dollari per far sì che la misura venisse inserita nella scheda elettorale e per fare campagna a favore.
Il presidente Donald J. Trump, ora residente in Florida, si era opposto all’emendamento 4, dopo aver inizialmente lasciato intendere che avrebbe potuto sostenerlo.
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Come noto, la Roe v. Wade – cioè l’aborto inteso come «diritto federale» non regolabile dai singoli Stati dell’Unione – è stato ribaltato da una Corte Suprema costituita da giudici indicati da Trump, cui quindi può andare il merito di aver, di fatto, rovesciato la legge abortista in USA, una promessa fatta nel 2016 ai gruppi pro-life che è riuscito a mantenere.
Al contempo, lo smacco delle elezioni midterm del 2022, quando ci si aspettava una red wave (cioè un’ondata di vittorie di candidati repubblicani), portò il pensiero che il Grand Old Party non aveva raccolto i consensi che ci si aspettava a causa del mancato voto delle donne «offese» dalla fine del libero aborto in vari Stati.
Tale idea ha spinto anche la campagna Harris, che ha investito sino all’ultimo sul tema dei «diritti riproduttivi» (cioè, il feticidio, e in seconda battuta la riproduzione artificiale in provetta) minacciati da Trump, sicuri del fatto che il tema avrebbe sicuramente fatto breccia nel cuore di tante donne che, pur repubblicane, avrebbero quindi evitato di votare per un potere antiabortista.
Non è andata così: la valanga di voti per Trump, e per i repubblicani che ora controllano sia la Camera che il Senato, c’è stata comunque. Non sappiamo se a ciò ha contribuito l’insistenza di Trump e dei suoi uomini (tra cui mettiamo pure Elone Musk) nel ripetere che Trump come 47° presidente si sarebbe opposto frontalmente ad una messa al bando federale dell’aborto.
Come riportato da Renovatio 21, è leggibile in questo senso anche l’uscita del libro di Melania di questi giorni, dove la bellissima slovena si dichiara pienamente abortista: certo, può essere la verità, ma al contempo si trattava con certezza di una manovra elettorale, come lo è stato l’appoggio in questi mesi dichiarato da Trump alla fecondazione in vitro, pratica di morte massiva entrata in crisi con una sentenza dell’anno scorso della Corte Suprema dell’Alabama che dichiara gli embrioni come persone. Un altro colpo prima impossibile senza il ribaltamento di Roe v. Wade.
L’aborto, quindi, è stato un tema dominante della campagna elettorale 2024, come lo sono stati immigrazione o l’inflazione.
Abbiamo già scritto qui come Trump, di fatto, rappresenti l’unica forza politica che in cinquant’anni è riuscita non solo a toccare, ma a cancellare una delle legislazioni sul feticidio libero spuntate, chissà perché quasi simultaneamente in tutto il mondo, negli anni Settanta.
La questione dell’aborto ha guidato di certo anche il voto cattolico americano, con vescovi e cardinali intervenuti, a vario titolo, con indicazioni di voto in merito – e la definizione, data dal vescovo texano Joseph Strickland, di Trump che, in quanto non integralmente pro-life, era da votare come «male minore».
Uno dei temi cattolici più importanti, quindi, era sulla scheda elettorale nel voto di uno dei Paesi di maggiore importanza al mondo – anche per la presenza di popolazione cattolica, che si conta negli USA in circa 71 milioni di fedeli.
La cosa, tuttavia, non è sembrata interessare Roma in alcun modo. Il Sacro Palazzo si è tenuto sideralmente distante dalle elezioni, e soprattutto da Trump, dopo che nel 2016 Bergoglio era entrato a gamba tesa nella corsa con Hillary definendo Trump «non cristiano» per la sua proposta di creare un muro al confine con il Messico.
Stavolta, tuttavia, il papa è riuscito a fare peggio.
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Nel giorno delle elezioni americane – dove, ripetiamo, il feticidio era anche fisicamente sulla scheda elettorale – Bergoglio è andato a trovare la persona che più di ogni altra ha incarnato la battaglia per il libero aborto in Italia, Emma Bonino.
Ecco infatti che il romano pontefice suona a sorpresa il campanello della leader radicale, «appena dimessa dopo un ricovero che le aveva fatto temere il peggio per una crisi respiratoria», scrive il giornale dei vescovi Avvenire.
I giornali sono pronti a scattare e pubblicare le foto dell’evento. Il gesuita bianco scende sorridente dalla macchina, poi eccotelo in terrazza con la radicale, entrambi – in una significativa, paurosa simmetria – in carrozzella.
«La foto di Francesco e della storica leader radicale attorno a un tavolino entrambi in sedia a rotelle mostra la condivisione della fragilità fisica, il simbolo di una fraternità che non si lascia imprigionare dalle appartenenze e dalle identità, che evidentemente restano» continua il quotidiano episcopale.
Stamane, con enorme sorpresa e piena di emozione, Sua Santità mi ha fatto una graditissima visita.
Di Papa Francesco emerge sempre l’aspetto umano straordinario. Già dai presenti che ha voluto donarmi, un meraviglioso mazzo di rose e dei cioccolatini.
Sono rimasta molto… pic.twitter.com/8ldZ3K9Gwn— Emma Bonino (@emmabonino) November 5, 2024
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«Con enorme sorpresa e piena di emozione, Sua Santità mi ha fatto una graditissima visita. Di papa Francesco emerge sempre l’aspetto umano straordinario» ha detto la Bonino, raccontando l’argentino le ha regalato «un meraviglioso mazzo di rose e dei cioccolatini. Sono rimasta molto colpita dalla forza e comprensione dimostratami già dal suo saluto “cerea” tipico piemontese, per le nostre origini comuni. E avermi detto di essere “un esempio di libertà e resistenza” mi ha riempito di gioia».
Non si tratta della prima volta che i due si incontrano. «Il Papa ed Emma Bonino si erano incontrati più volte negli anni scorsi intessendo un dialogo soprattutto sul tema dei migranti. Tanto che Francesco nel 2016 aveva detto che Bonino “ha offerto il miglior servizio all’Italia per conoscere l’Africa”» continua Avvenire.
Non ci è chiaro cosa avrebbe fatto la Bonino per l’Africa: sappiamo che per un periodo si era trasferita al Cairo, dove si diceva stesse studiando l’arabo; qualche cristiano copto incontrato in quegli anni rivelò inquietudine per la presenza in Egitto negli anni turbolenti della «Primavera Araba» della Bonino, notoriamente legata al finanziere internazionale Giorgio Soros, al punto da essere tra gli happy few invitati al suo terzo matrimonio anni fa.
Ma ci sono ancora più episodi: chi scrive ricorda l’oltraggio di tanti sostenitori che, recatisi alla Marcia per la Vita il 10 maggio 2015 – camminata che per qualche ragione terminava a San Pietro con l’Angelus del Bergoglio che la snobbava – si ritrovavano sui giornali, l’indomani, la foto della Bonino col turbante che abbracciava il pontefice in Vaticano ad una qualche iniziativa per i bambini. Più che ai bambini trucidati nel grembo materno, al papa interessavano i bambini dell’iniziativa «Fabbrica della pace» da presentare alla FAO.
Ora, siccome non lo fa Avvenire, tocca a noi ricordarci come i cattolici ricordano la Bonino – vera, grande eroina del feticidio in Italia, ben prima che esso fosse legalizzato dalla legge 194/78.
Neera Fallaci, sorella minore della più famosa Oriana, nel 1976 intervistava la giovine Bonino per la rivista Oggi: «tra il febbraio e la fine di dicembre del 1975, gli interventi per aborto del CISA [Centro Italiano Sterilizzazione ed Aborto, il nome preso dalla villa per volontà di Marco Pannella, ndr] sono stati 10.141».
Secondo quanto riportato, agli aborti la Bonino provvede di persona – ciò sarebbe dimostrato da una oramai notissima fotografia che circola da decenni, per l’aborto la Bonino si serviva di uno strumento fai-da-te, la pompa di una bicicletta.
Il bambino abortito prima di finire nella spazzatura veniva aspirato dentro un vasetto della marmellata opportunamente svuotato: «alle donne non importa nulla che io non usi un vaso acquistato in un negozio di sanitari, anzi, è un buon motivo per farsi quattro risate».
Come noto, sugli aborti di quel tempo scrisse un libro-manuale l’attuale ministro della Famiglia del governo Meloni Eugenia Roccella, l’indimenticato Aborto Facciamolo da noi. La Roccella è poi entrata in tutt’altro giro, quel sempiterno network democristiano di vescovi Family Day che è riuscito ad infiltrarsi anche nell’attuale compagine di governo. Resta il fatto che l’abolizione della 194 non è reclamata né dal ministro né da vari minion del sedicente mondo pro-life italiano.
I racconti del pre-1978 – prima della legalizzazione dell’aborto in Italia con la 194 – descrivevano una bella villa sui colli, dove un ginecologo a nome Giorgio Conciani eseguiva clandestinamente aborti in quantità. Il Conciani dopo aver allargato il campo con battaglie per l’eutanasia, finirà radiato dall’ordine dei medici e poi suicida, impiccato in cantina, nel 1997.
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La Bonino farà una carriera politica incredibile: Parlamento plurime volte (anche, secondo una foto che circolava in rete tempo, fa con i voti della Lega), Commissione Europea, ministeri della Repubblica italiana vari, tra cui, di recente, quello degli Esteri.
E poi, diventa partecipante del Bilderberg, ma ancora più significativamente, e poi ancora come membro del board di Open Society Foundations del già citato Giorgio Soros, il quale prese perfino la tessera di un partito-ircocervo radical-socialista spuntato fuori ad un certo punto, la non memorabilissima Rosa nel Pugno.
Va detto anche che la spinta della Bonino per l’aborto non era fatta con la storia dei migliaia di feti aspirati clandestinamente. Non tutti ricordano che l’aborto sbarcò in Italia sulle ali di un grande caso mediatico, quello di Seveso.
Nel 1976, cioè due anni prima che arrivasse la 194, la deputata del Partito Repubblicano Italiano (un partito che qualcuno dice vicino alle famose logge «laiche») Susanna Agnelli chiese al ministro della Sanità l’autorizzazione all’aborto per le madri di Seveso, cioè quelle donne incinte al tempo del disastro chimico che colpì la cittadina lombarda.
La richiesta della Agnelli, ovviamente, si univa a quella della deputata radicale Bonino. Sconvolge vedere come il mondo pro-life si sia scagliato negli anni contro Emma, ma mai contro la sorellona di Gianni Agnelli.
Per l’Agnelli, insomma, questa anteprima nazionale del feticidio di Stato doveva farsi per forza. La diossina di Seveso era un’occasione troppo ghiotta.
Il Ministro De Falco concesse la deroga, non prima di aver avuto il placet del Presidente del Consiglio Giulio Andreotti, esattamente l’uomo che due anni dopo avrebbe firmato la legge genocida 194.
Gli aborti invocati dalla Agnelli vennero operati alla clinica Mangiagalli di Milano (tuttora in funzione) e al nosocomio Desio. Furono fatti degli studi sui poveri resti dei bambini massacrati: i resti degli aborti furono inviati in un laboratorio di Lubecca, in Germania, per essere analizzati; nella relazione stilata nel 1977 dai tedeschi si dice che in nessuno di quei resti umani fosse evidente un segno di malformazione.
Altre donne di Seveso portarono a termine le loro gravidanze senza problemi, i loro figli, che vivono tutt’oggi non mostrarono segni di malformazioni evidenti. Qualcuno magari sta pure leggendo queste righe.
Il disastro di Seveso non fu altro che il casus belli necessario all’avvento della legge 194, che arrivò firmata dal governo democristiano Andreotti IV. Pannella e la Bonino avevano vinto la loro battaglia.
Un’immagine a foto doppia pubblicata in un articolo pro-aborto del giornale degli Agnelli La Repubblica la mostra con il medesimo cartello dal 1978 al 2022: «abbiamo tutte abortito». Rammentiamo inoltre le scritte da sandwich umano «No Vatican no Taliban»: San Pietro come Kabul, il santo padre come il mullah Omar – allora, per i radicali, i mangiapreti partitici più accaniti, andava così.
Ora il sommo talebano vaticano va a trovare la leader radicale direttamente a casa. Din-don. Sorrisoni, solidarietà visibile sin dall’effetto speculare delle sedie a rotelle l’una dinanzi all’altra.
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Tutto questo avviene mentre in America torna al potere Donald Trump, l’uomo che, prima della controversa elezione 2020, aveva rilanciato la lettera aperta che gli aveva scritto monsignor Carlo Maria Viganò, l’arcivescovo già nunzio apostolico USA ora scomunicato dal Bergoglio.
Come sa il lettore di Renovatio 21, monsignor Viganò si è ripetuto quest’anno, con un appello ai cattolici americani per il voto a Trump, dove definiva Kamala Harris «mostro infernale che obbedisce a Satana». La lettera ha fatto il giro della stampa statunitense ed internazionale, probabilmente aiutando, in una qualche misura, il voto cattolico a Trump.
Viganò ieri ha celebrato apertamente la vittoria del presidente come «battuta di arresto per il piano criminale del Nuovo Ordine Mondiale», benedicendo l’America tutta.
Per cui ci chiediamo: non è che il nuovo presidente possa preferire l’ex nunzio apostolico a Washington «scomunicato» all’amico della Bonino e dei migranti, del cambiamento climatico e dell’internazionale woke? Quella figura che, a differenza di Viganò, aveva detto pubblicamente di non sapere se si dovesse votare per la sfidante (abortista radicale, persecutrice di pro-life oltre che dei conservatori tout court) Kamala Harris?
Perché, con una politica estera USA che potrebbe essere in gran parte ribaltata, alcuni nodi potrebbero venire al pettine… E a quel punto potremmo cominciare a vedere scene interessanti.
Chissà.
Roberto Dal Bosco
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Immagine dal profilo Twitter di Emma Bonino
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Mistica dell’Ultra-MAGA: Trump e il «mandato del cielo»
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La notte di Halloween tra incidenti stradali, vandalismi e chissà cos’altro
Un numero impressionante di incidenti stradali si sarebbe verificato secondo fonti giornalistiche locali durante la cosiddetta notte di Halloween in quel di Verona, ricca città veneta ormai soffocata da orde di turisti per 365 giorni all’anno e sotto la presa della criminalità straniera e non solo.
E se a Verona è andata così chissà cosa potrebbe essere successo in altri centri grandi e piccoli della penisola, per non parlare di Milano, Roma, Firenze in cui a volte può essere rischioso semplicemente uscire di casa per andare a comprare il pane.
E’ sufficiente digitare su un motore di ricerca «Notte di Halloween» e anche per quest’anno ne leggerete di ogni, tra stupri, violenze di ogni genere, paesini messi a ferro e fuoco a suon di molotov e incursioni fin nel cortile di casa.
Davvero qualcuno immagina che durante la notte di Halloween le cose possano andare diversamente?
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Provate a chiedere ad un amico o conoscente che lavori in un pronto soccorso quale sia la situazione ogni fine settimana, tra accoltellati e adolescenti in overdose da sostanze stupefacenti.
Chi scrive, ricorda bene quando nella sala d’attesa di un pronto soccorso, aspettando l’uscita di un genitore che, grazie al Cielo, non aveva nulla iniziarono ad arrivare individui sconvolti con mani sanguinanti mentre c’era chi in preda a chissà quale crisi o possessione sbatteva la testa contro i vetri urlando.
È ormai quasi sempre Halloween nelle notti italiane ed europee e non solo nelle metropoli, da anni in preda ad una criminalità tanto asfissiante quanto pervasiva, ma anche nei villaggi più sperduti, nella «provincia sonnacchiosa», in collina, ai monti, al mare.
Ce ne vogliamo rendere conto? Qualcuno vuole che sia Halloween tutto l’anno, che l’inferno regni nelle vostre vite sette giorni su sette.
Quel qualcuno, vuole che il sacrificio avvenga sempre, in ogni momento della vostra quotidianità per la completa instaurazione del suo regno sociale, null’altro che il Regno Sociale di Satana.
Victor Garcia
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