Cina
TongTong, la «ragazzina» creata con l’Intelligenza Artificiale per la Cina senza figli
Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.
Sviluppata dal Beijing Institute for General Artificial Intelligence, ha un «sistema mentale e di valori di una bambina di 3 o 4 anni» ma è in grado di «crescere» in fretta con l’esperienza. Farà il suo debutto tra qualche giorno allo Zhongguancun Forum, ma nelle sue descrizioni si sottolineano già gli aspetti relazionali. E la prospettiva di un utilizzo nella cura degli anziani, problema sempre più evidente per la Cina di domani.
Scarpette rosse, pantaloni rosa e una maglietta bianca. Con il suo cerchietto in testa, è in grado di interagire individualmente con il suo «papà» e la sua «mamma», comprendendo le loro intenzioni e partecipando a compiti come aiutarli a pulire il pavimento, lavare uno straccio sporco e accendere la TV. Si presenterà così TongTong («ragazzina»), il prototipo cinese di una bambina robot realizzata con l’intelligenza artificiale dal Beijing Institute for General Artificial Intelligence (BIGAI).
Annunciata già qualche mese fa, farà ufficialmente il suo debutto in pubblico il 27 aprile all’edizione 2024 dello Zhongguancun Forum, il più importante evento annuale cinese sulle nuove tecnologie, che si tiene a Pechino la prossima settimana. Ma il quotidiano filo-governativo in lingua inglese Global Times ha già avuto modo di «incontrarla» offrendone in questi giorni un’accurata descrizione.
TongTong è guidata da due sistemi cognitivi: il sistema U (capacità) e il sistema V (valore). Questo le permette di affrontare i propri compiti in modo unico, a seconda del suo stato attuale, che viene valutato attraverso cinque dimensioni: fame, noia, sete, stanchezza e sonnolenza.
«Il suo sistema mentale e di valori oggi è paragonabile a quello di un bambino di 3 o 4 anni. Man mano che si svilupperà e ripeterà le diverse operazioni, però, diventerà più vivido, vivace e reale, proprio come noi umani. Ve ne accorgerete se tornerete alla fine di quest’anno o l’anno prossimo per sperimentarlo di nuovo», ha dichiarato al Global Times Zhu Song-Chun, direttore del Beijing Institute for General Artificial Intelligence. Una volta stabilito il quadro di base, la capacità di apprendimento di TongTong accelererà e le serviranno probabilmente due o tre anni per passare dall’età di 3 anni a quella di 18, piuttosto che 15, ha aggiunto ancora Zhu.
L’obiettivo del BIGAI è far sì che TongTong sia in grado di completare compiti come l’assistenza agli esseri umani nel versare tè e acqua e offrire una calda compagnia nelle case, oltre a poter essere impiegata in molteplici scenari personalizzati come le case di cura. L’istituto ipotizza addirittura di creare una «famiglia» di TongTong, che comprenda nonni, fratelli minori e amici dell’asilo.
Al di là delle discussioni anche etiche che è destinata a suscitare per le sue caratteristiche «umane» – tutte da verificare – nella descrizione che ne offre il Global Times colpisce l’insistenza sulle caratteristiche legate alle dimensioni delle relazioni personali e della cura.
Si intuisce il desiderio di andare a colpire un nervo scoperto della società cinese, dove i figli – ormai pochi e non solo per gli effetti disastrosi dei decenni della miope politica del figlio unico – già oggi sono sempre più in difficoltà nel farsi carico dei genitori anziani.
La sottolineatura sulle strabilianti capacità di TongTong anche nel coinvolgimento emotivo, dunque, sembrano quasi voler offrire una via tecnologica per rimuovere un problema sociale sempre più serio. Mentre i giovani cinesi, sempre più disillusi, non paiono avere alcuna intenzione di ascoltare gli inviti pressanti del Partito ad invertire la rotta, tornando a fare figli.
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Cina
Xinjiang e lavoro forzato: i «passi indietro» in Cina di Volkswagen e Uniqlo
Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.
Le nuove normative sulle catene di approvvigionamento adottate da Stati Uniti e Unione Europea stanno costringendo molte aziende a prendere posizione sulla questione dello sfruttamento degli uiguri. La casa automobilistica tedesca ha venduto «per ragioni economiche» il discusso stabilimento di Urumqi, ma rilanciando i suoi piani commerciali in Cina. Il brand di abbigliamento giapponese: non usiamo cotone dello Xinjiang.
Dopo la BASF anche la Volkswagen ha deciso di lasciare lo Xinjiang, sull’onda delle accuse sull’impiego del lavoro forzato degli uiguri nella costruzione di una pista di prova per le auto. L’annuncio della casa automobilistica tedesca, arrivato ieri, parla ufficialmente di «ragioni economiche» legate al ridisegno della presenza in Cina. Ma segna di fatto una vittoria importante delle associazioni che si battono per la difesa dei diritti della minoranza musulmana, che nella provincia più occidentale della Repubblica popolare da più di dieci anni è oggetto di dure politiche repressive da parte del governo di Pechino.
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Come noto la Cina è un mercato fondamentale per Volkswagen: vi vende attualmente 4 automobili ogni 10 prodotte nei suoi stabilimenti a livello globale. Ma si tratta di una presenza che oggi si trova a fare i conti con lo scontro tra Pechino e l’Unione europea riguardo ai dazi sulle importazioni delle auto elettriche, oltre che con la crisi più generale della Volkswagen.
Quanto poi allo Xinjang la casa automobilistica si sarebbe trovata ora a fare i conti anche con il Regolamento sul lavoro forzato, adottato da Bruxelles lo scorso 19 novembre, che – pur essendo molto meno netto rispetto all’Uyghur Forced Labor Prevention Act in vigore negli Stati Uniti nel 2021 – avrebbe comunque messo in difficoltà lo stabilimento di Urumqi. Anche perché – come scrivevamo già qualche settimana fa – il rapporto commissionato da Volkswagen che avrebbe dovuto provare l’estraneità della consociata locale alle pratiche di lavoro forzato, è risultato essere stato steso in maniera molto dubbia in un posto dove è impossibile indagare liberamente.
Alla fine, dunque, Volkswagen ha deciso di vendere lo stabilimento che su richiesta di Pechino aveva aperto nello Xinjang nel 2012 e la relativa pista: andranno alla SMVIC di Shanghai, una società che si occupa di test sulle automobili prodotte in Cina.
Nel frattempo però è arrivata anche la proroga fino al 2040 della joint-venture con Saic Motor, il partner cinese della casa automobilistica tedesca. L’accordo prevede che entro la fine del decennio arrivino sul mercato 18 nuovi modelli di vetture Volkswagen e Audi, 15 dei quali esclusivi per il mercato locale. Obiettivo: recuperare posizioni tornando a vendere in Cina entro il 2030 quattro milioni di automobili all’anno, una quota di mercato del 15%. Via dallo Xinjiang, dunque, ma non certo dal resto della Repubblica Popolare.
La vendita dello stabilimento della casa automobilistica tedesca non chiude però la questione generale dei sospetti sull’uso del lavoro schiavo degli uiguri in prodotti che inondano i mercati di tutto il mondo. Secondo le denunce della Coalition to End Forced Labour in the Uyghur Region tra gli altri settori pesantemente coinvolti nel fenomeno c’è il tessile, dal momento che nello Xinjang si stima che si concentri il 23% della produzione mondiale di cotone, ma anche la produzione dei pannelli solari e la coltivazione dei pomodori.
Proprio oggi il brand di abbigliamento giapponese Uniqlo ha dichiarato per la prima volta di non far uso nei propri prodotti di cotone proveniente dalla regione degli uiguri. Un passo dettato proprio dalle nuove normative, che stanno costringendo molti gruppi presenti sui mercati internazionali a uscire dall’ambiguità: la legge americana, infatti, chiede alle aziende stesse di provare l’estraneità delle proprie catene di approvvigionamento. E pochi giorni fa l’amministrazione Biden ha inserito altri 29 gruppi che non lo hanno fatto nella lista delle compagnie le cui importazioni sono bloccate negli Stati Uniti.
Complessivamente sono già oltre 100 le aziende escluse dal mercato Usa per il sospetto di utilizzo del lavoro forzato degli uiguri e appartengono a settori che spaziano dall’agricoltura all’industria estrattiva, dalla siderurgia alle tecnologie digitali.
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La dichiarazione di Uniqlo è significativa perché fino ad oggi il suo fondatore e presidente Tadashi Yanai si era sempre rifiutato di rispondere, sostenendo di voler rimanere «neutrale» nella guerra commerciale tra gli Stati Uniti e la Cina. A pesare è anche la forte presenza dell’azienda giapponese sul mercato cinese: Uniqlo ha più negozi in Cina che nel Giappone stesso.
Di qui il timore che una presa di posizione sulla questione dello Xinjiang possa avere contraccolpi con boicottaggi di stampo nazionalista, come capitato ad altri grandi marchi del settore.
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