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Il discorso della Meloni, tra segnali di potere e catastrofe conservatrice

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Il discorso della Meloni alla Camera è stato il tripudio del conservatorismo arrivato al potere. I conservatori in quest’ora della Storia umana non sono d’aiuto, ma possono rappresentare un pericolo estremo. Una catastrofe.

 

L’intervento era puntellato poi di momenti che ci sono sembrati, più che dichiarazioni di intenti dei veri e propri segnali – segnali di potere, segnali al potere.

 

Chiariamo: l’abisso che separa il discorso della Meloni – che per quanto sbagliato, era netto, intenso, a tratti in grado di suscitare emozione – da quello di quando venne piazzato a Palazzo Chigi Draghi (ricordate?) è qualcosa che sconvolge: la politica torna alla politica, deo gratias. In effetti, uno che nel cognome ci ha enormi rettili sputafiamme non ha come attività principale di interfaccia con gli esseri umani il parlare, specie in Parlamento.

 

Chiariamo: non possiamo non condividere le parole, che vedremo come si trasformeranno in fatti, sulla possibilità di essere lasciati in pace dallo Stato, e dal fisco, con la pretesa da fantascienza che le tasse con il nuovo governo inizieranno ad essere pagata per ciò che si è incassato e non per ciò che è presunto e magari contestato dall’Agenzia delle Entrate. Vaste programme.

 

Al di là di questa piccola nota concreta che apprezziamo assai, che tuttavia poteva fare benissimo un premier di Forza Italia, anzi chissà quante volte lo ha fatto Berlusconi, senza poi portare a casa nulla (ed era Berlusconi, l’uomo più ricco e votato del Paese), tutto il resto di questa ouverture dell’Italia melonica crea in noi sgomento e talvolta rabbia.

 

Abbiamo sentito, in una interminabile ora di discorso, di tutto. Nella determinazione, nella grinta, nella rivendicazione (giusta, talvolta struggente) di essere arrivata in cima alla scala partendo dal sottosuolo, nel discorso alla Camera della prossima premier abbiamo sentito ribadito tutto il male che affligge le genti italiche – e da secoli.

 

Tra qualche luogo comune – Steve Jobs, Montesquieu, Papa Francesco che adesso la chiamerà come ha fatto con il Fontana – c’erano segni di grande chiarezza, o meglio, come dicevamo, proprio dei segnali.

 

Ci riferiamo, ad esempio, alle ripetute menzioni ottocentesche. Nella lista di donne che si sente di omaggiare per nome di battesimo, parte con una tale «Cristina», che definisce come dama di salotti: parla di Cristina Trivulzio di Belgiojoso, la «principessa rossa» che organizzò il processo di conquista della Penisola da parte della massoneria, cioè il Risorgimento. Tuttavia, il culto dell’unificazione voluta dai grembiulisti è qualcosa che la destra nazionale si porta avanti da decenni se non da un secolo, senza mai toccare l’argomento: difficile spiegarsi che gli stessi che «fecero» l’Italia sono parti della medesima forza che avrebbe poi escogitato l’Europa Unita, e che, oggi come allora, ci sta portando in guerra contro lo Zar.

 

Quisquilie, direte: ma no. Così come si conserva una storia del Paese che è una menzogna, la Meloni ha proseguito conservando l’Unione Europea stessa, che rinunzia a sferzare davvero, e che cita in continuazione. Il cambiamento, del resto, non è virtù dei conservatori. E l’unico cambiamento possibile, nei confronti di Bruxelles, e esattamente quello che ha avuto il coraggio di fare Londra con la Brexit, partendo perfino da una situazione dove il Remain era diffuso tra tutti i partiti.

 

 

No, non abbiamo sentito un progetto concreto, né nuovo: di nessun tipo. Il Paese è senza energia? Qualche modo di veicolare il concetto che, per evitare il collasso, magari gas e petrolio ce lo andiamo a prendere da qualche parte? Non un’idea nuova, tuttavia un’idea giusta, che magari qualcuno si aspetta da un partito con la fiammella nel simbolo. La Nazione, vuole quel sentire da cui quel fuoco arriva, non può contrarsi, deve espandersi… In effetti, ad un certo punto, il presidente Meloni sembrava, certo in modo socialmente accettabile per il mondo democratico dove si vuole essere ricevuti, voler andare a proprio parare proprio lì, e noi ci stavamo per emozionare.

 

«Enrico Mattei un grande italiano che fu tra gli artefici della ricostruzione post bellica capace di stringere accordi di reciproca Convenienza con azioni di tutto il mondo Ecco io credo che l’Italia debba farsi promotrice di un piano Mattei per l’Africa…» Ma vieeeni. Dai che salta fuori un’idea da applaudire davvero… «un modello virtuoso di collaborazione e crescita tra Unione Europea e nazioni africane». Patapumf. La catena scende di colpo. Nel momento più bello, ecco che torna l’Unione Europea. Con Mattei. Cioè, dobbiamo cercare idrocarburi in contesti nuovi, ma per portarli a Bruxelles, a benefizio poi delle «nazioni africane», che già a pochi anni dalla loro «indipendenza» erano già magari implose, e il cui contributo all’Europa della Meloni sono masse di immigrati che oramai in larga parte soggiornano da noi apertamente come parassiti grazie ai governi precedenti, compreso quello Draghi che Meloni ha ringraziato, e che possono rendere invivibile qualsiasi città del Paese.

 

Ecco: i discorsi di Zemmour, sul rimpatrio immediato dei migranti, non li abbiamo sentiti dalla Giorgia al potere. Né abbiamo sentito promesse per cui condomini e quartieri saranno liberati dalla fase manifesta del piano Kalergi, o rassicurazioni che almeno il magna-magna delle coop rosse che banchettano sugli afrogommonauti sia fermato domani stesso.

 

Abbiamo poi visto l’inchino, multiplo, verso Gerusalemme, cioè, verso Tel Aviv – si vede che ci voleva. Prima di arrivare direttamente alla parola «antisemitismo» verso la fine, in realtà prima aveva già settato il diapason: eccola che ti parla di radici giudaico-cristiane della cultura europea, e confermiamo una volta di più che non abbiamo idea di cosa significhi. Vuol dire che la nostra cultura deriva dagli ebrei? C’erano gli ebrei qui prima di greci, romani, etruschi, galli, germanici, venetici…? Oppure è quella storia che essendoci di mezzo il Nazzareno, che era nato in una famiglia ebraica, allora, bisogna dire così?  Gesù era giudaico-cristiano? In questo caso, quindi non è un pleonasmo dire giudaico-cristiano? Tipo romano-capitolino? Dottor medico? Formaggio-caseario? Gatto felino? Cocomero-melone?

 

Forse è che si tratta di un’espressione senza troppo senso, che non sia la manipolazione, o la segnalazione.

 

Avete capito: anche a questa latitudine, virtue signaling, peraltro di un termine che pensavamo dimenticato con la temperie neocon dei primi anni 2000. In effetti, in neocon ora sono tornati e minacciano di distruggere il mondo con le atomiche, quelle americane e quelle di Putin.

 

A proposito di Putin, ecco un altro segnale abbagliante: «l’Italia continuerà a essere partner affidabile insieme all’alleanza Atlantica a partire dal sostegno al valoroso popolo ucraino che si oppone all’invasione della Federazione Russa non soltanto perché non soltanto perché non possiamo accettare la guerra di aggressione la violazione dell’integrità territoriale di una nazione sovrana ma anche perché il modo migliore di difendere il nostro interesse nazionale».

 

Eccerto Giorgia, l’Ucraina è stata invasa dai russi, peraltro in terre che hanno appena votato per tornare alla Russia. Il «valoroso popolo ucraino», poi, è un agnello innocente: i 14 mila morti negli 8 anni di genocidio in Donbass sono una fantasia putinesca.

 

Eccerto, Giorgia, inimicandoci il nostro primo fornitore di gas, stiamo difendendo nel modo migliore «un nostro interesse nazionale».

 

La premier forse lo può capire: quello che è un segnale per chi sta sopra di lei, per alcuni italiani suona invece come una menzogna che la squalifica.

 

E non è la sola che ci vuole rifilare. Arriva l’ecologia, cita al volo il compianto Roger Scruton, re dei conservatori di Albione, dice che vuole proteggere l’ambiente. Anche lì, si vede che ci vuole: un segnale che andava mandato, e qui non si capisce neanche bene a chi: non alla Casa Bianca, ma a Greta? Non alla NATO ma all’ONU?

 

«Alla penisola servono investimenti strutturali per affrontare l’emergenza climatica e le sfide ambientali». Ma di cosa sta parlando?  Ah sì, dimenticavamo che, avendo mantenuto il ministero della Transizione Ecologica (pasticciando pure sulle nomine del ministro), questo governo ha segnalato a chi di dovere che alla minaccia ambientale ci crede proprio: dobbiamo cambiare tutto, industrie e consumi, per eco-transire, cosicché il tempo metereologico sarà clemente con noi.

 

Non percepire la menzogna infame qui è impossibile: lo sa chiunque, se non sarà la guerra, la prossima chiave con cui vi richiuderanno dove vogliono sarà l’ambiente. La Meloni, l’occasione che la destra italiana ha per finalmente fare in concreto per la Nazione, propala l’eco-mondialismo onusiano, che altro non è che la maschera verde sopra la Cultura della Morte.

 

Sento qualche lettore che ha votato fiddino che trasecola: ma insomma, cosa doveva dire?

 

Beh, un esempio materiale, recentissimo, ci sarebbe: la neoeletta premier dello Stato canadese dell’Alberta, che ha esordito chiedendo scusa ai non vaccinati per aver subito «la discriminazione più estrema mai vista».

 

Qui Giorgia ha dato speranza: ha, senza esagerare, criticato i lockdown e la gestione pandemica, sorvolando fischiettosamente su parole come «green pass» e «vaccino», e pure senza mai fare nomi, mentre Speranza era lì in aula che la guardava da dietro la FFP2. Ad una certa, ha perfino parlato di possibili indagini su quanto successo. Qualcuno può essersi esaltato: Norimberga 2.0, ci siamo grazie a Giorgia?

 

Diciamo che, avendo la Meloni nominato come ministro della Salute un membro del CTS, che in TV esaltava il green pass, parrebbe non essere esattamente così: e questo forse è un segnale incontrovertibile, peraltro ribadito in uno dei passaggi più allarmanti: «Purtroppo non possiamo escludere una nuova ondata di COVID  l’insorgere in futuro di una nuova pandemia Ma possiamo imparare dal passato per farci trovare pronti».

 

Eccallà, Giorgia l’ha buttata lì: e se come nel 2020 e nel 2021, tra l’autunno e l’inverno 2022 ripartisse tutto il circo? Siamo stati avvisati: il governo melonico già alza le mani – non esclude, ma è pronto. A fare cosa, non è dato sapersi. O forse un’idea purtroppo ce l’abbiamo.

 

Infine, vogliamo sottolineare il segnale più importante, che è stato quello.

 

Nella foga di dire «libertà» a raffiche continue, può capitare che salti fuori anche la libertà declinata come libertà di uccidere gli innocenti.

 

«La libertà è il fondamento di una vera società delle opportunità» scandisce con sicumera. «È la libertà che deve guidare il nostro giro agire libertà di essere di fare di produrre un governo di centrodestra non limiterà mai le libertà esistenti di cittadini e imprese. Vedremo alla prova dei fatti anche su diritti civili e aborto chi mentiva e chi diceva la verità in campagna elettorale su quali fossero le nostre reali intenzioni».

 

Una volta in più, eccoci: dopo averlo fatto dire alla sorella e al compagno, lo dice lei stessa nel momento più alto della sua carriera, nella sede e nel momento più solenne possibile: io sono favorevole all’uccisione di feti e embrioni. E velo dimostrerò.

 

Abbiamo già detto altrove di che cosa si tratta. Ci limitiamo qui a sottolineare che questo forse è il segnale più potente – e più limpido – dato in tutto il discorso. È quello che abbiamo chiamato l’inchino a Moloch. Ebbene, è stato ribadito oltre ogni ragionevole dubbio. Ci basta.

 

La nazionalista vuole la libertà per uccidere la nazione non-nata. La conservatrice, quella che vuole conservare le tradizioni e l’ambiente, vuole permettere di cancellare la vita, la cosa più preziosa che ha l’essere umano, che ha il Paese, senza la quale non esistono né tradizioni né ambiente.

 

Dobbiamo stupirci? No. Sappiamo cosa abbiamo dinanzi.

 

I conservatori sono, volontariamente o involontariamente, nemici dell’umanità – perché conservano questa società oramai irrimediabilmente compromessa dalla Necrocultura.

 

I conservatori conservano la Cultura della Morte che li sta uccidendo.

 

Il problema è che nel processo, rischiamo di essere ammazzati anche noi che conservatori non siamo e non saremo mai. E non solo noi: i nostri figli.

 

Noi e i nostri figli siamo la trasmissione della vita senza cui la Nazione (parola che viene da nascere) cessa di esistere.

 

Conservare ciò che cancella la vita è distruggere la Nazione. Essere conservatori oggi significa quindi propagandare la menzogna e la morte.

 

Questa è la vera catastrofe conservatrice.

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

 

Pensiero

Manifesto per un’Europa che metta le persone – e non la finanza – al centro della politica

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Renovatio 21 pubblica il comunicato del Comitato Internazionale per l’Etica della Biomedicina (CIEB).

 

Parere (n. 25): Per un nuovo Manifesto di Ventotene, per un’Europa che metta le persone – e non la finanza – al centro della politica 

 

Nel 1941, un gruppo di antifascisti confinati sull’isola di Ventotene redasse un documento, intitolato «Per un’Europa libera e unita. Progetto d’un Manifesto», che auspicava l’instaurazione di una «Federazione Europea» in grado di superare, assorbendola, la sovranità degli Stati continentali. (1)

 

L’idea alla base del «Manifesto di Ventotene» era, in sé, semplice: trasferire alla prevista Federazione Europea il nocciolo duro della sovranità statale, ossia le competenze in materia di politica estera e di difesa, lasciando agli Stati federati «l’autonomia che consenta … lo sviluppo di una vita politica secondo le peculiari caratteristiche dei vari popoli».

 

Il passo più decisivo nella direzione indicata dal Manifesto fu la firma a Parigi, il 27 maggio 1952, del Trattato che istituiva la Comunità Europea di Difesa (CED) e che prevedeva, a termine e secondo modalità del tutto originali, la creazione di un’ulteriore comunità europea, la Comunità Politica Europea (CPE): l’azione congiunta della CED e della CPE, unitamente a quella svolta dalla allora neocostituita Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio (CECA, 1951), avrebbe assicurato i pilastri politici ed economico-strategici su cui fondare l’edificio federativo prospettato dal Manifesto di Ventotene. (2)

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Tuttavia, il mutato assetto delle relazioni internazionali conseguente alla guerra di Corea (1950-1953), alla morte di Stalin (1953), alla sconfitta francese di Dien Bien Phu (1954), all’adesione della Repubblica Federale Tedesca alle organizzazioni di difesa europea (UEO) e atlantica (NATO) e alla creazione del Patto di Varsavia (1954/55), spinse gli Stati firmatari, e in particolare la Francia, a rinviare sine die la ratifica del Trattato di Parigi, con la conseguenza che né la CED, né la CPE videro mai la luce. 

 

Il fallimento della CED e della CPE segna di fatto il tramonto dell’ideale federalista europeo, perché, da allora, nessun altro trattato o accordo o dichiarazione d’intenti ha voluto o potuto resuscitare il progetto di Federazione Europea formulato dal Manifesto di Ventotene.

 

Quanto resta, oggi, di quell’ideale federalista è una organizzazione internazionale denominata Unione Europea – nata nel 1992 sulle ceneri della preesistente Comunità Economica Europea (CEE, 1957) – che, al di là delle dichiarazioni di facciata e della sua costante preoccupazione di presentarsi come tempio di pace e democrazia, è ben lontana dal promuovere il progetto di integrazione politica federale proposto dal Manifesto di Ventotene, limitandosi a perseguire la cooperazione monetaria strettamente funzionale al capitalismo ultra-finanziario e digitale promosso dalle élites globali: ossia, ciò che il Manifesto indicava espressamente tra le cause principali della «crisi della civiltà moderna». (3)

 

In questo senso, è sufficiente ricordare i passaggi del Manifesto che stigmatizzavano: «La formazione di giganteschi complessi industriali e bancari …(che premono)… sul governo per ottenere la politica più rispondente ai loro particolari interessi»; «l’esistenza dei ceti monopolistici e … dei plutocrati che, nascosti dietro le quinte, tirano i fili degli uomini politici per dirigere tutta la macchina dello Stato a proprio esclusivo vantaggio, sotto l’apparenza del perseguimento dei superiori interessi nazionali»; «la volontà dei ceti militari (di predominare)… su quella dei ceti civili, rendendo sempre più difficile il funzionamento di ordinamenti politici liberi»; infine, il fatto che «gli ordinamenti democratico liberali …(sono)… lo strumento di cui questi gruppi si (servono) per meglio sfruttare l’intera collettività».

 

Alla luce di queste affermazioni, formulate più di 80 anni fa e forse per questo dimenticate, il CIEB auspica che i cittadini europei leggano (o rileggano) con attenzione il Manifesto di Ventotene per valutare attentamente la distanza che separa questo documento, e gli ideali a esso sottesi, dalle proposte elaborate o commissionate da taluni apparati allo scopo di rilanciare l’immagine di un’Europa incrinata da un diffuso euroscetticismo perché sempre più mercato-centrica e, quindi, lontana dai cittadini. 

 

Alla luce delle affermazioni contenute nel Manifesto sarebbe opportuno leggere anche il «Rapporto sulla competitività europea», presentato in questi giorni da un ex premier italiano tra il plauso delle lobby industriali, delle istituzioni nazionali ed europee, della politica e dei media, che fa leva essenzialmente sulla riforma del mercato dei capitali e su maggiori investimenti nei settori – guarda caso – degli armamenti e delle infrastrutture digitali.

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Ma, al di là della scelta dei settori considerati prioritari, ciò che più colpisce del Rapporto, sotto il profilo etico, è la sua impostazione complessivamente volta ad anteporre gli interessi economico-finanziari rispetto a qualsiasi altro bene o valore, a cominciare dalla vita e dalla salute dell’uomo: basti rilevare che, per l’autore del Rapporto, il rilancio dell’Europa passa anche attraverso l’ulteriore semplificazione delle procedure di autorizzazione all’immissione in commercio dei medicinali per uso umano, quelle stesse procedure che hanno permesso di introdurre sul mercato un farmaco sperimentale – il cosiddetto vaccino anti-COVID – la cui rischiosità è da tempo ammessa pubblicamente dalle medesime aziende farmaceutiche che lo hanno prodotto e commercializzato, dagli enti di ricerca e dalle autorità regolatorie. 

 

Forse non c’è migliore esempio di questo per evidenziare il divario tra gli ideali e gli obiettivi dell’attuale Unione Europea e quelli enunciati dal Manifesto di Ventotene, il cui incipit era dedicato proprio al «principio di libertà, secondo il quale l’uomo non deve essere un mero strumento altrui, ma un autonomo centro di vita».

 

Evidentemente i tempi sono maturi per l’adozione di un nuovo Manifesto di Ventotene che formuli un modello di Europa i cui protagonisti siano realmente i cittadini e che metta definitivamente da parte quell’artificiosa costruzione che si fregia astrattamente del titolo di «unione europea» e che altro non è che lo schermo dietro cui si muovono le élites finanziarie globali.

 

 

CIEB

 

18 settembre 2024

 

NOTE

1) Per il testo originale del Manifesto, cfr. il sito dell’Istituto di studi federalisti «Altiero Spinelli»: https://www.istitutospinelli.it/download/il-manifesto-di-ventotene-italiano/

2) È utile ricordare che, a differenza della CED, che nasceva da un comune trattato internazionale, la CPE sarebbe stata creata da una vera e propria Assemblea costituente composta dai delegati degli unici organi internazionali che, all’epoca, rappresentavano – sia pure indirettamente – i popoli europei, ossia l’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (organizzazione internazionale nata nel 1949 e del tutto distinta dalle comunità europee di cui si parla nel testo) e l’Assemblea parlamentare della già citata CECA. Può pertanto affermarsi che il progetto CPE resta, nel quadro della storia delle organizzazioni internazionali, un esperimento assolutamente unico e, soprattutto, irripetuto: tutte le comunità europee che videro la luce negli anni successivi (CECA, CEE, EURATOM), come anche l’odierna Unione Europea (UE), sono nate in base alle vicende costitutive delle comuni organizzazioni internazionali, ossia mediante trattati internazionali negoziati, firmati e ratificati da organi statali secondo le rispettive procedure di diritto interno.

3) Cfr., anche per le citazioni seguenti, il capitolo 1 del Manifesto, citato alla nota 1.

 

 

Il testo originale del presente Parere è pubblicato sul sito: www.ecsel.org/cieb

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Pensiero

Sacerdote tradizionalista «interdetto» dalla diocesi di Reggio: dove sta la Fede cattolica?

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Ci risiamo.   A Reggio Emilia, ancora una volta, la Diocesi torna ad esprimersi su due sacerdoti che da qualche anno hanno preso residenza sulle colline di Casalgrande Alto, in un’altura che sormonta e si affaccia su tutto il panorama padano della provincia.   Il settimanale cattolico reggiano La Libertà, nella sua versione online, vero e proprio megafono della Diocesi, rende nota la vicenda riuscendo a sbagliare subito il bersaglio, ovvero pubblicando la foto di un castello presente a Casalgrande Alto e identificandolo, nella didascalia, come «sede della Città della divina misericordia». Peccato che quel castello non sia affatto la sede dei due sacerdoti.    Ma tornando ai due preti, trattasi di don Claudio Crescimanno e don Andrea Maccabiani, già da tempo saliti agli onori della cronaca locale e nazionale a motivo di quella che la stessa Curia ritiene essere una presenza, ma soprattutto un ministero, illecito e non autorizzato dalle gerarchie. 

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Cosa fanno di così strano questi due sacerdoti? In sintesi: si limitano a fare i preti, celebrano la Santa Messa, amministrano i sacramenti e assicurano una buona formazione cattolica a ragazzi ed adulti. Insieme a loro, in quella che potremmo tranquillamente definire un’umile dimora, ci sono alcuni animali facenti parte di quella che è un’azienda agricola gestita dagli stessi sacerdoti con l’aiuto di qualche laico.   Nessun clamore. Nessun profilo appariscente o volutamente polemico, sulle colline di Casalgrande si respira piuttosto un certo silenzio e uno stile di vita molto tranquillo, sia per i sacerdoti che per i laici che frequentano la piccola comunità sorta per un semplice e quanto mai pratico motivo – cercare ciò che nelle istituzioni ordinarie ecclesiali ora sembra mancare: la Fede cattolica.    Ebbene si sa che oggi, la categoria più detestata dalla gerarchia ecclesiastica, è proprio quella che nella semplicità della tradizione bimillenaria della Chiesa Cattolica, ricerca la Fede così come sempre è stata insegnata, attraverso il catechismo e la liturgia, quest’ultima vera e propria teologia pregata   Non potevano, a motivo di quanto appena accennato, passare inosservati due sacerdoti stanchi delle istituzioni ordinarie, stanchi di strutture senza Fede e liturgie protestantizzate («Signore io non sono degno di partecipare alla Tua mensa», recitano in coro tutti coloro i quali continuano a celebrare e a frequentare il Nuovo Rito, ignari, oppure no, di aderire ipso facto ad un protestantesimo velato sotto le mentite spoglie del cattolicesimo), giunti dunque davanti al bivio più importante della loro vita: stare con Dio e con la Chiesa, o prestare obbedienza a chi Dio lo mette sempre al secondo posto, o, addirittura, lo rende «il dio» di tutte le religioni.    Già, perché mentre la Diocesi di Reggio Emilia nei giorni scorsi stilava, per poi renderla pubblica magari anche con la lettura nelle chiese della provincia durante la Messa domenicale, la lettera che vede infliggere la pena dell’interdetto per don Claudio Crescimanno (per «interdetto» s’intende la pena che impedisce non solo di amministrare tutti i sacramenti, i sacramentali, di partecipare a qualsiasi forma di culto liturgico, ma anche l’impossibilità di ricevere ciascune delle cose elencate), papa Francesco a Giacarta, recando grande scandalo per la partecipazione ad un incontro interreligioso e la visita alla moschea di Istiqlal, non contendo, incontrando i giovani di Schola Occurrentes appartenenti alle più svariate «fedi» impartiva loro una «benedizione» interreligiosa, dove è mancato programmaticamente il segno della croce.   «Vorrei impartire una benedizione (…) Qui voi appartenete a religioni diverse, ma noi abbiamo un solo Dio, è uno solo. E in unione, in silenzio, pregheremo il Signore e io darò una benedizione per tutti, una benedizione valida per tutte le religioni». Forse per la prima volta, un papa ha benedetto qualcosa senza fare il segno della croce.   Nihil sub sole novum, è tutto già visto e rivisto in seno ai predecessori di Bergoglio, che in particolare da Assisi ‘86 in poi hanno consolidato la pratica — poiché la teoria fonda le sue radici nel Concilio Vaticano II e nei suoi stessi documenti — di un sincretismo da coltivare e, appunto, «benedire».    Nessun commento tuttavia su questa ennesima riprova di quanto la Fede cattolica da oltre cinquant’anni sia messa a forte rischio e abbia smarrito la retta via e la retta ragione, ma si trova piuttosto il tempo e la volontà di prendere seri provvedimenti verso due sacerdoti che sul cocuzzolo della montagna rispondono semplicemente alla richiesta dei fedeli che chiedono aiuto.   Suppliscono, cioè, alle mancanze dei tanti confratelli e degli stessi vescovi impegnati a riempirsi la bocca di parole come «unità», «comunione ecclesiale» e tanto altro ancora salvo poi minarla continuamente con il pieno appoggio o ancora peggio con il silenzio rispetto ad una chiesa ormai fondata su valori — o sarebbe meglio dire disvalori — che nulla hanno a che vedere con Cristo.   Sarebbe interessante, e pure molto avvincente, evidenziare tutte le possibili lacune e le imprecisioni presenti nel comunicato che vede infliggere la pena a don Crescimanno, ma non è questo l’intento. Vorrei qui invece sottolineare quella che io ritengo personalmente essere la totale impossibilità, secondo ragione e secondo logica, di ricevere, accogliere e ritenere queste pene valide. 

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Se è vero che riconoscendo l’autorità gli si dovrebbe riconoscere anche il comando e, quindi, l’eventuale divieto e pena, la situazione di grave crisi nella Chiesa obbliga vescovi, sacerdoti e fedeli ancora cattolici a scegliere sé obbedire ciecamente a guide che, seppur con il carattere di guide, sono guide cieche, oppure sé ricorrere ai mezzi opportuni per salvare l’anima e salvare anime.   Dio o gli uomini. La propria anima, le anime dei fedeli, o l’obbedienza sproporzionata e non ancorata alla Verità a chi non propone più i veri mezzi della Salvezza, non proponendo più, in sintesi, Gesù Cristo ed il Suo estremo Sacrificio sulla Croce, che si ripete in modo incruento sull’Altare.   La questione, aldilà di ogni discussione di diritto canonico, è più semplice che mai, e ci obbliga, non tanto per superficialità quanto piuttosto per capacità di cogliere le priorità, ad una scelta immediata per conservare la Fede, visto la grave crisi in cui da oltre mezzo secolo versa la Santa Chiesa, costringendoci ad invocare un altrettanto e quanto mai reale stato di necessità per tante anime in pericolo poiché senza veri pastori.    Davanti a questi reali fatti, davanti allo scempio che, nei contenuti identici a chi ha preceduto ma in una forma ancor più evidente e rapida, non c’è più spazio per mezze misure, non c’è più tempo per cantilene conservatrici, oramai sepolte come polvere sotto al tappeto, spazzate via seguendo la sorte di chi, stando sempre in mezzo, viene o ingoiato da una parte o sputato via dall’altra, seguendo le coordinate di Bussole rotte, Gruppi (in)Stabili e Timoni senza più un timoniere.    Oltre a quelle già presenti e strutturate, forse è tempo di piccole minoranze pronte a sorgere ed insorgere, per combattere la propria piccola battaglia al servizio di Dio.   Forse è il tempo di ricreare quel rapporto interrotto da quella diabolica rivoluzione francese, che come insegnava il compianto Agostino Sanfratello, aveva interrotto, per sempre, quel rapporto più semplice e più genuino fra clero e popolo, nelle campagne, nelle parrocchie vere.    Casomai il vescovo di Reggio Emilia, monsignor Giacomo Morandi, dovesse perdersi su un sentiero di montagna durante una camminata od un’escursione, troverà forse la consapevolezza che, cercando nuove vie potrebbe smarrirsi; tornando indietro, invece, sulla strada principale già percorsa, potrebbe ritrovare la giusta via.   Chi ha orecchie, intenda.    Cristiano Lugli 

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Geopolitica

Zakharova e le sanzioni ai media russi: gli USA stanno diventando una «dittatura neoliberista»

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Le ripetute sanzioni volte a limitare la libertà dei media russi negli Stati Uniti sono un segnale dell’erosione dei valori democratici a Washington, ha affermato la portavoce del Ministero degli Esteri, Maria Zakharova.

 

La portavoce ha rilasciato queste dichiarazioni all’agenzia di stampa RIA Novosti a margine dell’Eastern Economic Forum tenutosi mercoledì a Vladivostok, poche ore dopo l’introduzione di un nuovo ciclo di sanzioni da parte degli Stati Uniti.

 

Washington ha imposto severe restrizioni ai media russi in passato, ha osservato Zakharova. L’imposizione di queste nuove sanzioni «testimonia l’irreversibile degrado dello stato democratico negli Stati Uniti e la sua trasformazione in una dittatura neoliberista totalitaria», ha affermato, aggiungendo che i notiziari sono diventati una «merce di scambio nelle dispute di parte e il pubblico è deliberatamente tratto in inganno da insinuazioni su mitiche interferenze nei “processi democratici”».

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Gli attacchi ai media russi sono «il risultato di operazioni attentamente ponderate» pianificate dai servizi segreti e coordinate con i principali organi di informazione, ha affermato la Zakharova.

 

L’obiettivo, ha affermato, è «sterilizzare lo spazio informativo nazionale e, in futuro, globale da qualsiasi forma di opinione dissenziente». Questa nuova «caccia alle streghe» è volta a mantenere «la popolazione in uno stato di stress permanente», oltre a costruire l’immagine di «un nemico esterno», in questo caso la Russia, ha sottolineato la portavoce.

Mercoledì, i dipartimenti di Giustizia, Stato e Tesoro hanno annunciato uno sforzo congiunto per colpire con sanzioni e accuse penali i media russi, tra cui il noto notiziario governativo Russia Today, e gli individui che l’amministrazione del presidente degli Stati Uniti Joe Biden afferma essere «tentativi sponsorizzati dal governo russo di manipolare l’opinione pubblica statunitense» in vista delle elezioni presidenziali di novembre.

 

Queste azioni degli Stati Uniti «contravvengono direttamente ai loro obblighi di garantire il libero accesso alle informazioni e il pluralismo dei media» e non rimarranno senza risposta, ha affermato la Zakharova.

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Immagine di Diana Robinson via Flickr pubblicata su licenza CC BY-NC-ND 2.0

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