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Il pupazzo nero che vuole distruggere la Russia cala su Roma. Nel giorno di Fatima

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Non c’è che dire, è stato un tour de force eccezionale. Zelens’kyj arriva e di fila incontra tutti: il capo dello Stato, il capo del governo, e perfino il vertice della più grande religione organizzata della Terra.

 

Si è presentato con una mise in realtà nuova: è sempre un maglioncino militare, ma in una drammatica versione all black, lontana anni luce da quelle foto di quando era stato a Roma qualche anno fa da neopresidente votato perché protagonista di una fiction comica della rete TV di un oligarca, con la giacchetta, la camicia bianca e la cravatta scura che lo faceva sembrare un avanzo di TV scappato da un programma tipo Le Iene – beh, in fondo, a naso, non  proviene da un mondo troppo dissimile a quello di certa TV italica.

 

Il look dice moltissimo: ma perché mai dovrei tirarmi? Io sto facendo la guerra, loro no: farli sentire in colpa, e anche un po’ in soggezione, è una tecnica di marketing che funziona sempre per la mendicanza spinta.

 

Qualcuno ha trovato dell’altro: il maglioncino militare nero aveva impresso il tridente ucraino, ma nella versione in cui, pare, compariva anche nel simbolo dell’OUN, il movimento di nazionalisti integralisti di Stepan Bandera, collaboratore di Hitler nella pulizia etnica di ebrei e polacchi (i quali, entrambi protestarono veementemente quando né onorò la figura il governo filoamericano di Yushenko nel 2010) e creatore dello slogan «Slava Ukraini»: chi pensava che Bandera fosse una nota a piè di pagina nella storia del collaborazionismo, nemmeno degno di stare tra Quisling e Pétain, dovrebbe ricredersi dopo aver visto l’intero Europarlamento gridare lo slogan ucronazista.

 

(Sul neonazismo ucraino Renovatio 21 ha scritto tanto, ha approfondito con probabilità come nessuno: ci siamo anche rotti di indicare svastiche, sonnenrad e rune tedesche o slave, tanto dopo gli ultimi 25 aprile con le bandiere ucraine e quelle NATO non è rimasto più nessuno a scandalizzarsi per il ritorno dell’hitlerismo, anzi, sono lì a sbianchettare gli articoli della stagione prima, quando ancora si poteva…).

 

Il simbolo parrebbe proprio quello dell’ispiratore dell’Azov e compagnia. Il maglioncino banderista viene fatto sfilare accanto ai vertici dei vertici della Penisola.

 

 

 

Mattarella, che ricordiamo è del PD, e la Meloni, che ricordiamo è di FDI, concordano stupendamente: appoggio totale al regime di Kiev contro la Russia di Putin, oltre a già quello che abbiamo fatto – tipo donare via i SAMP-T della nostra antiaerea, lasciandoci ogni giorno più sguarniti.

 

Con il papa, abbiamo appreso, è andata diversamente. Lo abbiamo dovuto apprendere nelle ore della surreale trasmissione di Bruno Vespa, che ha approntato uno studio nel terrazzo del Vittoriano (!), l’altare della patria italiana, dove si ricorda, in teoria, il sacrificio degli eroi nazionali.

 

Ora invece c’è Zelens’kyj, il cui rapporto con Vespa non è ancora del tutto spiegato – fu il Bruno, si disse, a creare il contatto per farlo parlare a Sanremo, prima che la cosa sfumasse, come gli si è chiusa anche la finestra dell’Eurovision questa settimana, e non si sa se tornerà tra il fango rock di Glastonbury e neppure è noto quanti Parlamenti ancora si faranno infliggere le sue irose questue in teleconferenza (israeliani, kenyoti, messicani, qualche greco avevano già detto basta l’anno scorso).

 

«Con tutto il rispetto per Sua Santità, noi non abbiamo bisogno di mediatori, noi abbiamo bisogno di una pace giusta», dice l’ucraino. L’unico piano di pace è solo quello «ucraino», e il papa deve «unirsi alla sua attuazione».

 

Insomma, con il papa non è andata: Bergoglio – e lo dice, tra gaffe irrecuperabili, da mesi – vuole negoziare, ma non c’è nulla da negoziare, dice l’omino nero a quello bianco: se voleva il  compromesso, l’attore comico divenuto presidente si sarebbe tenuto l’accordo con Putin già raggiunto nell’aprile 2022, a pochi giorni dall’inizio della guerra, ma dopo la visita di Boris Johnson la pace, misteriosamente, saltò…

 

No, il puparo del pupazzo ucraino non vuole accordi, né compromessi, né vuole la pace. Vuole la distruzione della Russia.

 

La questione è che lo hanno detto, apertis verbis, in ogni modo. Il fine della guerra «fino all’ultimo ucraino» – e risponderanno a Dio della quantità di giovani ucraini gettati nella fornace del niente – è la fine della Russia così come la conosciamo, la fine di Putin, il «regime change» a Mosca, dicono. Come per Saddam – una grande campagna con risultati mirabili – solo fatto per interposta persona.

 

A Roma, tra il Quirinale e San Pietro, si è aggirato quindi un uomo che vuole l’annientamento della Russia – proprio il 13 maggio, ossia nel giorno in cui il cattolicesimo ricorda le apparizioni di Fatima. Che, come sa il lettore, sono enigmaticamente, letteralmente legate alla Russia.

 

«Verrò a chiedere la consacrazione della Russia al Mio Cuore Immacolato e la Comunione riparatrice nei primi sabati. Se accetteranno le Mie richieste, la Russia si convertirà e avranno pace; se no, spargerà i suoi errori per il mondo, promuovendo guerre e persecuzioni alla Chiesa. I buoni saranno martirizzati, il Santo Padre avrà molto da soffrire, varie nazioni saranno distrutte. Finalmente, il Mio Cuore Immacolato trionferà. Il Santo Padre Mi consacrerà la Russia, che si convertirà, e sarà concesso al mondo un periodo di pace».

 

Queste le parole di Nostra Signora ai pastorelli portoghesi, con conseguente fenomeno sconvolgente della «danza del sole», visto da migliaia e migliaia di persone accorse, tra cui molti quadri massonici lusitani, che finirono, ovviamente, convertiti.

 

I pastorelli non avevano idea di cosa fosse la Russia: credevano fosse una signora. Il XX secolo, invece, comprendeva benissimo di cosa si trattasse.

 

Ora, per non fare un corso accelerato di mistero fatimita, ricordiamo che nessuna delle consacrazioni tentate negli anni – compresa l’ultima, bergogliana dell’anno scorso, con quella preghiera grottesca – pare aver voluto seguire i semplici dettami della Vergine e consacrare la Russia al Suo Cuore Immacolato. Hanno consacrato, negli anni, tutta l’umanità, l’intera famiglia umana, etc. Monsignor Balducci aveva contato ben sette consacrazioni, nessuna delle quali fatta secondo quanto detto dalla veggente Suor Lucia.

 

La mancata consacrazione che perdura nei decenni e oramai nei secoli è un enigma in sé, verso il quale siamo più che tentati di togliere lo sguardo.

 

Avevamo riportato su Renovatio 21 le confessioni davanti a un boleke (boccale di birra fiamminga) rilasciate all’epoca dal fatimita padre Kramer, che raccontava che in una visita in Vaticano Putin avesse detto a Bergoglio che voleva parlare di Fatima, ma il pontefice gli avrebbe detto che no, non ne avrebbero parlato.  Aggiungeva che in quel momento un famoso cardinale rimirando nei giardini vaticani una statua della Beata Vergine dell’apparizione portoghese in compagnia di un agente del servizio segreto militare russo gli avrebbe detto: «noi distruggeremo Fatima». Una storia non verificabile, e piuttosto difficile da credersi, datata ormai un decennio fa.

 

Tuttavia, Fatima torna ancora, anche in questo 2023.

 

Il giorno di Fatima scende a Roma un uomo che vuole spazzare via la Russia. Non parliamo solo dei discorsetti riguardo al «controllo globale» delle atomiche russe e al «contrattacco nucleare» contro Mosca, né del fatto che la dichiarata volontà di acquisire armi atomiche è citata (certo non dai nostri giornali e politici) tra i motivi dell’operazione militare speciale russa.

 

Non parliamo nemmeno solo degli ulteriori documenti dei Pentagon Leaks usciti in queste ore, con Zelens’kyj che vorrebbe attaccare la Russia interna, occupare villaggi, attaccare (anche) il gasdotto Druzhba («amicizia», in russo) che porta il gas russo fino in Ungheria, di modo da mettere in ginocchio il filorusso Orban e la sua industria – con il piccolo dettaglio che Budapest è nella NATO, e quindi, secondo l’articolo 5 l’intero Patto Atlantico dovrebbe scagliarsi contro Kiev.

 

Sapete bene, come lo sa la banda ucraina, che non accadrà mai: lo abbiamo già visto, pragmaticamente, quando per qualche ragione inspiegabile un missile ucraino è finito in Polonia – altro membro NATO – uccidendo delle persone. E niente, la fanno sempre franca, anche quando ammazzano i loro negoziatori, torturano e trucidano i prigionieri di guerra, irreggimentano personale apertamente neonazista. L’immagine del bambino viziato, il comico in maglioncino, ce l’ha – e ci torna in mente la voce che faceva quando doppiava l’orso Paddington.

 

No, non è questione di dettagli storici recenti e attuali. È questione di un odium immortale antirusso, un pezzo di metastoria, che attraversa i secoli e attori vari come la Corona inglese, i neocon americani (che sono tutti provenienti da famiglie ebraiche scappate dallo Zar…), e ora, per procura, la banda di Kiev e i loro vicini fomentatori polacchi e baltici.

 

Il conflitto contro la Madre Russia va al di là del Grande Gioco dell’Ottocento e del contenimento dell’URSS nel Novecento, degli Zar e dei tiranni comunisti. Rimane, nella sostanza, invariato. Perché ancora nella meta-storia, perché «superstorico», perché – come è scappato a Medvedev qualche giorno fa – «eterno».

 

E leggendo questo enigma non può tornare a risuonare Fatima e i suoi frammenti. La Russia. La catastrofe mondiale. La sofferenza. Il Suo Cuore Immacolato…

 

A sentire il bisogno di camminare fino ai piedi del mistero russo-fatimita era stato, oramai lustri fa, un politologo e storico italiano, Giorgio Galli, che nel 2008 diede alle stampe un libro con un titolo che in questo giorno ci pare profetico: La Russia da Fatima al riarmo atomico.

 

Galli, che è stato insigne professore della Statale di Milano nonché uno dei massimi storici dei partiti europei, aveva maturato negli anni una visione completamente originale, nella quale cominciava a mostrare nella storia della politica una traccia costante fatta di elementi esoterici, mistici, spirituali, soprannaturali e preternaturali.

 

(Lo avevo sentito al telefono grazie ad amici comuni. Rimanemmo che gli avrei mandato delle domande sul lato esoterico della DC via lettera, lui comunicava così. Morì poco dopo, la busta già chiusa mi rimase in mano: è uno dei grandi rimpianti che ho).

 

Negli anni Settanta già aveva cominciato a dare una visione dirompente del maoismo e del ruolo della Cina; era tra i pochi storici che ho sentito  citare Arnold Toynbee, e tra i pochissimi che invece parlavano di Carroll Quigley (il maestro di Clinton, un professore divenuto tabù nell’editoria e fuori per aver spiegato, in un momento di lucidità, come vanno davvero le cose nei piani alti del potere globale).

 

Negli anni Ottanta e Novanta diede vita ad un lavoro imponente sulle radici occulte del nazismo. Poi, con gli anni Duemila, ecco che, a differenza degli altri che guardavano alle Torri gemelle e al Medio Oriente in fiamme, lui torna a guardare, con anticipo colossale, alla Russia… e a Fatima.

 

Perché era inevitabile, per qualcuno che riconosceva apporti, come dire, «extra-umani» nel progredire della Storia, che finisse dalle parti della profezia della Madonna che parlava della Russia. A questa potenza in via di rinascita, sembrava pensare ancora quello che Galli chiama l’«esoterismo cattolico», che invece è la normalissima credenza del fedele vissuta lontana dai «cattolici adulti» e dal loro disincanto tossico.

 

I cattolici, scrive il politologo, paiono ossessionati da questa apparizione, In particolare il papa polacco. ecco ricordato che «il 13 maggio, anniversario di Fatima, Papa Wojtyla veniva seriamente ferito da un attentato». Secondo la nota tesi, «si voleva uccidere il Papa (o almeno intimorirlo) perché non facesse più sentire il suo peso all’Est».

 

È la pista della mano bulgara, cioè russa, dietro ad Ali Agca. Eccoci: quarantadue anni fa esatti, il 13 maggio, c’era Agca – oggi c’è Zelens’kyj. In ambo i casi la Russia è implicata, come carnefice o come vittima.

 

Negli anni in cui Galli scriveva questo libro, il mondo era distratto. Ignorato dai più. qualcosa di enorme stava avvenendo con Putin. La Russia stava tornando forte. La Russia si stava «riarmando». Con, sempre presenti, le atomiche.

 

«Oggi la Russia si sta rafforzando “sullo scacchiere euro-atlantico”, denuncia gli accordi per limitare gli armamenti, accresce il suo potenziale atomico» scriveva Galli, che ad occhio non aveva simpatia per Putin (oltre a non essere cattolico). È finita l’era dell’indebolimento, gli anni alcolici di Eltsin e degli oligarchi rapaci. «La situazione economica è migliorata dopo il 2004, la Russia si presenta come più forte anche per il riarmo atomico; e questo assicura a Putin un consenso, sia pure manipolato….» (p. 131; p.231).

 

La Russia degli anni Duemila, scrive Galli, partecipa ad una «seconda corsa alle armi atomiche», con «l’annuncio delle ricerche russe per nuovi testate nucleari, segnalando il rischio di una nuova corsa al riarmo» (p.235).

 

In questi mesi lo abbiamo visto. Putin ha parlato di un’Europa «trascinata in una guerra nucleare», e di avere a disposizioni «strumenti che nessuno ha». Qualcuno l’abbiamo visto: i missili ipersonici, che, dopo settanta anni di equilibrio, mettono fine alla dottrina della deterrenza tra le superpotenze atomiche. Del drone Poseidon, e della sua capacità di sommergere la Gran Bretagna e chissà quanto delle coste statunitensi tramite tsunami radiattivi alti 500 metri, abbiamo solo sentito parlare, e non sappiamo distinguere la propaganda fantascientifica dalla realtà fattuale.

 

Nel giorno di Fatima, il rompicapo russo è da vertigini. Eppure non è lontano, si sta dipanando dinanzi ai nostri occhi.

 

Dai tempi di Agca la posta in gioco si è alzata enormemente: la profezia non sembra più essere solo la sofferenza del Santo Padre, ma la catastrofe che si abbatte sull’intera umanità.

 

Vediamo l’omino ucraino, il pupazzo dello Stato profondo angloide e dei suoi demoni, che varca vestito di nero le porte del Vaticano, si siede (prima del papa), gli intima di aderire al suo piano di attaccare e distruggere quella Nazione di cui la Vergine aveva chiesto la conversione al Suo Cuore Immacolato.

 

Sono immagini che sembrano tratte da un romanzetto moderno sull’anticristo, scritto anche senza troppa fantasia, pulp fiction da fondamentalisti protestanti.  Eppure è la realtà, gentilmente offertaci dai nostri leader a sovranità limitata, e accettata ciecamente dalla gerarchia cattolica oramai cieca e corrotta.

 

Ammettiamo di non avere voglia di unire ulteriori puntini.

 

Ammettiamo di non avere idea di come si esca da questa cosa.

 

Io adesso smetto di scrivere, e dico un’altra Ave Maria. Ho ascoltato, poco fa, mio figlio che recitava la preghiera alla vergine. Ho ammirato ancora una volta la purezza che trasmette questo bambino, in ginocchio con le mani giunte e gli occhietti chiusi, mentre la vocina incespica sul latino.

 

È lui, innanzitutto, che devo difendere in queste ore in cui abbiamo l’immagine plastica dell’umanità minacciata, e della catastrofe materiale e metafisica che incombe su di noi. È quella purezza, quella dolcezza che dobbiamo proteggere, ad ogni costo – anche nell’ora in cui l’ombra dello sterminio termonucleare è sopra di noi come mai prima.

 

È proprio il manto della Vergine che dobbiamo ottenere, per rifugiarci, per permettere che la vita dei nostri bambini – cioè la continuazione dell’Immagine di Dio – continui.

 

Quindi, eccomi di nuovo: Ave Maria, gratia plena…

 

Fatelo, vi prego, anche voi.

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

 

 

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Festa della Repubblica a sovranità limitata. Senza Silvio Berlusconi, le «sue» crocerossine e la Pax eurasiatica

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Oggi l’Italia celebra pomposamente la nascita della Repubblica. Sono 76 anni.

 

La «democrazia» nostrana è quindi giovane, giovanissima. Pensate che quella americana ha 246 anni – quasi un quarto di millennio. Alla faccia degli yankee senza storia: una forma sociale mantenuta integra per così tanto tempo fanno di Washington giustamente la Nazione guida delle cosiddette «democrazie» occidentali e non.

 

Cioè, vogliamo dire: la «sovranità limitata» – che mica è solo italiana, è tedesca, è giapponese, etc. – ce la meritiamo, visto che abbiamo non solo perso la Guerra, ma anche voluto giuocare al giuochino della democrazia.

 

Il lettore sa che Renovatio 21 porta avanti una visione storica precisa, abbastanza inedita a dire il vero, per cui il partito che si impossessò del Paese dopo il 1945 fu preparato, ideologicamente (con la diffusione delle idee di Jacques Maritain) e pragmaticamente da acute forze americane, che necessitavano di una qualche forma di Stato partitico che riuscisse a mettere radici presso un popolo che repubblicano e democratico non lo era stato mai: nacque così la Democrazia Cristiana, che per quanto ci riguarda è un ossimoro già nel nome, una contradictio in adecto, perché Cristianesimo e democrazia mai hanno avuto qualcosa a che fare se non negli alambicchi di chi ci ha inflitto il quadro presente.

 

Il lettore di Renovatio 21 sa pure che qui spingiamo assai per un riconoscimento definitivo a James Jesus Angleton, poetica altissima mente dei servizi americani, cui va riconosciuto l’enorme contributo alla creazione dell’Italia repubblicana – magari pure con qualche «spintarella» durante il referendum Monarchia versus Repubblica.

 

Purtroppo, ci troviamo con tanti viali Mazzini, piazze Mazzini, più oscuri e magari effettivamente impresentabili «eroi» del Risorgimento (c’est-à-dire, la conquista della Penisola da parte della massoneria), e neanche un accenno toponomastico all’Angletone.

 

È per pudicizia, immaginiamo. Questa cosa della sovranità limitata, che una volta, ai tempi del PCI, si poteva pure dire liberamente, deve ancora impensierire chi regge il teatrino: attenzione, che non si scopra che Roma è vassallo di Washington, di Foggy Bottom, di Langley, di Bruxelles – nel senso non solo della UE, ma soprattutto della NATO, che casualmente ha sede proprio nella capitale belga.

 

Non è che i vertici dello Stato stiano facendo qualcosa per farcelo dimenticare.

 

«Ad oltre un anno di distanza, la Repubblica Italiana, insieme alla comunità internazionale, è ancora impegnata a contrastare l’aggressione condotta dalla Federazione Russa al popolo ucraino» scrive il presidente della Repubblica Italiana Sergio Mattarella in un messaggio inviato al Capo di Stato Maggiore della Difesa, l’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone.

 

«L’Italia è fermamente schierata per la difesa della sua libertà, integrità territoriale e indipendenza, perché non vi sia un futuro nel quale la forza del diritto viene sostituita dal diritto del più forte. Una ordinata comunità internazionale non può che basarsi sul rispetto di questi principi».

 

Il 2 giugno come volano per la guerra di Zelens’kyj. Vabbè, forse non poteva andare diversamente.

 

Poi il messaggio va avanti. «Libertà, uguaglianza, solidarietà, rispetto dei diritti dei singoli e delle comunità sono pilastri fondamentali della nostra Carta costituzionale» scrive il presidente. È innegabile che quando sentiamo parlare di «diritti dei singoli» scivoliamo nel pensiero che ci stiano parlando di LGBT (o meglio, «2LGBTI+»), oppure, al massimo, del feticidio di Stato, o le masse importate dall’Africa, cose così.

 

Se ti parlano di «libertà, uguaglianza, solidarietà», stai tranquillo che non sta per partire un mea culpa sul green pass, l’apartheid biotica, le persone ridotte alla fame perché renitenti alla siringa mRNA e al suo sistema di sorveglianza cibernetico biosecuritario.

 

Ma vabbè anche qui. Non che ci aspettassimo altro. Del resto, quello è stato un apice della storia repubblicana, quello in cui si è dimostrato il valore degli organi della Repubblica, della Costituzione, delle forze dell’ordine e pure delle forze armate (memento generale Figliuolo!)

 

Poi però arriva lei. Sempre più fotogenica, sembra Emma Stone in una commedia hollywoodiana sbarazzina, è a tratti elegante, il tacco è portato con grande esperienza.

 

«Niente che si chiami pace può essere scambiata per invasione. C’è una Nazione aggredita ed un aggressore», ha detto il primo ministro Meloni a margine della parata ai Fori Imperiali.

 

Certo che c’è: c’è una pulizia etnica durata otto anni, quella contro i russi del Donbass, che evidentemente si è dimenticata anche donna Giorgia, come i tantissimi sottoposti al lavaggio del cervello occidentale.

 

C’è un’organizzazione, quella del Trattato del Nord Atlantico, che sta circondando la Russia – perfino, da dietro, nel Pacifico, con Giappone e Corea che stanno entrando) con la più grande forza militare della storia (Putin dixit), dotata di potenza termonucleare distribuita in vari Paesi.

 

C’è una dirigenza, quella USA, che non fa mistero della sua volontà di praticare un regime change a Mosca, anzi vuole proprio smembrare la Russia, fare uno spezzatino del più grande Paese del mondo (e il più ricco di ogni ben di Dio di risorsa), terminare lo Stato-civiltà millenario resistito ai mongoli e a Hitler – al prezzo di decine di milioni di morti.

 

Bisogna capire la giovane premier: quanto durerebbe, se non dicesse così? Quanto potrebbe andare avanti se dicesse la verità? La verità, diceva Nostro Signore, ci renderà liberi: e quindi, sentire vivere in una Nazione di menzogna ci fa capire che siamo schiavi, pardon, «a sovranità limitata».

 

Ci tocca tornare, ancora una volta, a rimpiangere quello che è tecnicamente ancora il leader di un partito impresentabile ed invotabile. Perché qui, alla fine, non c’entra la politica, c’entra la qualità intima dell’uomo, la sua anima, oseremmo dire.

 

Rammenta, o lettore, il tempo in cui la notizia della parata del 2 giugno non erano proclami di alleanza con un regime sanguinario e spietato: no, era il fatto che Silvio Berlusconi allungava gli occhi sulle crocerossine che sfilavano, e pure applaudiva felice rimirandone le forme.

 

Ricordate? Quanta innocenza. Quanta leggerezza, quanto umorismo, quanta vita c’era in quei momenti – che pure facevano schiumare di rabbia i giornali del gruppo De Benedetti (ora Agnelli), gli stessi che oggi cantano le gesta di Battaglione Azov ed affini e sbianchettano via da Internet i vecchi articoli sull’ucronazismo.

 

La sinistra, cioè l’opinione pubblica di intere classi parassite drogate dai loro circuiti mediatici, impazziva dall’ira: forse perché Silvio, implicitamente, sembrava non rivendicare un diritto LGBT, ma vivere secondo la legge naturale eterosessuata. (La questione è analizzata in varie battute e barzellette che circolavano, alcune fatte dallo stesso interessato e perfino da Vladimir Vladimirovich Putin)

 

E se proprio vogliamo vederci la politica, bisogna ricordare che con il Berlusconi si andava molto oltre alla politica, si volava verso la grande geopolitica, o addirittura la superpolitica, la metapolitica.

 

Berlusconi aveva posto le basi per quella che di fatto era un Pax eurasiatica: ogni conflitto con la Russia era stato neutralizzato da Pratica di Mare (un accordo Russia – NATO: fantascienza pura, oggi) e dall’amicizia innegabile fiorita con Vladimir Putin.

 

Si erano imbastite cooperazioni immense tra il nostro Paese e Mosca. C’era il gas, diligentemente consegnato dai russi a prezzo accessibile e senza sorprese. C’erano collaborazioni in ambito aerospaziale – un tema caro all’attuale ministro della Difesa Crosetto, quello che adesso è in prima fila nel ringhiare alla Russia (prendendosi, di conseguenza, qualche parola da Medvedev).

 

Il mondo, in quei due giugno delle crocerossine procaci, era diverso. Anche, e soprattutto perché erano ancora vivi decine, forse centinaia di migliaia di ragazzi ucraini, e russi, che sono stati sacrificati sull’altare del niente al fine di far crollare per sempre la pace in Eurasia.

 

Non ci resta che dirlo, e con immensa amarezza, e nostalgia.

 

Aridatece Silvio Berlusconi. Aridatece la Pax eurasiatica, lo sviluppo e la prosperità, la joie de vivre.

 

Ridateci la Vita contro la morte!

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

 

Immagine della Presidenza della Repubblica Italiana via Wikimedia; fonte Quirinale.it

 

 

 

 

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Leggere Dostoevskij per comprendere il presente (e anche il futuro)

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Lo spettacolo indecoroso cui stiamo assistendo non è inedito, anche perché i suoi ingredienti fondamentali ne fanno solo una replica – con qualche sostituzione degli attori nelle parti secondarie – di quello a cui assisteva con sconsolata lucidità Dostoevskij, e che annotava nel suo Diario.

 

Aveva sotto gli occhi l’ingrossarsi come un fiume in piena della «questione d’Oriente». Quando cioè centinaia di migliaia di cristiani venivano massacrati nella indifferenza delle potenze occidentali concentrate nell’accaparramento di propri vantaggi territoriali dalla dissoluzione dell’impero turco, e quindi quasi ansiose che la pulizia etnico religiosa fosse portata a termine, quale arma di contenimento della Russia. Questa, infatti, una volta tolto di mezzo l’Impero Ottomano «si getterà sull’Europa e ne distruggerà la civiltà».

 

«Si mentiva spudoratamente su tutto, allo scopo di eccitare all’odio le masse del popolo non contro i massacratori musulmani, ma contro il presunto imminente nemico».

 

Così come oggi, per bocca di mentitori seriali televisivi, la guerra travestita e preparata dagli Stati Uniti su una terra di confine, per avviare la guerra contro la Russia, capovolge fatti e responsabilità.

 

«E per di più in Europa si negano i fatti», scriveva il nostro autore, «li si smentiscono nei Parlamenti, non si crede, si fa finta di non credere: no, non è successo, è esagerato, sono loro stessi, i bulgari, che hanno trucidato sessantamila dei loro per accusare i turchi». Forse prendendo spunto dal memorabile «Eccellenza, Lei si è frustata da sé» che si legge nell’Ispettore generale di Gogol’.

 

Lo stesso paradosso che non solo viene servito con imperturbabile sfrontatezza dai cucinieri occidentali e dai loro alleati ad est, ma anche digerito beotamente dalle moltitudini teleemancipate. Non per nulla, e per l’eterno ritorno dell’uguale, a queste, comprese forse anche quelle tedesche, è apparso subito evidente che, con straordinario slancio autopunitivo, anche i gasdotti siano stati messi fuori uso dai legittimi proprietari, come le popolazioni russofone del Donbass si siano state autoperseguitate e uccise nel corso di quasi un decennio. Tutti del resto conosciamo una vecchia metafora un po’ scabrosa su certe possibili vendette coniugali autolesioniste che è sconveniente citare per esteso.

 

In quei fatti Dostoevskij ravvisava «l’ultima parola di una civiltà dopo diciotto secoli di evoluzione, di tutta quella umanizzazione del genere umano per cui l’Europa ha distrutto il commercio dei negrieri e il dispotismo, ha proclamato i diritti dell’uomo, creato la scienza, celebrato l’anima umana con l’arte, promesso agli uomini giustizia e verità, per poi voltare le spalle ai cristiani massacrati per ordine del sultano».

 

Del resto, vale la pena di ricordare come qualche decennio dopo quei fatti, con lo stesso cinismo, gli evoluti occidentali abbiano voltato le spalle anche di fronte al genocidio armeno sul quale rimane steso a distanza di più di un secolo un imbarazzante e imbarazzato silenzio, a fronte del clamore attivato su quello hitleriano, almeno finché il suo ricordo è tornato utile. Infatti, ora anche Auschwitz rischia di tornare in penombra perché, se da un lato i tedeschi hanno interiorizzato la colpa fino a cambiare pelle, mettere da parte ogni orgoglio e memoria identitaria, per adattarsi infine anche alla nuova povertà energetica ed economica, dall’altro il nuovo nazismo ucraino a uso e consumo angloamericano viene alimentato e potenziato in vista di una nuova ma da sempre vagheggiata operazione Barbarossa.

 

È il nazismo esibito impunemente sul petto da un signore in visita al vescovo di Roma insieme a un plotone di commilitoni in tuta mimetica, secondo la nuovissima etichetta approvata dalla Segreteria di Stato Vaticana. Una aggiornata etichetta nazionalpopolare che ha esteso il bianco, riservato da secoli alle regine cattoliche in visita al pontefice, anche a quelle delle borgate romane rappresentate per competenza territoriale dalla disinvolta signora Giorgia.

 

Ma leggiamo ancora nel Diario«da che deriva tutto ciò? Perché non si vuol vedere, sentire, e si mente? perché si getta del fango su se stessi? È perché c’è di mezzo la Russia. Infatti, la Russia disturba, è colpevole di essere la Russia, che come un’orda barbarica si getterà sull’Europa e ne distruggerà la civiltà, quella civiltà, appunto, che ad un tratto si è rivela un bluff» 

 

Dunque, nulla pare cambiato da allora. E la civiltà è quella che è capace di sequestrare le opere d’arte dell’Hermitage in prestito alle gallerie occidentali. Di impossessarsi indebitamente dei beni privati e dei depositi bancari dei cittadini russi. Che ha sottoscritto trattati di pace solo allo scopo di ingannare strategicamente la controparte, trasgredendo la sola regola cogente vantata dal vantato diritto internazionale elaborato dalla civiltà occidentale, ovvero il pacta sunt servanda. Mentre questa stessa regola rimane «intangibile» per continuare a stringere al collo gli inermi sudditi europei imprigionati a Maastrichtt.

 

Ma occorre essere realisti. Ha vinto a tutto campo l’utilitarismo anglosassone, versione plebea e becera del fine che giustifica i mezzi adottato anche dagli ottusi abitatori continentali delle istituzioni europee, forniti o meno di titoli nobiliari o accademici che non impediscono di fare affari milionari privati con tutti i malfattori transatlantici, a spese dell’ignaro contribuente della stessa UE. Senza contare gli svizzeri che, dell’utilitarismo essendo i cultori assoluti, hanno messo l’armatura anche alla loro amata e proverbiale neutralità.

 

Del resto, la separazione tra politica ed etica, era problema antico e presente alla coscienza ben prima di Machiavelli che tuttavia, scriveva Croce, «scopre la necessità e l’autonomia della politica, che è di là, o piuttosto di qua, dal bene e dal male morale, che ha le sue leggi a cui è vano ribellarsi, che non si può esorcizzare e cacciare dal mondo con l’acqua benedetta».

 

Anche se, aggiungeva, «quello che di solito non viene osservato, è l’acre amarezza con la quale il Machiavelli accompagna questa asserzione della politica e della sua necessità».

 

Infatti, in ogni caso, l’utilità del tranello e della strage di Senigallia ordita dal duca Valentino si iscrive, nelle intenzioni dell’autore, nell’utile ma non certo nell’onore.

 

Come nel caso di Remirro de Orco, luogotenente del duca, che pacificata la regione per mezzo di inaudite efferatezze, fu messo una mattina sulla piazza di Cesena «in due parti con un coltello sanguinoso a lato sicché i cittadini rimasero satisfatti e stupidi».

 

Possiamo inoltre osservare come la stessa politica internazionale abbia uno statuto «etico» a sua volta differenziato anche rispetto a quello della politica interna. Si tratta di una diversità venuta a formarsi spontaneamente per la diversità degli interessi e degli obiettivi in gioco, che sono, anzi dovrebbero essere, in una visione ideale, la pacifica convivenza fra i popoli da un lato, e il bene della comunità nazionale dall’altro.

 

Ma anche questa differenza cade, quando, come oggi, le nazioni europee, non più indipendenti e sovrane, non godono più di autonomia politica perché in stato di vassallaggio rispetto gli Stati Uniti, non solo dal punto di vista militare, ma anche, tramite l’UE che ne è la longa manus, per le direttive educative, culturali, economiche e «ideologiche». Sicché neppure di vassallaggio è corretto parlare, quanto di totale, mortificante asservimento.

 

Ma Dostoevskij, a partire dalla autonomia di fatto riconosciuta proprio della politica internazionale, fa un passo ulteriore. Egli non era di certo un ingenuo e sprovveduto idealista incapace di afferrare il problema filosofico della doppia moralità che segna rispettivamente il proprium della politica e della vita individuale.

 

Tuttavia, si chiede: «Dove sono le verità conquistate con tante sofferenze? Basta una causa pratica, e tutto vola via?».

 

Infatti, aveva ben presente quello che Machiavelli non poteva ancora prendere in considerazione perché venuto dopo di lui. Tutto il lavorio di pensiero, tutta quella riflessione sulla realtà della politica, e tutti quei fatti storici che avevano portato, attraverso un travaglio interconnesso di eventi e di idee, alla concezione dello stato moderno e alle altre conquiste di cui si fregia il pensiero politico della cosiddetta civiltà occidentale.

 

Quella approdata poi malamente alla vuota retorica sui diritti, sulla democrazia, sulla coesistenza pacifica, sulla libertà e l’uguaglianza, sullo stato di diritto, sulla protezione delle minoranze, e chi più ne ha più ne metta, ovvero su tutta una congerie di parole prive di senso vero che servono a mascherare l’involuzione verso il rinnegamento di quello che era stato venduto, ma anche sentito dalle masse, come progresso.

 

Così leggiamo ancora nel Diario:

 

«Tuttavia non è neppure giustificato rimanere attestati sul piano brutale del doppio binario e non elevarsi ad un piano speculativo più alto e convincente. Infatti, con questo riconoscimento della santità degli interessi correnti, del guadagno diretto e immediato, del diritto di sputare sull’onore e la coscienza pur di strappare per sé un fiocco di lana, si può andare di certo molto lontani. Ma solo i vantaggi pratici, solo i guadagni correnti rappresentano il vantaggio vero di una nazione e la sua politica “alta”? Al contrario, non è per una grande nazione proprio questa politica dell’onore, della magnanimità e della giustizia la migliore politica, anche se apparentemente in contrasto, ma in realtà non in contrasto, con i suoi interessi? La politica del disinteresse e dell’onore, ovvero le idee grandi e oneste sono quelle che trionfano alla fine nei popoli e nelle nazioni. La politica dell’onore e del disinteresse non è soltanto la più nobile ma forse anche la più vantaggiosa per una grande nazione, appunto perché nobile… mentre il continuo gettarsi di qua e di là, dove è più vantaggioso, riduce uno stato alla meschinità, alla interiore impotenza».

 

Non avrebbe dovuto essere questo il nuovo traguardo della civilizzazione almeno per l’Europa?

 

E ripudiare quelle leggi belluine per cui anche Machiavelli sentiva disgusto? Dopo gli esiti osceni di una rivoluzione approdata nella follia e nelle rapine napoleoniche, dopo le guerre fratricide e i crimini del colonialismo?

 

Ma quell’auspicio era utopistico e la contraddizione è risultata ben più paradossale, perché siamo approdati ad un grado allora inimmaginabile di dissennata disumanizzazione, con le immani tragedie e le oscenità in cui è sfociato nel Novecento il miraggio e la presunzione del progresso dell’umanità, nella degenerazione e nella contraddizione delle idee che avrebbe dovuto assicurarlo.

 

L’Europa è stata risucchiata dentro la egemonia tentacolare statunitense in cambio della distruzione materiale subita, mentre la sbandierata democrazia indigena o di importazione si è trasformata nel dispotismo formalmente autorizzato, modello 1933. E sempre in virtù di un trasformismo indisturbato, ora, dopo ottant’anni di pacifismo di facciata, interrotto senza remore ogni volta che un potere egemone lo ha deciso, dopo ogni tipo di inganno perpetrato ai danni della popolazione inerme in balia delle oligarchie anglosassoni, si getta a capofitto nella guerra che queste hanno programmato ad hoc.

 

Oligarchie tentacolari e aperte ad ogni corruttela, guidate dall’utilitarismo e dalla volontà di potenza che possono sfoggiare impunemente in ogni sorta di menzogna, in ogni rovesciamento di principi prima sbandierati, in ogni falsa morale e farisaica decisione, ogni tradimento e ogni meschinità, ogni intento distruttivo senza pudore e senza assunzione di responsabilità, dietro varie maschere di scena.

 

Come quelle andate a commemorare senza ritegno le vittime della bomba atomica insieme a chi quella bomba non si vergogna di averla sganciata e di quell’orrore non si è mai pentito. Un quadro desolante che sembrava impensabile, quello dei due tristi figuri, l’europea e l’americano insieme, in mezzo ad altrettanti tristi e meschini figuranti. Di cartapesta, si dirà, eppure in grado di muovere indisturbati i destini di infinite e irripetibili vite perché il gregge da cui traggono esistenza è stato debitamente narcotizzato e svirilizzato.

 

Le oligarchie dominanti hanno preso in mano il potere politico grazie alle degenerazioni del sistema democratico e rappresentativo, ma soprattutto alla riduzione preventiva delle capacità di comprensione e reazione dei sudditi. Di uomini a una dimensione, figurine piatte incollate nell’album della storia da burattinai capaci di tutto perché mancanti della coscienza propria degli uomini veri.

 

I politicanti e le politicanti che pullulano oggi nel prestigioso mondo occidentale, ovvero nel giardino fiorito di Borrell, di qua e di là dell’Oceano, prefigurano i pericolosi automi progettati per sollevare l’umanità residuale del futuro dalla fatica di vivere umanamente e di pensare.

 

Non per nulla quelle che erano un tempo le arti della diplomazia, disciplina troppo impegnativa per essere coltivata dalle menti deboli di automi semianalfabeti, sono state soppresse e sostituite da un vaniloquio che oscilla minacciosamente fra tracotanza, stupidità, e menzogna. Cosa che scopre la pericolosità di costoro e degli apparati in cui essi sono annidati.

 

Basti pensare alle dichiarazioni del sempre querulo Stoltenberg, che non perde mai nessuna occasione per mostrare la propria caratura. Esemplare il discorso recentissimo sull’avvicinamento ad una applicazione estensiva dell’articolo 5 del trattato della NATO.

 

Un capolavoro di ipocrisia farisaica per dire in soldoni che sulla lettera della norma prevarrà manu militari l’interpretazione, sicché tutti i firmatari saranno obbligati a partecipare anche con i propri eserciti alla guerra accanto alla Ucraina, anche se questa non fa parte della alleanza. Ovvero ha fatto balenare nella nebulosa truffaldina delle parole l’istituzione di fatto di una belligeranza diretta obbligatoria.

 

Più esplicito, nella volgarità della sua violenza primigenia, il ministro ucraino che dopo l’attentato di Lugansk dice: se non ci darete le armi che chiediamo, anche voi dovrete aspettarvi degli attentati. Cosa che penalmente parlando si chiama minaccia, ma la cui abnormità e volgarità sembrano non arrivare ad essere percepite come tali neppure da quanti dovrebbero avere dimestichezza, diretta o attraverso la filmografia, con il codice comunicativo e operativo delle varie cose nostre, gloria nazionale universalmente conosciuta ed esportata.

 

Ora, a proposito di tante manifestazioni eloquenti di un degrado generalizzato, di strumenti truffaldini della politica sempre più sfacciatamente ostentati, c’è da osservare che, a giustificare ogni aporia in nome della ragion di Stato, nell’epoca dell’azzeramento mediatico di ogni coscienza critica, la massa finisce per assorbire l’idea della normalità di quell’etica e di poterla fare propria anche nella vita quotidiana.

 

Se non si percepiscono più come tali la menzogna o il tradimento, il discorso truffaldino e il ricatto, l’obiettivo distruttivo nascosto o la falsificazione della realtà, anche perché genericamente normalizzati e dunque genericamente legittimati; se non li si inseriscono più neppure nel recinto chiuso di una politica che obbedisce ad un codice proprio e particolare, il passaggio verso l’assorbimento di quell’habitus nella morale corrente è quasi obbligato. Quell’etica deviata e particolare di cui non si vedono più la genesi e le articolazioni finisce per diventare moneta corrente anche al di fuori del recinto della politica e anzi diventa un modello accettabile per i rapporti privati arrivando a pervertire la coscienza individuale.

 

Dunque, inutile dire come, in un momento storico al quale non sappiamo neppure se ne potrà seguire realmente un altro, l’auspicio di Dostoevskij di una politica «alta», suoni inattuale. Quanto mai lontana e utopistica appare la possibilità della messa a frutto della ricchezza di storia accumulata dal pensiero occidentale, insieme ad una ininterrotta riflessione filosofica, e al patrimonio della spiritualità cristiana prima della sua contaminazione. Sembra impossibile in questo sfascio culturale, la sublimazione con cui la vita matura controlla gli eventi guardando al di là di ciò che è meschino e particolare, fasullo e insignificante da un orizzonte più ampio ed elevato.

 

Questo è il momento degli sciacalli e delle iene, o forse dei marabunta. E nell’avvento di animali superiori pare quasi impossibile anche poter sperare.

 

Tuttavia, non bisogna neppure dimenticare che anche i figuranti di cartapesta, per quanto nefasti, al pari del terribile giudice Morton nemico di Roger Rabbit, con un po’ di impegno e tanta fortuna potrebbero essere dissolti nel nulla proprio grazie alla loro reale inconsistenza.

 

Almeno in questo dobbiamo tornare a sperare, forse… anche al di là di ogni ragionevole dubbio!?

 

 

Patrizia Fermani

 

 

 

 

Articolo previamente apparso su Ricognizioni.

 

 

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Pensiero

Giorgia Meloni tace davanti al «figlio» di Castro

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Grazie a Justin Trudeau abbiamo avuto una bella dimostrazione di cosa sia ora al governo in Italia.

 

Come noto, il Trudeau avrebbe teso al premier Meloni una piccola imboscata nel suo incontro bilaterale al G7 di Hiroshima.

 

Secondo quanto riportato dai media canadesi, Trudeau ha esordito dicendosi «preoccupato da alcune» delle posizioni «che l’Italia sta assumendo in merito ai diritti LGBT». Il Presidente del Consiglio italiano, stando alla nota diffusa dal Canada, avrebbe risposto «che il suo governo sta seguendo le decisioni dei tribunali e non si sta discostando dalle precedenti amministrazioni».

 

L’ANSA riporta le reazioni delle sue «fonti italiane». «Quella di Justin Trudeau sui diritti LGBT è stata una frase “sorprendente”. Lo riferiscono fonti italiane spiegando che l’incontro a margine del G7 di Hiroshima era stato preparto dalle due diplomazie e il tema non era uno degli argomenti chiave del bilaterale».

 

«La presidente del Consiglio, ribadiscono le stesse fonti, ha risposto a Trudeau che non è cambiato nulla e non c’è nulla di cui preoccuparsi. Un episodio cominciato e finito lì nella fase iniziale dell’incontro, che è andato bene. Si è passati, sottolineano le stesse fonti, rapidamente ad altro.

 

In seguito, in conferenza stampa, la Meloni dice che la dichiarazione di Trudeau è stata «un po’ avventata, ma ne siamo venuti a capo». Anzi, l’aggressore diventa vittima: «Credo che Trudeau fosse vittima di una fake news e lui stesso se n’è poi reso conto».

 

«Questo accade quando si è particolarmente vittime della propaganda che non corrisponde alla verità. Sono cose che possono accadere». In pratica, Giorgia dice: stiamo lavorando anche noi per il nuovo mondo NATO-LGBT, altrimenti non sarei qui ad Hiroshima, a fare gli occhi dolci a Biden (era quella che al vegliardo della Casa Bianca sull’Ucraina aveva detto, un anno fa, che gli avrebbe detto che «non saremo i muli da soma dell’Occidente»?) e re-incontrare, dopo una manciata di giorni dal festone di Roma, il Volodymyr Zelens’kyj in tour mendicante (più denaro! Più armi!) anche a Hiroshima, e ci sembra giusto: nella prima città del martirio atomico, ecco che bisogna accogliere uno che vuole trascinare il mondo nell’Armageddon termonucleare. Non una grinza.

 

Trudeau vittima delle fake news, sì, eccerto: perché il ruolino di marcia della Cultura della Morte Giorgia non lo tocca nemmeno per ischerzo, e anzi v’è chi sospetta che le è stato permesso di arrivare lì per quello.

 

Ricordate? Appena eletto, fu ribadito dalla sorella che lei era a favore dell’aborto – tema padre di quello LGBT – poi il compagno ribadì che Peppa Pig con due mamme lui alla figlia glielo farebbe vedere.

 

Non bastò: nel suo primo discorso al Parlamento, ecco che Giorgia si produce in quello che abbiamo chiamato l’inchino a Moloch: il feticidio di Stato non si tocca, punto. L’immutabilità della 194/78 viene quindi ribadita dal suo ministro della Famiglia, che in gioventù aveva fatto parte di un gruppo femminista e scritto il manuale Aborto facciamolo da noi, per poi divenire, per ragioni che sa spiegarvi solo Renovatio 21, proiezione politica gradita all’episcopato alle consorterie residuali neodemocristiane.

 

Non preoccuparti, o mondo. Anche a Roma stiamo lavorando per la dissoluzione, al nostro ritmo. Niente leggi «omofobe» per la libertà di espressione, figurarsi: anzi seguiamo quello che dicono i giudici – di cui oramai si confessa spudoratamente la supplenza politica per i temi bioetici – e in Italia sappiamo cosa vuol dire (avete presente, la Consulta, negli ultimi mesi: e gli assist servitile dal governo melonico).

 

È, di fatto, disperante.  E non solo per quelli che si erano illusi che con la «destra» al potere, cioè quella che si è fatta anni, decenni di «opposizione» al sistema, sarebbe cambiato qualcosa rispetto a Draghi, Conte, Gentiloni, Renzi, Letta, Monti (quest’ultimo votato con passione dalla Meloni del 2011, e pure dal suo straripante sottosegretario alla Presidenza, il leccese Alfredo Mantovano, en passant, l’ex magistrato, «cattolico» fece la tesi di laurea sulla 194 nel 1981).

 

Nulla cambia: continua la catastrofe biologica e morale. Il gattopardismo della Necrocultura nazionale è vivo e passeggia anche ad Hiroshima al guinzaglio del Patto Atlantico.

 

Tuttavia, non di questa disfatta, pienamente comprensibile per chi ha capito il personaggio e il quadro storico, vogliamo dire qualcosa.

 

Vorremmo, in verità, dare qualche suggerimento per la prossima volta che Giorgia incontrerà il Justino, che la leggenda internautica vuole sia figlio biologico di Fidel Castro (i Trudeau erano una coppia libera: lui strambo premier di Ottawa, lei giovanissima amante dei party allo Studio 54 di Nuova York, all’epoca discoteca del degrado più indicibile).

 

La voce è talmente insistente, con in genere accompagnamento di foto a due, che nel 2018 il Canada fece una smentita ufficiale – che, come noto, è una notizia data due volte, e infatti non convinse nessuno degli utenti della rete, che tirarono fuori una foto in cui il Fidel lo porta in braccio da bambino all’aeroporto dell’Avana. (Il Canada, a differenza degli USA, non aveva l’embargo con Cuba, e quindi agiva da valvola politica e aerea con l’isola)

 

Ma la Meloni non è che deve rispondergli con la genetica famigliare, anche se il MSI ci ha campato per decenni con la campagna anticastrista. Invece, di base, ha taciuto.

 

Ci sono cose un po’ più serie da dire a Trudeau junior. Più serie anche delle fandonie della politica omosessualista globale. Perché il Canada è il Paese dove non i diritti LGBT, ma lo Stato di diritto stesso è venuto meno. Altro che la Cuba di Castro.

 

Vogliamo ricordare, la protesta dei camionisti? Gli arresti, le requisizioni? Lo Stato che arriva a bloccare le raccolte fondi su internet, per poi passare – incredibile – al congelamento dei conti correnti di chi protestava? È la grande prova della guerra finanziaria totale contro il popolo stesso: furono bloccati perfino i conti online in criptovalute.

 

Ricordiamo la fuga di Trudeau dalla capitale, e la caterva di insulti e falsità – quelle sì erano fake news, di Stato – che riversò ancora una volta sui manifestanti, accusati di essere nazisti?

 

Il Canada pro-LGBT è lo stesso che manda in piazza con lo striscione dei nazi-banderisti ucraini la vicepremier Chrystia Freeland, architetto della repressione bancaria contro la dissidenza? Sì la Freeland: la stessa che a Davos quattro mesi fa disse che c’è bisogno della guerra per rilanciare l’economia globale.

 

Il Canada che ha addestrato le milizie neonaziste ucraine, con scandalo di alcuni giornali canadesi e del Centro Wiesenthal?

 

Vogliamo rammentare, per un attimo, le proposte di tassazione maggiorata per i non vaccinati? La loro esclusione dall’acquisto di alcolici?

 

E non è che la Meloni al Castreau junior può anche dire, con l’accento della Garbatella «abbelloh, ma che te parli de diritti, che te stai ad amazzà tutta aa popolazzione?»

 

Non sarebbe inesatto. Il Canada è divenuto Paese capofila del fondamentalismo eutanatico. Chiedi di morire, e lo Stato ti uccide.

 

Sei disabile? Chiedi, e lo Stato ti ammazza.

 

Sei malato? Chiedi, e lo Stato ti ammazza.

 

Sei senzatetto? Chiedi, e lo Stato ti ammazza.

 

Sei depresso? Chiedi, e lo Stato ti ammazza.

 

Sei carcerato? Chiedi, e lo Stato ti ammazza.

 

Sei veterano disabile? Lo Stato può arrivare a proporsi di ucciderti, anche se non glielo chiedi. Tutto perfettamente normalizzato, con buona pace degli obiettori coscienza.

 

E attenti: perché, prima di spegnerti il cuore, lo Stato canadese di asporta gli organi: ecco il segreto del leader mondiale della «donazione» – cioè della predazione – degli organi. Siamo dalle parti della «morte per donazione», ossia l’eutanasia per predare gli organi.

 

Nessuno è escluso da questa follia. Non i vecchi, non i bambini (e parliamo anche dei neonati), non i malati, non i sani. Ogni anno le cifre divengono sempre più allucinanti, anche grazie al lockdown: una motivazione accettabile, per i pazienti delle case di cura canadesi, è la stanchezza da lockdown. E poi, come nascondere il risparmio di danaro pubblico?

 

È un furore continuo, uno sterminio legale che oramai è considerato al limite del sacro. Oramai, ci si scherza con i video sui social: «nonna, sei eccitata all’idea di morire?». I bambini a scuola colorano libri sulla MAiD, come la chiamano lì: l’assistenza medica nella morta.

 

E non si pensi sia solo una questione di leggi e di governo: abbiamo assistito increduli al lancio di un costoso, immaginifico spot da parte del primo gruppo pronto moda canadese che celebrava il suicidio assistito, dove qualcuno ci ha visto perfino dei riferimenti al «gioco» della Blue Whale.

 

Leggi perverse, creano popoli perversi: il 30% dei canadesi oggi è d’accordo con l’eutanasia per i poveri.

 

Siamo all’eugenetica bancaria, l’Aktion T4 da conto corrente, lo stipendio basso come sintomo di quella che i tedeschi chiamavano Lebensunwertes Leben, «vita indegna di essere vissuta».

 

Nonostante in Canada con il COVID siano tornati i lager, bisogna pure ammetterlo: i nazisti non erano arrivati a pensare di uccidere i non abbienti.

 

Ad un’idea talmente allucinante ci può arrivare, e anche con grande tranquillità, un potere immerso nel mondialismo più infame, o meglio, un governo «penetrato» (parole di Klaus Schwab) dal World Economic Forum. Perché è impossibile non notare l’allineamento, anche piuttosto osceno, tra Trudeau e l’establishment canadese e il WEF, qualcosa che è stato ammesso di recente anche dal nuovo premier dell’Alberta Danielle Smith, che dopo aver chiesto scusa ai non vaccinati, ha confermato uno strano legame tra il World Economic Forum e il sistema sanitario statale.

 

Abbiamo visto, in concomitanza con le proteste dei camionisti antivaccinisti a cui toglievano il conto, come le banche canadesi, citando proprio Davos, stessero lanciando l’ID digitale unico con il governo di Ottawa.

 

Era con probabilità parte di un piano più grande. Documenti condivisi dal sito Rebel News hanno mostrato che nel dicembre 2020 l’allora ministro degli Affari globali Christia Freeland ha descritto il piano canadese di utilizzare il COVID-19 come leva per aderire agli obiettivi del World Economic Forum (WEF) di Davos, l’ente creato da Klaus Schwab.

 

Perché la Freeland, va ricordato, è parte del board del WEF. E il suo guru Klaus Schwab non ha mai nascosto che tra i governi «penetrati» dal WEF con il suo programma Young Global Leaders, quello di Trudeau è un bell’esempio, con 5 o 6 ministri tirati su a Davos.

 

Non abbiamo pensato ad una coincidenza quando abbiamo visto Trudeau, in collegamento ad una riunione ONU nel disastro del 2020, usare letteralmente l’espressione «Grande Reset», così, apertis verbis, senza dissimulazione alcuna. Perché il Canada, anche per il Grande Reset, è oramai chiaramente il Paese pilota.

 

La memoria di chi ci segue da un po’ non può che andare a quella «strana lettera dal Canada» pubblicata da Renovatio 21 oramai tre anni fa, dove un sedicente politico, anonimo, scriveva ad un sito per raccontare di un programma di cambiamento sociopolitico massivo in via di caricamento nel Paese (al punto da essere già spiegato a rappresentati di tutti i partiti con corsi appositi) e fors’anche nel mondo tutto: sottomissione ai diktat pandemici ed emarginazione anche fisica finale dei dissidenti, sparizione dei debiti, ma anche della proprietà privata.

 

Non avrai nulla è sarai felice: basta che tu ci obbedisca ciecamente. Altrimenti…

 

Ecco, un po’ di argomenti – un po’ tanti – con cui un premier sincero-democratico poteva rispondere a Trudeau ci erano. Ma non è andata così.

 

Il lettore riesce a capire perché?

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

 

 

Immagine screenshot da YouTube

 

 

 

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