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Transessualismo a scuola, l’ascesa della carriera alias non si ferma

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Molte scuole italiane hanno approvato la carriera alias. Molte altre si apprestano a farlo, altre ancora saranno bersaglio di pressioni crescenti e di questo passo cederanno per emulazione. L’ordine è: alias per tutti, reclutamento a tappeto. Ne avevamo parlato in un nostro precedente articolo.

 

Il colpo da maestro di una propaganda ben organizzata consiste nell’enfatizzare fenomeni marginali, del tutto minoritari nel mondo reale, fino a farli diventare artificiosamente questioni di interesse pubblico. Anzi, questioni di vita o di morte in seno a una società frastornata, resa orfana degli strumenti della logica e del pensiero.

 

È così che, a dispetto del senso delle proporzioni – e, prima ancora, del senso primitivo del bene e del male – questi fenomeni prendono corpo proprio grazie alle chiacchiere che vi si sprecano attorno e che risuonano dappertutto, dalle accademie alle sagrestie. Cavalcati con sussiego dal benpensante trasversale, assumono una consistenza che non hanno, poi si propagano per contagio indotto, poi si affermano sulla pubblica piazza come esigenza impellente di un’intera collettività. Pronti al debutto con l’abito formale del «diritto», oggi acquistabile per pochi spiccioli al mercatino delle pulci.

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La transizione di genere è una moda che, a causa dei danni procurati, ha imboccato la via del tramonto nella parte del mondo in cui era stata lanciata, ma è in trionfante ascesa nell’altra parte di mondo, quella che si ostina ad alimentarsi dei rifiuti altrui nonostante la loro manifesta tossicità.

 

La cosiddetta carriera alias è un pezzo importante di quella moda: serve a reclutare adepti, a fidelizzarli all’ambiente alternativo che lavora nel settore da decenni, a incanalarli precocemente lungo la strada senza ritorno delle terapie ormonali e della chirurgia affermativa. Per questo si sta espandendo nelle scuole come una macchia d’olio. Conta sulla fragilità dei più giovani, psico-fisicamente disintegrati e lasciati a fluttuare nel nulla cosmico apparecchiato per loro; conta sulla cedevolezza degli adulti in totale disarmo cognitivo; conta sulla ignavia delle istituzioni incapaci di comprendere il senso del diritto perché, forse, ormai il diritto ha perduto il suo senso per tramutarsi definitivamente in un’arma contundente a servizio del potere di turno.

 

Gli ideatori della carriera sono i legali della Rete Lenford, impegnati nella promozione dei diritti LGBTQ+. Tra i loro obiettivi dichiarati, quello di «…provocare un cambiamento delle norme giuridiche in senso più avanzato e quindi una trasformazione sociale verso l’inclusione e la non discriminazione». Cioè, più che operare secondo diritto dentro la cornice dell’ordinamento positivo, vogliono esercitare attività di pressione per forzarne l’assetto. Ce lo dicono, non ne fanno mistero, è la missione a cui si sono votati.

 

Il modello di regolamento di carriera alias proposto dalla Rete per le scuole prevede che qualsiasi alunno sostenga, in un dato momento, di non sentirsi a proprio agio nel «sesso assegnato alla nascita» possa comunicare al dirigente di voler assumere entro il contesto scolastico una identità elettiva, ovvero pretendere di essere chiamato da tutti, e indicato nei documenti interni, con un nome diverso dal proprio. Giovanni potrà diventare Serena, Lucia potrà diventare Ernesto, e preside, docenti, compagni, bidelli, segretari, saranno tenuti ad assecondare la sua volontà sovrana.

 

Sopra i quattordici anni – sempre secondo il modello proposto dalla Rete – non sarà neppure necessario che i genitori siano messi al corrente della scelta del figlio, che indosserà a scuola una identità parallela come una volta si indossava il grembiule, e si appresterà in autonomia a inaugurare una nuova vita. Non sarà lasciato solo nel suo viaggio, ovviamente: persone premurose si prenderanno cura di lui e lo sosterranno nella carriera intrapresa, destinata a proseguire verso la modificazione dei connotati fisici in via farmacologica e chirurgica.

 

Vale la pena di mettere in fila alcuni fatti e alcune osservazioni per cercare di fare luce su un fenomeno di costume che in Italia si fa strada incontrastato sulle ali della mistificazione. Le sue implicazioni sono tante, e sono enormi.

 

Come si diceva, i paesi anglosassoni che a quel costume avevano dato i natali hanno ingranato una risoluta marcia indietro.

 

Dopo la recente chiusura della clinica Tavistock di Londra, il più grande centro al mondo nel trattamento della disforia di genere sui minori attivo dal 1989, il National Health Service ha comunicato che in Gran Bretagna non potranno più essere somministrati bloccanti della pubertà (puberty blocker) ai minorenni.

 

La spallata finale al gigantesco business sanitario legato alle transizioni precoci, già scricchiolante, l’hanno data i messaggi trapelati da una chat interna del WPATH (World Professional Association for Transgender Health), considerato la principale autorità scientifica globale sulla «medicina di genere», i cui standard di cura «hanno plasmato le linee guida, le politiche e le pratiche di governi, associazioni mediche, sistemi sanitari pubblici e cliniche private in tutto il mondo, OMS compresa». OMS compresa. Ne scrive Marina Ferragni qui e qui e si invita caldamente il lettore a non trascurare la lettura di questi due articoli fondamentali e sconvolgenti: trattasi di un dovere morale.

 

Dalle conversazioni degli spregiudicati membri della chat del WPATH (chirurghi, medici, terapisti vari) risulta chiaramente come i trattamenti farmacologici e chirurgici inflitti ai minori consistessero in pratiche improvvisate, dalle conseguenze imprevedibili e di sicuro incomprese nella loro vera entità dai giovani pazienti, alcuni dei quali affetti da conclamati ritardi mentali o patologie psichiatriche.

 

Vi si trovano descrizioni raccapriccianti delle cruente tecniche di mutilazione (cosiddetta chirurgia correttiva: falloplastiche e vaginoplastiche) sperimentate per manomettere irreversibilmente i loro organi sessuali; condite con cinici commenti degli esecutori di quegli esperimenti, concordi nell’auspicare un approccio il più possibile precoce ai protocolli perché, si sa, prima si interviene meglio è.

 

Tanto orrore non poteva evidentemente perpetuarsi indisturbato, ed è venuto a galla travolgendo un apparato tentacolare che si credeva intoccabile, blindato dentro un gomitolo di interessi multimiliardari.

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Da noi però, nel frattempo, la sfolgorante carriera della carriera alias va avanti tra gli applausi automatici di spettatori inebetiti e l’ignavia di una massa irretita dalla prepotenza di una minoranza urlante, e molto ben addestrata. Si registrano qua e là sparuti sussurri di perplessità; nelle alte sedi istituzionali, sì e no un paio di gridolini di sdegno emessi ad pompam a favor di telecamera, giusto per compiacere un elettorato dolosamente cornuto e dolosamente mazziato.

 

Ora, non si dica che, investendo un profilo meramente onomastico, la carriera alias nulla ha a che fare con operazioni psicologicamente e fisicamente più invasive. Non è vero. La carriera si pone in un continuum programmatico con la transizione ormonale e chirurgica. La sua funzione è proprio quella di fare da anticamera alle tappe successive, e risolutive, del «cambio di sesso», di cui il cambio di nome costituisce tecnicamente una anticipazione, favorendo la cosiddetta transizione sociale.

 

Che questa sia la funzione specifica della carriera lo dicono in modalità ancor più esplicita i documenti amministrativi che si sforzano di disciplinarla, supplendo al silenzio della legge. Per esempio, c’è un contratto collettivo di lavoro del comparto Istruzione e Ricerca e ci sono delle linee guida del Ministero della Difesa che ancorano la carriera alias al procedimento di transizione di genere definendola apertis verbis una «anticipazione» del provvedimento che la stabilirà in via definitiva: «l’identità alias costituisce un’anticipazione dei provvedimenti che si renderanno necessari al termine del procedimento di transizione di genere, quando il soggetto sarà in possesso di nuovi documenti di identità personale a seguito di sentenza del Tribunale, passata in giudicato, che ne rettifichi l’attribuzione di sesso e il nome attribuito alla nascita».

 

Il collegamento tra carriera e rettificazione di sesso è dunque qualcosa di espressamente riconosciuto e non solo intuitivamente ipotizzabile.

 

Ma la disciplina elaborata da parte di alcune amministrazioni non può che rendere ancora più eclatante l’azzardo che risiede nel consentire alla popolazione scolastica, e in particolare a scolari minori di età, l’accesso incondizionato alla carriera alias tramite una mera, estemporanea dichiarazione di volontà e a prescindere da ogni ulteriore presupposto di fatto e di diritto.

 

Molti istituti, infatti, hanno approvato de plano il regolamento della carriera nella sua versione più ampia, proposta dalla Rete Lenford. Ciò dà luogo a un duplice abuso: viene calpestato il primato educativo della famiglia, nel caso questa non sia coinvolta in via prioritaria; assecondando acriticamente un momentaneo desiderio in assenza di alcun appiglio oggettivo, viene omesso a priori il perseguimento del miglior interesse del minore e vengono gettate arbitrariamente le premesse di un suo radicamento identitario non armonizzato al sesso di appartenenza.

 

Vale a dire: uno si dichiara in crisi di identità prima ancora di aver completato la fase dello sviluppo, quando cioè, di fatto, non ha ancora vissuto nel corpo che si appresta a rifiutare, e la scuola, anziché fare la sua parte per favorire la rimozione delle cause della crisi e un’intima riconciliazione con se stesso, si presta a incoraggiare un soggetto sano a intraprendere un iter di medicalizzazione perenne.

 

Va però chiarito come non si debba nemmeno pensare che qualche ritocco cosmetico al regolamento standard sia capace di sanare l’illegittimità insita nella sua adozione. Inventarsi una formulazione meno spinta di quella suggerita dalla Rete – per esempio richiedendo il consenso dei genitori, o una documentazione da cui risulti il pregresso avvio di un parallelo percorso medico o psicologico – non significa muoversi nel rispetto della legge.

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La possibilità stessa di assumere un’identità alias rappresenta infatti un indebito superamento delle norme anagrafiche e, prima ancora, delle norme che disciplinano il diritto personalissimo al nome: è una deroga circoscritta entro un perimetro stabilito, ma pur sempre una deroga, che genera una sorta di bizzarro regime di extraterritorialità. Lo esprimono bene le già citate linee guida del Ministero della Difesa, laddove contemplano «la possibilità di assumere in via interinale «un’identità alias», utilizzando un prenome (articolo 6, comma 2, del codice civile) differente da quello risultante dall’anagrafica del Ministero della Difesa, per le attività interne all’Amministrazione, in attesa che il percorso della rettificazione di attribuzione anagrafica di sesso, di cui alla legge n. 164 del 1982, porti al rilascio di una documentazione definitiva».

 

Citando l’articolo 6 del codice civile, che disciplina il «diritto al nome» – e stabilisce che: 1. «ogni persona ha diritto al nome che le è per legge attribuito»; 2. «nel nome si comprendono il prenome e il cognome»; 3. «non sono ammessi cambiamenti, aggiunte o rettifiche al nome se non nei casi e con le formalità dalla legge indicati», ovvero attraverso sentenza del giudice competente) – insieme alla legge 164/82 che disciplina la rettificazione di sesso, l’amministrazione ammette di derogare, in parte qua, alle stesse – oltre che all’articolo 35 dell’Ordinamento dello stato civile (dpr 396/2000), che esordisce: «il nome imposto al bambino deve corrispondere al sesso…».

 

Dal combinato disposto di queste norme discende infatti che il nome di una persona possa subire modifiche soltanto a seguito di una sentenza ad hoc. E invece con la carriera alias non si fa altro che stabilire arbitrariamente una anticipazione di quella sentenza, sostituendosi di fatto al legislatore, che nulla ha previsto al riguardo: nessuna fonte di rango legislativo ammette infatti una simile anticipazione.

 

Né vale invocare che la ratio della anticipazione insita nella carriera alias è quella, nobile e inoffensiva, «di promuovere il riconoscimento dei diritti della persona in transizione di genere…al fine di eliminare situazioni di disagio e forme di discriminazioni legate al sesso, all’orientamento sessuale e all’identità di genere».

 

Perché dalla carriera alias, a fronte dei «diritti» in capo al soggetto in transito, scaturiscono correlativi «doveri» per una serie di altri incolpevoli soggetti, ai quali è imposto di subire le ricadute di una decisione unilaterale; in altre parole, la manifestazione di volontà di un soggetto, sganciata da alcun dato oggettivo (e anzi, in contrasto con il dato biologico dei propri caratteri sessuali) genererebbe effetti vincolanti per l’intera comunità di riferimento, chiamata a subirli passivamente.

 

In ambito scolastico, ciò significa per esempio, per gli altri studenti, dover condividere una stanza in gita scolastica, o bagni, o spogliatoi, con un compagno che si afferma di sesso diverso da quello effettivo. E comunque significa, per tutti quanti, assorbire dalla stessa istituzione, che incarna l’autorità, una alterata percezione della realtà, dei suoi equilibri e dei suoi paradigmi essenziali.

 

La carriera alias costituisce quindi una conclamata violazione del principio di legalità della azione amministrativa: adottandola, la pubblica amministrazione si intesta abusivamente un potere legislativo che per definizione non le appartiene.

 

Una violazione, questa, tanto più grave in quanto investe la sfera di diritti personalissimi e, nel caso delle scuole, interferisce con la tutela potenziata che spetta a soggetti incapaci di agire in ragione della loro minore età, e coinvolge soggetti, quali preside e docenti, che nell’esercizio delle rispettive funzioni rivestono il ruolo di pubblici ufficiali.

 

Infine, vale la pena aggiungere che una condotta antigiuridica non perde la propria antigiuridicità in ragione della sua diffusione: la circostanza che tante scuole abbiano già allegramente deliberato la loro carriera senza farsi troppi problemi non elimina la responsabilità di chi si mette in coda e le copia, perché pare brutto rimanere indietro. Semmai, l’emulazione acritica aggrava l’ignominia.

 

Il fatto è che, nella giostra dei diritti di tutti e della discriminazione di nessuno, si è pericolosamente diffusa la convinzione che un qualsiasi desiderio, più o meno transitorio, sia idoneo a far sorgere situazioni giuridicamente rilevanti, attive e passive, con ricadute sulla altrui sfera di libertà. Con tanti saluti al senso del diritto, alla gerarchia delle fonti, al principio di legalità, che non abitano più in questo disgraziato Paese.

 

In attesa che, se Tonina afferma di sentirsi preparata in geografia acquisti il diritto al nove sul registro; o se Gigetto sostiene di essere un ballerino provetto, abbia il diritto di essere scritturato alla Scala.

 

Con la benedizione della scuola, del ministero dell’istruzione e del merito, della società tutta.

 

Elisabetta Frezza

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Articolo previamente apparso su Ricognizioni.

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La Casa Bianca di Trump non pubblicherà una dichiarazione in onore del «Mese del Pride LGBT»

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L’amministrazione Trump ha rifiutato di pubblicare un proclama per il «Mese dell’orgoglio» omotransessualista di giugno, discostandosi così dalle celebrazioni annuali della Casa Bianca di Biden.   «Non è prevista alcuna proclamazione per il mese di giugno», ha affermato la portavoce stampa Karoline Leavitt.  

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La domanda è arrivata dal conduttore del podcast Alec Lace, che ha fatto riferimento alla proposta della deputata Mary Miller di rinominare giugno «Mese della famiglia» e ha suggerito di riconoscere invece i veterani o la famiglia nucleare.   «Il presidente ha intenzione di fare un proclama?» chiese, «o lo farà solo a giugno di quest’anno?»   Leavitt ha aggiunto che Trump «è molto orgoglioso di essere un presidente per tutti gli americani, indipendentemente da razza, religione o credo».   Spezzoni dello scambio di battute sono circolati ampiamente, dando l’impressione di una posizione a favore della famiglia. Tuttavia la Leavitt non ha dato alcuna indicazione di sostegno a un’alternativa del «Mese della Famiglia».   Nel frattempo, il Dipartimento dell’Istruzione ha ribattezzato il «Mese dell’Orgoglio» come «Mese del Titolo IX», dal nome di una legge creata per proteggere gli sport e gli spazi femminili, messa in discussione di recente dalla partecipazione di transessuali maschi alle gare femminili. Misure simili sono state adottate dall’FBI, dall’esercito e dal Kennedy Center di Trump.  
  Il silenzio di Trump sul «Mese del Pride» non sembra riflettere una riluttanza a rilasciare proclami politici. Negli ultimi mesi, ha firmato proclami per il «Mese della storia dei neri» e per l’«Education and Sharing Day», in onore del controverso rabbino degli Chabad-Lubavitch Menachem Schneerson, nonostante i preoccupanti insegnamenti razziali e le sfumature mondialista del culto.   Pertanto, saltare una proclamazione del «Mese dell’orgoglio» sembra segnare un contrasto con le campagne annuali a tema arcobaleno di Biden.   Va ricordato che sebbene abbia dimostrato scetticismo nei confronti delle questioni transgender e non abbia mai emesso una proclamazione ufficiale del «Mese dell’orgoglio» durante il suo primo mandato, Trump è stato il primo presidente repubblicano a riconoscerlo, tramite un tweet del 2019 che elogiava il «Mese dell’orgoglio LGBT». Ha anche promosso una campagna globale per depenalizzare l’omosessualità.   Solo pochi giorni fa, il consigliere di Trump, Ric Grenell – egli stesso dichiaratamente omosessuale, già ambasciatore americano in Germania durante il primo governo Trump e ora nominato a un incarico diplomatico di alto livello – si è vantato con Donald Trump Jr. che i repubblicani «anti-gay» saranno ora «cacciati» dal partito, attribuendo personalmente a Trump il merito di aver aperto il partito repubblicano ai «conservatori gay», aggiungendo: «non c’è alcun dibattito sull’uguaglianza».   Grenell, che è coinvolto in progetti immobiliari in Kosovo con il genero ebreo di Trump Jared Kushner, aveva affermato, in uno spot elettorale del 2020, che «il presidente Trump è il presidente più pro-gay nella storia americana».  

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Il Grenello, che ha studi ad Harvard (prestigiosissima università ora ai ferri corti con Trump), è stato insignito della «medaglia presidenziale di merito del Kosovo» per la sua opera di mediazione in fatto di commercio tra Kosovo e Serbia. Il diplomatico si distinse come alfiere dell’amministrazione Trump nello sforzo verso la depenalizzazione dell’omosessualità nelle nazioni in cui l’omosessualità era illegale.   Nell’autunno del 2018, il Grenell ha svolto un ruolo diplomatico chiave nella pianificazione dell’arresto di Julian Assange, fornendo garanzie all’Ecuador che il giornalista australiano non sarebbe stato condannato a morte negli Stati Uniti.   Il curriculum di Trump purtroppo può rafforzare la fiducia di Grenell. Da uomo d’affari neoeboraceno, Trump ha sostenuto la modifica del Civil Rights Act per includere l’«orientamento sessuale» e ha mostrato scarso interesse per le argomentazioni morali contro l’omosessualità.   L’amministrazione Trump ha preso una quantità di immediati provvedimenti contro il transessualismo, in particolare nell’esercito e negli sport femminili.   Il presidente americano aveva promesso di «fermare la follia transgender» sin dal primo giorno del mandato.   Come riportato da Renovatio 21, Trump aveva da subito annullato i finanziamenti della Sanità USA per prevenire la gravidanza nei «ragazzi transgender» esortando quindi il Congresso a vietare gli interventi transessualisti sui bambini. Ad inizio mandato aveva lanciato il divieto per l’arruolamento dei transgender nell’esercito, poi attuato dal Pentagono.   A inizio mandato, firmando un ordine esecutivo che impedisce agli uomini di partecipare agli sport femminili, Trump aveva dichiarato che «la guerra allo sport femminile è finita».

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Padre James Martin esorta i cattolici a celebrare il «mese dell’orgoglio» LGBT

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Come negli anni precedenti, padre James Martin ha esortato i cattolici a celebrare il «mese dell’orgoglio», affermando che «per la comunità LGBTQ» si tratta di «un riconoscimento della dignità umana di un gruppo di persone che, per secoli, è stato trattato con disprezzo, rifiuto e violenza». Lo riporta LifeSite.

 

Parallelamente, con l’ascesa dell’ideologia LGBT nella società laica, è cresciuta anche l’importanza di celebrare giugno come «mese dell’orgoglio».

 

Per il gesuita Martin, è importante che sia così. «Il mese del Pride», ha scritto, «si concentra principalmente sul sostegno ai diritti umani fondamentali della comunità LGBTQ: il diritto a vivere in sicurezza, il diritto a essere trattati come pari e il diritto a essere pienamente accolti nella società».

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«Per la persona religiosa, questo mese è anche un promemoria del fatto che le persone LGBTQ sono figli amati di Dio» scrive il gesuita nel sul suo sito pro-LGBT Outreach. «Il mese del Pride ricorda ai cattolici di trattare le persone LGBTQ con il “rispetto, la compassione e la sensibilità” che il Catechismo comanda, la “vicinanza, la compassione e la tenerezza” che Papa Francesco ha insegnato, e l’amore e la misericordia che Gesù ha mostrato a tutte le persone, specialmente a quelle emarginate, durante il suo ministero pubblico».

 

«È particolarmente importante che le chiese celebrino il Mese del Pride, poiché gran parte del rifiuto che le persone LGBTQ hanno dovuto affrontare è stato motivato dal cristianesimo – almeno da ciò che molti pensano che il cristianesimo insegni. Un esempio: uno dei motivi più comuni di senzatetto tra gli adolescenti LGBTQ è che sono stati cacciati dalle loro famiglie per motivi apparentemente religiosi».

 

La Chiesa ha anche una devozione speciale per il Sacro Cuore di Gesù nel mese di giugno, come ha sottolineato lo stesso Martin, ma come negli anni precedenti ha affermato che questa devozione potrebbe facilmente essere allineata con il mese dell’orgoglio: «a mio avviso, i due sono complementari, non contraddittori. Il Sacro Cuore ci insegna come Gesù ama; il Mese dell’Orgoglio ci ricorda chi Gesù ci invita ad amare oggi».

 

Il gesuita filo-omotransessualista anche cercato di prendere in qualche modo le distanze dal genere di festival LGBT che tendono a essere gli eventi del «Pride», affermando che «solo perché si celebra il mese dell’orgoglio non significa necessariamente che si sia d’accordo con ciò che ogni persona, ogni organizzazione o persino ogni carro in ogni parata ha da dire».

 

Dedicare il mese al «Pride», ha affermato il gesuita, «significa principalmente sostenere i diritti umani fondamentali della comunità LGBTQ: il diritto a vivere in sicurezza, il diritto a essere trattati come uguali e il diritto a essere pienamente accolti nella società».

 

«Per la persona LGBTQ», ha aggiunto, «l’orgoglio non riguarda la vanità, ma la dignità umana».

 

 

Il «mese dell’orgoglio» è promosso dalla società come un’accettazione di tutto ciò che è correlato all’ideologia LGBT e, in sostanza, sembra essere un rifiuto dell’insegnamento cattolico tradizionale sul matrimonio, la moralità e la famiglia, nota LSN.

 

L’orgoglio è anche elencato dalla Chiesa come uno dei sette peccati capitali, un aspetto spesso evidenziato dai chierici che mettono in guardia dal promuovere o partecipare al «mese dell’orgoglio». Martin ha anche condannato il peccato di orgoglio, ma ha commentato che la celebrazione del “mese dell’orgoglio” è qualcosa di diverso:

 

«Ma il secondo tipo di orgoglio è la consapevolezza della propria dignità. Ed è più vicino a ciò che il Mese del Pride intende rappresentare per la comunità LGBTQ: il riconoscimento della dignità umana di un gruppo di persone che, per secoli, è stato trattato con disprezzo, rifiuto e violenza».

 

Il gesuita ha incoraggiato le persone a congratularsi con i giovani che si dichiarano «LGBTQ», affermando che «Dio vuole che siano ciò che sono».

 

«Forse il modo migliore per pensare al Mese del Pride è immaginare cosa diresti a un giovane che finalmente trova il coraggio di dirti di essere LGBTQ. Sai che Dio lo ha creato. Sai che Dio lo ama. E sai che Dio vuole che sia ciò che è. Quindi, probabilmente diresti: “Sono così orgoglioso di te per essere in grado di dirlo”».

 

Deplorando il calo degli eventi “Pride” di quest’anno – un fenomeno notevole in contrasto con il 2024 – padre Martin ha anche suggerito che tali eventi «potrebbero essere più rilevanti che mai».

 

Grazie in parte all’attività personale di Martin con il suo gruppo LGBT Outreach, negli ultimi anni papa Francesco ha accolto numerosi gruppi LGBT in Vaticano e ha sostenuto direttamente l’Outreach di Martin.

 

Il curriculum del gesuita Martin sulle tematiche LGBT è ampiamente documentato e, tra le altre cose, ha promosso le unioni civili tra persone dello stesso sesso e ha definito «dannoso» il fatto di considerare Dio un essere maschile.

 

In questi anni, il gesuita Martin anche promosso un’immagine tratta da una serie di opere blasfeme e omoerotiche che mostrano Gesù Cristo come omosessuale, ha promosso unioni civili tra persone dello stesso sesso e ha descritto vedere Dio come maschio come «dannoso». Tutto ciò, invece che cagionargli una sanzione da parte della gerarchia, lo ha fatto promuovere: è Bergoglio stesso che lo porta in palmo di mano, spendendosi in pubblici elogi per il più noto sacerdote filo-LGBT del mondo.

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Come riportato da Renovatio 21, lo scorso novembre Bergoglio aveva dapprima concesso un’udienza privata al Martin, per poi elogiarlo pubblicamente durante l’assemblea plenaria del Dicastero per le comunicazioni vaticane. Il gesuita filo-omofilo era stato quindi alle masse di ragazzi, tra musica techno sparata da sacerdoti DJ e pissidi Ikeadurante la Giornata Mondiale della Gioventù a Lisbona.

 

Un anno fa, il Martin aveva dichiarato in pratica che la dottrina del catechismo sull’omosessualità uccide, in quanto porterebbe taluni alla morte per suicidio. Il papa la scorsa estate gli scrisse una lettera di incoraggiamento: «Vi incoraggio a continuare a lavorare sulla cultura dell’incontro, che accorcia le distanze e ci arricchisce delle nostre differenze, come ha fatto Gesù, che si è fatto vicino a tutti».

 

Martin ha precedentemente negato di rifiutare l’insegnamento della Chiesa sull’omosessualità e sulle questioni LGBT, sebbene sia diventato il paladino pubblico di tali questioni nella Chiesa. Ma altri non sono d’accordo. Il cardinale Raymond Burke ha ritenuto l’insegnamento del sacerdote «non coerente con l’insegnamento della Chiesa sull’omosessualità». L’arcivescovo Charles Chaput si è unito alle fila dei prelati contrari a Martin, affermando che sulle questioni LGBT, «non parla con autorità a nome della Chiesa».

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L’Ungheria mantiene la promessa di vietare i gay pride

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Le autorità ungheresi hanno negato il permesso per una parata LGBTQ a Budapest, appellandosi per la prima volta alla recente legislazione volta a proteggere i bambini da influenze maligne.   In una dichiarazione rilasciata lunedì, la polizia di Budapest ha respinto la richiesta di un evento pro-LGBTQ previsto per questo fine settimana e sostenuto da cinque organizzazioni per i diritti umani, tra cui Amnesty International Ungheria. Hanno citato un recente emendamento che dà priorità al diritto dei bambini a uno «sviluppo fisico, mentale e morale adeguato» rispetto ad altre libertà.   Le autorità hanno agito sulla base di una legge adottata a marzo, che vieta gli eventi del Pride e autorizza l’uso della tecnologia di riconoscimento facciale per identificare i partecipanti, con possibili multe fino a 500 dollari. Ad aprile, il parlamento ungherese ha anche approvato un emendamento costituzionale che riconosce solo due generi – maschile e femminile – e definisce il matrimonio come l’unione tra un uomo e una donna.

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La legge è stata sostenuta dal primo ministro ungherese Viktor Orbán, un fervente critico delle «politiche woke». Pur sostenendo la legge che vieta gli eventi LGBTQ Pride, Orban ha affermato che è necessario proteggere i minori dalla “rete internazionale di genere” e dai “programmi dannosi” promossi dai burocrati di Bruxelles.   In risposta al divieto, 17 paesi dell’UE hanno rilasciato una dichiarazione congiunta affermando di essere «fortemente allarmati da questi sviluppi che sono contrari ai valori fondamentali della dignità umana, della libertà, dell’uguaglianza e del rispetto dei diritti umani», sollecitando nel contempo l’Ungheria a rivedere la legislazione.   Lunedì EurActiv ha riferito che l’ufficio della Presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen ha raccomandato privatamente ai commissari di non partecipare alla marcia del Pride, molto più numerosa, prevista per fine giugno a Budapest, per non «provocare» l’Ungheria. La Commissione Europea ha respinto il rapporto, affermando che von der Leyen «sostiene fermamente una vera Unione dell’Uguaglianza».   Come riportato da Renovatio 21, il mese scorso il Parlamento ungherese ha approvato un emendamento costituzionale che conferma il divieto di eventi pubblici LGBT precedentemente introdotto nel Paese.   La stretta sulle manifestazioni omotransessualista era stata largamente annunciata dal premier magiaro negli scorsi mesi.   Come riportato da Renovatio 21, lo scorso mese l’Ufficio dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i diritti umani ha lanciato l’allarme sulla recente legge ungherese che vieta gli eventi del pride, esortando il governo ad abrogarla.   Come riportato da Renovatio 21, Orban l’anno scorso aveva definito la UE come una «parodia dell’URSS». I suoi attacchi alle politiche di immigrazione di Bruxelles vanno avanti da anni, con il risultato di essere messo sotto accusa dai potentati UE per la questione dello «stato di diritto», espressione che, dopo la pandemia, in bocca a qualsiasi istituzione fa piuttosto ridere.   Come riportato da Renovatio 21, Orban è stato osteggiato fortemente dall’ambasciatore omosessuale americano a Budapest, che è arrivato a fare velate minacce contro il governo ungherese.

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Immagine di justinvandyke via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic  
 
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