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Martiri del ritorno del matriarcato

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La linea rossa, per quanto mi riguarda, è stata passata ieri, quando ho appreso che mio figlio, come i bambini di tutta Italia, a scuola ha osservato un minuto di silenzio per il caso di Giulia Cecchettin.

 

Lui, ovviamente, non ha capito bene di cosa si trattava. Ma è proprio così che deve andare. È così che funziona l’indottrinamento – specie nelle menti più giovani. Inserisci un’idea, per quanto non pienamente comprensibile, nella mente di qualcuno, con la forza della peer pressure, la pressione sociale della collettività. E non importa l’assimilazione, conta solo l’immissione del concetto. Il resto si vedrà dopo, il tempo per la coltivazione del seme ficcato dentro c’è tutto.

 

Quindi, i bambini a scuola sono obbligati (perché, hanno scelta?) a interessarsi di un fatto di un sanguinario fatto di cronaca, sposando poi una sua lettura precisa – il femminicidio… Nota bene: siamo ancora un pochino lontani dai tre gradi di giudizio previsti dalla legge, come dicono (dicevano) i garantisti di destra e sinistra. Di fatto, la magistratura tedesca ha firmato l’estradizione del sospetto poco fa.

 

Epperò, i bimbi devono contemplare la questione nel profondo, devono schierare il proprio essere riguardo la faccenda, il minuto di silenzio – il triste surrogato laico della preghiera (peraltro rivelatore: invece che connetterti al divino, di attacchi al niente) – serve proprio a questo.

 

Devo dedurne, quindi, che se a scuola perfino chi ha otto anni si deve occupare della cosa, essa è giocoforza un affare di Stato.

 

Parrebbe proprio così. Vale la pena, allora, guardare davvero lo scenario che ci si para innanzi, e nel profondo.

 

Innanzitutto, notate: la parola «femminicidio» – grande ottenimento dell’era delle pari opportunità, anzi impari: perché mai, si chiede qualche giurista rimasto tale – uccidere una donna dovrebbe essere meno grave di uccidere un uomo? – pian piano sta scemando. Si parla meno di femminicidio, stavolta, e si comincia ad usare, con voce tonante, un altro vocabolo fino a poco fa non usualissimo nella lingua comune: «patriarcato».

 

La parola campeggia ovunque. Manifestazioni con cori e striscioni sul patriarcato, tirate infinite nei talk show, lanci sui social dei politici, conferenze, programmi governativi.

 

A Padova si è vista una manifestazione a seguito della morte della ragazza di Saonara, si è visto un gonfalone chiarissimo: «Basta femminicidi e stupri! Violenza di genere: il problema è il patriarcato».

 

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A Firenze, stesse scritte, stessi concetti.

 

 

Lili Gruber definisce la premier Meloni «espressione della cultura patriarcale». Elly Schlein parla di «sradicare la tossica cultura patriarcale del possesso e del controllo sul corpo e sulla vita delle donne».

 

In TV mi è capitato vedere un sedicente scrittore (davvero, non sappiamo davvero che lavoro faccia, né ricordiamo come si chiamasse) che faceva, in stile rivoluzione culturale maoista, autocritica: davanti ad una serqua di volti televisivi femminili che annuivano, diceva, con avvilito accento meridionale, che sì, bisogna cambiare le cose, perché anche lui, una volta, era stato con una ragazza a cui voleva bene, ma ad un certo punto aveva pensato dentro di sé che il fatto che guadagnava più di lui – capita, se si dice che si lavora come «scrittori» – forse poteva inficiare il loro rapporto. Peccato gravissimo di patriarcato interiore, vero psicoreato confessato in pubblica piazza, e non si sa se davvero perdonato.

 

Ma mica c’è solo la sinistra: i ministri Sangiuliano, Valditara, Roccella – espressioni del primo partito di governo –presentano istantaneamente un nuovo protocollo per la prevenzione della violenza sulle donne, e la Roccella (eccerto) ne approfitta: « Tutte noi sappiamo che il patriarcato esiste, eccome se esiste (…) gli uomini devono essere protagonisti nel modificare la cultura patriarcale».

 

La stura l’ha data certamente la sorella minore della ragazza morta, quella che ha inquietato molto per la mise scelta per andare in TV: una felpa della rivista di skateboard Thrasher, dove però il logo è accompagnato da una bella stella a cinque punte rovesciata, quella in cui di solito iscrivono l’immagine della testa del caprone, l’iconografia satanica nota a tutti quanti. (Di nostro, abbiamo cercato di immaginarci il ragionamento intimo: viene Rete 4 a riprendermi, cosa mi metto? Ma certo, la felpa col pentacolo…)

 

La ragazza, e non solo lei, ha impressionato molti che l’anno trovata fuori dall’emotività che ci si aspetta per un lutto. Un caro amico mi ha chiamato, mi ha chiesto di essere confortato: riportarmi a terra, mi stanno venendo strani pensieri… Sono quelli che sono probabilmente venuti al consigliere regionale della Lega che ha postato sui social le sue perplessità, ottenendo la reazione di Luca Zaia (eccerto), che si dissocia. Si dissocia da che? Da una persona, pure votata dal popolo, che esprime il suo pensiero?

 

Non abbiamo pensieri da fare sui vestiti e gli umori televisivi della ragazza, né sulle altre foto non verificate che circolano sulle app di messaggistica.

 

Tuttavia, le sue parole sono chiarissime.

 

La ragazza aveva iniziato col ministro Salvini che riguardo al Turetta, si era permesso di scrivere su Twitter «se colpevole, nessuno sconto di pena e carcere a vita». «Ministro dei trasporti che dubita della colpevolezza di Turetta. Perché bianco, perché di “buona famiglia”. Anche questa è violenza, violenza di Stato». Poi rilanciava un tweet che richiamava il rifiuto della Lega (e l’opposizione di due dei suoi eurodeputati) riguardo alla risoluzione che sollecitava l’adesione dell’Unione Europea alla convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne.

 

Di lì è stata una discesa in abissi politici e filosofici.

 

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«I mostri non sono malati, sono figli sani del patriarcato, della cultura dello stupro» ha scritto la ragazza sui social, ribadendo un pensiero raccontato alle telecamere. «La cultura dello stupro è ciò che legittima ogni comportamento che va a ledere la figura della donna, a partire dalle cose a cui talvolta non viene data importanza come il controllo, la possessività, il catcalling. Ogni uomo viene privilegiato da questa cultura. Viene spesso detto “non tutti gli uomini”. Tutti gli uomini no, ma sono sempre uomini».

 

L’intera specie maschile è sotto accusa. C’è quindi da attuare una ribellione contro lo status quo, una rivolta contro il patriarcato moderno.

 

«Ditelo a quell’amico che controlla la propria ragazza, ditelo a quel collega che fa catcalling alle passanti, rendetevi ostili a comportamenti del genere accettati dalla società, che non sono altro che il preludio del femminicidio – conclude la sorella di Giulia – Il femminicidio è un omicidio di Stato, perché lo Stato non ci tutela, perché non ci protegge. Il femminicidio non è un delitto passionale, è un delitto di potere».

 

Il discorso della ragazza ha quindi assunto un carattere politico, programmatico, dalle tinte incendiarie.

 

«Serve un’educazione sessuale e affettiva capillare, serve insegnare che l’amore non è possesso. Bisogna finanziare i centri antiviolenza e bisogna dare la possibilità di chiedere aiuto a chi ne ha bisogno. Per Giulia non fate un minuto di silenzio, per Giulia bruciate tutto».

 

Bruciare tutto. L’immagine non è sbagliata: bruciare il patriarcato significa, di fatto, rovesciare la società nella sua interezza, resettare il consorzio umano, demolendone le fondamenta. Quando parlano del patriarcato, femministe e quanti ne ripetono a pappagallo i concetti (come i gay organizzati, apparentemente…) intendono semplicemente la radicale disintegrazione del sistema sociale vigente.

 

O forse c’è dell’altro?

 

Ci sarebbe da considerare, cosa che mi pare pochi hanno fatto in queste ore, che il patriarcato ha un suo contrario esatto, ma il termine non ancora lo si è sentito proferire: il matriarcato. Già, per qualche ragione, chi parla di distruzione del patriarcato, non ha ancora iniziato a generare slogan sul ritorno del matriarcato.

 

Posso capirlo. Il matriarcato è un concetto potente, ma altrettanto oscuro. Chi se ne è occupato, leggendo qualche cosa sull’argomento, lo sa. Una finestra di Overton sulla reintroduzione, dopo millenni, del matriarcato nella società umana forse è partita, ma si muove molto, molto lentamente.

 

Fondamentalmente, gli studi sul matriarcato risalgono ad un ricco uomo di Basilea, Johann Jacob Bachofen (1815-1887). Giurista e filologo, fece per tutta la vita il giudice, perché si irritò quando, divenuto professore di diritto romano, si sparse la voce che era stato cooptato a causa della facoltosa famiglia (la sua e della moglie, la cui collezione di arte, tra Cranach e Memling, è ora uno dei principali tesori artistici museali dello Stato elvetico). In verità, l’uomo era un appassionato di antichità, e lo era in maniera irrefrenabile, al punto da accumulare un’erudizione spaventosa, rinforzata da molteplici viaggi di studio a Roma e in Grecia.

 

Le sue conoscenze sul mondo arcaico crebbero fino a portarlo a concepire una visione complessa, e in parte inedita, dell’evoluzione della società umana.

 

Secondo la sua visione storica, i primi sviluppi della storia umana seguono una successione di fasi in cui inizialmente prevale l’elemento materno, accompagnato da simbolismi legati alla terra e all’acqua, al diritto naturale, alla promiscuità sessuale e alla comunanza dei beni.

 

Successivamente, emerge l’elemento paterno con i suoi simbolismi celesti, il diritto positivo, la monogamia e la proprietà privata. Il passaggio tra queste fasi sarebbe avvenuto attraverso momenti di potere violento delle donne, manifestatosi prima come una ribellione alla supremazia fisica del maschio nei primi stadi della civiltà e successivamente come una degenerazione della fase classica del matriarcato, noto come «demetrico», da Demetra, la dea che presiedeva la natura, i raccolti e le messi. Quest’ultimo periodo è descritto da Bachofen come una «poesia della storia», ordinato secondo le leggi pacifiche ed equitative della madre terra. (Quando sentite parlare di Gaia, o della Pachamama, di fatto vi stanno cercando di infliggere la nostalgia di quell’arcaica età pagana).

 

La storia altro non è se non la dialettica di questi principi sociali, quello ctonio, lunare della donna, legato alla materia e alla terra, e quello solare, astratto dell’uomo, legato alla mente e al cielo. La spiegazione che si tende a dare è che la donna ha un rapporto viscerale con l’esistenza, perché genera fisicamente la prole, e subisce il processo ciclico temporale-materiale del mestruo. Secondo tale teoria, l’uomo invece ha con la prole un rapporto puramente ideale, basato su convenzioni e leggi.

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«Negli stadi più profondi e oscuri dell’esistenza umana l’amore tra la madre e il nato dal suo corpo rappresenta il punto luminoso della vita, il solo chiarore nella tenebra morale, la sola beatitudine nella profonda miseria» scrive Bachofen. «L’intima relazione del figlio con il padre e il sacrificio del figlio per il genitore implicano un grado molto più alto di sviluppo morale che l’amore materno, forza piena di mistero che penetra ugualmente tutte le creature terrestri. Essa appare più tardi, e più tardi rivela la sua forza».

 

«Nella cura per il frutto del proprio corpo, la donna impara prima dell’uomo a spingere la propria preoccupazione amorosa oltre i confini dell’io individuale, verso un altro essere (…) Il legame della madre col bambino poggia su un rapporto materiale, è accessibile alla percezione dei sensi e resta una verità di natura; all’opposto la paternità generatrice presenta in tutti i suoi elementi caratteristiche diversissime, priva di qualsiasi rapporto visibile con il bambino essa non può perdere mai del tutto, neppure nel vincolo matrimoniale, la sua natura del tutto puramente fittizia».

 

«La legge materna viene dal basso, origina dalla realtà più ctonia del mondo naturale; il Dio padre, invece, viene dall’alto e origina dall’idea di una natura/realtà celeste» scrive Bachofen.

 

Un tempo, agli albori del mondo, regnava la «Ginecocrazia», il puro governo della femmina. Bachofen sviluppò una concezione della storia divisa in quattro fasi.

 

Una prima fase, chiamata «Eterismo», dove il matriarcato non era ancora regolamentato, e il concetto di paternità del tutto sconosciuto. Nella fase eterica vigeva il sesso libero e l’assenza totale di proprietà privata. In quest’era, tuttavia, era già diffusa nell’umanità la concezione della Dea Madre.

 

Una seconda fase, chiamata «Amazzonismo», dove le donne avrebbero utilizzato vari strumenti, compresi quelli di natura militare, per continuare a sottomettere l’uomo anche se fisicamente di forza superiore: tale periodo è contenuto in vari miti come quello della donna guerriera, da Artemide e Pentesilea.

 

Nella terza fase, si ha il Matriarcato vero e proprio, considerabile come «l’età dell’oro del genere umano». Durante l’era del matriarcato, la preminenza sociale corrisponde alla sola madre, l’eredità è riservata alle figlie, per l’uomo vi è al massimo il riconoscimento di un ruolo speciale al fratello della madre. Qui la donna gode del pieno diritto di scegliere autonomamente i propri partner sessuali.

 

Nella sfera religiosa, si sostiene che nel matriarcato il potere sia stato assunto dalle divinità femminili, iniziando con una «dea della terra» come Gea. Il culto di questa divinità è considerato all’origine di tutte le religioni successive, con le sacerdotesse occupanti una posizione superiore.

 

Dal punto di vista economico, la società era altamente avanzata nell’ambito dell’agricoltura, un’attività svolta in collaborazione principalmente dalle donne. Gli uomini, d’altra parte, erano dedicati principalmente alla caccia, il che spesso li rendeva assenti e lontani dalla comunità.

 

Dal punto di vista politico, la società seguiva i principi di uguaglianza universale e libertà. Le donne assumevano il ruolo di capo dello stato, detenendo il potere, mentre alcuni compiti venivano successivamente delegati agli uomini.

 

Poi venne la rivolta degli uomini, che riuscirono a sovvertire il dominio matriarcale, come testimoniato nella battaglia tra le Amazzoni e il mondo degli eroi ellenici.

 

Tale transizione, secondo Bachofen, è avvenuta in conformità con le regole della cosmologia. La Grande Dea è divenuta il «mistero della religione ctonia» conservando il carattere che aveva durante la fase primordiale dell’eterismo e del matriarcato, in cui la Luna è apparsa come rappresentazione simbolica del principio femminile. Questo principio si connette poi al Sole, simbolo della mascolinità e della linea di discendenza maschile. Il Sole scaccia la luna; la civiltà umana si stabilisce e prospera sotto la sua luce, e non al chiarore dell’astro notturno.

 

La Grande Dea, quindi, non è morta: semplicemente, vive di notte, vive sotto la terra, pronta a tornare a reclamare l’universo.

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Il Mutterecht (parola in realtà mai usata direttamente dal Bachofen, che preferiva Frauenherrschaft) o «diritto materno», fu pubblicato nel 1861. In Italia ne esistono diverse edizioni, la maggior parte parziali, perché solo l’Einaudi se l’è sentita di stampare le più di 1200 pagine in due volumi, qualcosa che il traduttore Furio Jesi definì «opera dagli infiniti recessi», con «proporzioni ipertrofiche, maniacali, raggiunte da alcuni temi».

 

Le teorie di Bachofen, che tendevano a considerare i miti come fatti storici, o come rispecchiamenti letterali di dinamiche sociale reali, furono dapprima aborrite dagli studiosi dell’epoca, che tentarono di guardare al personaggio come al classico principiante con troppi mezzi, un po’ come, immaginiamo, cercarono di fare con Heinrich Schliemann e la sua pretesa di trovare per davvero i resti della città di Troia.

 

Più tardi invece il pensiero di Bachofen trovò pubblici, fra loro diversissimi, pronti ad ascoltare e ad agire politicamente l’idea del matriarcato. Il Mutterrecht affascinò il filosofo conservatore Ludwig Klages come lo scrittore esoterico-tradizionalista Julius Evola, considerato il maitre à penser del neofascismo italiano. Anche la sinistra si abbeverò al pensiero del matriarcato, il particolare lo studioso suicida Walter Benjamin e, decenni prima, il socio di Karl Marx, Friedrich Engels (che parlò di «schiavitù domestica della donna»). La prima ondata della psicanalisi (Freud, Jung soprattutto) si dimostrò interessata, così come la seconda (Wilhelm Reich, Eric Fromm e Erich Von Neumann, che studiò direttamente il tema della Grande Madre).

 

Non sorprende che ad interessarsi della teoria del matriarcato siano state le femministe. Se Bachofen è stato tradotto in inglese si deve allo sforzo, fatto a fine degli anni Sessanta, di gruppi femministi statunitensi. Si può andare perfino oltre: chi scrive decenni fa ha intravisto a Londra come le idee di Bachofen circolassero in circoli omosessuali di carattere para-esoterico, ossia di quelli che non dissimulano il loro disprezzo (cioè, la loro totale paura) della donna.

 

Una quantità di persone, di tutte le risme, sognano il ritorno della Dea. È un richiamo interiore, o forse, più concretamente è l’orizzonte che si pone loro innanzi nel momento in cui si innesta il desiderio della distruzione del mondo, la voglia di «bruciare tutto».

 

Chi vuole cambiare e riprogrammare il mondo, può realizzare che non si tratta di sovvertire, ma di invertire. Laddove è il Sole, far vincere la Luna. Laddove il giorno, la tenebra. Laddove l’idea, l’emozione. Laddove lo spirito, la materia. Laddove la legge, la natura. Laddove l’ordine, il caos. Laddove il diritto, la crudeltà.

 

Ecco, possiamo spiegarci i simboli ctoni che sono rimbalzati anche in questa storia: quando dicono che vogliono far finire il patriarcato, vogliono intendere, consapevoli o meno, il parricidio finale, ossia l’uccisione del padre in senso teologico – cioè, l’uccisione di Dio. Capite da dove vengono in pentacoli e i simboli satanici?

 

Un mondo libero dal padre, è un mondo sprotetto: pensate alle famiglie, magari a quelle in cui manca grandemente la figura paterna, e realizzate di cosa stiamo parlando. Una famiglia senza padre espone i figli ai predatori: bisogna essere tanto in malafede per non ammetterlo.

 

Allo stesso mondo, un universo privo di Dio padre, quali predatori vede avvicinarsi ai suoi figli? Ancora, rimbalzano nella mente le teste di caprone, le stelle a cinque punte – le stesse, sì, che si vedono in certe logge massoniche, le stesse delle bandiere dei Paesi comunisti, le stesse del drappo degli Stati Uniti, le stesse dei valori bollati e dei passaporti della Repubblica Italiana….

 

L’impulso al ritorno del matriarcato potrebbe quindi essere più radicato, più complesso, più antico del previsto. Non viene dagli slogan femminista buono per le ragazzine che vivono sui social, viene da un progetto cosmico e preternaturale.

 

È difficile: il matriarcato porta seco un blocco di materia oscura non ancora digeribile per tutti. Ma ci stanno lavorando, il culto, pare ci vogliano dire, ha ufficialmente già le sue martiri.

 

Il mitologo Robert Graves (1895-1985), che tanto si dedicò al tema della Dea Madre, in una intervista con Malcolm Muggeridge profetizzò che il matriarcato sarebbe tornato entro il XX secolo. Potrebbe non aver sbagliato di molto.

 

La Grande Dea è pronta a ritornare. Per divorare il Sole, e tutti noi, per farci vivere una nuova era di tenebra.

 

Roberto Dal Bosco

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NATO e mRNA, la Von der Leyen riconfermata per l’imminente guerra transumanista

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«Intanto ci teniamo la Von der Pfizer» mi ha detto un parlamentare italiano a poche ore dalla conferma di Ursula al vertice della piramide UE. Io gli parlavo sognante del fatto che magari Kennedy finisce dentro il prossimo gabinetto Trump con mansioni di revisione sanitaria, lui mi riportava alla realtà. La Von der Leyen è ancora presidente della Commissione Europea.   Di fatto, è qualcosa per cui ci sarebbe da darsi i pizzicotti: i giornali, fino al giorno prima, davano per improbabile che Von der Leyen ce la facesse. Tuttavia abbiamo visto lo stesso fenomeno in Francia, dove pareva dovesse stravincere l’estrema destra, invece, tra trucchetti e giravolte, eccoti che al governo potrebbe andare l’estrema sinistra. Eccoci, dunque, in istato di choc.   Dicevano, e anche all’estero: deciderà Meloni. In molti gongolavano: l’Italia ago della bilancia… Costoro non solo l’hanno presa nel muso, come Giorgia, ma ignoravano pure il fatto che la prima elezione di Ursula, che stava venendo deragliata da una sanguigna manovra europarlamentare di Salvini, la si deve ad un partito italiano, il M5S, che – vero grande partito del dissenso – votò la super-intrallazzante democristiana tedesca. Se rivangate nella memoria, ricorderete che si parlava di un SMS di accorato ringraziamento mandato dalla Von der Leyen alla Trenta, allora ministro della Difesa grillino zona Link University, che conosceva l’Ursula dai tempi in cui questa era ministro omologo a Berlino.

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Sarebbe seguito l’incubo che tutti ricordiamo. Con la tedesca, cominciò a caricarsi l’Europa pandemica, l’Europa del green pass, dell’euro digitale, della crisi energetica, della guerra alla Russia.   Come è possibile che chiunque abbia votato – o, come Fratelli d’Italia, abbia anche solo immaginato di votare – per la riconferma dell’algida sciura germanica, non abbia tenuto conto della catastrofe multipla che rappresenta?   È che davvero sembrava impossibile che andasse così liscia: su tutto, pesava il fatto che pochi giorni prima la Corte di giustizia europea avesse accolto il ricorso intentato da cittadini ed eurodeputati dei Verdi contro il rifiuto opposto alla richiesta del 2021, di ottenere l’accesso ai documenti relativi ai contratti per l’acquisto di vaccini COVID da parte della Commissione Von der Leyen e Big Pharma.   Abbiamo pensato tutti: il messaggio è chiaro. Ursula, scansati. Ci hai, a questo punto, uno scandalo di troppo. C’era stata la storia degli SMS con il CEO di Pfizer, Albert Bourla, spariti nel nulla. Era trapelato che il Bourla, quello che ha paura di presentarsi davanti ai deputati europei, peraltro, apprezzava tanto la Ursula, perché sulla questione dei farmaci genici sembrava informata: e ci crediamo, l’aristocratico marito (padre dei suoi sette figli) è un esperto nella materia, e lavora proprio in quel campo.   Qui era scattato uno scandalo ulteriore, che aveva toccato anche l’Italia: ecco che nella fiumana di finanziamenti del fondo europeo PNRR, tra i progetti dell’Università di Padova spuntava fuori anche il nome del marito Heiko, della nobile casata dei Von der Leyen. Conflitto di interessi? Mah. Lui alla fine dovrebbe essersi ritirato.   Sono tegole che possono capitare, ma i giornalisti cominciarono a dire che si trattava di una recidiva: erano spariti messaggini anche rispetto ad una storia di appalti militari, quando era ministra della guerra della Repubblica Federale. Anche lì, non successe niente, tutto le scorre addosso come niente fosse: Ursula von der Teflon. Evidentemente, ci sono altri piani per lei. Piani altissimi.   La cosa ci pare evidente se rammentiamo – e forse siamo gli unici a farlo – che ad una certa sembrò che Biden voleva che, dopo lo Stoltenberg, a capo della NATO ci finisse proprio lei, l’Ursula. E pazienza per gli scandali – o forse, proprio per gli scandali era il caso che al vertice visibile della più grande macchina da guerra della storia umana ci finisse una come lei.   Poi niente: han fatto segretario NATO l’ex premier olandese Mark Rutte (quello dei lockdown massivi, dei cani che sbranano i manifestanti, degli spari sui trattori dei contadini, etc.). Ursula era destinata a tenersi lo scranno più alto d’Europa. Non le è andata male, anzi: lì dove è serve eccome.   Perché quando avanzò l’idea della Von der Leyen alla NATO – il cui quartier generale, sottolineiamo ancora una volta, sta sempre a Bruxelles – la guerra alla Russia era già bella che partita. E quindi, era già chiaro quale postura avrebbe avuto la NATO ursulina con Mosca. Lei aveva già fatto vedere tutto: round di sanzioni continue, che hanno incontrovertibilmente danneggiato più industrie e cittadini europei che non la Russia. E poi, episodi come quello in cui sembrò intimare al governo tedesco di dare alle forze ucraine «tutte le armi necessarie».   Ricapitoliamo: la storia di Ursula è fatta quindi di NATO, e di mRNA. Le due cose paiono indissolubili, e l’abbiamo capito nelle riflessioni che abbiamo fatto sulla geopolitica vaccinale degli anni pandemici. Un tempo c’era la cortina di ferro, ora c’è quella di RNA messaggero sintetico. Sempre ricordando che si tratta di tecnologia militare del Pentagono, l’edificio che guida il Patto Atlantico.   I vaccini mRNA sono essenzialmente quelli che, a livello maggioritario, sono stati consentiti, cioè inflitti, alla popolazione dei Paesi NATO ed alleati. Pfizer e Moderna sono vaccini mRNA puri, mentre AstraZeneca e Janssen, cioè Johnson&Johnson, che sono a vettore virale, hanno avuto una fetta minuscola del mercato del deltoide europeo bucato per obbligo. Abbiamo visto pure che ora AZ è stato del tutto ritirato, e pazienza per quelli che alla lotteria della siringa se lo sono beccati, e adesso magari (ammesso che abbiano coraggio o cervello, cose che nei vaccinati possono a volte drammaticamente mancare) si trovano a seguire i processi britannici sulle morti da coagulo.   Nei Paesi NATO, lo sapete, per qualche ragione non sono stati accettati né il vaccino russo Sputnik – un siero genico a vettore virale, quindi non diverso dall’AZ o dal J&J – né i vaccini cinesi Sinovac, che usavano invece l’antica tecnologia del virus attenuato. Nessuna vera spiegazione è stata data sul diniego opposto a questi sieri, pure in un momento in cui vi era scarsità tale che gli editorialisti del Fatto Quotidiano si segnalavano come caregiver per farsi inoculare il prima possibile.   C’era l’emergenza, non c’erano abbastanza dosi – ce lo ripetevano di continuo, assieme alla narrazione della tecnopozione miracolosa venuta dalla catena del freddo, talmente necessaria che l’anno dopo i vaccini cominciarono a farli tra gli ombrelloni in spiaggia, rincorrendo signore spalmate di crema solare impegnate nel cruciverba de La Settimana Enigmistica.

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Eppure i vaccini russi e cinesi no, non si potevano avere. Si ingenerò il problema di San Marino, nazione dove i solidi contatti preesistenti con la Russia (dovuti magari a qualche circuito inconfessabile messo su ai bei tempi il Partito Comunista Italiano), consentirono la distribuzione dello Sputnik, con il problema che poi i sanmarinesi, che sono materialmente italiani, non sapevano come fare usciti dai confini del Titano: dovevano iniettarsi anche un vaccino atlantico? Che effetto avrebbe fatto la mistura? All’epoca si diceva che la misture di marche diverse non si poteva fare, poi, come niente fosse, dissero che fare dosi di brand differenti si poteva, anzi magari era pure meglio. (Quante meraviglie ci riemergono…)   I lettori avranno capito dove voglio arrivare: esiste sulla Terra un’immensa spaccatura, partita tempo prima della guerra in Ucraina, una divisione del mondo che passava attraverso i corpi dei cittadini occidentali perfino a livello subcellulare. Se sei cittadino USA o UE, devi farti l’mRNA. Punto.   I lettori di Renovatio 21 sanno altresì che a questo fenomeno abbiamo tentato, soli soletti, di dare una spiegazione: la popolazione va abituata alle terapie geniche (questo di fatto è il siero, non un vaccino), che sono peraltro proprio la specializzazione del marito principe Von der Leyen.   La popolazione va indotta all’uso dell’mRNA, e non solo per il COVID: ogni malattia, in futuro, potrà essere curata con strumenti genetici. Ogni disturbo sarà trattato con la modifica biomolecolare dell’essere umano. Si tratta, né più né meno, dell’imposizione di un programma di transumanesimo di massa. E con la prima prova, il referendum per capire se il gregge avrebbe accettato, è andata benissimo.   Il cittadino europeo sarà genicamente modificato, o non sarà: il green pass significava esattamente questo. La cittadinanza, i diritti che ne derivano, sottomessi all’accettazione della propria trasformazione genetica cellulare.   E quindi, ci diviene più chiara la composizione del conflitto militare sul punto di deflagrare definitivamente: da una parte la Russia, dall’altra parte il mondo umanoide.   Da una parte una nazione che è tornata cristiana, e che valuta positivamente le altre religioni (come l’Islam, che costituisce il 15% della popolazione russa, ma stranamente non vi è anarco-tirannia musulmana delle banlieue né minaccia soverchiante del terrore jihadista); dall’altra il blocco che dell’umanità transumanizzante.   La guerra contro la Russia quindi, oltre che termonucleare, sarà in effetti la prima guerra transumanista della storia.

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Non perdete tempo a pensare ai giochetti di superficie dell’europolitica: sì, Ursula si è presa i voti dei Verdi promettendo chissà quale follia decrescitista climatica antiumana, ma ricordatevi sempre che i Verdi sono al momento il partito più guerrafondaio al governo in Germania. Sì, c’era una manovrina che ha tentato la sgomitante Meloni – richieste di ruoli di vice, robette così – ma del fatto che nel vero scacchiere Giorgia non contasse nulla non è che dovevamo avere dimostrazioni, altrimenti non l’avrebbero mai lasciata arrivare lì, sbarrando ovunque la strada a Salvini.   Quello è rumore di fondo. La realtà è che la Von der Leyen è rimasta perché c’è un lavoro da portare avanti, il grande piano da realizzare una volta per tutte: scatenare una guerra post-umana contro la Russia, e perseverare con la sottomissione – perfino biologica – della popolazione dell’Occidente.   È più spaventoso di quanto si riesce ad immaginare, ma va così. E quando vedete quella bella vecchina, il dolce volto diafano stile Charlotte Rampling camomillizzata, dovete capire che dietro vi è qualcosa di enorme – il programma di riforma, intima e violenta, del pianeta e dell’umanità stessa.   Le pallottole per Trump – a proposito: ci diranno quante erano? Sono tutte state sparate dal misterioso ragazzino sfigato? – hanno la medesima radice politica, geopolitica, metapolitica, metafisica. Il miracolo che lo ha salvato, pure è un fatto metafisico che riguarda le sorti dell’umanità intera.   Eppure non è ancora finita: nei prossimi mesi, giocoforza accelereranno. Perché la guerra transumanista si deve fare, costi quello che costi.   I signori del mondo non molleranno, e se ne fregano oramai se – tra signore controverse e presidenti dementi – non hanno nemmeno più facce nuove, o anche solo decorose, da mettere sul palco.   È, in verità, un gran brutto segno.   Roberto Dal Bosco

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Vandalizzata un’altra chiesa a Parigi

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La chiesa Notre-Dame-du-Travail, situata nel 14° arrondissement di Parigi, è stata vandalizzata nella notte tra il 14 e il 15 luglio. Sulle pareti della chiesa furono dipinte iscrizioni contro la religione cattolica e altri commenti offensivi. Un coltello è stato conficcato nella gola di una statua lignea della Vergine Maria, riferiscono diversi media.

 

Il sito Valeurs Actuels precisa che all’interno della chiesa c’è stata una «effrazione» e danni. Padre Vincent de Mello racconta al Journal du Dimanche che «la persona che ha aperto la chiesa la mattina ci ha avvisato: il parroco è andato subito lì, e io l’ho raggiunto più tardi nella giornata».

 

Aggiunge che «è stata chiamata la polizia e la chiesa è rimasta chiusa per 24 ore, mentre venivano prelevati i campioni scientifici e si svolgevano le indagini. I fatti si sono verificati nella notte tra domenica e lunedì. La persona ha avuto tutto il tempo per agire durante la notte e, non avendo una telecamera di sorveglianza, non sappiamo a che ora è iniziato».

 

Secondo Valeurs Actuels, «l’autore(i) è entrato dalla porta di emergenza e ha scritto con pennarello nero su diversi supporti dell’edificio: “sottomettetevi ad Allah, infedeli, la preghiera 5 volte al giorno”, e ancora “Gesù bastardo, un dio unico, allah”, oppure “questa grande Babilonia ha bruciato la chiesa, satana”, e “la chiesa qui sta bruciando prima parte”».

 

La litania di bestemmie e insulti – oltre che di grossolani errori di ortografia – continua: «l’ultimo profeta Maometto», «tagliata la testa a chi sorpassa / Farò guerra al mondo cristiano», «noi musulmani, noi noi non puoi accettare questa di religione/sposarsi questo è il tuo destino”, “vai all’inferno, satana brucia”».

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Gli stessi media riferiscono che, secondo una fonte della polizia, «sono state rotte anche le porte degli armadi, è stata perquisita la reception, è stato forzato un piccolo registratore di cassa e sono stati bruciati dei documenti». Alla fine, un coltello fu conficcato nella gola di una statua lignea della Vergine Maria. L’organo era «rotto» secondo Le Figaro, «anche l’impianto audio era danneggiato: tutti i relè del radiomicrofono erano strappati».

 

Alla fine, i criminali hanno tentato di dare fuoco all’edificio.

 

Padre de Mello ha detto a CNews che «sembrava l’opera di un pazzo», ma che «aveva intenzioni religiose anticristiane», ha aggiunto. Ciò sembra probabile, ma resta il fatto che questo odio anticattolico è stato alimentato da un fuoco che non è venuto dal nulla.

 

Non bisogna chiudere gli occhi di fronte ai violenti attacchi dello stesso Corano contro gli «associatori», cioè i cristiani che adorano la Santissima Trinità, che, per il Corano, è associare altri dei all’unico Dio. E le minacce sono chiare: «combattete gli associatori ovunque li troviate, prendeteli, assediateli, intrappolateli».

 

Chiesa di Notre-Dame-du-Travail

Secondo Wikipedia, la chiesa fu costruita «per i numerosi lavoratori del 14° arrondissement che furono responsabili dell’allestimento delle esposizioni universali di Parigi all’inizio del XX secolo. Rende omaggio alla condizione lavorativa e ai significati che danno alla parola lavoro». Padre Jean-Baptiste Roger Soulange-Bodin (1861-1925) iniziò il progetto nel 1897.

 

«Si distingue per l’utilizzo di un innovativo telaio metallico e di un’intelaiatura di travi a vista. La sua campana fu riportata da Sebastopoli dopo la presa della città (1855) durante la Guerra di Crimea (1853-1856). Fu completato nel 1902 dall’architetto Jules-Godefroy Astruc (1862-1955)».

 

Le Figaro ricorda che nel 2023 sono stati registrati quasi mille atti anticristiani, di cui «il 90% sono attacchi contro proprietà, come cimiteri o chiese», hanno indicato gli uffici statistici di Place Beauvau all’inizio del 2024.

 

Articolo previamente apparso su FSSPX.news.

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Immagine di Chabe01 via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International

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La scuola e l’eclissi della parola. Intervento di Elisabetta Frezza al convegno presso la Camera dei Deputati

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Renovatio 21 pubblica in versione l’integrale l’intervento di Elisabetta Frezza al convegno dell’associazione Asimmetrie «La scuola artificiale. Età evolutiva ed evoluzione tecnologica» tenutosi presso la Camera dei Deputati il 10 luglio 2024 alla presenza del ministro Valditara.   Da qualche decennio a questa parte la scuola italiana è posseduta dal demone della innovazione: versa in uno stato di riforma permanente. È sovraccarica, ormai sfigurata, eppure chiunque passi dalle parti di quel ministero si sente in dovere di aggiungere la propria impronta senza chiedersi a quale τέλος [tèlos] essa concorra. Ammesso che un τέλος ci sia.   Si accenni solo a tre passaggi legislativi salienti, ex multis  
  • nel 1997 l’autonomia scolastica ha aperto gli istituti al territorio e li ha incoraggiati ad avventurarsi in ogni genere di sperimentazione, creando per questa via un surreale clima di competizione mercatista tra le varie scuole; 
 
  • nel 2015 la cosiddetta «buona scuola», tra l’altro (tra molto altro), ha fatto delle innovazioni didattiche – qualunque fosse il loro risultato – una sorta di obbligo e un titolo per accedere alle premialità; 
 
  • nel 2019 la legge istitutiva della «nuova educazione civica» ha sfruttato quest’etichetta dal suono familiare e rassicurante per inondare l’orario curricolare di contenuti ad alto tasso ideologico (il piatto forte è l’Agenda 2030, nuovo libro sacro sui cui dogmi catechizzare, dall’asilo fino all’università, schiere di fedeli), contribuendo pesantemente a relegare la didattica delle discipline – già tanto sacrificata da attività estemporanee di ogni genere, spesso scadenti se non addirittura imbarazzanti – in uno spazio che si può a buon diritto definire residuale. 
  Ormai fare scuola a scuola è diventata un’esperienza piuttosto eccezionale e non occorre spiegare come le continue distrazioni, anche senza entrare nel loro merito, producano l’effetto plurimo di: interrompere il ritmo didattico; immiserire i contenuti dell’insegnamento; disperdere l’attenzione in mille rivoli ciechi; contribuire alla interiorizzazione della superficialità come metodo di lavoro.   

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Così, lanciata alla rincorsa di magnifiche sorti e progressive, la scuola si è via via trasformata in altro da sé. Ha finito per rinunciare al suo compito specifico ed esclusivo, che è innanzitutto quello di alfabetizzare e quindi – attraverso la chiave di accesso del linguaggio – di trasmettere le conoscenze, con particolare riguardo a quelle che hanno resistito alla prova del tempo, agli invarianti; e di iniziare al sapere teoretico, che vuol dire afferrare le cause, elevarsi alle leggi, agli universali, che sono gli strumenti di comprensione della realtà.    A farci caso, il modello a cui i riformatori nostrani si abbeverano parla un’altra lingua, parla inglese: skills, life long learning, cooperative learning, problem solving, peer education, gamification, job shadowing, etc.    E infatti, la demolizione controllata del nostro sistema di istruzione, che aveva il grave difetto di funzionare a dovere, è avvenuta tramite l’importazione massiva dei pacchetti pedagogici anglosassoni, con tutto il loro repertorio di stilemi attraenti. Essi rappresentano una parte – non certo secondaria – di quel capillare processo di colonizzazione culturale che da tempo, in Italia, gioiosamente ci autoinfliggiamo.   Erano gli anni Settanta del Novecento, quando Elémire Zolla, avendo in mente proprio la pedagogia progressiva di John Dewey (definito come colui che «consigliò di aggiogare il maestro all’alunno») commentava che «gli italiani, come macilenti gatti di periferia, si ostinano a nutrirsi dei rifiuti altrui».    In realtà il prodotto di importazione, presentatoci sotto il segno invincibile della innovazione, per paradosso è tutt’altro che nuovo: è vecchio di secoli. Non solo – paradosso su paradosso – si è pure dimostrato empiricamente fallimentare: la devastazione cognitiva e culturale delle scuole americane è una piaga non controvertibile.   La spiega con dovizia di particolari Eric Donald Hirsch nel suo saggio Le scuole di cui abbiamo bisogno e perché non le abbiamo, uscito in prima edizione nel ’96 in America e recentemente tradotto in italiano da Paolo di Remigio e Fausto Di Biase (edizioni Petite Plaisance).    Il nostro legislatore quindi – o chi gli fa da scrittore ombra – continua ad attingere a una fonte tossica e a riscaldare una minestra già andata a male nel paese di origine.   Ma cosa contengono questi pacchetti? Sono plasmati su quell’impostazione pedagogica puerocentrica di stampo ludico-pratico e laboratoriale, che fa leva sul pragmatismo e sull’attivismo didattico, sul mito della personalizzazione e sul culto del benessere; e che, correlativamente, si nutre di un profondo pregiudizio anticognitivo, perché porta con sé l’avversione per le conoscenze teoriche, per i libri, per la scrittura, per la parola.    La sua stella polare è il protagonismo dell’alunno, ritenuto capace di dare forma a se stesso (la base filosofica risale al mito dello stato di natura e del “buon selvaggio”, e della civiltà come struttura corruttrice dell’innocenza): un’idea comprensibilmente dotata di una particolare presa emotiva, tant’è che, grazie alla sua suggestione vischiosa, si è talmente incistata nella mentalità corrente da sembrare ormai inestirpabile e da impedire, come una lente deformata, di ritrovare il vero perché della scuola.    Questo pregiudizio anticognitivo si sublima nella fede che l’ignoranza possa formare alunni creativi che pensano con le loro teste. Si tratta della fede che sta alla base della didattica per competenze: si crede che l’acquisizione di abilità cognitive (le famose skills) avvenga in assenza di cognizioni, vale a dire che si possa pensare criticamente un argomento senza conoscerlo. Quindi, si dovrebbe «imparare a imparare» senza imparare mai nulla (la metacognizione appesa nel vuoto cognitivo) e il senso critico nascerebbe per partenogenesi, confondendosi con l’esercizio di qualsiasi protervo vaniloquio.

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L’impeto digitale – scatenato dalla nuova superstizione che va sotto il nome di tecnolatria – è coerente con questo sistema di pensiero, dal quale è stato propiziato: la scuola 4.0 può essere ben vista come l’ultima declinazione, al passo con il progresso, della solita teoria pedagogica secondo cui il bambino, alla stregua di un cucciolo d’animale, svilupperebbe la sua mente spontaneamente e avrebbe bisogno soltanto di un ambiente attrezzato intorno a lui e di un inserviente al suo fianco.   La novità è che oggi questo ambiente ribattezzato «ecosistema di apprendimento» o «eduverso», o ambiente onlife (sic), tende ad abbandonare la presa sul mondo reale per popolarsi dei fantasmi di quello virtuale. E così la scuola si trasforma in una grande sala giochi in cui la tempesta di immagini sostituisce le parole, la scrittura, lo studio delle leggi della realtà.    Osservata dall’altra parte (non del cliente ma del gestore), la scuola 4.0 si presenta come una distesa sterminata di materiale umano da scrutare, da sfruttare, da spolpare, da offrire in pasto alle banche dati e infine da assoggettare agli automatismi degli algoritmi delegati a predire i destini futuri dal loro impenetrabile ὀμϕαλός [onfalòs]   Ma, sempre da questa prospettiva puerocentrica, deriva anche dell’altro: deriva da un lato lo snaturamento della figura del docente; dall’altro l’ubriacatura dell’«utenza», cioè delle famiglie che usano del servizio che alla scuola compete.    I docenti. Dovrebbero essere i promotori del sapere e invece, costretti a farsi satelliti dell’alunno e a inchinarsi alla sua singolarità sovrana, assumono il ruolo subalterno di assistenti, di animatori, di facilitatori, finiscono per degradarsi al dilettantismo psicologico e ora soprattutto informatico (il ministro Bianchi parlò apertis verbis di ri-addestramento digitale del corpo docente); mentre diventa irrilevante, paradossalmente quasi inopportuno, che conoscano bene la propria materia di insegnamento al fine di trasmetterne la sostanza, e l’amore.   In questo modo, fatalmente perdono autorevolezza e prestigio, vengono umiliati nella loro professionalità e marginalizzati in un contesto che non valorizza la preparazione, restano totalmente disarmati di fronte all’imbarbarimento dilagante. Nel tempo, questo trattamento li ha intimamente passivizzati.   I genitori. Si fanno abbagliare dagli effetti speciali esposti in vetrina (la vetrina si chiama PTOF e, grazie al regime di concorrenza di cui sopra, contiene quante più attrazioni possibili per sedurre la clientela, salire nell’indice di gradimento degli osservatori, accaparrare fondi). Alimentano così l’ipertrofia dei progetti inutili scordandosi dei fondamentali – a partire dal leggere, scrivere, far di conto – con tanti saluti al «diritto all’istruzione» dei propri figli.   La più parte di loro si accontenta del bel voto gonfiato, da ottenere senza fatica, senza stress e senza frustrazioni. Non comprendono – non solo loro per la verità – che la prodigalità valutativa, essendo una finzione, è non soltanto diseducativa, ma mortificante sia per il mittente sia per il destinatario.   Hanno recepito l’idea che la scuola debba essere ritagliata come un abito su misura addosso al loro figlio (peccato che questo cambi taglia ogni momento, perché cresce e matura, per fortuna). La personalizzazione viene spacciata urbi et orbi come un salto di qualità necessario, quando invece conduce da un lato alla paralisi didattica, dall’altro alla medicalizzazione delle fragilità – per cui qualsiasi ostacolo non è più qualcosa da superare, da vincere, per conquistare un traguardo, ma semplicemente qualcosa da rimuovere dal percorso   È chiaro che a queste condizioni il cosiddetto «successo formativo» non può che essere garantito. Ma a che prezzo? Al prezzo di abbassare sempre più obiettivi e risultati e di rinchiudere l’alunno nel proprio bozzolo abbandonandolo a se stesso. Con il fenomenale risultato che le sue fragilità si cronicizzeranno (ora per giunta si fisseranno algoritmicamente nella memoria indelebile delle banche dati) e le sue potenzialità, non stimolate, si deprimeranno sul nascere.    È questo, oltretutto, il modo migliore – il più subdolo: si chiama «inclusione» – per rompere l’ascensore sociale, cioè per far perdere alla scuola la sua funzione essenziale di assicurare la mobilità sociale. Perché l’egualitarismo dell’ignoranza interno alla scuola si traduce fatalmente al suo esterno in differenziazione classista (Gramsci, che ci aveva visto molto lungo, parlava al proposito di divisione in caste) e lo status della famiglia di provenienza diventa più decisivo che mai per il destino degli alunni.    Non sono, queste, considerazioni astratte. Chi ha a che fare con l’ambiente scolastico, sa come sia sempre più frequente che gli studenti approdino alle medie, o anche alle superiori, senza saper impugnare la penna e prendere appunti; senza riuscire a mantenere l’attenzione se non per un tempo molto fugace; senza essere in grado di afferrare periodi complessi ma, ancor prima, senza comprendere il significato delle parole che eccedano un corredo sempre più scarno. Sopravvive un solo modo verbale, l’indicativo, con giusto un paio di tempi.    L’italiano della nostra tradizione letteraria sta diventando di fatto una lingua straniera: è sempre meno accessibile, a tratti del tutto incomprensibile. E non ci si riferisce all’italiano di Dante o di Machiavelli, ma a quello di Pascoli, di d’Annunzio, di Manzoni (lo lamentava, ancora negli anni ’80 del Novecento, Alfonso Traina, e chissà cosa direbbe ora).    Queste debolezze strutturali, diffuse e ingravescenti, ostacolano la produzione orale e scritta, e condannano troppo spesso gli alunni al silenzio e alla pagina bianca. Con tutta la frustrazione che ne deriva.

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Lungo la china percorsa da decenni, il laboratorio della pandemia ha segnato indubbiamente un cambio di passo. Dopo l’isolamento forzato e l’esperienza devastante della DAD, alle voragini cognitive si è sommato un pregiudizio psicofisico generalizzato: gli studenti sono rientrati in aula più arrugginiti e inselvaggiti che mai, regrediti, profondamente provati dalla deformazione protratta dei ritmi della loro quotidianità, dalla immersione telematica in apnea, dalla prolungata desuetudine allo studio, dalla espropriazione di quel contesto vitale, fisico e partecipato, che la classe costituisce in modo infungibile.   Il rapporto UNESCO del 2023 che esamina gli «effetti avversi» della chiusura delle scuole e dell’uso assorbente delle tecnologie educative si intitola significativamente An EdTech tragedy.   Insomma, la cattività ha fatto da detonatore a problemi preesistenti. Ma l’esperimento è servito per incrementare, normalizzare e legittimare l’invasione selvaggia del digitale dentro un luogo che, all’opposto, avrebbe dovuto esserne preservato e semmai bonificato. Subito dopo la parentesi emergenziale, le scuole sono state inondate dei soldi del PNRR da spendere in materiale tecnologico (peraltro soggetto a rapidissima obsolescenza) in ossequio a ferree condizionalità e a una tabella di marcia incalzante – la fretta, si sa, è un espediente impareggiabile per azzerare il tempo della riflessione.   Dal canto loro, i più giovani hanno guadagnato un alibi istituzionale per avallare la dipendenza dal dispositivo informatico, e pazienza se questo funzioni anche da idrovora di informazioni personali, da braccialetto elettronico, da profilatore, da spacciatore continuo di spazzatura fluttuante nell’etere.    Non occorrono certo studi scientifici particolari – per quanto ce ne siano a bizzeffe, e siano dirimenti – per capire ciò che è autoevidente: ovvero che le funzioni, sia fisiche sia cerebrali, appaltate precocemente a una protesi, peraltro così potente, o sono inibite a priori, oppure si atrofizzano. Peccato che si tratti di funzioni non marginali, ma letteralmente fondanti.    Se già da tempo i libri di testo (ciò che ne rimane) sono sempre più zeppi di immagini (oltre che di errori) e vuoti di parole, e le poche parole sono ridotte a slogan, ora vengono sovente sostituiti dai tablet, e la penna dalla tastiera. Si perdono l’abitudine alla lettura e l’abilità della scrittura, che costituiscono la base ideale e materiale di tutta attività scolastica.   Non è un caso che la scrittura, insieme alla grammatica e alle lingue dotte, sia sempre stata fonte di grave imbarazzo per la pedagogia progressiva: i suoi adepti, incantati dalla modalità di apprendimento del primo linguaggio orale (poiché è vero che il bambino impara a proferire le sue prime parole spontaneamente per imitazione), restano intrappolati nell’equivoco che il linguaggio tout court si apprenda spontaneamente, per istinto e senza fatica.   Non è così. Già gli antichi avevano capito come il linguaggio umano si dispieghi su due livelli: quello del lessico, cioè il sistema di segni; e quello del discorso, il λόγος [logos]. I γράμματα [gràmmata] –le lettere, ciò che è scritto) sono la struttura elementare, atomica, del linguaggio, il suo elemento indivisibile: stanno dentro la voce – ἐν τῇ ϕων (en té phonè) e rendono la voce significante, intellegibile, appunto in quanto scrivibile.    La scrittura è dunque un atto consapevole e volontario, che richiede esercizio, e che man mano libera il linguaggio dagli errori legati all’imitazione espandendo la sua orbita lessicale e sintattica.    Oggi l’arte dello scrivere a mano – in particolare della scrittura corsiva – non è più coltivata. Insieme alla manualità fine, viene così inibita tutta la vasta gamma di attitudini che si sviluppa esercitandola, a partire dalla memoria – in russo si dice рука помнит [ruka pomnit], «la mano ricorda», per sottolineare come la mente si appropri del concetto anche attraverso il corpo, attraverso la memoria muscolare che passa per la mano. Tra l’altro, la grafia è un connotato unico e distintivo del suo autore e il toglierla di mezzo a scuola rappresenta una via maestra verso la spersonalizzazione e l’omologazione.    A ben vedere, la scrittura è uno degli elementi in cui si radica la distinzione tra uomo e animale. L’argomento è stato approfondito dal prof. Agamben nel suo recente saggio La voce umana (Edizioni Quodlibet, 2023). Anche l’animale, infatti, possiede un linguaggio. Ma il linguaggio umano, a differenza di quello animale, non è un mero flusso di suoni.   Esso consta dell’elemento costitutivo della grafia, che lo sposta da un piano sensoriale a un altro: dal binomio voce-orecchio, a quello mano-occhio. Permette di «vedere la voce», di leggerla. Più in generale, permette di oggettivare la lingua, di articolarla e, quindi, di dominarla. Separandola da sé, l’uomo ha fatto della sua lingua uno straordinario strumento di conoscenza, proprio perché con lo scritto può lasciare traccia di sé: può fissare il suo messaggio e, fissandolo, può tramandarlo.   Alla luce di questi pur sommari rilievi, non si può non pensare a quali ricadute abbia il togliere di mezzo a scuola il magistero e l’esperienza della scrittura, la consuetudine col segno e con il processo di astrazione che al segno è collegato; e l’esercizio della parola, che è simbolo – da συμβάλλω [symbàllo], «unisco» – , ciò che appunto unisce l’uomo sia alla cosa significata, sia ai suoi simili coi quali la condivide.   Il danno che si causa negando tutto questo si misura anche se si considera come tanto per l’apprendimento della lingua materna quanto per quello del linguaggio matematico (è dimostrato chei due sono intimamente correlati) esista una finestra temporale di opportunità, un periodo dentro il quale la natura ha posto una particolare sensibilità a fissare i segni e i suoni, ovvero le parole e la musicalità della lingua, a stamparli nella memoria. Passata questa fase, diventa difficile recuperare il terreno perduto.   E ancora, a proposito di lingua madre – e della acquisizione graduale della capacità di dominarla, di modularla, di distinguerne i diversi registri, di scoprire in ogni lemma uno scrigno di senso e di saperci mettere mano –, si pensi per contrasto alla moda del CLIL (che consiste nell’insegnamento in inglese delle materie diverse dall’inglese), una metodologia introdotta dalla «buona scuola» e oggi spinta con valanghe di denaro dal PNRR insieme all’alluvione digitale. Essa rappresenta uno straordinario veicolo di erosione della nostra lingua (e della civiltà che vive dentro la sua lingua) e un micidiale strumento di colonizzazione linguistica: costituisce un avallo alla superficialità e approssimazione espositiva e, di riflesso, contenutistica. È la rivincita del maccheronismo.

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Si diceva anche del fattore tempo, nel senso che ogni tipo di apprendimento ha il suo momento ideale. Ma non solo. Ogni apprendimento richiede un congruo tempo di assimilazione: la strada lenta e paziente della formazione non ammette troppe scorciatoie. Sempre per contrasto, si pensi allora all’altra moda della riduzione a quattro anni delle scuole superiori, come se ciò che si è sempre studiato in cinque anni, integrandosi peraltro a un percorso di crescita e maturazione complessive, possa essere strizzato e ingurgitato in quattro. Un po’ come la storia del letto di Procuste.    C’è un simpatico passaggio di Proclo, che è la fonte principale su cui si fonda la storiografia di Euclide: è Proclo a collocare Euclide al tempo del primo Tolomeo e a dirci che fu discepolo di seconda generazione di Platone. Egli, nel suo Commento a Euclide (II, 68) scrive: «…si racconta che Tolomeo una volta gli chiese (chiese a Euclide, ndr) se non ci fosse una via più breve degli Elementi per apprendere la geometria; ed egli rispose che per la geometria non esistevano vie fatte per i re».    Anche la matematica è un linguaggio che si nutre di segni, di scrittura, di parole, di astrazione.    Oggi l’enfasi sugli STEM implica, e allo stesso tempo induce, una contrapposizione del tutto pretestuosa tra materie scientifiche e materie umanistiche; nell’orizzonte pedagogico asfittico di cui si è detto finora, la matematica, la fisica e le scienze sono degradate a mera pratica laboratoriale e sottratte all’astrazione e alla teoria; quando invece – non meno della filologia o della storia – sono anch’esse forme del contegno teoretico.   Fausto Di Biase, che è un matematico, spiega: «Avere abbandonato lo studio serio della geometria euclidea e avere giovani immersi nella dimensione puramente visuale a discapito di quella simbolica e verbale, a discapito in particolare del ragionamento ipotetico deduttivo che esige il rigore della dimostrazione, ecco, tutto questo già significa essere “anti-matematici”».    Abolendo la prospettiva storica dei saperi, si recidono le radici, indissolubilmente intrecciate, della matematica e della filosofia, delle scienze, dell’arte e della letteratura; radici che affondano nello stesso humus, fertile e geniale, nel quale vissero Pitagora, Anassimandro, Platone, Euclide, Archimede.   Esiste quindi un legame inscindibile tra linguaggio e pensiero, tra categorie grammaticali e categorie logico-filosofiche. La stessa matematica, come si è visto, è impensabile al di fuori del linguaggio e di categorie logico-filosofiche. E le nostre strutture grammaticali – sempre per via di quelle ascendenze – riprendono la terminologia aristotelica: per noi, cioè, l’alfabeto del pensiero sono le categorie della lingua greca.    Non è un caso che da tempo si cerchi di uccidere il liceo classico, dipinto come una sorta di monumento all’inutilità da svecchiare e professionalizzare con curvature fantasiose e altre improbabili trovate. Ce la faranno, probabilmente, ad ammazzarlo. Il colpo di grazia sarà inferto dall’orientamento vincolante, prossima barbara frontiera, semplicemente perché non vi si orienterà più nessuno, e così morirà per asfissia.    Perché sarebbe un delitto? Perché il liceo classico possiede l’esclusiva dello studio della lingua greca, chiave di accesso a un deposito di pensiero e di sapere irrinunciabile. Al miracolo compiuto dai greci noi dobbiamo non soltanto modelli letterari eterni, ma anche la matematica sistematizzata da Euclide, la scienza della natura dell’epoca l’ellenistica, la filosofia di Platone e di Aristotele. Senza contare che oggi, nemmeno ce ne rendiamo conto ma nel linguaggio quotidiano parliamo greco (oltre che latino) e saper risalire all’etimo delle parole è ciò che permette di usarle comprendendo cosa davvero le abita – ἔτυμος [ètymos] significa «vero, reale».   Un esempio tra gli innumeri che si potrebbero fare, giusto per rimanere in tema: il ramo della scienza che si occupa dello studio e della fabbricazione degli strumenti magici capaci di scimmiottare alcune funzioni del cervello umano, è detto «cibernetica». Il κυβερνήτης [kybernètes] è il timoniere. La κυβερνητική τέχνη [kybernetiché tèchne] è l’arte di governare la nave.   È il greco a dirci che abbiamo a che fare con un fenomeno di sostituzione al timone della nostra nave: che stiamo cedendo questo timone a una guida aliena, meccanica, che erode la nostra libertà di decidere la rotta, intacca il nostro libero arbitrio, orienta e condiziona la nostra vita nella logica di un controllo sempre più penetrante e pervasivo.    Ecco perché il primo dei servizi che la scuola dovrebbe onorare, a maggior ragione di fronte all’irruzione di tecnologie tanto sofisticate e invadenti (di fronte al sempre più aggressivo non-pensiero algoritmico), è proprio quello di coltivare il linguaggio, chiave di accesso a un patrimonio inestimabile (e indisponibile) di scienza, arte, letteratura, che non va certo ascritto semplicisticamente alla categoria del passato, bensì a quella del durevole, dell’eterno.    Senza la parola infatti non c’è comunicazione, col suo valore catartico: sapersi esprimere e saper comprendere gli altri è ciò che permette di uscire dal proprio guscio autoreferenziale superando la limitatezza e l’istintività della propria esperienza contingente.    Ma, prima ancora, senza la parola non c’è ragionamento. Nello sforzo di parlare, di leggere, di scrivere, cova il seme della libertà – dove libertà è il sapersi emancipare da visioni settarie e parziali, imposte ab extra, per imparare ad analizzare e interpretare autonomamente la realtà.    Oggi, al contrario, la scuola fornisce contenuti ideologici preconfezionati, oltretutto prescrittivi: tende a imporre stili di vita e modi di pensare conformi, impartisce lezioncine morali sottoforma di educazioni omologate. Si fa ripetitore dei media, appropriandosi degli stessi slogan, della stessa iconografia, degli stessi codici corrivi. Così, oltre a svuotarsi dei contenuti fondamentali, imbocca una preoccupante deriva autoritaria.   Solo recuperando la sua sostanza culturale attraverso l’uso della parola vera, della parola che mantiene la presa sulla realtà che designa (e che è il contrario esatto della barbarie degli slogan), la scuola può tornare a essere vivaio e palestra di libertà, e può restituire ai più giovani, insieme alla cognizione della realtà e insieme al senso delle dimensioni che servono a prendere le misure della realtà – comprese l’altezza, la profondità, la distanza – anche una solidità interiore andata quasi completamente distrutta. Perché, al contrario di ciò che affermano tanti melensi luoghi comuni, l’incapacità della scuola di abituare i giovani a un lavoro impegnativo e sensato esaspera la loro fragilità psicologica. Il professor Agamben, in un suo articolo del 2023 (intitolato Virgole e fiamme), scrisse tra l’altro: «Gli uomini hanno nel linguaggio la loro dimora vitale e se pensano e agiscono male, è perché è innanzitutto viziato il rapporto con la loro lingua. Noi viviamo da tempo in una lingua impoverita e devastata, […] ridotta a un piccolo numero di frasi fatte; il vocabolario non è mai stato così stretto e consunto, il frasario dei media impone ovunque la sua miserabile norma, nelle aule universitarie si tengono lezioni in cattivo inglese su Dante: come pretendere in simili condizioni che qualcuno riesca a formulare un pensiero corretto e ad agire in conseguenza con probità e avvedutezza? Nemmeno stupisce che chi maneggia una simile lingua abbia perso ogni consapevolezza del rapporto tra lingua e verità e creda pertanto di poter usare secondo il suo tristo profitto parole che non corrispondono più ad alcuna realtà…».   Infine, non si può non citare l’attacco del Vangelo di San Giovanni: «Ἐν ἀρχῇ ἦν ὁ λόγος, καὶ ὁ λόγος ἦν πρὸς τὸν θεόν, καὶ θεὸς ἦν ὁ λόγος…» («In principio era il Logos, ed il Logos era presso Dio, ed il Logos era Dio…»).   E più avanti: «…Καὶ ὁ λόγος σὰρξ ἐγένετο καὶ ἐσκήνωσεν ἐν ἡμῖν…» («e il Logos si fece carne, e venne ad abitare (lett: piantò la sua tenda) in mezzo a noi…».    Per dire che la profondità di quanto sta accadendo sotto i nostri occhi – qualcosa di clamorosamente sottostimato e colpevolmente non indagato – è tale da intaccare il nucleo duro della natura dell’uomo, la cifra stessa dell’umano.    Ecco perché non possiamo rassegnarci alla sostituzione alla guida della nostra nave, ma abbiamo il dovere assoluto di attrezzarci, e di attrezzare chi ci succede, per restare ciberneti di noi stessi e custodire il fuoco – che è il logos, la parola, il simbolo.    I nostri figli, al traino della macchina e immersi nel fumo degli slogan incantatori, rischiano di perdere definitivamente l’accesso al tesoro sedimentato lungo un passato grande e maestro. Ma solo da qui può scaturire un futuro dove ancora brillino la luce della conoscenza e la forza della ragione.   Per elevare ad maiora, verso cose più grandi, chi avrà l’onore e l’onere di viverlo.   Elisabetta Frezza

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