Civiltà
«Ricostruire l’Italia», con i draghi della distruzione

«Questo è l’orizzonte che abbiamo davanti. Dobbiamo disegnare e iniziare a costruire, in questi prossimi anni, l’Italia del dopo emergenza». È una delle frasi salienti del discorso di Mattarella per la sua rielezione, quello interrotto dal record repubblicano di applausi scroscianti.
C’è da dire che parla ad un Paese che la ricostruzione dopo il disastro, in qualche modo, la ricorda ancora. L’Italia subì i bombardamenti a tappeto angloamericani, i disastri militari, il tradimento dei suoi sovrani, il veleno della guerra civile, la fame, la disperazione, la sconfitta. Eppure, ce la fece. Ne uscì un Paese che rapidamente scalò le classifiche del PIL, divenendo una delle nazioni più prospere della Terra.
Dove erano rovine, furono fatte case. Dove erano acquitrini, sorsero industrie. Dove c’era la lacerazione, arrivò l’unità. Dov’era dolore, venne la pace. La ricostruzione post-bellica, in Italia, fu potente e indimenticabile.
La «ricostruzione» che abbiamo davanti non pare in nulla simile a quella del dopoguerra. Soprattutto, perché non è una vera ricostruzione. Essa è, innanzitutto, e sempre più dichiaratamente, distruzione
Ora, la «ricostruzione» che abbiamo davanti non pare in nulla simile a quella del dopoguerra. Soprattutto, perché non è una vera ricostruzione. Essa è, innanzitutto, e sempre più dichiaratamente, distruzione.
Non costruiranno case o industrie. Basta ricordare come, un anno fa, era ripartito il Recovery Fund: alle infrastrutture 27,7 miliardi, alla «digitalizzazione», 48,7 miliardi: il doppio. In breve, non si costruisce niente, fuori da qualche spettro digitale, immateriale e inutile a fini del benessere umano.
L’unità fra le genti della «ricostruzione» non ci sarà mai: perché, programmaticamente, si è scelta la lacerazione, la divisione sociale spinta sino all’apartheid, alla discriminazione biomolecolare, la meccanica del capro espiatorio per schiacciare la minoranza che può diventare – la storia dai Balcani al Ruanda ci dice: d’improvviso – pulizia etnica.
Cosa si può costruire, con un Paese così diviso?
Cosa si può costruire, se si pensa, prima che alla carne e alla materia, ai computer?
Come si può costruire, poi, con chi predica apertamente la distruzione?
L’unità fra le genti della «ricostruzione» non ci sarà mai: perché, programmaticamente, si è scelta la lacerazione, la divisione sociale spinta sino all’apartheid, alla discriminazione biomolecolare, la meccanica del capro espiatorio per schiacciare la minoranza che può diventare – la storia dai Balcani al Ruanda ci dice: d’improvviso – pulizia etnica
Poco sotto il presidente, durante il suo discorso da applausometro, c’era il vero vincitore di questa elezione presidenziale: Mario Draghi. Egli, compreso che i partiti in questo momento non riuscivano a convergere su di lui (l’attuale inutilità della democrazia rappresentativa deve pure essere posta sotto dei limiti di pudore), ha probabilmente solo saltato un giro, cioè mezzo giro. Il testimone gli sarà passato più avanti.
Draghi è uno che la distruzione la conosce: anzi, possiamo dire che la teorizza, la invoca. Almeno, leggendo quanto va pubblicando.
Draghi è membro senior del Group of Thirty, il «Gruppo dei 30», talvolta abbreviato in G30, è un organismo internazionale di finanzieri e accademici che vogliono «approfondire la comprensione delle questioni economiche e finanziarie e ad esaminare le conseguenze delle decisioni prese nel settore pubblico e privato».
È qualcosa di più di una lobby (anche se ha indirizzo a Washington in K Street, la celebre via dei lobbisti), di un think tank, di un club di ricconi laureati. Il G30 raccoglie il livello più alto dei decisori economici del pianeta.
Il consorzio elitista fu creato decenni fa dalla Rockefeller Foundation, uno dei veicoli di una delle famiglie che in questo ultimo secolo e mezzo ha fatto di più per la diffusione della Cultura della Morte. Non è il solo ente creato dalla famiglia: un altro, per esempio, è la Commissione Trilaterale, ad una riunione plenaria della quale nell’aprile 2016 Mattarella portò il suo saluto presidenziale, elogiando il ruolo di David Rockefeller (il sito del Quirinale lo riporta tuttora senza la prima «e»)
I Rockefeller iniziarono gli incontri dei G30 nel 1963 a Villa Serbelloni a Bellagio, tanto che battezzarono l’operazione Bellagio Group. In quegli anni, va ricordato, i Rockefeller partecipavano attivamente ad un altro consesso di potenti miliardari e potenti internazionali raccolti in Italia, il Club di Roma di Aurelio Peccei, il cui fine era (ed è) la riduzione della popolazione terrestre.
Draghi è uno che la distruzione la conosce: anzi, possiamo dire che la teorizza, la invoca. Almeno, leggendo quanto va pubblicando.
Dal 1978 il Bellagio Group prese il nome di Group of Thirty. Il suo primo presidente fu Johannes Witteveen, l’ex amministratore delegato del Fondo Monetario Internazionale.
Mario Draghi ne è parte. È segnato come membro senior. Nel gennaio 2018, l’Ombudsman («Mediatore europeo») Emily O’Reilly chiese che Draghi, allora presidente della BCE, si dimettesse dal gruppo perché la sua appartenenza all’organizzazione poteva essere interpretata come un’influenza indebita.
Il gruppo dei 30 è ancora pienamente attivo. Nel 2011 fece uscire uno studio sulle cause della crisi finanziaria globale del 2008. Nel dicembre 2020 stampò un altro saggio di analisi che riguardava i cambiamenti economici del mondo post-COVID. Il testo, Reviving and Restructuring the Corporate Sector Post-COVID, segna il nome di Mario Draghi come co-presidente del comitato direttivo. Nelle prime pagine del volume Draghi scrive, con tanto di firma autografa, anche alcuni ringraziamenti «per conto del Gruppo dei Trenta».
È in questo scritto che compare la formula della «distruzione creativa». Si tratta di un famoso concetto elaborato nel secolo scorso dall’economista austriaco Joseph Schumpeter (1883-1950). Egli nel 1919, cioè a pochi mesi dalla disfatta dell’Impero asburgico, fu nominato ministro delle finanze della Prima Repubblica d’Austria. Durò poco, passò a dirigere una banca, e poi tornò all’insegnamento, per poi emigrare oltreoceano nel 1932 ed approdare alla prestigiosa università di Harvard, dove insegnò fino alla morte.
Nel celebre trattato economico Capitalismo, socialismo e democrazia (1942), Schumpeter scrive che la distruzione creatrice (schöpferische Zerstörung) è il «processo di mutazione industriale che rivoluziona incessantemente la struttura economica dall’interno, distruggendo senza sosta quella vecchia e creando sempre una nuova».
La distruzione di interi comparti professionali è per l’economista austriaco la condizione ideale per l’economia e la sua necessaria evoluzione. Colpisce che questo inno alla distruzione fu scritto – negli USA – quando la distruzione era più che un concetto, era la realtà dell’Europa devastata dalla guerra. In quel momento la distruzione non era un’astrazione. La distruzione non creava: uccideva milioni di uomini. Eppure, Schumpeter, trovava consono scrivere e pubblicare l’idea della distruzione come via all’innovazione.
Schumpeter, nel documento 2020 del Gruppo dei 30 del dicembre 2020, è citato appena una volta. Ma tutto il testo è imperniato sul suo concetto di distruzione creatrice.
In sintesi, nel testo dell’ensemble di Draghi si dice che nella prima fase della crisi pandemica il problema era la liquidità, la prossima crisi sarà quella delle insolvenze. I governi non potranno salvare tutte le attività e quindi devono scegliere chi deve vivere e chi deve morire. Una sorta di dilemma del triage – i dottori che, anche in tempi COVID, decidono chi vive e chi muore – dove però si è sicuri che si deve lasciare che si compia la strage.
«Il settore delle imprese che emerge da questa crisi non dovrebbe apparire esattamente come quello precedente a causa degli effetti permanenti della crisi e dell’accelerazione delle tendenze esistenti come la digitalizzazione da parte della pandemia» scrive il testo.
«I governi dovrebbero incoraggiare le trasformazioni e gli adeguamenti aziendali necessari o desiderabili nell’occupazione. Ciò potrebbe richiedere una certa quantità di “distruzione creativa”»
«I governi dovrebbero incoraggiare le trasformazioni e gli adeguamenti aziendali necessari o desiderabili nell’occupazione. Ciò potrebbe richiedere una certa quantità di “distruzione creativa” poiché alcune aziende si restringono o chiudono e ne aprono di nuove e poiché alcuni lavoratori devono spostarsi tra aziende e settori, con un’adeguata riqualificazione e assistenza transitoria. Tuttavia, anche i governi che sostengono tale adattamento in linea di principio potrebbero dover adottare misure per gestire i tempi della distruzione creativa per tenere conto degli effetti a catena di cambiamenti eccessivamente rapidi, come i regimi di insolvenza che potrebbero essere sopraffatti».
In un paragrafo intitolato «Apocalisse Zombie» è scritto si parla di «zombie-firms», aziende-zombie create dalla crisi finanziaria, viene posta, per bocca di un banchiere singaporese, la domanda finale: «Continuerete (…) ad usare le finanze pubbliche per sostenere le aziende o lascerete che la distruzione creativa accada à la Schumpeter?».
In pratica, stanno dicendo: volenti o nolenti, ricostruiremo l’intero sistema economico come vogliamo noi: o meglio, lo resetteremo. Gli Stati daranno una mano, ammortizzeranno il cambiamento, conterranno gli effetti spiacevoli della disoccupazione, con milioni di lavoratori che andranno «riqualificati». Le aziende che boccheggeranno stremate dai lockdown imposti, saranno definite «zombie», e come tali trattate: morti viventi, creature inutili e non più umane, buone, appunto, per dei massacri che garantiscono l’assenza del senso di colpa, come nei film e serie TV sui morti viventi.
Assomiglia un po’ ai discorsi sul Grande Reset, sì – del resto, Draghi e Schwab alle volte si incontrano, come pochi mesi fa.
Assomiglia a un grande piano che, più che ricostruire, al momento sembra interessato a distruggere. O meglio: può ricostruire solo se distrugge, e distrugge perché vuole ricostruire secondo un suo preciso disegno.
Assomiglia a un grande piano che, più che ricostruire, al momento sembra interessato a distruggere. O meglio: può ricostruire solo se distrugge, e distrugge perché vuole ricostruire secondo un suo preciso disegno. Solve et coagula
Solve et coagula. Il principio della trasformazione secondo l’alchimia, un’idea poi passata a certe importanti società segrete ancora ben rappresentate in Italia.
Siamo anni luce dalle gioie e dai sudori della ricostruzione postbellica. Siamo infinitamente lontani dall’Italia che costruisce le autostrade, dalle famiglie che risparmiano e comprano l’auto, da Enrico Mattei, dall’Inter del Mago Herrera.
È chiaro quale sia il motivo profondo, metafisico, metapolitico, metastorico, di tutto questo. È la grande inversione realizzata: la Civiltà, da latrice dell’Essere, è divenuta barbarie del Niente.
È chiaro quale sia il motivo profondo, metafisico, metapolitico, metastorico, di tutto questo. È la grande inversione realizzata: la Civiltà, da latrice dell’Essere, è divenuta barbarie del Niente. Laddove il mondo viveva secondo un concetto di espansione – cosa vero perfino nel mondo marxista-leninista – ora vi è stata innestata una contrazione
Laddove il mondo viveva secondo un concetto di espansione – cosa vero perfino nel mondo marxista-leninista – ora vi è stata innestata una contrazione.
Siamo troppi, dobbiamo ridurre il numero degli esseri umani sulla terra – magari non figliando, o uccidendo subito la prossima generazione di esseri umani. Inquiniamo troppo, dobbiamo ridurre i consumi, o ridurre perfino la quantità di luce solare – partendo sempre dall’idea di diminuire subito la popolazione.
Questi concetti dei «limiti dello sviluppo» furono di fatto escogitati da Peccei e dal suo Club di Roma emanato dai Rockefeller (famiglia dove l’antinatalismo è trasmesso geneticamente). Peccei commissionò al politecnico bostoniano MIT uno studio che dimostrasse che l’espansione della Civiltà, nell’industria e nella popolazione, era finita: gli scienziati obbedirono, e consegnarono uno studio che prevedeva l’imminente esaurirsi delle risorse, e il collasso del pianeta, tra guerre e carestie, a causa della sovrappopolazione.
Erano tutte previsioni false, ovviamente: tuttavia, da queste menzogne scaturì l’ecologia moderna, che, come il Gruppo dei 30, ha in mente costantemente la distruzione dell’opera dell’uomo, parassita del pianeta.
Tale processo di contrazione dell’universo umano possiamo chiamarlo Necrocultura, o Cultura della Morte. Essa è la forza di gravità del mondo nuovo: ogni cosa tende naturalmente verso l’uccisione o la degradazione dell’essere umano.
Vuoi far l’amore? Solo con la contraccezione. Sei incinta? Puoi abortire. Sei malato? Puoi chiedere di suicidarti con l’eutanasia. Hai fatto un incidente di macchina? Ti espianteranno gli organi quando il tuo cuore ancora batte.
La Necrocultura è più che un concetto, una lettura del reale: essa è il fondamento di intere istituzioni, politiche e – ce ne rendiamo conto soprattutto ora – sanitarie. Essa è la base ideologica, latente o patente, di interi partiti, di interi Paesi
La Necrocultura è più che un concetto, una lettura del reale: essa è il fondamento di intere istituzioni, politiche e – ce ne rendiamo conto soprattutto ora – sanitarie. Essa è la base ideologica, latente o patente, di interi partiti, di interi Paesi.
La Necrocultura è distruzione creatrice – anche se non crea nulla e uccide tanto, lo scopo del resto è quello. È la guerra senza pietà all’Imago Dei.
Pensate al legame, sempre più sincrono nel mondo moderno, tra distruzione e riproduzione. Se vuoi avere in braccio un bambino fatto in provetta, devi uccidere almeno qualche decina di embrioni. Distruzione creativa, distruzione procreativa: devi ammazzare per far nascere un bambino. Devi fare, per quanto invisibili nei loro vetrini in laboratorio, veri sacrifici umani per portarti a casa il bebè che corona il tuo sogno di famigliuola borghese arredata a dovere.
Il lettore può capire ora anche il legame che esiste tra la distruzione creatrice del bambino in provetta e la pandemia COVID. I cinesi, grazie alla bioingegneria CRISPR, hanno già creato (almeno) due gemelle immuni all’HIV. Quanto ci vorrà perché proporranno bambini geneticamente programmati per l’immunità al SARS-nCoV-2? Quanto ci vorrà prima che il bambino bioingegnerizzato anti-COVID (o anti-Ebola, Marburg, etc.) divenga obbligatorio? Perché, ricordatelo, «sarà come vaccinarli»…
Quindi, quale ecatombe di embrioni sacrificheremo alla distruzione procreatrice?
Milioni.
Come possiamo ricostruire le nostre città, se sono liberi i draghi della distruzione?
E questo massacro non servirà a «costruire l’Italia», ma a maledire la Civiltà.
Accettiamo la morte di oceani di embrioni. Accettiamo la morte di migliaia di aziende. Accettiamo la morte di ogni nostro diritto, perfino di quello di respirare. Accettiamo il nostro stesso massacro.
Come è possibile che, quindi, crediamo ad una qualche «ricostruzione»?
Come possiamo ricostruire le nostre città, se sono liberi i draghi della distruzione?
Roberto Dal Bosco
Immagine di LazyRemnant via Deviantart pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-NonCommercial-NoDerivs 3.0 Unported (CC BY-NC-ND 3.0)
Civiltà
Professore universitario mette in guardia dall’«imperialismo cristiano europeo» nello spazio

La preside di scienze sociali della Wesleyan University Mary-Jane Rubenstein, una «filosofa della scienza e della religione» (che è anche affiliata al programma di studi femministi, di genere e sessualità della scuola), afferma di aver notato come «molti dei fattori che hanno guidato l’imperialismo cristiano europeo» siano stati utilizzati in «forme ad alta velocità e alta tecnologia».
La Rubenstein si chiede se «pratiche coloniali» come «lo sfruttamento delle risorse ambientali e la distruzione dei paesaggi», il tutto «in nome di ideali quali il destino, la civiltà e la salvezza dell’umanità», faranno parte dell’espansione dell’uomo nello spazio.
Lo sfruttamento degli altri corpi celesti, quantomeno nel nostro sistema solare, è stata considerata in quanto vi è una ragionevole certezza che su altri pianeti vicini non vi sia la vita, nemmeno a livello microbico. Quindi, che importanza ha se aiutiamo a salvare la Terra sfruttando Marte, Mercurio, la fascia degli asteroidi, per minerali e altre risorse?
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Rubenstein nota che il presidente della Mars Society Robert Zubrin ha sostenuto esattamente questo. In un editoriale del 2020, Zubrin ha attaccato un «manifesto» da un gruppo NASA DEI (diversità, equità e inclusione) che aveva sostenuto «dobbiamo lavorare attivamente per impedire l’estrazione capitalista su altri mondi».
Ciò «dimostra brillantemente come le ideologie responsabili della distruzione dell’istruzione universitaria in discipline umanistiche possano essere messe al lavoro per abortire anche l’esplorazione spaziale», ha scritto lo Zubrin.
Lo Zubrin ha osservato che poiché il gruppo DEI non ha alcun senso su base scientifica, deve ricorrere a «una combinazione di antico misticismo panteistico e pensiero socialista postmoderno» – come affermare che anche se non ci sono prove nemmeno dell’esistenza di microbi su pianeti come Marte, «danneggiarli sarebbe immorale quanto qualsiasi cosa sia stata fatta ai nativi americani o agli africani».
Tuttavia la Rubenstein afferma che varie credenze indigene «sono in netto contrasto con l’insistenza di molti nel settore sul fatto che lo spazio sia vuoto e inanimato».
Tra questi vi sono un gruppo di nativi australiani che affermano che i loro antenati «guidano la vita umana dalla loro casa nella galassia» (e che i satelliti artificiali sono un pericolo per questa «relazione»), gli Inuit che sostengono che i loro antenati vivono in realtà su “corpi celesti” e i Navajo che considerano sacra la luna terrestre.
«Gli appassionati laici dello spazio non hanno bisogno di accettare che lo spazio sia popolato, animato o sacro per trattarlo con la cura e il rispetto che le comunità indigene richiedono all’industria», afferma la Rubenstein.
In effetti, in una recensione del libro di Rubenstein Astrotopia: The Dangerous Religion of the Corporate Space Race, la testata progressista Vox ha osservato che «in effetti, alcuni credono che questi corpi celesti dovrebbero avere diritti fondamentali propri».
Quindi, l’ordine degli accademici è che gli esseri umani dessero priorità alle credenze dei nativi nell’esplorazione dello spazio rispetto a quelle dei cristiani europei?
Dovremmo rinunciare all’estrazione di minerali preziosi da asteroidi, comete e pianeti vicini, perché hanno tutti una sorta di Carta dei diritti «mistica panteistica»?
I limiti posti ai programmi di esplorazione spaziale sono da sempre legati a movimenti antiumanisti che odiano la civiltà – in una parola alla Cultura della Morte.
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Lo stesso Zubrin, ex dipendente NASA frustrato dalla mancanza di un programma per la conquista di Marte e il suo terraforming, ne ha scritto in libri fondamentali come Merchants of Dispair (2013), dove spiega come la pseudoscienza e l’ambientalismo siano di fatto culti antiumani.
Lo Zubrin era animatore della Mars Society, un’associazione dedicata alla promozione dell’espansione su Marte, quando nei primi anni Duemila si presentò ad una serata del gruppo uno sconosciuto, che alla fine lasciò in donazione un assegno con una cifra inusitata per la Society, ben 5.000 dollari: si trattava di Elon Musk.
Il quale, marzianista convinto al punto da realizzare razzi che dice ci porteranno sul pianeta rosso tra quattro anni, è anche uno dei più accesi nemici del politicamente corretto, della cultura woke e soprattutto dell’antinatalismo, oltre che una persona che attivamente, negli anni – lo testimonia la sua costante attenzione per la storia della Roma antica – ha dimostrato di aver compreso il valore, e la fragilità, della civiltà umana.
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Civiltà
L’anarco-tirannia uccide: ieri ad Udine, domani sotto casa vostra

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Civiltà
Tecnologia e scomparsa della specie umana: Agamben su progresso e distruzione

Renovatio 21 pubblica questo scritto di Giorgio Agamben apparso sul sito dell’editore Quodlibet su gentile concessione dell’autore.
Quali che siano le ragioni profonde del tramonto dell’Occidente, di cui stiamo vivendo la crisi in ogni senso decisiva, è possibile compendiarne l’esito estremo in quello che, riprendendo un’icastica immagine di Ivan Illich, potremmo chiamare il «teorema della lumaca».
«Se la lumaca», recita il teorema, «dopo aver aggiunto al suo guscio un certo numero di spire, invece di arrestarsi, ne continuasse la crescita, una sola spira ulteriore aumenterebbe di 16 volte il peso della sua casa e la lumaca ne rimarrebbe inesorabilmente schiacciata».
È quanto sta avvenendo nella specie che un tempo si definiva homo sapiens per quanto riguarda lo sviluppo tecnologico e, in generale, l’ipertrofia dei dispositivi giuridici, scientifici e industriali che caratterizzano la società umana.
Questi sono stati da sempre indispensabili alla vita di quello speciale mammifero che è l’uomo, la cui nascita prematura implica un prolungamento della condizione infantile, in cui il piccolo non è in grado di provvedere alla sua sopravvivenza. Ma, come spesso avviene, proprio in ciò che ne assicura la salvezza si nasconde un pericolo mortale.
Gli scienziati che, come il geniale anatomista olandese Lodewjik Bolk, hanno riflettuto sulla singolare condizione della specie umana, ne hanno tratto, infatti, delle conseguenze a dir poco pessimistiche sul futuro della civiltà. Nel corso del tempo lo sviluppo crescente delle tecnologie e delle strutture sociali produce una vera e propria inibizione della vitalità, che prelude a una possibile scomparsa della specie.
L’accesso allo stadio adulto viene infatti sempre più differito, la crescita dell’organismo sempre più rallentata, la durata della vita – e quindi la vecchiaia – prolungata.
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«Il progresso di questa inibizione del processo vitale», scrive Bolk, «non può superare un certo limite senza che la vitalità, senza che la forza di resistenza alle influenze nefaste dell’esterno, in breve, senza che l’esistenza dell’uomo non ne sia compromessa. Più l’umanità avanza sul cammino dell’umanizzazione, più essa s’avvicina a quel punto fatale in cui progresso significherà distruzione. E non è certo nella natura dell’uomo arrestarsi di fronte a ciò».
È questa situazione estrema che noi stiamo oggi vivendo. La moltiplicazione senza limiti dei dispositivi tecnologici, l’assoggettamento crescente a vincoli e autorizzazioni legali di ogni genere e specie e la sudditanza integrale rispetto alle leggi del mercato rendono gli individui sempre più dipendenti da fattori che sfuggono integralmente al loro controllo.
Gunther Anders ha definito la nuova relazione che la modernità ha prodotto fra l’uomo e i suoi strumenti con l’espressione: «dislivello prometeico» e ha parlato di una «vergogna» di fronte all’umiliante superiorità delle cose prodotte dalla tecnologia, di cui non possiamo più in alcun modo ritenerci padroni. È possibile che oggi questo dislivello abbia raggiunto il punto di tensione massima e l’uomo sia diventato del tutto incapace di assumere il governo della sfera dei prodotti da lui creati.
All’inibizione della vitalità descritta da Bolk si aggiunge l’abdicazione a quella stessa intelligenza che poteva in qualche modo frenarne le conseguenze negative.
L’abbandono di quell’ultimo nesso con la natura, che la tradizione filosofica chiamava lumen naturae, produce una stupidità artificiale che rende l’ipertrofia tecnologica ancora più incontrollabile.
Che cosa avverrà della lumaca schiacciata dal suo stesso guscio? Come riuscirà a sopravvivere alle macerie della sua casa? Sono queste le domande che non dobbiamo cessare di porci.
Giorgio Agamben
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