Pensiero
L’apparenza del volo del Drago

Qualche mese fa, mio figlio, che ha una spiccata curiosità per le cose complicate che suo padre non sa, mi ha chiesto quale fosse il carattere giapponese più difficile.
Ho guardato su internet. Si tratta di quello che chiamano taito. È considerato il più complesso perché per realizzarlo servono 84 tratti di pennello.
Diciamo che uno ci mette un po’.
Il bambino, senza che me ne accorgessi, ci si è messo sopra: dopo qualche giorno, lo sapeva riprodurre al volo, senza nemmeno guardarlo.
Non solo: aveva cominciato a sfidare chiunque a vergare l’impossibile ideogramma, il nonno, la nonna, l’altra nonna, sua madre, se stesso: l’asticella via via si alzava, la missione diventava quella di riuscire a riprodurre il taito all’interno di un singolo quadretto di quadernone (impossibile, una roba nanometrica: ma il ragazzino ci prova sul serio).
Quanto a me, ricordo di essere stato svegliato più volte alle 5:30 dal 6enne che mi mette sotto il naso il foglio con sopra il kanji, il carattere giapponese ripetuto mille volte. «Papà, guarda…»
È durata qualche settimana. Poi piano piano la frenesia ideogrammatica è scemata (anche se non del tutto).
Il problema è che il taito è disconosciuto da tantissimi giapponesi, i quali sono tenuti dallo Stato a sapere 1937 caratteri (in via di diminuzione), figurarsi quelli difficilissimi e misteriosi come questo. I kanji sono la vera barriera della lingua nipponica – anche per gli stessi giapponesi, che fingono di avere un’alfabetizzazione altissima, ma fuori dal loro settore di competenza possono aver difficoltà a capire cosa ci sia scritto.
Nessuno utilizza il taito. C’è una foto di un locale che fa ramen, in un qualche paesino periferico, che lo ha messo nell’insegna, rendendolo solo in tempi recenti una vera parola riconosciuta.
Ancora peggio: nessuno sa davvero cosa significhi il taito.
La vulgata principale, tra i pochi che se lo sono chiesto, è che il carattere significhi qualcosa come «l’apparenza del volo del drago».
L’apparenza del volo del drago. Quanta poesia. È quella bellezza risonante che si ha quando si traduce dal giapponese, un po’ per la struttura della lingua un po’ perché il Giappone, fuori dagli orari di lavoro, sa essere proprio così, struggente ed immaginoso. (Anche le sigle dei cartoni, tradotte debitamente, possono risultare come poemi aulici e struggenti).
Devo dire che in questi mesi ho pensato spesso di scrivere un articolo intitolato così.
Perché, lo abbiamo capito, il Drago sopra l’Italia era fatto soprattutto di apparenza. Immagine. Pura forma. Cliché senza riscontri nella realtà.
Era ritenuto intelligente, bravo. Abbiamo invece visto una creatura astiosa, goffa. Insulta una discreta parte della popolazione – come del resto ieri nel suo discorso ha insultato i partiti. Molte scelte, che abbiamo condannato su Renovatio 21, ci sono sembrate al limite del comprensibile: offende la Russia, difende gli articoli che parlano dell’assassinio del suo presidente Vladimir Putin, poi il giorno dopo lo chiama per avere il gas.
Non fa una grinza. E avevamo letto sui giornali italiani ad inizio conflitto ucraino che Putin lo avrebbe voluto come negoziatore, perché anche lui ammaliato dalla bravura e dal prestigio dell’alto burocrate romano. Si poteva sparare una cazzata così?
Massì, perché, appunto, c’è l’apparenza del volo del Drago, cui si aggrappa all’establishment, lo Stato profondo e quella fetta di popolo mascherato – quella che chiamiamo qui massa vaccina – che per continuare ad esistere abbisogna di dosi sempre più massicce di ipnosi.
Draghi, ci ripetono anche i giornali stranieri, è quello che dà stabilità all’Italia, specie ora con la crisi economica, energetica e bellica con la Russia. Anche qua: com’è possibile credere ad una cosa del genere, quando è emerso (e questo sito è stato praticamente l’unico a parlarne in Italia a questo livello) che il Drago, come la Von der Leyen e la Yellen, avrebbe ideato il sequestro di 300 miliardi di dollari di valuta russa depositati nelle Banche Centrali straniere? Il Financial Times, che fece lo scoop che nessuno qui si è filato, non ebbe paura a chiamarlo per quello che è: il primo vero episodio di «guerra economica» mai registrato dalla storia umana.
E quindi, il Drago è colui che ci protegge? In apparenza, dicono i giornali mondiali e mondialisti, dicono i maggiordomi italiani e europeisti, sì. L’uomo cui affidare i tuoi figli è quello che ha appena spaccato le vetrate del vaccino a sassate, nascondendo un po’ la mano ma continuando a inveire. Il vicino è armato e determinato, l’uomo che dovrebbe difendere la nostra prole no – è difficile che abbia mai visto un’arma in vita sua.
Tuttavia, il drago vola. Lui stesso ne è convinto: se no, la boria con cui ha trattato i parlamentari non si spiega. L’uomo che non ha mai visto un voto in vita sua, è andato a dire loro che sarebbe stato «il popolo italiano» a volerlo lì, a chiedere di procedere.
Ma come può anche lontanamente pensare di dire una cosa del genere?
Ma con che faccia?
Per capirlo, dobbiamo tornare al taito. L’ideogramma più difficile al mondo in realtà si può scomporre in due serie di ideogrammi ripetuti.
Uno, appunto, è il drago: 龍, ryu in giapponese.
L’altro è 雲: kumo, «nuvola».
In pratica, il taito (che qualcuno chiama anche daito, o otodo), nella sua variante principale, si scompone in: nuvola-nuvola-drago-nuvola-drago-drago.
Quindi, una commistione fra qualcosa di immateriale, rarefatto – la nuvola – e una bestia mitica, solida e minacciosa, il drago.
L’opera politica di Draghi, finora, è stata pura nuvola. Possiamo dire, addirittura, che è stata perfino più imbranata di quella di Monti, che alla fine se ne era uscito con un suo partito biodegradabile – e invece Super Mario neanche questo ha fatto, forse per pigrizia, o peggio, perché conscio del fatto che siamo nella fase terminale dello Stato-partito, e quindi i partiti tout court non servono più, servono al massimo tecnocrati di cui lui è la massima espressione.
Abbiamo tutti sopravvalutato Draghi: lui stesso, in primis, nonostante la troppa considerazione di sé derivi dalla visione lucida della realtà post-elettorale, post-costituzionale, post-democratica che in Italia è avanzatissima.
Tuttavia non ci nascondiamo che il drago, cioè il mostro leggendario raro e devastante, nella politica di Draghi c’è tutto.
Chiedetelo ai greci. Ora i giornali strillano che sta tornando lo spread, e che i nostri titoli di Stato valgono come quelli della Grecia: simpatico che non notino in ambo i casi il Drago aveva messo la zampa, e soffiato il suo fuoco.
Soprattutto, il drago emerge in tutta la sua forza quando Draghi partecipa ai discorsi di «distruzione creativa» dell’economia discussi dal Gruppo dei 30 a cui prende parte.
Vedendo quello che sta succedendo al nostro Paese, non possiamo avere dubbi: c’è un dragone distruggitore che lavora per la rovina del mondo per come ce lo ricordiamo. I risparmi, lo sviluppo economico, i carburanti, il riscaldamento, la luce elettrica, il costo del cibo… Il drago è ovunque, negli USA come in Germania, in Francia, ovviamente anche in Italia.
Il volo del mostro produce devastazione nazionale. Come le nuvole, è sopra tutto il cielo. Le nuvole, placide e poetiche nella loro quotidianità, in realtà forse lo coprono. Dietro le nuvole c’è il drago, il cui alito infuocato vi sta vaporizzando – vi sta rendendo, a vostra volta, nuvole, atomi allo stato gassoso senza più concretezza, né radice alcuna sulla terra.
Quindi, ripetiamo quello che abbiamo già scritto su queste colonne: il volo del drago continua. Perché Draghi è solo un effetto di un sistema soggiacente – un effetto di maturità, esperienza ed affidabilità impressionati: pensate, dalla scuola dei Gesuiti alla Banca d’Italia al Britannia alla Goldman Sachs BCE a Palazzo Chigi. Un bollino per ogni possibile centrale di potere finanziario.
È difficile, lo capite, che si priveranno di lui. Lo abbiamo già detto: non siamo fra quelli che pensano che Draghi non possa più divenire Presidente della Repubblica. In realtà, può succedere domani: Mattarella, che è anche lui stato portato a suon di applausi fantozziani ad un «anomalo» secondo mandato, può fare come il suo predecessore, dimettersi di colpo e far strada ad un altro nome gradito allo Stato profondo nazionale e non solo.
E chi meglio del Drago? E quale partito oserebbe non prendere in considerazione la cosa? La figura extrapartitica –che se ne fotte della politica e dei partiti al punto di farsi andare bene Di Maio – garantita ad vitam dai poteri sovranazionali che di fatto creano e disfano i governi italiani… come non volerne ancora? Come fare senza?
No, non ci siamo liberati dei Draghi.
La realtà è che, come dicevamo, le elezioni super-ravvicinate sono una manna per il potere costituito: nessuna realtà alternativa ai partiti presenti in Parlamento avrà il tempo e la forza di imporsi e sperare di arrivare in Parlamento. Non c’è il tempo tecnico, la censura impazza, ed ad una certa oltre alle liste di proscrizioni magari salta fuori anche la magistratura… I partiti, andando al voto immediatamente, hanno fatto la scelta più logica di autoconservazione.
Perché qualcuno può averlo intuito: ci sono 8 milioni di voti grillini a spasso. Visto che il partito è collassato – si è biodegradato in un paio di tronconi feudali, a loro volta biodegradabili – è molto improbabile che, escludendo qualche focolaio in meridione, tutti tornino a votare la torma venduta di Grillo.
Il numero di voti divenuto liquido può alterare gli equilibri – può soprattutto essere assorbito da soggetti che si presentino come anti-sistema (come fingeva il M5S fino a poco fa). Chi fa politica non può non aver notato che il dissenso, grazie al green pass, ha assunto dimensioni materiali notevoli motivazioni politiche irriducibili: le continue manifestazioni dei sabati del 2021, con la mobilitazione di milioni di persone in tutta Europa, non sono un segno da prendere alla leggere. In Italia, come in Germania, hanno dovuto piegarle con la repressione poliziesca dura.
Ecco: votiamo subito, così magari un po’ di questi voti tornano all’ovile. Già si sentono certe voglie di votare, nonostante quello che ci hanno fatto, Salvini, la Meloni, perfino Berlusconi… Alla fine va bene anche al PD, perché abbiamo appena visto che a votare non ci va più nessuno, tranne gli zombi piddificati nei decenni con il salario della greppia coop-statale: Zingaretti è servito per comprendere che più in basso di così, anche mettendocela tutta, il Partito non può andare, e anzi, si è compreso che anche la catastrofe di consenso attuale è per il PD, politicamente ed economicamente, sopravvivibile, sostenibile.
Certo, è un disastro. Era meglio aspettare un anno ancora, lavorare per creare soggetti di alternativa vera, credibile: perché quelli che oggi si offrono sul mercato, tra blogger ambigui, dottori spiantati, avvocati strampalati e leaderini che sguazzano negli stagni del loro narcisismo, sono davvero inaccettabili inaffrontabili, irricevibili, invotabili. Fanno schifo. E tanto.
E allora, non c’è davvero nulla da festeggiare. Questa crisi di governo è fatta per continuare l’opera di attacco alla popolazione, è fatta per mantenere lo status quo necessario a proseguire con il Reset, con la Sostituzione, con la decrescita, con tutti i programmi che la centrale della Cultura della Morte e i suoi maggiordomi locali ci stanno scagliando addosso da anni.
Non pensate di esservi liberati dei mostri che stanno decidendo il nostro futuro di miseria e distruzione. La loro ombra è proiettata sulle vite di ognuno.
L’apparenza del volo del Drago incombe ancora su tutti noi.
Roberto Dal Bosco
Pensiero
Dire «Cristo è re» è «antisemitismo»: studio firmato da Jordan Peterson

Uno studio pubblicato da un’organizzazione no-profit liberale fondata da un intellettuale ebreo condanna come «antisemitismo» la frase «Cristo è Re» – un’espressione al centro di accese polemiche negli ultimi mesi. Lo riporta LifeSite.
Giovedì 13 marzo, il Network Contagion Research Institute (NCRI) ha pubblicato uno studio di 20 pagine intitolato «Il tuo nome in vano: come gli estremisti online hanno dirottato “Cristo è Re”».
L’NCRI è stato fondato nel 2018 da Joel Finkelstein, un ricercatore presso l’università Rutgers che in precedenza aveva lavorato per l’Anti-Defamation League, l’ente ebraico dedito alla censura di quello che ritiene «antisemita» e ora anche «razzista». L’NCRI si propone di denunciare «la diffusione di contenuti ideologici ostili” online lavorando per «identificare e prevedere minacce cyber-sociali».
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Finkelstein è coautore del paper con il celebre psicologo canadese Jordan Peterson (una star di YouTube negli ultimi anni), insieme ad altri 11 accademici, la maggior parte dei quali sono ebrei. Il Peterson ha difeso a gran voce il paper sui social media.
Lo studio sostiene che il termine «Cristo Re» è stato «strumentalizzato» da «estremisti politici» che lo stanno usando per promuovere «narrazioni escludenti e piene di odio».
«Gli estremisti in America hanno iniziato a distorcere il significato della frase e la stanno sfruttando come un simbolo in codice … per destabilizzare la politica americana, infiammare le tensioni all’interno della società civile e incoraggiare l’odio verso le minoranze», si legge nello studio.
Per sostenere la sua tesi, il rapporto include screenshot di X post pubblicati da personalità pubbliche note in rete come Candace Owens, Jack Posobiec e Nick Fuentes (tutti e tre cattolici) tra gli altri.
Come noto, la Owens – ora cattolica partecipante al pellegrinaggio tradizionalista Parigi-Chartres – era stata licenziata dal gruppo The Daily Wire (un conglomerato «conservatore» di programmi YouTube fondato dall’opinionista ebreo Ben Shapiro) l’anno scorso per aver promosso la frase. Andrew Klavan, conduttore di una delle trasmissioni del Daily Wire sedicente cristiano convertito, ha sostenuto che si trattava di un «tropo antisemita» e che era come «sputare addosso» a Ben Shapiro, che porta sempre la kippah.
Nello studio viene menzionato pure il vescovo Joseph Strickland, che – a riprova di una certa ignoranza sulle questioni religiose sulle quali la dozzina di autori vuole discettare – viene descritto in modo inesatto come un «ex» vescovo cattolico. Sebbene Strickland sia stato rimosso da Bergoglio dal suo incarico di vescovo di Tyler, Texas, nel novembre 2023, non è stato scomunicato né privato dell’ordine sacerdotale. È noto inoltre che secondo la dottrina cattolica il titolo di vescovo non può essere tolto.
Tra gli autori di fatto non vi sono cattolici e vi è forse un solo cristiano, l’evangelico Johnnie Moore, già capo di alcune commissioni ed enti con la parola «libertà» nel titolo, nonché premiato con una medaglia al valore dal Simon Wiesenthal Center, l’organizzazione ebraica intitolata al celebre «cacciatore di nazisti».
Il protestante Moore ha assunto un ruolo attivo nella promozione dello studio dell’NCRI sui social media, difendendolo di fronte al massiccio contraccolpo della Owens e decine di altri commentatori cristiani.
«Il termine CRISTO È RE… viene dirottato dagli estremisti antisemiti per manipolare i cristiani», ha affermato Moore giovedì.
‼️I need to warn you about something! The term CHRIST IS KING has been a declaration of shared Christian values for generations, but shocking research by @ncri_io at @RutgersU compiled in a report I co-authored with Dr. @jordanbpeterson demonstrates that this iconic phrase is… pic.twitter.com/crYbYwT0BA
— Rev. Johnnie Moore ن (@JohnnieM) March 13, 2025
Come scrive LifeSite, lungi dall’essere un centro di ricerca «neutrale» di terze parti, l’NCRI è legato a diversi gruppi di sinistra e ha promosso molti punti di discussione del Deep State sin dal suo inizio.
Nel 2021, ol Finkelstein è apparso sulla trasmissione di inchiesta americana 60 Minutes per criticare la «disinformazione» sui vaccini anti-COVID e sull’uso delle mascherine. Il suo gruppo ha anche affermato che i «propagandisti russi» erano da biasimare per la «disinformazione» in atto.
Nel 2019, l’NCRI ha stretto una partnership con la radicale anti-Defamation League (ADL), potente ente che funge da «inquisizione» di idee non allineate, che di recente dalle questioni ebraiche si è spostato su temi come razzismo e omofobia, cercando di colpire anche figure del calibro di Tucker Carlson e Elon Musk. Un comunicato stampa emesso all’epoca spiegava che avrebbero «prodotto una serie di report che analizzassero in modo approfondito il modo in cui l’estremismo e l’odio si diffondono sui social media».
L’ADL consiste de facto in un gruppo di pressione ebraico che ha diffamato i cattolici tradizionali e attaccato la Santa Messa tradizionale per molti anni. Il Finkelstein ha lavorato come Research Fellow per l’ADL dal 2018 al 2020. Moore stesso ha prestato servizio come membro del Board of Trustees dell’ADL a Los Angeles. Moore ha anche lavorato con la Middle East Task Force dell’ADL.
L’NCRI è stato sostenuto da altri gruppi di sinistra e sionisti. La testata di sinistra Mint News riferisce che avrebbe ricevuto oltre 1 milione di dollari dalla Israel on Campus Coalition (ICC), un gruppo che cerca di diffondere il sionismo nei college statunitensi. La testata di sinistra Grayzone ha anche scoperto che l’NCRI ha elencato la Open Society Foundation di George Soros come affiliata fino a quando non ha eliminato quella sezione dal suo sito web nel 2021.
L’attuale sito web dell’NCRI include un elenco di consulenti strategici. Tra questi c’è il professor Robert George di Princeton. George è cattolico e ha legami con molti gruppi influenti e importanti cattolici coinvolti nella politica a Washington DC. Ha trascorso molti anni a promuovere il dialogo tra cattolici ed ebrei.
Membro del Council on Foreign Relations (CFR), il George sembra aver incontrato Finkelstein durante gli anni del college, quando Finkelstein frequentò Princeton, scrive LSN. Il Finkelstein fu anche visiting scholar per il James Madison Program di Princeton, di cui George è a capo.
Il George ha condiviso un articolo sul suo account X questa settimana, invitando i cattolici a «1essere solidali con i nostri fratelli ebrei». Sebbene non abbia condiviso il rapporto del NCRI, ha condiviso un saggio scritto dal cardinale Timothy Dolan di New York. Il saggio è stato pubblicato un giorno prima della pubblicazione dello studio del NCRI e rimproverava «coloro che sui social media si definiscono cristiani ma diffondono odio contro gli ebrei». La tempistica della pubblicazione dell’articolo solleva la questione se sia stato coordinato per amplificare il messaggio del NCRI.
One day before the NCRI report on Christ the King was released, an essay written by Cardinal Dolan was published on Bari Weiss’ website. It condemned “those on social media who call themselves Christians but spread hate against Jews.” That article has since been re-shared by the… pic.twitter.com/FJzE6DXP4Q
— Stephen Kokx (@StephenKokx) March 14, 2025
Da tempo Renovatio 21 aveva in cuore la stesura di un articolo intitolato «Basta con Jordan Peterson», per porre argine all’immeritata popolarità che l’ex accademico canadese ha in tanti ambienti conservatori e non solo. Solo chi non conosce la sua figura può essere colpito dal fatto che l’uomo che ha basato la sua fama sul rifiuto di sottomettersi al linguaggio altrui opponendosi ai pronomi gender all’università ora firma saggi per condannare chi usa una propria espressione religiosa.
L’espressione «Cristo Re» ha le sue radici nella Bibbia dove Gesù è detto Re (basileus), Re dei Giudei (basileus ton Iudaion), Re d’Israele (basileus Israel), Re dei re (basileus basileon) per un totale di 35 volte.
La regalità di Cristo,e la necessità di principi e governanti di sottomettersi ad essa, è ribadita consistentemente nell’enciclica Quas Primas del 1925 di Papa Pio XI : «non rifiutino, dunque, i capi delle nazioni di prestare pubblica testimonianza di riverenza e di obbedienza all’impero di Cristo insieme coi loro popoli, se vogliono, con l’incolumità del loro potere, l’incremento e il progresso della patria».
Va quindi considerata come pura spazzatura e manipolazione tutta la serie di video lezioni che il Peterson ha dedicato alla Bibbia e alla figura di Cristo, che riesce ad intendere, secondo la mentalità junghiana che emerge dal suo lavoro universitario, come simbolo, più che come realtà vivente ed eterna.
Renovatio 21, che lotta costantemente contro la piaga dell’uso degli psicofarmaci, ricorda anche come il Peterson mentre dava al mondo i suoi consigli per vivere meglio (con libri tradotti in italiano anche da Mondadori) in realtà assumeva benziodiazepine sino a divenirne dipendente. Sparito per un periodo dalla circolazione, si raccontò poi che i famigliari lo avevano portato in Russia e in Serbia per curarsi.
Di lì a poco sarebbe stato assunto dal Daily Wire, il gruppo mediatico dell’ebreo Ben Shapiro, che gestiva stelle di YouTube a fior di milioni di dollari (Stephen Crowder, che doveva entrare nel gruppo ma rifiutò, parlò di un contratto da 60 milioni di dollari), arrivando a finanziare persino la creazione di un polo cinematografico che si voleva alternativo ad Hollywood: da dove arrivassero tutti quei soldi, piovuti improvvisamente in ambiente conservatore, in molti se lo sono chiesti più volte.
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Uscito dalla crisi psicofarmaceutica e dall’università, il Peterson riemerse in un incredibile video in cui pranzava in Israele assieme a Ben Shapiro e al premier dello Stato Ebraico Beniamino Netanyahu. Osservando il video, si possono notare persone che mangiano sullo sfondo, a indicare che il video era stato concepito per sembrare il più casuale e naturale possibile (si può mangiare nella stessa stanza di Netanyahu, una delle persone più minacciate al mondo? Davvero?).
Già quel video faceva capire il disegno complessivo, che rivela una verità profonda e risalente: l’intero movimento conservatore è infiltrato dagli interessi di un etno-Stato, con le icone e le vedette intellettuali concupite e messe a libro paga (e forse, qualcuno sussurra pensando al caso Epstein, ricattate).
Il conservatorismo, ha detto E. Michael Jones (un altro che ha avuto i suoi problemi con ADL e compagni) è un meccanismo creato «per farti rimanere stupido».
L’industria culturale, anche ai tempi di YouTube, anche per la destra, funziona così: narcosi e manipolazione pura.
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Immagine di Rzuwig via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported; immagine tagliata e modificata
Pensiero
Ecco il reato di femminicidio. E la fine del diritto

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Pensiero
Ecco la fine del giornalismo. E l’inizio della propaganda neofeudale

Un lettore un giorno ha chiamato per significare il suo sostegno: era giusto, diceva, che aiutasse Renovatio 21, che gli arriva tutti i giorni aggratis, visto che pagava profumatamente l’abbonamento ad un noto quotidiano, considerabile come il più «indipendente» in circolazione.
Alla domanda su quale dei due, noi o loro, fornisse articoli più approfonditi sulla realtà presente, il lettore non ha esitato: noi.
Ora, alcuni si chiedono la differenza tra una testata indipendente come Renovatio 21 e una testata mainstream: ebbene, dietro ogni giornale tradizionale c’è una macchina grande come una montagna. Giornalisti, redattori e collaboratori, titolisti, correttori di bozze, grafici, direttori – e abbiamo solo iniziato. C’è chi stampa e chi distribuisce, chi tiene in piedi un sito (lavoro, lo sappiamo, non facile e costoso). C’è chi vende la pubblicità – una specie a parte, circolante nelle acque sempre meno profonde dell’editoria, una razza dai denti bianchissimi che ho imparato a conoscere a Milano tanti anni fa.
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Soprattutto, un giornale mainstream ha a differenza di qualsiasi «voce indipendente» come la nostra qualcosa di raro, rarissimo: un editore, o meglio, un editore con i soldi.
Perché mandare avanti la montagna e la sua macchina richiede una quantità di capitale assurdo, e visto che oggi il business di un giornale non è redditizio e nemmeno sostenibile, l’editore deve avere un qualche motivo non-economico per imbarcarsi nel mondo delle notizie. Niente di nuovo qui: i grandi giornali hanno storicamente dietro di loro imperi industriali e finanziari di vario tipo che vogliono, che devono, dare alle notizie uno spin che magari favorisca la loro esistenza: in Italia abbiamo visto gli Agnelli e i Berlusconi, ma non è diverso se pensate all’America dove il Washington Post lo ha comprato il padrone di Amazon (che era bersaglio di raffiche di articoli-denuncia sul concorrente New York Times) Jeff Bezos.
Ora, bisogna capire che l’editore con i soldi garantiva al giornale, al giornalista, oltre che uno stipendio (alcune volte pure buono) anche l’ulteriore elemento che rendeva necessario al giornalismo (oltre che alla civiltà, al progresso, alla giustizia, all’umanità), cioè la libertà di parola. La quale, come sa il lettore, non esiste in Europa, né tantomeno in Italia.
Dopo anni di Renovatio 21 lo sappiamo bene: come ti avvicini a certi argomenti, ecco che fioccano le lettere degli avvocati, minacce di ogni sorta, richieste di censura. Non è che ci stupiamo: è la dinamica fisiologica della finta democrazia, che altro non è che oligarchia: il potente si avvale dei suoi danari e contatti per mettere a tacere qualcosa che non vuole sia reso pubblico – e pubblicare a favore del bene comune ciò che dovrebbe rimane segreto è il compito del giornalismo.
Quindi, capite la vera funzione del giornale con dietro l’editore coi soldi: schermare il giornalista davanti alle richieste economiche devastatrici di chi ti denuncia. Tutto qua. Il giornalismo d’inchiesta, in pratica, non esiste senza un paperone dietro di esso. E chi mai vuole pubblicare una storia sconvolgente, sapendo che questa distruggerebbe per sempre la sua economia, la sua famiglia, la sua vita?
Benvenuti nella realtà: notate come scoop e rivelazioni, sulle quali poi si imbastiscono le narrative della cosiddetta controinformazione, sono portate avanti da giornali all’antica con alle spalle il gruppo editoriale solido. Tutti i canaletti Telegram, i sitarelli, i blogghini, i wannabe anchormanni che seguite su YouTube, almeno per quanto riguarda tante rivelazioni sul piano nazionale, sono di fatto parassiti del lavoro che fanno i giornalisti vecchio stile, spalleggiati da istituzioni e fondi che rendono possibile la difesa giudiziaria.
Ricordo ancora una serata – anzi oramai era notte – dopo un grande convegno organizzato anni fa da Renovatio 21 a fronte di un grande scandalo che ricorderete. A termine dei lavori, parlai con una giovanissima, brava giornalista di una grande testata che stava portando avanti il tema. Mi disse, in pratica, che era già stata denunciata dopo i primi articoli, e nemmeno da chi si aspettava, cioè dai protagonisti della vicenda, ma da un’ente che credo avesse citato solo di striscio. Le chiesi: ma non sei preoccupata? Lei rispose con semplicità: no, se ne occupa l’ufficio legale.
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Come dire: era davvero libera di scrivere quello che rilevava nella sua ricerca, condotta incontrando persone, scovando documenti, captando storie mentre era inviata nel territorio. Le querele, grazie alla schermatura, erano come rumore di fondo, un’evenienza quasi fisiologica del lavoro giornalistico. La noncuranza con cui sorvolava sul processo che poteva avviarsi mi stupì – e mi riempì di una sorta di bonaria invidia.
Sì, una questione organica, naturale, automatica: ho presente il sito dell’Ordine dei Giornalisti di una regione che, tra le pagina, ha anche un «SOS querele», in pratica una FAQ per il giornalista che finisce al solito denunciato da qualcuno. Ora, come questo sia compatibile con la tanto sbandierata «libertà di stampa» non è dato sapere, né come sia possibile che le leggi in Italia tendono a punire più severamente che si esprime contro politici e figure pubbliche, mentre quelle dell’Europa – dove comunque non esiste la libertà di parola, mettetevela via – attenuano, e rendono poi il risarcimento economico proporzionale alle possibilità del condannato (cosa che da noi invece non è).
Tutto questo per dirvi quanto consideri disperante la notizia battuta pochi giorni fa dal sito Dagospia e ripresa da Mowmag. Ci sarebbe una «cura dimagrante» in corso nei giornali del gruppo Angelucci – dominus della Sanità del Lazio, deputato della Lega Nord, personaggio verso cui confessiamo di avere simpatia visto il mondo in cui manda a quel Paese (diciamo così) i reporter microfonati che lo pedinano.
Angelucci, già editore di Libero, si è comprato dai Berlusconi anche Il Giornale. Voci dicevano che avrebbe avuto interesse anche per La Verità, mentre fece ancora più scalpore quando si disse che voleva acquistare l’AGI, l’agenzia notizie fondata dall’ENI. (Enrico Mattei, che nel 1956 aveva fondato pure Il Giorno, aveva compreso il summenzionato ruolo della stampa nelle dinamiche «democratiche» del padronato: decisamente)
Ora, scrive Dagospia, oltre ai tagli agli stipendioni come quello di Vittorio Feltri, sarebbero «previsti prepensionamenti a pioggia», «obbligo di strisciare il badge aziendale altrimenti la porta rimane chiusa (anche se il contratto giornalistico lo esclude)», «risparmio spasmodico per tutto: viaggi centellinati, gli inviati non vengono più inviati da nessuna parte (a meno che siano spesati e invitati da altri, immaginarsi che inchieste…) e tutti devono presenziare alla riunione del mattino dove Sallusti o non c’è o non dice una parola». In più non sarebbe «stato rinnovato neanche il noleggio dell’auto, concesso ai tempi di Paolo e Silvio Berlusconi».
Non siamo in grado di verificare l’indiscrezione, tuttavia possiamo anche dire che di questi dettagli non ci interessa nulla. È altro che ci fa sobbalzare.
Secondo la nota di Dagospia, ai grandi nomi dei due giornali «le spese legali sono ancora garantite per contratto, ma ai giornalisti no, tanto che un paio di cronisti hanno rischiato il licenziamento (per una querela)».
Viene buttato lì anche un elemento preciso «Filippo Facci, che ormai scrive per le pagine della cronaca di Milano, ha riferito in assemblea che si è dovuto pagare l’avvocato e una transazione economica da 30mila euro dopo una denuncia di un giudice antimafia».
Facci, per chi non lo conoscesse, è una delle penne più alte di cui dispone oggi il giornalismo italiano. Samurai del tardo craxismo, abbracciato quando era giovanissimo, a lui dobbiamo tantissime storie riguardo il vero volto di Mani Pulite. A lui dobbiamo la disamina precisa di azioni e trasformazioni della magistratura italiana. A lui dobbiamo inchieste eccezionali, che si sono susseguite nei decenni: ricordiamo quelle su Di Pietro, ma anche una, antica e profetica, sulla vita a Genova di Beppe Grillo prima che il suo partito sfondasse in Parlamento.
A Facci riconosco inoltre il fatto di essere l’unico, sia pur molto brevemente, ad aver accennato alla possibilità che una crisi degli oppioidi come quella americana possa scatenarsi nel nostro Paese.
Qualcuno può trovare Facci irritante, e in varie questioni dissentire con lui totalmente (è il caso dei vaccini). Bisogna capire però che senza una voce come la sua – cioè di un giornalista vero, un giornalista d’inchiesta – il discorso pubblico non può che morire. Nessuno dei compiaciuti canali della «controinformazione» può avere di che parlare, se prima non c’è qualcuno che, con le spalle coperte, si espone per tirare fuori la verità.
Se fosse vero quanto scrive Dagospia, dobbiamo chiederci se uno come Facci scriverà ancora, oppure, come detto, si occuperà solo della «cronache di Milano», magari nemmeno delle cose che gli piacciono come la classica alla Scala e le risse verbali con Fedez, perché ambo le cose potrebbero portare querele. Avvisiamo pure che la pagina Wikipedia inerente al Facci, al momento, risulta «bloccata», e scrive: «Attenzione: questa pagina è stata oscurata e protetta a scopo cautelativo a causa di una possibile controversia legale. Verrà eventualmente ripristinata alla fine della vicenda che la riguarda».
Per quanto mi riguarda, questa storia dei giornalisti privati della difesa legale del giornale rappresenta un elemento incontrovertibile della fine del giornalismo – o meglio, della sua trasformazione in senso neofeudale: da informazione a propaganda pure e semplice – più intrattenimento, cioè istupidimento.
Se il giornalista viene esposto al rischio della querela, non scriverà più nulla.
Se il giornalista non scava più, se le inchieste spariscono, l’informazione diviene puramente trasmissione alle masse delle volontà dell’oligarcato. I giornali (i siti, i TG, etc.) divengono puri imbuti che fanno colare i desiderata del potere sulla popolazione: uffici stampa, o nemmeno quelli, degli oligarchi. I quali oligarchi ora, a differenza dei tempi di Berlusconi-De Benedetti, magari non litigano nemmeno più (ordinandosi inchieste e campagne giornalistiche l’uno contro l’altro): sono tutti attovagliati al tavolone, e perché mai farsi la guerra? Perché mai desiderare un giornalismo fatto di ricerca della verità, e non di comunicati stampa misti a sciocchezze narcotiche?
Siamo preoccupati? Un po’, ma un po’ anche no. Con estrema cautela, e con estremo sacrificio, Renovatio 21 va avanti lo stesso – costi quello che costi.
Tuttavia il fatto rimane: fosse vero quanto scrivono, i segni della fine del giornalismo, cioè della fine di articoli che vale la pena di leggere, è dietro l’angolo, e minaccia sempre più di divenire un ingrediente del totalismo ultra-orwelliano che sappiamo essere avviato: Stato-partito, biosorveglianza, censura, financo vera e propria riforma del pensiero, cioè lavaggio del cervello universale.
Non cose di poco conto.
Per questo vi chiediamo di aiutare Renovatio 21 a continuare ad esistere.
Fatelo davvero. Perché dietro di noi l’editore paperone non c’è.
Roberto Dal Bosco
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