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Scuola 4.0, contraddizione e catastrofe. Nuovo intervento di Elisabetta Frezza

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Renovatio 21 pubblica l’intervento di Elisabetta Frezza al Convegno di Parma «L’assetto dei ruoli e delle responsabilità dopo l’emergenza» di venerdì 5 maggio. Non si tratta del primo scritto dell’autrice – che può essere considerata come una delle pochissime persone impegnata nell’analisi del tema della Scuola 4.0 – dedicato a questo specifico argomento. Renovatio 21 aveva pubblicato mesi fa l’articolo «Scuola 4.0, il programma di smantellamento dell’istruzione continua» e l’articolo «L’abisso della Scuola 4.0», che potrebbe aver avuto una certa eco in vari ambienti.

 

 

 

Credo possiamo dirci tutti d’accordo nel ritenere la scuola un ganglio fondamentale della cosa pubblica, della res publica, non fosse che per il fatto di essere quello che, più di ogni altro, ci parla di futuro.

 

È tanto fondamentale quanto (da alcuni decenni a questa parte) politicamente e socialmente negletto: tant’è che è stato lasciato in gestione, di fatto, da un lato a decisori extraistituzionali dai molti e stravaganti nomi (TreeLLLe, Invalsi, Indire, ecc.), collocati al di fuori dei luoghi della dialettica politica e legati a doppio filo a organismi sovranazionali anch’essi non rappresentativi; dall’altro al braccio operativo di apparati pedagogico-burocratici che, innervando – loro sì! – le istituzioni centrali e periferiche, hanno garantito il perpetuarsi di un moto lineare e costante pur nell’avvicendarsi di governi di diversi colori. 

 

La scuola è insomma un ircocervo tecno-burocratico, che ha raggiunto la sua espressione compiuta con l’epifania della buona scuola renziana – «buona» per autocertificazione: un marchingegno che è stato assemblato al di fuori delle stanze parlamentari, ma poi in queste stanze è stato ratificato e confezionato sottoforma di legge dello stato.

 

Il suo testo è scritto in quella lingua parallela, si può dire esoterica, le cui formule di ordinanza e i cui stilemi permeano tutto il pianeta scuola, a partire dai suoi vivai, e vi hanno attecchito al punto da diventare idioma comune, e far entrare tutti in risonanza.

 

Il risultato di questo riformismo compulsivo, nutrito dal mito dell’innovazione – dell’innovare per innovare, sul presupposto che il nuovo è buono per definizione –, è tale che qualunque persona raziocinante suggerirebbe di correggere il tiro, se non di invertire la rotta. 

 

Perché oggi ci troviamo a fare i conti con una vera catastrofe educativa: scolari sempre più ignoranti (anche se inconsapevoli di esserlo, perché abbacinati da diplomi sfolgoranti); docenti sempre più depressi; famiglie sempre più rassegnate (o semplicemente accontentate con gli effetti speciali esposti in vetrina – la vetrina si chiama PTOF –, oppure tacitate con voti gonfiati: troppi genitori, purtroppo, si fanno disinnescare così).

 

Fatto sta che siamo tutti abitatori in pectore di una incombente società analfabeta, cieca verso le proprie ricchezze artistiche, dimentica della propria straordinaria cultura, ineducata – e perciò insensibile – alla bellezza.

 

In questo pluridecennale processo di demolizione controllata della scuola a mezzo riforme, lo choc pandemico ha segnato una tappa decisiva, anche perché ha occupato un tempo proporzionalmente assai lungo nella economia di ancor brevi esistenze come quelle dei bambini e dei ragazzi. 

 

Nel biennio 2020/2022 sulla scuola si è abbattuta, non a caso, una alluvionale normativa d’emergenza a carattere speciale, che si è contraddistinta per un grado di inflessibilità rimasto ineguagliato nel panorama europeo e internazionale. Ma che, sempre non a caso, ha consentito di raggiungere in tempi compressi traguardi insperati.

 

Ha sortito infatti un effetto catapulta, in duplice direzione: ha permesso di espandere a dismisura lo spazio occupato, in orario curricolare, da contenuti ideologici, tanto effimeri quanto scadenti, correlativamente erodendo lo spazio necessario all’apprendimento delle materie fondamentali (peraltro l’indottrinamento scolastico è ora sistematizzato dentro la nuova materia pigliatutto che va sotto l’etichetta, bella e inattaccabile, di «nuova educazione civica», introdotta dalla l.92/2019 entrata in vigore con l’a.s. 2020 e che comprende, come piatto forte, la catechesi sull’Agenda 2030); ma l’emergenza ha anche consentito di fare un improvviso balzo in avanti nella cosiddetta transizione digitale, un balzo che, dopo le prove generali celebrate appunto grazie al pretesto sanitario (con l’allenamento intensivo a vivere, studiare e lavorare nella c.d. contactless society), si è cristallizzato, rendendo stabile se non irreversibile il punto di caduta. 

 

Il recente esperimento sociale di cui la scuola è stata laboratorio privilegiato ha tuttavia prodotto anche un effetto collaterale: ha fatto risuonare un allarme così forte da non poter più essere soffocato. Perché il riavvio delle lezioni dopo il loro trasloco nella bolla telematica (con la fallimentare “didattica a distanza”), oltre a far emergere il diffuso danno psicofisico arrecato ai più giovani da misure securitarie sproporzionate, ha messo impietosamente a nudo le paurose voragini cognitive accumulate nel tempo dagli scolari, da ben prima della emergenza.

 

Essi sono rientrati in aula più arrugginiti e inselvaggiti che mai, regrediti e profondamente provati dalla esperienza nefasta dell’isolamento domestico; dalla deformazione protratta dei ritmi della loro quotidianità; dalla immersione telematica in apnea, dalla prolungata desuetudine allo studio, dalla espropriazione fraudolenta di quel contesto vitale, fisico e partecipato, che la classe costituisce, in modo infungibile.

 

La cattività, insomma, ha fatto da detonatore a problemi preesistenti e in parte già cronicizzati.

 

E qui apro e chiudo una breve parentesi. Non dobbiamo dimenticarci di cosa hanno subìto gli scolari, impunemente. Ricordiamo il rituale del controllo della temperatura e delle abluzioni; l’occultamento dei volti e l’impedimento a respirare; i sensi unici alternati nei corridoi; la quarantena dei fogli; il divieto di uscire dal recinto segnato con il nastro adesivo o delimitato con il plexiglas; il divieto di passarsi una matita; la disinfestazione del materiale scolastico; le misurazioni col metro tra le rime buccali; ricordiamo anche le stanze di isolamento.

 

Ricordiamo il ricatto: solo se ti sottoponi a un trattamento sanitario in fase di sperimentazione puoi salire sull’autobus che ti porta a scuola, puoi fare sport, entrare in un museo, in un teatro, in un cinema, frequentare l’università.

 

Ricordiamo gli episodi di incuria verso bambini che stavano male e venivano abbandonati a se stessi, di brutale discriminazione, di vera e propria vessazione gratuita.

 

Ne ricordiamo troppi, di questi episodi, figli della sospensione del diritto e di un incredibile scollamento dalla logica e dalla ragione, che ha scatenato in molti sedicenti educatori una morbosa eccitazione per l’esercizio di un potere indebito quanto inebriante, monco di una minima riserva aurea di umanità.

 

Ecco, non possiamo pensare che tanta dissennatezza non abbia lasciato cicatrici profonde, anche indelebili, in chi ci è rimasto immerso per anni decisivi della propria esistenza. Eppure, di questo massacro, molti hanno gioito, perché ne hanno tratto vantaggio. Chiusa parentesi.

 

Ma all’allarme giovani che oggi risuona un po’ dappertutto, l’istituzione come risponde? Risponde incrementando le dosi del veleno che lo ha provocato: e cioè da una parte svuotando sempre più la scuola dei suoi contenuti essenziali (delle conoscenze oggettive e durevoli, quelle che producono frutto nel tempo e aiutano a strutturare una personalità) per sostituirli con paccottiglia usa e getta e con attività ricreative assortite; dall’altra parte sterilizzandola e smaterializzandola, ovvero alienandola nella dimensione asettica del virtuale.

 

In concreto, da una parte il curricolo viene saturato con i dogmi dell’Agenda 2030 (oltre che con PCTO e soft skills, orientamenti e trovate varie); dall’altra parte viene imposta a ciascuna scuola, di ogni ordine e grado, una radicale metamorfosi digitale in ossequio al Piano scuola 4.0.

 

Queste due voci, questi due filoni, peraltro si intersecano, sempre sotto il segno invincibile della innovazione. Del resto, hanno la stessa matrice, lo stesso marchio di fabbrica. La nuova educazione civica, materia trasversale che intacca e colora tutte le altre discipline, e i loro libri di testo, si pone infatti come obiettivo principe quello di plasmare “cittadini globali e digitali” (formuletta ossimorica e beota che significa il contrario di ciò che evoca: significa infatti non-cittadino, apolide devoto all’Agenda ONU 2030 la quale, con i suoi 17 “goal”, che sono i 17 comandamenti della nuova religione universale, è il contenitore capiente di tutti i macromotivi ideologici in voga e in continuo aggiornamento; per esempio, ha recepito in corsa tutto il pacchetto di precetti sanitari).

 

I contenuti ideologici, quindi, in misura sempre maggiore prendono il posto, a scuola, di quelli propriamente culturali e delle conoscenze fondamentali (in pratica, si integra un aliud pro alio). Ma – attenzione – perché sta bollendo in pentola una sostituzione ancor più radicale: una vera e propria palingenesi tecnologica, che significa lo smantellamento, anche fisico, della scuola come l’abbiamo sempre conosciuta e come ancora resiste nel nostro immaginario: nel senso di mura, di persone in carne e ossa, di strumenti didattici come penne, libri, quaderni. 

 

Ed è su questo che vorrei soffermarmi oggi, nei limiti del tempo a disposizione, per cercare di far comprendere di quale magnitudine sia la manovra in cantiere; una manovra che, foriera di ricadute inimmaginabili sulla formazione dei nostri giovani e sulla vita di tutti noi, si sta realizzando con una fretta sconsiderata, sfuggendo qualsiasi discussione politica nel merito, col favore del buio e del silenzio.

 

Mi riferisco al Piano scuola 4.0, che è un documento non firmato, lungo 39 pagine, di delirio futuristico, scritto in modo che non saprei come altro definire se non degradante. Lo scempio linguistico rientra nel fenomeno di imbarbarimento culturale e colonizzazione cerebrale di cui molti vanno fieri come fosse una medaglia al valore.

 

Questo giudizio non è un’iperbole; sfido chiunque – testo alla mano – a smentirlo. 

 

Il Piano contiene la tabella di marcia che segna le progressive tappe da spuntare, da qui al 2025, nel processo di digitalizzazione della didattica e della organizzazione scolastica italiana secondo le linee di investimento previste dal PNRR.

 

L’estate scorsa, a ciascuna singola scuola italiana – dagli asili fino alle università – è stata gettata un’esca appetitosa: ogni scuola si è vista recapitare a bilancio decine, spesso centinaia di migliaia di euro (a seconda del tipo di istituto e della sua grandezza), «per accelerare il processo di transizione digitale della scuola italiana in tutte le diverse dimensioni e allinearlo alle priorità dell’Unione Europea». Si tratta di soldi che la UE piglia dalle nostre tasche e ci restituisce ordinandoci come dobbiamo spenderli.

 

Gli istituti che volessero vedere confermati questi finanziamenti dovevano presentare, entro il 28 febbraio, il proprio progetto, e caricarlo in una piattaforma che si chiama FUTURA. 

 

In pratica, la burocrazia nostrana, al guinzaglio di quella europea, dice (o meglio, sussurra) a ciascun dirigente: io ti do tanti soldi, non perché tu me li chiedi per fare qualcosa che ti serve, ma perché devi spenderli per acquistare articoli dal mio catalogo, anche se non ti servono; e, in funzione di questo mucchio di roba che ti si rovescerà addosso, devi ristrutturare la didattica e la formazione del personale, l’offerta formativa e il sistema di valutazione. 

 

Si crea così una immensa mangiatoia per il mercato delle tecnologie dell’educazione, che alimenta lo strapotere delle lobby del digitale. E d’altra parte secondo l’EFF, una fondazione americana di legali specializzati nella tutela dei «diritti digitali», la tecnologia digitale educativa è «la più importante industria al mondo di estrazione di dati». E, come dice Peter Greene: «Se i dati sono il nuovo petrolio, allora le scuole pubbliche sono il nuovo Texas».  Si promuove questo immenso «supermercato» in cui le scuole non «possono», ma «debbono», precipitarsi a fare acquisti. Se poi i muri cadono a pezzi e i docenti sono sottopagati, questo al PNRR non interessa, arrangiatevi. 

 

Si tratta del più imponente finanziamento mai ricevuto dalle scuole italiane (per un totale di 2,1 miliardi di euro) e destinato esclusivamente – per vincolo tassativo – alla creazione 1) di «ambienti d’apprendimento innovativi» per scuole sia di primo sia di secondo grado («Next generation Classroom») e 2) di «laboratori per le professioni digitali del futuro» per le sole scuole di secondo grado («Next Generation Lab»). 

 

L’ex ministro del governo Draghi Patrizio Bianchi (direttore scientifico della Fondazione Internazionale Big Data e Intelligenza Artificiale IFAIB) lo ha definito «il più grande intervento trasformativo mai realizzato, con risorse e tempi certi». Qui sta il punto. 

 

È ravvisabile infatti un indubbio salto di qualità rispetto a provvedimenti del passato anche recente, dei quali pure l’innovazione tecnologica, con tutta l’enfasi che la sorregge da anni, rappresentava il motore: per esempio i due Piani Nazionali Scuola digitale che si sono succeduti dal 2017, e anche i progetti europei del Programma Operativo Nazionale (PON istruzione), i quali però prevedevano risorse e aree di intervento decisamente più limitati e, soprattutto, conservavano il profilo della volontarietà.

 

Invece la pioggia di denaro del PNRR, coi suoi tempi e i suoi modi, è legata ai precisi vincoli e condizionalità, e incorpora processi serrati di gestione e di monitoraggio, con tanto di interventi amministrativi specifici in caso di inadempimento. 

 

Non è facile prefigurarsi plasticamente lo stravolgimento prossimo venturo. Proviamo a farcene un’idea.

 

Abbiamo detto che il primo ambito di intervento (Next Generation Classroom) riguarda l’ambiente dell’apprendimento, definito “ecosistema di apprendimento” in omaggio alla concorrente retorica ambientalista in agenda.

 

Dicono: lo spazio tradizionale, configurato come «un’aula di forma quadrata o rettangolare, con le file di banchi disposti di fronte alla cattedra del docente», va urgentemente smantellato perché obsoleto. «La ricerca nazionale e internazionale ha mostrato come il modello tradizionale di spazio di apprendimento non sia oggi più in linea con le esigenze didattiche e formative delle studentesse e degli studenti rispetto alle sfide poste dai cambiamenti culturali, sociali, economici, scientifici e tecnologici del mondo contemporaneo».

 

Da notare subito il vizio ricorrente di spacciare per acquisizioni scientifiche scelte del tutto discrezionali e anzi arbitrarie, semplicemente funzionali alla vis innovatrice dell’agenda. Si parla infatti di «ricerche nazionali e internazionali» senza alcun riferimento bibliografico (che probabilmente non esiste). Come fanno notare su Roars Giovanni Carosotti e Rossella Latempa, le presunte fonti scientifiche non sono citate, ma solo millantate; in compenso vengono citate le raccomandazioni del World Economic Forum, Report 2020, The Future of Jobs. Il che la dice lunga. 

 

Ma torniamo al nostro documento. 

 

«Gli ambienti fisici di apprendimento non possono essere oggi progettati senza tener conto anche degli ambienti digitali (ambienti on line tramite piattaforme cloud di e-learning e ambienti immersivi in realtà virtuale) per configurare nuove dimensioni di apprendimento ibrido. L’utilizzo del metaverso in ambito educativo costituisce un recente campo di esplorazione, l’eduverso, che offre la possibilità di ottenere nuovi “spazi” di comunicazione sociale, maggiore libertà di creare e condividere, offerta di nuove esperienze didattiche immersive attraverso la virtualizzazione, creando un continuum educativo e scolastico fra lo spazio fisico e lo spazio virtuale per l’apprendimento, ovvero un ambiente di apprendimento onlife». Dove va sottolineata, tra gli altri obbrobri, l’orwelliana novità del lemma onlife, evidente calco di online, assurto quest’ultimo a entità primaria da cui deriverebbe il resto della esperienza umana. Tutto ribaltato.

 

La scuola deve diventare una sorta di squallida sala giochi in cui le tempeste di immagini soppiantano lo studio delle leggi della realtà. All’orizzonte, il suo trasloco, armi e bagagli, nel metaverso. Che non è altro che un casco che impedisce di vedere la realtà e immerge in una consolatoria fiction permanente, regno incontrastato delle lobby del digitale smaniose di impossessarsi dei luoghi, delle menti, delle intimità. 

 

Quanto ai Next Generation Labs, essi mirano «allo svolgimento di attività autentiche e di effettiva simulazione dei contesti, degli strumenti e dei processi legati alle professioni digitali, di esperienze di job shadowing, […] di azioni secondo l’approccio work based learning,[…]. Si caratterizzano per essere coperti da una connettività diffusa in banda ultra larga, e sono aperti alla sperimentazione della tecnologia 5G». 

 

«Tali spazi devono essere disegnati come un continuum fra la scuola e il mondo del lavoro, coinvolgendo, già nella fase di progettazione, studenti, famiglie, docenti, aziende, professionisti, e integrandosi con i Percorsi per le Competenze Trasversali e l’Orientamento (PCTO). I Next Generation Labs possono rappresentare una grande opportunità per ampliare l’offerta formativa della scuola, adeguando e innovando i profili di uscita alle nuove professioni ad alto uso di tecnologia digitale». «Le competenze digitali avanzate dovrebbero sostenere la forza lavoro, consentendo alle persone di acquisire competenze digitali specifiche con l’obiettivo di ottenere posti di lavoro di qualità e intraprendere percorsi professionali gratificanti».

 

I novatori hanno deciso (loro) che acquisire competenze digitali specialistiche è prerequisito irrinunciabile per «ottenere posti di lavoro di qualità e intraprendere percorsi professionali gratificanti». Ne consegue che studiosi, contemplativi, poeti, artisti, contadini, artigiani, filosofi, sono per definizione una manica di falliti.

 

Praticamente, occorre allestire delle basi spaziali, e chiamarle scuole. 

 

E nessuno pensi di svicolare, perché «la Roadmap del Piano Scuola 4.0 prevede […] un sistema informativo di monitoraggio e di rendicontazione online. Le scuole gestiranno le azioni di progettazione, allestimento e utilizzo dei nuovi ambienti e dei laboratori secondo un cronoprogramma nazionale».

 

E ancora: il Piano è «un programma di performance, con traguardi qualitativi e quantitativi (milestone e target) prefissati a scadenze precise, che tutti i soggetti attuatori dovranno rispettare». «La rendicontazione sul raggiungimento del target è soggetta a monitoraggio continuo e deve essere costantemente aggiornata dall’istituzione scolastica».

 

Siamo di fronte a un rigido schema impositivo: a un sopruso impacchettato in carta regalo. 

 

Da lustri ci martellano in testa il mantra della autonomia scolastica – strumento in effetti servito per polverizzare il sistema italiano di istruzione – ma, quando si tratta di applicare l’agenda, l’autonomia si dissolve come per incanto

 

Abbiamo detto sopra della strumentalità della «emergenza» ai fini di un cambio epocale di paradigma. Non è una illazione: di ciò il sistema non ha mai fatto mistero. 

 

Anzitutto, una curiosità: già nel 2019, la CEO e cofondatrice di Holon IQ, azienda leader che si occupa di analisi di mercato nel settore EdTech, raccontava come la transizione dovesse avvenire «a poco a poco, poi all’improvviso».

 

Ed era il 2019: profetica. La stessa Holon IQ qualche mese più tardi riferiva: «È stato un periodo straordinario per tutti noi: non importa dove vivi nel mondo, COVID-19 ha portato un’interruzione improvvisa e senza precedenti dell’umanità. L’UNESCO stima che più di 1,5 miliardi di studenti, più del 90% della popolazione studentesca mondiale, siano confinati nelle loro case».

 

Ne erano strafelici, loro. L’UNESCO dal canto suo, già nella primavera del 2020, agli albori dell’evo pandemico, preannunciava in gran pompa l’«esperimento di più vasta scala nella storia dell’istruzione». E due esponenti del Forum di Davos, in aprile, pubblicavano un articolo intitolato «La pandemia da COVID-19 ha cambiato per sempre l’istruzione. Ecco come». Il settore EDTech, che lavora per trasformare il modo in cui il mondo impara, ha guadagnato solo nel primo trimestre 2020 il 10% di quanto aveva guadagnato in dieci anni.

 

In ogni caso, è il Piano stesso a sottolineare in più parti l’assist fornito dalla pandemia. Per esempio dice che la pandemia «ha avuto un rilevante impatto nell’accelerazione dell’utilizzo di tecnologie basate sulla intelligenza artificiale, la robotica, l’automazione, e-commerce e blockchain, la realtà virtuale e aumentata, la stampa 3D/4D, cloud computing, internet delle cose, etc.».

 

Dice pure che il Piano, «affrontando le sfide e le opportunità messe in luce dalla pandemia di COVID 19…sottolinea l’esigenza di una migliore qualità e una maggiore quantità dell’insegnamento relativo alle tecnologie digitali, il sostegno alla digitalizzazione dei metodi di insegnamento e la messa a disposizione delle infrastrutture necessarie per un apprendimento a distanza inclusivo e resiliente». 

 

Grazie alla spinta dell’emergenza pandemica, siamo dunque planati in un altro pianeta, 4.0. La Scuola 4.0 è la metascuola. Il 4 non si sa bene da dove venga, ma evoca la cifra ricorrente della rivoluzione progettata da noti consessi filantropici. L’edizione italiana del manuale di istruzioni scritto da Schwab e intitolato alla Quarta Rivoluzione Industriale è prefatto, guardacaso, da John Elkann.

 

E la Fondazione Agnelli, con tutti i suoi satelliti e in particolare l’osservatorio Eduscopio (che dà periodicamente le pagelle a tutte le scuole d’Italia, così orientando flussi di iscrizioni e finanziamenti), da decenni ospita la cabina di regia del sistema scolastico italiano.

 

Come si legge nel suo sito, la fondazione «ha concentrato attività e risorse sull’education (scuola, università, apprendimento permanente) come fattore decisivo per il progresso economico e l’innovazione…» eccetera eccetera. A ciò si può aggiungere che l’ex ministro Bianchi nel 2018 scriveva il libro 4.0 La nuova rivoluzione industriale. Mettendo insieme le tessere, il Piano 4.0 parrebbe un omaggio all’illuminato programma di Quarta Rivoluzione Industriale. 

 

In questa prospettiva non è difficile cogliere un salto quantico verso la coltivazione differenziata della popolazione: da una parte i piani alti, che si istruiranno alla maniera di sempre – probabilmente persino in aule quadrate o rettangolari, persino con una dotazione di libri di carta, quaderni, penne e matite; dall’altra le masse subalterne, piazzate davanti ai teleschermi a galleggiare nel nulla, a premere pulsantini ed emettere suoni disarticolati, come tante scimmie ammaestrate, preda di automatismi indotti, sottratte allo studio, e alla fatica che lo studio comporta, al contatto fisico con le cose e con i propri simili. Destinate alla atrofia cerebrale. In un mondo che non c’è, ma in cui dovranno evaporare, fluttuare, intripparsi e rimbambirsi, per volere delle istituzioni. 

 

Sguardi, suoni, movimento, tutta quella fisicità e sensorialità che è parte integrante del processo di apprendimento, e che lo nutre, lo sostanzia e lo vivifica, devono sparire.

 

Deve sparire il «corpo a corpo» della lezione, deve sparire la palestra di vita che ogni classe rappresenta, e ha rappresentato per ognuno di noi con il suo caleidoscopio di personalità e di esperienze.

 

Deve sparire la penna, così come la carta, il libro e tutte le operazioni, a partire dalla calligrafia che, si sa, non si esauriscono nell’esercizio della manualità fine (che è già parecchio), ma sono collegate allo sviluppo della memoria e di una serie infinita di attitudini superiori. E che proietta all’esterno un’impronta unica, espressione irripetibile della personalità individuale. Ma nel mondo della tecnologia sono contemplate solo copie conformi. 

 

Soprattutto, deve sparire l’umanità, fatta di carne e spirito, di pensiero e di creatività.

 

Attenzione, perché gli adulti sedotti dall’avanguardia digitale non sono in grado di comprenderne appieno il grado di distruttività, perché nella loro esistenza hanno beneficiato del confronto con la realtà vera, nel suo bene e nel suo male. In qualche modo, nella loro magari inconsapevole memoria immunitaria, possiedono ancora gli ultimi strumenti per padroneggiare i meccanismi della macchina. Ma non è così per quei figli che, connessi senza soluzione di continuità, sovrappongono il virtuale al reale spostando fuori di sé, in una protesi tecnologica, una quantità di funzioni essenziali il cui esercizio è destinato all’atrofia.

 

Epperò in questo scenario folle va registrato un fatto, che è passato, non per nulla, piuttosto in sordina. Il 20 dicembre scorso è stata protocollata una circolare del Ministero dell’istruzione e del merito intitolata: “Indicazioni sull’uso dei telefoni cellulari e analoghi dispositivi elettronici in classe”, volta a contrastare, di questi strumenti, gli utilizzi impropri.

 

Il testo della circolare – che rinvia a quello di una circolare del 2007 dell’allora ministro Fioroni – non ne è la parte più significativa. Ciò che davvero colora l’intervento del ministro Valditara è il documento allegato alla circolare, che va in totale rotta di collisione con il piano scuola 4.0, tanto che forse ha creato nell’ambiente un certo imbarazzo. Pare infatti che il pacchetto (circolare più allegato) non sia stato molto divulgato tra gli interessati (studenti, docenti, genitori) che per lo più non ne hanno nemmeno avuto notizia. 

 

Questo allegato è la Relazione finale della indagine conoscitiva condotta dalla Settima Commissione Permanente del Senato della precedente legislatura, intitolata «Sull’impatto del digitale sugli studenti, con particolare riferimento ai processi di apprendimento», esposta dall’allora senatore Andrea Cangini nella seduta del 9 giugno 2021 (i lavori della commissione erano iniziati nel 2019, prima della pandemia). 

 

La relazione, approvata in commissione con l’unanimità dei voti, è stata redatta sulla scorta, oltre che di una copiosa letteratura scientifica internazionale (questa volta citata in bibliografia), anche delle numerose audizioni di psichiatri, neurologi, psicologi, pedagogisti, grafologi, esponenti delle forze dell’ordine; enumera i gravissimi danni fisici e psicologici che discendono dall’uso/abuso della strumentazione digitale (smartphone, videogiochi, tablet) da parte degli studenti, ma soprattutto afferma come tale uso/abuso comporti la «progressiva perdita delle facoltà mentali essenziali», ovvero delle «facoltà che per millenni hanno rappresentato quella che sommariamente chiamiamo intelligenza». 

 

Per avere una visione prodromica del disastro annunciato, nella relazione si suggerisce di guardare agli effetti che la sbornia digitale ha prodotto sulle giovani generazioni in Cina, Giappone, Corea, modelli avanzatissimi quanto alla diffusione della tecnologia e perciò anticipatori delle sue ricadute, dove da anni proliferano i centri di disintossicazione.

 

«In Cina i giovani “malati” sono 24 milioni», si legge. «Quindici anni fa è sorto il primo centro di riabilitazione, concepito con logica cinese: inquadramento militare, tute spersonalizzanti, lavori forzati, elettroshock, uso generoso di psicofarmaci. Un campo di concentramento. Da allora, di luoghi del genere ne sono sorti circa 400. Analoga situazione in Giappone, dove per i casi più estremi è stato coniato un nome: “hikikomori“. Significa “stare in disparte”».

 

Gli hikikomori «vegetano chiusi nelle loro camerette, perennemente connessi con qualcosa che non esiste nella realtà». «In Giappone sono circa un milione. Un milione di zombie».

 

I dispositivi – diventati una sorta di «appendice del corpo» portatrice di algoritmi programmati per adescare e trattenere il più a lungo possibile i possessori – generano dipendenza e riducono la neuroplasticità del cervello – continua la relazione. Il cervello infatti agisce come un muscolo, si sviluppa in base all’uso che se ne fa e, se una determinata facoltà non è esercitata, si atrofizza. «Niente di diverso dalla cocaina – si legge – stesse, identiche, implicazioni chimiche, neurologiche, biologiche e psicologiche».

 

In conclusione, «dal ciclo delle audizioni svolte e delle documentazioni acquisite non sono emerse evidenze scientifiche sull’efficacia del digitale applicato all’insegnamento. Anzi, tutte le ricerche scientifiche internazionali citate dimostrano, numeri alla mano, il contrario». 

 

Dunque, «rassegnarsi a quanto sta accadendo sarebbe colpevole. Fingere di non conoscere i danni che l’abuso di tecnologia digitale sta producendo sugli studenti e in generale sui più giovani sarebbe ipocrita. Come genitori e ancor più come legislatori avvertiamo il dovere di segnalare il problema, sollecitando Parlamento e Governo a individuare i possibili correttivi». Per non rendere i nostri figli drogati e decerebrati. Sic.

 

In sostanza quindi, lo stesso ministero che spinge a tutta velocità sul Piano scuola 4.0 e con esso impone alle scuole la didattica digitale sulla base di un generico richiamo a una presunta ricerca scientifica, le mette in guardia dagli effetti della didattica digitale diffondendo un vigoroso allarme basato su ampia e documentata ricerca scientifica (letteratura internazionale ed esperti audìti). Avverte che, andando avanti così, cresceremo un esercito di zombie.

 

Ora, la contraddizione è plateale e piuttosto stupefacente. Ma perché il ministro Valditara si è sentito in dovere di riesumare dalla naftalina un documento che sarebbe altrimenti con ogni probabilità caduto nell’oblio? Forse per porre tutti – politici, burocrati, insegnanti, genitori – di fronte alla propria immane responsabilità di questo momento storico? Per mettersi semplicemente in pace la coscienza? Non si sa.

 

Si sa però che intanto, i formidabili appetiti che muovono il PNRR evidentemente temono che lo stridio di questa contraddizione induca qualche ripensamento; ecco perché l’entusiasmo rumoroso delle prime battute del Piano scuola 4.0 (entusiasmo indotto dalla fascinazione del denaro) è stato presto deposto, e la patata bollente affidata alla felpata iniziativa dei dirigenti scolastici, sorretta dalla placida passività di docenti e dalla totale ignoranza dei genitori. Che, come le stelle, stanno a guardare.

 

Oltre a quanto è riportato nella relazione, si possono aggiungere, a margine, le rilevazioni ufficiali dell’OCSE PISA nei circa 80 paesi dell’area OCSE, dove dal 2010 (il 5 maggio 2010 il Parlamento Europeo approva la Nuova Agenda Europea del Digitale, in accordo con le prospettive della Quarta Rivoluzione Industriale di Schwab, per favorire la transizione verso un «mercato unico digitale») è stato avviato un processo di digitalizzazione sorretto da una martellante propaganda: salta fuori che le prestazioni scolastiche medie in lettura e comprensione dello scritto e in scienze e matematica registrano una significativa regressione.

 

I grafici e le tabelle parlano chiaro. I danni maggiori si ravvisano proprio nei paesi più industrializzati e iperdigitalizzati. (Giorgio Matteucci, Il libro nero della scuola, Arianna editrice, 2022: documenta la mappa che sta dietro a tutto questo).

 

È un caso? È la stessa OCSE a rispondere, in un report del 2015, dove dice: «Le risorse investite nelle tic (tecnologie dell’informazione e della comunicazione) per l’istruzione non sono legate al miglioramento dei risultati degli studenti in lettura, matematica, scienze…nei paesi in cui è meno comune per gli studenti utilizzare internet a scuola per i compiti, le prestazioni in lettura sono migliorate più rapidamente rispetto ai paesi in cui tale uso è in media più comune…i livelli di utilizzo del computer al di sopra della attuale media OCSE sono associati a risultati significativamente inferiori». E ancora: «In media, negli ultimi 10 anni, i paesi che hanno fatto investimenti significativi nelle tic per l’istruzione non hanno visto alcun miglioramento notevole nelle prestazioni dei loro studenti in lettura, in matematica e scienze».

 

Ce lo dicono loro. Gli studi sono univoci e comunque è tutto talmente autoevidente – basterebbe chiedere conto a un qualsiasi genitore sensato – che la mancanza di ogni remora, di ogni richiamo alla prudenza, e di ogni tentativo di frenare il treno in corsa, risulta particolarmente inquietante. 

 

Questo vale per gli scolari. Ma non si può prescindere dal guardare anche ai docenti, la cui sorte è per ovvie ragioni interdipendente da quella degli scolari. Perché è dalla loro libertà (o subalternità a logiche aliene) che dipende la formazione dei primi. 

 

La buona riuscita del Piano implica l’addestramento dei docenti, chiamati ad assistere gli alunni in questa fase di transizione, a fare da traghettatori verso il metaverso, da Caronti, insomma.

 

A questo fine il Piano prevede la costituzione di quella che definisce leadership educativaun gruppo di insegnanti, selezionati in base al criterio della fedeltà allo spirito del Piano e alle parole d’ordine che lo sorreggono, in ragione di ciò, assumono una posizione gerarchicamente sovraordinata rispetto ai colleghi. Se si vuole fare carriera, si deve intraprendere un nuovo cursus honorum che nulla ha a che fare con il bagaglio culturale e professionale specifico, il quale passa in secondo piano, anzi diventa proprio irrilevante.

 

In base alle proprie «competenze digitali», infatti, i docenti sono suddivisi in sei livelli (che riproducono i livelli delle certificazioni linguistiche): A1 Novizio, A2 Esploratore, B1 Sperimentatore, B2 Esperto, C1 Leader, C2 Pioniere. Non è uno scherzo. 

 

Si va dunque dal Novizio (A1), che è l’esemplare consapevole, ma con limitate conoscenze, ancora bisognoso di “incoraggiamento e accompagnamento”; fino al Pioniere (C2), vero leader, «mosso» dal continuo «impulso di innovare». 

 

Poi ci sono le «community di docenti creatori di contenuti digitali», che sono belle anche loro.

 

In sostanza, quindi, si vanno strutturando nuove gerarchie interne al corpo docente funzionali ad assicurare la prona esecuzione dei diktat tecnocratici. 

 

Nell’estate del 2022 suscitò una polemica l’improvvida e sinistra uscita dell’ex Ministro Bianchi al convegno organizzato dall’Aspen Institute a Venezia: «in 4/5 anni dobbiamo riaddestrare 650.000 insegnanti per andare incontro ad un insegnamento adeguato al futuro digitale e all’interconnessione globale che si è ormai prospettata».

 

Dal riaddestramento ora si è ripiegati verso un più dolce «accompagnamento» dei docenti – che è un po’ come avere un amministratore di sostegno. Resta comunque immutato l’intento, chiarissimo, di insegnare ai docenti come esercitare il proprio mestiere, e di sottoporli a un controllo stringente. Occorre per loro una formazione obbligatoria e continua, in quanto «è necessario che la progettazione didattica, disciplinare e interdisciplinare, adotti il cambiamento progressivo del processo di insegnamento».

 

Carosotti-Latempa scrivono: «Ciò che è anomalo – ma nient’affatto accidentale – è l’invadenza nel campo strettamente didattico, finalizzata a condizionare le modalità d’insegnamento dei docenti secondo strategie uniformi e imposte dall’alto».

 

Nel Piano, a pag. 27, si legge: «È necessario che la progettazione didattica, disciplinare e interdisciplinare, adotti il cambiamento progressivo del processo di insegnamento e declini la pluralità delle pedagogie innovative (apprendimento ibrido, pensiero computazionale, apprendimento esperienziale, insegnamento delle multiliteracies e debate, gamification, etc.) lungo tutto il percorso scolastico…trasformando la classe in un ecosistema di interazione…». «Allo stesso tempo gli ambienti innovativi e le tecnologie possono rappresentare una importante occasione di cambiamento dei metodi e delle tecniche di valutazione degli apprendimenti…grazie al contributo offerto dalle tecnologie digitali…». 

 

La condizionalità del finanziamento del PNRR è configurata in modo da incidere sulle metodologie e progettualità della didattica, e perciò direttamente sui contenuti dell’insegnamento e sui criteri di valutazione. Investe quindi frontalmente la libertà di insegnamento, che è valore costituzionalmente tutelato. Si badi bene: la libertà di insegnamento è sì una prerogativa che appartiene a chi insegna, ma la cui ricaduta va a beneficio di chi dell’insegnamento è destinatario, e in conseguenza dell’intera comunità. Si tratta di un principio cardine della democrazia. Che qui viene calpestato.

 

Il ruolo prezioso e delicatissimo del docente ne esce umiliato. Il docente si deve trasformare in “facilitatore digitale” e mero esecutore di ordini superiori, secondo un modello sostanzialmente autoritario. 

 

A tale scopo non manca nemmeno l’invito rivolto ai Dirigenti a incitare il corpo docente ad adeguarsi ai nuovi paradigmi. 

 

«Fondamentale è il ruolo dei dirigenti scolastici nell’introdurre il cambiamento nell’ambiente esistente per consentire ai docenti di organizzare il loro insegnamento in modo diverso, prototipare e sperimentare nuove disposizioni spaziali della classe e nuove metodologie didattiche, guidando il processo di trasformazione e attivando risorse interne di supporto e di accompagnamento».

 

Per avere ulteriore conferma del degrado, è istruttivo farsi un giro nel portale di Scuola Futura, dove sono pubblicizzati corsi accreditati dal Ministero per dare supporto a Dirigenti Scolastici, Animatori digitali, Team dell’innovazione, nella elaborazione dei progetti, «step by step» (dicono nel loro bell’italiano). Ci si imbatte in annunci tipo: «occasione irripetibile», SCONTO 20% per iscrizioni entro un dato termine. Le lezioni sono tenute da docenti con profilo tipo il seguente: formatore professionale, Animatore Digitale, membro dell’ecosistema STEAM della sua città, mentor CoderDojo, Ambassador Kid Game Jam, Leading Teacher European Code Week, e altre qualifiche di incontestabile rilievo. Nei prossimi giorni partirà un nuovo grappolo di webinar e – si segnala – è prevista una scontistica che arriva addirittura fino al 40% per chi porta molti amici.

 

Ma resta ancora un ultimo aspetto da considerare su cui nessuno pare sollevare obiezioni: la marginalizzazione degli organi collegiali. Infatti nella procedura per l’aggiudicazione dei fondi del PNRR il protagonista è il dirigente, coadiuvato dall’animatore digitale e da un «gruppo di progetto» formato dai docenti più zelanti nel sostenere la svolta cibernetica – che alla fine li toglierà di mezzo perché la scuola non avrà più bisogno di loro, li sostituirà con gli algoritmi, ma a loro va bene così. 

 

Il collegio docenti e il consiglio di istituto sono interpellati solo in una fase successiva, di attuazione dei progetti in sede di rendicontazione, di fatto per una mera ratifica di scelte già fatte. Il decreto sulla governance del PNRR (77/2021), al Titolo II, art. 12, prevede, in caso di inadempienza, inerzia o ritardo, da parte dei soggetti attuatori, agli obblighi e impegni finalizzati alla attuazione del PNRR, l’esercizio di poteri sostitutivi. 

 

Il Piano è chiaro sul punto, si esprime in forma assertiva: «Ciascuna istituzione scolastica adotta il documento Strategia Scuola 4.0., che declina il programma e i processi che la scuola seguirà per tutto il periodo di attuazione del PNRR con la trasformazione degli spazi fisici e virtuali di apprendimento, le dotazioni digitali, le innovazioni della didattica, i traguardi di competenza in coerenza con il quadro di riferimento Dig.Comp 2.2.(quadro europeo per lo sviluppo delle competenze digitali per i cittadini), l’aggiornamento del curricolo e del piano dell’offerta formativa, gli obiettivi e le azioni di educazione civica digitale, la definizione dei ruoli guida interni alla scuola, le misure di accompagnamento dei docenti e la formazione del personale, sulla base di un format comune reso disponibile dall’Unità di missione del PNRR». 

 

In pratica è richiesto un consenso informato per una somministrazione di fatto obbligatoria. Il che ricorda qualcosa.

 

Gli organi collegiali, dunque, intervengono in articulo mortis, quando i giochi sono fatti. Dove non si può non notare come tutta la strombazzatissima conquista democratica dei decreti delegati sia stata travolta in un attimo da un PNRR qualsiasi, entrato dalla finestra.

 

Il quale, con incontestabile un colpo di genio, cos’ha fatto? Ha cronologicamente anteposto l’assegnazione dei fondi (riversandone una montagna sulle scuole) al resto della procedura, e così le ha costrette a una frenetica rincorsa per trattenere quei soldi, facendo un’abbuffata di articoli del catalogo e resettando tutta la propria fisionomia in funzione degli acquisti fatti. In pratica, consegnandoti tanto denaro, io ti metto le catene prima ancora di dirti cosa devi fare, così ti rendo schiavo a prescindere, e tu, pur di tenerti quel denaro che hai già tra le mani, esegui qualsiasi cosa io ti ordini di fare in cambio. Ti ho in pugno.

 

Una tattica rivelatasi efficacissima, perché tutti hanno il terrore di farsi sfuggire il malloppo, con lo stigma che ciò comporterebbe nella sfolgorante società del progresso – dove chi eserciti il principio di precauzione rispetto agli idoli digitali diventa ipso facto retrogrado, tecnofobo, luddista. 

 

Di fronte a tanta leggerezza e (vorrei dire) irresponsabilità di quanti (siano essi dirigenti, animatori digitali, leader e pionieri) stanno affannandosi per accaparrarsi quanti più giocattoli possibile nel supermercato dell’intrattenimento – e pazienza per le ricadute – abdicando alla propria stessa dignità, vien quasi da dire: sia fatta la volontà dell’Europa e di BigTech. Stappiamo all’avvento dell’eduverso, ce lo meritiamo.

 

Ma purtroppo la posta in gioco è troppo alta per lasciarsi comprare con i trenta denari del PNRR, fossero anche trecento o trentamila, perché dentro le scuole si coltiva il nostro domani e nell’orgia digitale saranno travolti contenitori e contenuti, persone e cose, storie e identità. 

 

Concludo. In quelle trentanove pagine è descritta con tratto allucinato la scena dell’assassinio incruento della scuola italiana, o di ciò che di essa rimane. Un delitto di cui saremo tutti complici se staremo zitti. E sarà una strage, perché lo scempio cui stiamo già in parte assistendo – ma è solo l’inizio – non lascerà molti sopravvissuti.

 

Si sa che per annientare un popolo è necessario distruggere la sua storia e la sua memoria. È ciò che in fondo intendevano significare gli antichi quando spargevano il sale sulle rovine delle città conquistate e distrutte – il sale che Roma sparse sulle rovine di Cartagine. 

 

Masse alienate e stordite, rese amorfe e indistinguibili, sono strutturalmente incapaci di reagire alla propria demolizione programmata, in quanto incapaci di riconoscersi come antagoniste del programma di demolizione. 

 

Noi abbiamo tra le mani un patrimonio spirituale accumulato in migliaia di anni, materializzato nelle vestigia che il tempo ci ha lasciato, e che è l’antitesi degli ectoplasmi che fluttuano nelle sale gioco virtuali: è un patrimonio incastonato nelle pietre come nei libri, che si è fatto arte, filosofia, scienza e fede.

 

È una cultura sedimentata, evidentemente pericolosa qualora le venisse lasciata la possibilità di risorgere e di rigenerarsi, perché capace di ridare corpo e linfa alla pianta.

 

Ora, danzare oggi sul corpo agonizzante della scuola, paghi (o meglio ebbri) della mancia con cui l’Europa vorrebbe attirarci per infliggerci il colpo di grazia, è, oltre che grottesco, anche immorale. E l’argomento vigliacco secondo cui la tecnologia non la si può fermare, quindi tanto vale arrendersi, alzare le mani, è un alibi di comodo per illudersi di potersi scrollare di dosso il peso di una responsabilità incommensurabile. Quella che grava addosso a ciascuno di noi, nessuno escluso, di fare di tutto per mettere in salvo il seme. 

 

Attenzione. Non lo diciamo noi: lo dice il ministero dell’istruzione (o il suo alter ego), lo dice la commissione del senato istituita apposta, lo dice la letteratura internazionale, lo dicono i saggi.

 

Lo dice l’esperienza e l’evidenza con cui ogni genitore, ogni giorno, si scontra; lo dice il vecchio sano buon senso. E allora qualsiasi espressione di sudditanza al mostro che ci sta venendo addosso e minaccia i nostri figli persino dentro i luoghi dove dovrebbero imparare, e bonificarsi il cervello dall’iperconnessione in cui li hanno imprigionati – e non fa differenza se questa sudditanza dipende da interesse personale, da paura, da conformismo, da ignavia, o da semplice rassegnazione – in ogni caso è inescusabile

 

Rallentiamo la corsa, fermiamoci a informarci e a riflettere, aggiustiamo i freni, guardiamo in faccia i nostri figli. E facciamo sì – cari genitori, cari maestri – che la nostra stella polare sia il loro bene. Non il profitto di Big Tech, di Big Data, e di altri big che, filantropicamente si intende, ci stanno aspirando l’anima. 

 

 

Elisabetta Frezza

 

 

 

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Scuola

Dal ricatto del vaccino genico alla scuola digitalizzata: intervento di Elisabetta Frezza al convegno su Guareschi

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Renovatio 21 pubblica un brano dell’intervento di Elisabetta Frezza al convegno «Guareschi l’attualità di un genio multiforme» tenutasi sabato 6 aprile presso Palazzo Gambacorti a Pisa.

 

Mille cose si potrebbero dire sull’argomento. Ma conviene partire dalle quattro paginette intitolate «La rivoluzione d’ottobre» inserite del Corrierino delle Famiglie.

 

Da padre di famiglia, Guareschi si era fatto una idea ben precisa della scuola di Stato. E se vogliamo fare un tuffo nell’attualità – intendo proprio nel qui e ora – dobbiamo rileggere quel racconto. 

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La Pasionaria era già pronta per uscire: si sedette con molta serietà sull’angolo del divano.

 

– Me aspetto – disse.

 

Mi alzai e, agguantata la giacchetta, me la infilai.

 

– Sono pronto anche io – risposi avviandomi verso la porta. Ma la Pasionaria non si alzò e, quando fui sul pianerottolo e non la vidi arrivare, tornai sui miei passi e trovai la Pasionaria ancora seduta dignitosamente sull’angolo del divano.

– E allora? – domandai.

 

– La barba – rispose la Pasionaria senza scomporsi.

 

Ora bisogna considerare che io, nato nel cuore dell’Emilia, terra di grandi passioni, sono un impulsivo e così, spesso mi accorgo di aver detto cose che non ho avuto il tempo di pensare. Davanti a quella assurda pretesa, mi ribellai con irruenza. 

 

– Tua madre mi ha conosciuto che avevo la barba lunga, mi ha sposato che avevo la barba lunga e non si è mai sognata neppure che io, per uscire con lei, dovessi farmi la barba. Chi sei tu che avanzi simili pretese?

 

– Io sono me – rispose calma, quasi gelida, la Pasionaria.

 

Andai a farmi la barba. Poi dovetti cambiarmi anche la giacca e i calzoni e spolverarmi le scarpe: ma feci tutto ciò con tale aria di superiorità e di disgusto che, se non ha la pelle di rinoceronte, la Pasionaria deve averlo capito perfettamente.

 

Camminammo in silenzio per le strade del dolce autunno milanese e ben presto arrivammo dove dovevamo arrivare. Nel piazzale davanti alla scuola c’era gente: mamme, babbi, bambini, bambine e bidelli come nelle prime pagine di Cuore: e io ripensai all’altra volta, quando avevo portato nello stesso piazzale Albertino e poi lo avevo abbandonato ed egli era scomparso nella mandria, come un mattone nel muro. 

 

Io sentivo nella mia mano la piccola mano tiepida della Pasionaria e vedevo le mamme ed i bimbi ed i babbi, ma non respiravo l’aria di Cuore e non pensavo alle paroline zuccherate di Edmondo De Amicis. 


Avevo la bocca piena di parole amare e le masticavo a bocca chiusa e le mandavo giù, una per una, e molte mi si fermavano in gola. Ancora una volta dunque sta per avvenire il sopruso e io dovrò lasciare la tua mano, Pasionaria, e tu andrai ad incunearti nel buchino rimasto aperto nel muro. 
Dunque addio anche a te, Pasionaria: tu esci dalla mia vita ed entri nella vita dello Stato. 


Ti insegneranno l’ipocrisia statale e i tuoi pensieri non saranno più tuoi e vedrai le cose con gli occhi del Ministero
Adios, Pasionaria.

 

Anche questa volta, come per Albertino, io dovrò accettare il sopruso, dovrò aggiogare anche te, con le mie mani, al barbaro, orrendo, smisurato carro dello Stato.

 

Adios, Pasionaria!

 

Io, un tempo, quando sfogliavo le vecchissime Domeniche del Corriere, leggevo sorridendo la spiegazione de Le nostre pagine a colori, e mi facevano pena le donnette dei lontani paesi del mezzogiorno che si mettevano in rivoluzione per impedire che vaccinassero i loro bambini. Ma allora non capivo un accidente e pensavo alla greve ignoranza, e alle nebbie grasse della superstizione che inducevano le povere donnette a reputare i medici governativi emissari di chi sa mai quale paurosa centrale di maleficio. E invece le donnette agivano per istinto e credevano di difendere le loro creature dal maleficio, mentre le difendevano dal sopruso dello Stato.

 

È un sopruso necessario ma la lancetta del medico che, per legge, inocula il benefico vaccino nel braccino di vostro figlio, è una zanna del gran mostro, lo Stato, che uncina una nuova tenera vittima.

 

Adios, Pasionaria: io adesso abbandonerò la tua mano tiepida e ti sacrificherò al dio crudele creato dalla gente che non crede in Dio perché, se vi credesse, potrebbe vivere felice all’ombra delle sue Eterne Leggi.

 

Adios, Pasionaria: lo Stato fa le strade e fa camminare le ferrovie e illumina le città, di notte, ma ci toglie la libertà, e regola i nostri atti e anche i nostri pensieri, e sempre più ci avvince nella matassa ormai inestricabile delle sue leggi e dei suoi regolamenti, e sempre più ci trasforma in trascurabili ingranaggi di un’orrenda macchina che consuma sangue e serve solo a macinare aria

 

E io che mi indigno se il treno ritarda di cinque minuti, il treno dello Stato, io ora sono pieno di amarezza perché debbo permettere che lo Stato mi porti via la mia bambina per insegnarle l’abicì governativo.

 

Quale tempesta nel tenero cranio di un povero borghese che cerca di difendere la propria personalità e quella dei suoi figlioli da quel mostro che egli stesso ha contribuito a creare e che egli stesso alimenta, togliendosi il pane di bocca.

 

Adios, Pasionaria.

 

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Ormai le squadre si erano composte e le mamme e i padri si erano ritirati in mezzo al piazzale e i bambini erano rimasti tutti soli, addossati al muro della scuola.

 

Mancava soltanto la Pasionaria ed io allentai le dita. 

 

In quel momento le porte si aprirono ed i bambini cominciarono ad entrare.

 

Un tassì era fermo all’angolo: lo raggiunsi di corsa e, spalancato lo sportello, mi buttai dentro come un sacco di patate. 

 

La macchina partì di gran carriera e navigò per le strade di Milano e puntò verso la periferia. E, quando fu davanti all’acqua azzurra dell’Idroscalo, la macchina si fermò e noi scendemmo.

 

Dico “scendemmo” perché la Pasionaria era con me.

 

La Pasionaria era col ribelle. I viali attorno al laghetto erano pieni di sole e deserti e ci divertimmo parecchio. 

 

Ma io pensavo che a casa ci aspettava lo Stato: Margherita. 

 

E questo mi amareggiò il divertimento. E quando a mezzogiorno tornammo, Margherita domandò alla Pasionaria com’era andata e la Pasionaria rispose che era andato tutto bene, che la signora maestra era buona, eccetera eccetera.

 

Poi mi guardò strizzandomi l’occhio perché si era stabilito che lei avrebbe dovuto dire questo e quest’altro, e così, con una strizzatina d’occhio, finì la mia rivoluzione d’ottobre.

 

La scuola è il luogo in cui chi, pro tempore, pilota l’imbarcazione (il kybernètes, il timoniere) e pensa per questo di essere onnipotente, può mettere le mani sul futuro, materialmente. Può plasmare un materiale umano sterminato e metterlo in forma secondo le proprie esigenze e secondo la propria idea di come debba girare il mondo.

 

E così può sfornare, pronta per l’uso, manovalanza uguale e obbediente riducendo all’osso gli errori di sistema (cioè, i «ribelli» dell’idroscalo che si ostinano a pensare propri pensieri). «Ti insegneranno l’ipocrisia statale e anche i tuoi pensieri non saranno più tuoi e vedrai le cose con gli occhi del Ministero…sempre più ci trasforma in trascurabili ingranaggi di un’orrenda macchina che consuma sangue e serve solo a macinare aria». 

 

Materialmente, dicevamo. Abbiamo fresco il ricordo del biennio pandemico in cui la scuola è stata un laboratorio nel laboratorio (l’UNESCO lo ha definito «l’esperimento di più vasta scala nella storia dell’istruzione»). Sulla scuola si è abbattuta, non a caso, una alluvionale normativa d’emergenza a carattere speciale, che si è contraddistinta per un grado di inflessibilità e di morbosa creatività rimasto ineguagliato nel panorama internazionale.

 

Ricordiamo i rituali delle abluzioni col disinfettante; i sensi unici alternati nei corridoi; le misurazioni col metro tra le rime buccali; la quarantena dei fogli e la disinfestazione del materiale scolastico; il divieto di uscire dal recinto segnato con il nastro adesivo o delimitato con il plexiglas; il divieto di passarsi una matita; ricordiamo le stanze di isolamento se uno starnutiva.

 

Ricordiamo il ricatto: solo se ti sottoponi a un trattamento sanitario, tra l’altro in fase di sperimentazione, puoi salire sull’autobus che ti porta a scuola, puoi fare sport, entrare in un museo, in un teatro, in un cinema, puoi frequentare l’università e la biblioteca. 

 

Tutto questo ha consentito, sempre non a caso, di raggiungere in tempi compressi, in unica soluzione, traguardi insperati. 

 

Quell’esperimento ha sortito cioè, come da programma, un effetto catapulta: certamente sulla strada della digitalizzazione secondo i desiderata di Big Tech («se i dati sono il nuovo petrolio, la scuola è il nuovo Texas»), ma anche sulla strada della medicalizzazione e psichiatrizzazione pervasive. 

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Ora, questa è la scuola del mondo grande, quello, per dire, in scala 1 a 1. Qualitativamente, non è cambiata di una virgola. 

 

Conversando di giovani e vecchi, con Gio’ (al secolo Gioconda Cicòn, la domestica di casa, «che ragiona a modo suo e non si sa mai dove può arrivare») Margherita dice: «Giovannino, non mi pare una novità: È la lotta che dura da quando è nato il mondo. È la dura legge umana: i giovani sentono come loro primo dovere quello di seppellire i vecchi». «Sì Margherita» risponde Giovannino «Ma ora la faccenda è degenerata perché i giovani cercano di seppellirci mentre siamo ancora vivi». «Giovannino, la colpa non è dei giovaniQuesta è l’era della forza nucleare, dei cervelli elettronici, della missilistica e del cosmo. Il tempo, adesso, lo si misura a millesimi di secondo e c’è in tutto una fretta maledetta». Interviene Gio’: «Senza contareche la forza atomica, i missili, l’elettronica e via discorrendo li avete inventati voi vecchi. Mi fanno ridere, questi vecchi che danno a noi giovani uno schioppo carico e poi pretenderebbero che noi si andasse a caccia con la fionda. Che inventano la Tv e poi si lamentano se ci divertiamo a guardarla…». 

 

Dunque, c’erano già persino i cervelli elettronici, e non occorre aggiungere nulla. Nemmeno sulla drammatica irresponsabilità degli adulti, sempre più infantilizzati, di fronte allo scempio che si consuma davanti ai loro occhi a una velocità supersonica. La fretta, «la fretta maledetta», è una componente decisiva del disegno.

 

Bene, in quella scuola, in questa scuola, bisogna andarci ben attrezzati (e l’attrezzatura, evidentemente, va messa a punto altrove) per poter affrontare il Leviatano che vuole trasformarti in una macchinetta assemblata con componenti di serie, con tutti i pezzettini al posto giusto, come vuole l’impresario. 

 

La complicità che nel racconto corre tra padre e figlia, quel germe di disobbedienza interiore, va sì innaffiato, ma va allo stesso tempo anche domato, perché sennò si rischia davvero la rivoluzione e non si sa dove si va a finire. Non è facile bilanciare i due stimoli, è un sottile lavoro di precisione che spetta a chi sta a casa. 

 

Anche perché l’opera indefessa di questo mostro, che semina nella scuola secondo i suoi bisogni per raccogliere la sua messe, si incrocia con quello della grande macchina mediatica, un altro tentacolo della stessa piovra, anch’essa descritta da Guareschi con la consueta efficacia. «Si sa: la gente ha fretta e non vuole complicazioni. Ogni giorno di più si disabitua a pensare, a ragionare, a leggere. Vuole che tutto sia semplificato, ridotto in pillole. Chiede cose già pensate, ridotte a slogan, facili da fissare nella memoria. Vuole soprattutto cose ridotte a immagini». 

 

E ancora: «La TV è il mezzo ideale per soddisfare le esigenze di questa gente frettolosa e superficiale e qui si annida il tremendo pericolo…può diventare un vero flagello…falsando la storia e la realtà, crea dei falsi eroi, dei falsi modelli di vita e determina nella massa sprovveduta quella confusione di valori e di idee che la trasformano in una vera “fabbrica dei cretini”».

 

La fabbrica funziona a pieno regime e a ciclo continuo, genera senza tregua il copione della fiction, della menzogna che ci viene propinata come verità non discutibile; alla quale la scuola si allinea fornendo idee prepensate, pacchetti ideologici preconfezionati (invece della cassetta degli attrezzi per formarsi un pensiero autonomo), addirittura finte proteste preorganizzate, con il loro corredo di slogan e di messaggi pubblicitari e servite pronte per accarezzare il desiderio di trasgressione che fisiologicamente alberga nei più giovani. La protesta basta inscatolarla, infiocchettarla e, in questo modo, disinnescarla, renderla del tutto inoffensiva.

 

Anzi, funzionale al consolidamento del sistema che si fa forte del falso pluralismo inscenato per le giovani masse a trazione mediatica. Abbiamo visto addirittura gli scioperi promossi e persino premiati dal ministero con note di encomio (e di demerito a chi non aderisce), in un cortocircuito logico nel quale si sono messi tutti a girare, come i criceti nella ruota. Senza minimamente accorgersi di prestarsi come carne da cannone a favore di chi amministra il teatrino e si gode dall’alto l’obbedienza dei burattini. 

 

I «cervelli elettronici» di cui diceva Margherita oggi si sono paurosamente evoluti dal punto di vista tecnologico, e stanno conquistando un territorio sempre più esteso, con il correlativo ritiro delle funzioni cerebrali organiche, sempre più atrofiche. La scuola 4.0 in via di rapidissimo allestimento non è altro che una immensa sala giochi in cui la tempesta di immagini (di fantasmi), sostituisce lo studio delle leggi della realtà. E la scuola 4.0 sarà, come da programma, l’apoteosi della fabbrica dei cretini.

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Intanto i libri di testo (ciò che ne rimane) sono sempre più zeppi di immagini e vuoti di parole, e le poche parole, appunto, sono ridotte a slogan; ma senza la parola non c’è ragionamento e nello sforzo di parlare, di leggere, di scrivere, cova il seme della libertà – dove libertà è il sapersi emancipare da visioni settarie, parziali, ideologiche, imposte dall’esterno, per imparare ad abbracciare il reale e a interpretarlo da sé. 

 

E a proposito di parole: le riforme scolastiche – e quindi gli atti amministrativi e, a pioggia, tutte le scartoffie che viaggiano nei labirinti della burocrazia scolastica – parlano inglese. Sono intrisi di formulette globish tratte dalla pedagogia anglosassone (infatti si ispirano a modelli pedagogici già sperimentati oltreoceano, e già lì rivelatisi fallimentari: un bizzarro paradosso), impastate insieme a uno pseudo italiano di rara bruttezza, fatto di stilemi stereotipati, tanto orecchiabili quanto tossici.

 

Il linguaggio, si sa, è uno strumento impareggiabile per fabbricare incantesimi e ricreare la realtà. Il mondo della scuola, sempre non a caso, batte una lingua parallela, una lingua barbara, coniata apposta per adulterare il senso stesso dell’istituzione. 

 

Questo la dice lunga sul degrado, prima ancora che culturale, estetico, che ha investito la scuola. E sulla colonizzazione culturale che, anche per questa via, ci stiamo gioiosamente autoinfliggendo. Diceva Elémire Zolla negli anni Sessanta del Novecento, con un adagio folgorante: «come macilenti gatti di periferia, gli italiani si ostinano a nutrirsi dei rifiuti altrui». 

 

Sull’aspetto della colonizzazione culturale, in quegli anni anche Guareschi ci aveva anticipato qualcosa. Egli parla del 1945 come della «seconda scoperta dell’America». E dice che «Prima della seconda scoperta dell’America era difficile vivere perché ci assillavano, in gran numero, dubbi e incertezze».

 

Adesso, tutto è diventato straordinariamente facile, avendo l’America posto generosamente a nostra disposizione, attraverso il famoso “piano Marshall”, una completa gamma di test che ci permette di trovare una risposta precisa a qualsiasi interrogativo. 

 

Ogni problema di qualche importanza è stato accuratamente studiato dagli americani. Tecnici di tutti i settori dell’industria, del commercio e della scienza, psichiatri, psicologi, psicanalisti, cardiologi, oculisti, otorinolaringoiatri, esperti di public relation e via discorrendo, hanno affrontato di petto i vari problemi, sezionandoli e analizzandone ogni possibile aspetto, sì da poter trasformare la massiccia questione in tante questioncelle parziali, di facile soluzione…Il concetto è chiaro: sezionando il problema in tanti piccoli, facili, elementari quesiti, per avere una risposta sicura a un qualsiasi] interrogativo, basterà rispondere alle varie domandine. 

 

In pratica la cosa è ancora più semplice perché l’interessato si limita a tracciare una crocetta a fianco della risposta già stampata nel test. Poi, tenendo presente che ogni risposta di serie A vale 1, ogni risposta di serie B vale 2 e ogni risposta di serie C vale 3, si passa a fare la somma…

 

Sono un guidatore d’automobile buono, mediocre o pessimo? Sono estroverso o introverso? Il mestiere che faccio è quello giusto? Ho fiducia in una giustizia superiore? Ecc. ecc.

 

Gli americani hanno pensato a tutto e, per ogni dubbio, per ogni incertezza, per ogni nobile desiderio d’approfondire la conoscenza di se stessi, c’è un test, risolto il quale non possono più sussistere dubbi e incertezze».

 

Oggi la docimologia della crocetta si è impadronita a pieno titolo della scuola e dell’università (che va a crocette) e così gli studenti vengono valutati, ma vengono anche schedati e incanalati sempre più precocemente nell’imbuto di una carriera decisa in base a ciò che stabiliscono i responsi degli oracoli algoritmici, quelli che leggono crocette e predicono futuri, e predicendoli li condizionano, li predeterminano: INVALSI è precisamente questa roba qua: è la nuova Pizia che, dal suo impenetrabile onfalòs, predice i destini e preimposta le vite, in modo incontrollabile e insindacabile da parte umana. E così ingabbia ciascuno, fin da piccolo, nella propria stia.

 

Eppure, in un mondo sensato, la scuola sarebbe una cosa così facile, persino banale, da realizzare, se solo ci fosse la volontà e non prevalessero interessi egemonici alieni. 

 

Alla scuola spetta l’esclusiva di un compito specifico e indispensabile in una compagine sociale, un compito che altrimenti nessun altro fa: quello di alfabetizzare (è infatti attraverso il segno che l’uomo lascia traccia, fissa il suo messaggio e lo tramanda), e di trasmettere la conoscenza (con particolare riguardo agli invarianti, alle conoscenze che hanno resistito alla prova del tempo); di iniziare al sapere teoretico, che vuol dire afferrare le cause, elevarsi alle leggi, agli universali, che sono strumenti di comprensione della realtà. 

 

E lo dovrebbe fare stando al riparo dai venti delle mode, dal magma della attualità e delle suggestioni mediatiche, dai flussi emotivi e dagli slogan corrivi della propaganda; ripartendo dalle radici del linguaggio e della scrittura (dal segno), ineludibili chiavi di accesso all’imponente deposito di scienza, arte, letteratura, che – attenzione! – non va ascritto alla categoria del passato sic et simpliciter, ma a quella del durevole, dell’eterno.

 

Il primo dei servizi che la scuola dovrebbe onorare è appunto quello di coltivare il linguaggio affinché tutti siano in grado di esprimersi, di ascoltare e di comprendere gli altri e così uscire dal proprio guscio autoreferenziale, superando la limitatezza e l’istintività della propria esperienza contingente attraverso la conoscenza delle leggi che la regolano.

 

È solo così che la scuola può essere davvero vivaio e palestra di libertà, e restituire ai più giovani, insieme alla cognizione della realtà e insieme al senso delle dimensioni che servono a prenderne le misure – vale a dire l’altezza, la profondità, la distanza: dimensioni dimenticate, insieme alla memoria – anche una solidità interiore andata quasi completamente distrutta. 

 

In una scuola che tornasse a essere scuola, l’opera di Guareschi sarebbe una straordinaria antologia, perché vi si ritrova l’uso magistrale della parola vera, mai adulterata o corrotta: della parola nel suo nitore sorgivo. Che è il contrario esatto della barbarie degli slogan. 

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Giorgio Agamben, rara avis in una accademia agonizzante e gregaria, fin dalle primissime battute del fenomeno pandemico ha saputo leggere gli accadimenti in controluce con grande lucidità e rigore giuridico (e infatti è stato subito isolato come fosse un appestato). Ha scritto una serie di brevi commenti di rara bellezza. Tra gli altri, Virgole e fiamme (giugno 2023).

 

«A un amico che gli parlava del bombardamento di Shangay da parte dei giapponesi, Karl Kraus rispose: “So che niente ha senso se la casa brucia. Ma finché possibile, io mi occupo delle virgole, perché se la gente che doveva farlo avesse badato a che tutte le virgole fossero nel punto giusto, Shangay non sarebbe bruciata”. Come sempre, lo scherzo nasconde qui una verità che vale la pena di ricordare. Gli uomini hanno nel linguaggio la loro dimora vitale e se pensano e agiscono male, è perché è innanzitutto viziato il rapporto con la loro lingua. Noi viviamo da tempo in una lingua impoverita e devastata, tutti i popoli, come Scholem diceva per Israele, camminano oggi ciechi e sordi sull’abisso della loro lingua ed è possibile che questa lingua tradita si stia in qualche modo vendicando e che la vendetta sia tanto più spietata quanto più gli uomini l’hanno guastata e negletta. Ci rendiamo tutti più o meno lucidamente conto che la nostra lingua, [impoverita e devastata] si è ridotta a un piccolo numero di frasi fatte, il vocabolario non è mai stato così stretto e consunto, il frasario dei media impone ovunque la sua miserabile norma, nelle aule universitarie si tengono lezioni in cattivo inglese su Dante: come pretendere in simili condizioni che qualcuno riesca a formulare un pensiero corretto e ad agire in conseguenza con probità e avvedutezza? Nemmeno stupisce che chi maneggia una simile lingua abbia perso ogni consapevolezza del rapporto tra lingua e verità e creda pertanto di poter usare secondo il suo tristo profitto parole che non corrispondono più ad alcuna realtà, fino al punto di non rendersi più conto di star mentendo. La verità di cui qui parliamo non è solo la corrispondenza tra discorso e fatti, ma, ancor prima di questa, la memoria dell’apostrofe che il linguaggio rivolge al bambino che proferisce commosso le sue prime parole. Uomini che hanno smarrito ogni ricordo di questo sommesso, esigente, amoroso richiamo sono letteralmente capaci, come abbiamo visto in questi ultimi anni, di qualsiasi scelleratezza. Continuiamo, pertanto, a occuparci delle virgole anche se la casa brucia, parliamo tra noi con cura senz’alcuna retorica, prestando ascolto non soltanto a quello che diciamo, ma anche a quello che ci dice la lingua, a quel piccolo soffio che si chiamava un tempo ispirazione e che resta il dono più prezioso che, a volte, il linguaggio – che sia canone letterario o dialetto – può farci».

 

Mondopiccolo – inteso qui in senso lato, cioè non solo «quella fettaccia di terra che sta tra il fiume e il monte», ma un po’ tutto il mondo creato dalla penna di Guareschi, quel mondo nel quale le storie zampillano così, in natura (non sono altro – ci dice l’autore – che «fatti di cronaca inventati che alla fine riescono molto più verosimili di quelli veri» o, altrove, «gesta che sanno di omerico e di fanciullesco insieme»), è un piccolo mondo a misura di bambino, che però contiene in sé, e custodisce, il respiro dell’universale. Dove ogni cosa è messa al suo posto e, se non lo era, alla fine ci torna. 

 

Questo mondo è costruito con persone vere, animali veri, cose vere che un bambino è in grado di vedere coi suoi occhi fin dentro la loro anima: perché anche i cani (Amleto, Gringo, Ful), anche i fiumi e le campane in quel mondo hanno un’anima; ed è raccontato con parole che un bambino è in grado di capire al volo, senza bisogno di un traduttore.

 

Questo mondo un bambino, un ragazzino, lo manda giù dritto. E lo trattiene inciso nella sua memoria immunitaria. Anche quando commuove – e succede molto spesso proprio perché tocca le corde più profonde – mai induce alla tristezza, men che meno alla disperazione. Semmai, fa sentire più vicino il cielo, lo fa scendere alla nostra altezza. Persino la drammatica esperienza concentrazionaria, su cui tanti hanno scritto tante pagine cupe, viene resa in una chiave nuova perché piena di speranza.

 

In Diario Clandestino, dedicato «ai miei compagni che non tornarono», Guareschi racconta come, rimasto solo «con le cose che avevo dentro», ha scavato e scavato fino a che è riuscito a «ritrovare un prezioso amico: me stesso». Il traguardo di una vita.

 

Le opere di Guareschi hanno gli ingredienti giusti per essere un buon cibo per tutte le età, capace di rilasciare per ogni età i nutrienti più adatti. Ma se si ha la fortuna di entrare in contatto con lui da bambini, gli si diventa amici e poi vi si ritrova una casa per il resto della vita, quando si ha voglia o bisogno di respirare profumo di pulito. 

 

Rilascia ricordi, rilascia archetipi. Le battute penetrano nel lessico famigliare. Ma soprattutto, lì dentro si respira la fede, quella che cova dentro il cuore, per un Dio creatore e padre che governa le cose e alla fine in qualche modo le mette tutto al loro posto. Al tempo stesso, alla scuola di Guareschi, uno non può venire su bigotto o clericale, il che è una garanzia oggettivamente impagabile.

 

Il messaggio straordinario lasciato ai posteri da Guareschi sta infatti condensato in quel passo di «Don Camillo e don Chichì» in cui don Camillo, angustiato per il mondo che corre rapido verso la propria autodistruzione e per l’uomo che sta dissipando il patrimonio spirituale che in migliaia di anni aveva accumulato, chiede al Cristo cosa noi possiamo fare. E il Cristo, sorridendo (e anche quel sorriso ha il suo perché, perché conforta, e ci fa capire che non ha proprio senso agitarsi tanto, ma bisogna concentrarsi sull’essenziale e affidarsi a chi può buttare tutto all’aria muovendo «l’ultima falange del mignolo della mano sinistra»), gli spiega che ciò che dobbiamo fare è una cosa soltanto, ovvero «ciò che fa il contadino quando il fiume travolge gli argini e invade i campi: bisogna salvare il seme».

 

Perché «quando il fiume sarà rientrato nel suo alveo, la terra riemergerà e il sole l’asciugherà. Se il contadino avrà salvato il seme, potrà gettarlo sulla terra resa ancor più fertile dal limo del fiume, e il seme fruttificherà e le spighe turgide e dorate daranno agli uomini pane, vita e speranza…». (…)

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Militaria

I bambini «devono essere preparati alla guerra»: parla il ministro dell’Istruzione tedesco

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I bambini tedeschi dovrebbero essere costretti a prepararsi alla guerra per aumentare la «resilienza», ha dichiarato sabato il ministro dell’Istruzione Bettina Stark-Watzinger.   In questo nuovo, incontrovertibile segno della rimilitarizzazione in corso nel grande Paese europeo, il ministro germanico, membro del Partito Liberale Democratico (FDP) che fa parte del governo ampel («semaforo») del cancelliere Olao Scholz, ha dichiarato che ai bambini dovrebbe essere insegnato cosa fare in caso di conflitto e ha suggerito di introdurre esercitazioni di «difesa civile» nelle scuole in modo che i giovani siano preparati per gli anni a venire.   «La società nel suo insieme deve prepararsi bene alle crisi, dalla pandemia ai disastri naturali fino alla guerra. La protezione civile è estremamente importante e appartiene anche alle scuole. L’obiettivo deve essere quello di rafforzare la nostra resilienza», ha dichiarato la Stark-Watzinger in un’intervista alla testata tedesca Funke.

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Il ministro scholziano ha quindi domandato che venga favorita una «relazione rilassata» tra gli scolari e le forze armate tedesche (Bundeswehr), suggerendo che gli ufficiali militari dovrebbero visitare le scuole per spiegare cosa «fa la Bundeswehr per la nostra sicurezza».   La settimana scorsa il presidente dell’Associazione degli insegnanti tedeschi, Stefan Dull, ha dichiarato alla Bild che la proposta del ministro «ha senso».   «Mi aspetto che il ministro federale cerchi ora un dialogo con i ministri dell’istruzione dei Länder federali», ha affermato, aggiungendo che «una dichiarazione di intenti non è sufficiente: ora le lezioni di politica devono insegnare sulla guerra in Ucraina e sullo scenario paneuropeo, anche una situazione di minaccia globale».   L’iniziativa di Stark-Watzinger riflette la politica del governo tedesco volta a rendere il Paese «pronto alla guerra» di fronte a un potenziale conflitto Russia-NATO, che potrebbe verificarsi entro pochi anni, secondo alti funzionari della difesa tedeschi.   A febbraio, il ministro della Difesa tedesco Boris Pistorius ha affermato in un’intervista a Bloomberg che la Russia potrebbe attaccare la NATO «tra cinque o otto anni». Anche il capo della difesa tedesco, generale Carsten Breuer, aveva sottolineato l’importanza «fondamentale» di preparare l’esercito del Paese entro i prossimi cinque anni. «Chiamiamo questo Kriegstuchtigkeit – essere pronti, capaci e disposti a combattere. Siamo sulla strada giusta», ha dichiarato.   Il progetto dello Stato tedesco non è dissimile da quanto visto in Ucraina, con bambini di tutte le età coinvolti a scuola in attività di preparazione militare. Le immagini, circolate qualche mese fa, suscitarono una piccola fiammata di inquietudine, per poi spegnersi subito – come ogni dissonanza cognitiva proveniente da Kiev.  

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Con la mossa di coinvolgere i bambini nella guerra in partenza la rimilitarizzazione della Germania – uno dei fattori per evitare il quale, in teoria, era stata creata la NATO – è oramai non solo un fatto certo, ma un qualcosa di impudico e parossistico.   Come riportato da Renovatio 21, l’euro deputata socialista tedesca Katarina Barley è arrivata a suggerire che l’UE potrebbe doversi dotare di armi atomiche.   I giornali tedeschi riportano sempre più spesso di scenari di guerra Russia-NATO che trapelano di vertici militari, con documenti che parlano di Terza Guerra Mondiale. Impressionante anche l’audio, pubblicato in Russia e non smentito dai tedeschi, dove generali germanici discutono della distruzione del ponte di Crimea.   Nel 2022 Germania ha cambiato la Grundgesetz, la Costituzione tedesca, per potere allocare più danaro alle forze armate.   Come riportato da Renovatio 21, la Germania sta tentando in modo evidente una materiale rimilitarizzazione (fenomeno per evitare il quale, si diceva, era stata creata la NATO) con espansione in Paesi chiave come la Lituania e investimenti in munizioni (22 miliardi entro il 2031), nonostante i problemi di reclutamento e i malumori delle truppe.   Nel frattempo, la popolazione non sembra affatto pronta per il conflitto con la Russia, che sarebbe il secondo in meno di un secolo, e quello precedente si è concluso per Berlino molto male. Un sondaggio a fine 2023 aveva indicato che solo il 17% dei tedeschi è pronto a difendere il proprio Paese; un sondaggio condotto da Civey per conto della popolare rivista Focus pochi giorni fa aveva mostrato l’imbarazzante dato per cui circa il 30% dei tedeschi non ha alcuna fiducia nella capacità dell’esercito di resistere ad un potenziale avversario, mentre un altro 45% ha «scarsa fiducia» nell’esercito, mentre il 15% è indeciso. Solo il 2% ha affermato che la propria fiducia è «molto alta», mentre l’8% ha affermato che è «piuttosto alta».   Registriamo, ad ogni modo, l’ulteriore evoluzione scolastica, forse in arrivo anche in Italia: nelle aule si è passati per direttissima dal gender alla guerra antirussa.

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Scuola

INVALSI e PNRR: a scuola nasce il mostro tecnocratico-predittivo che segnerà il futuro dei nostri figli

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Il PNRR, che vomita denaro a fiotti, ha inondato di dobloni anche l’INVALSI (Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema educativo di istruzione e formazione), il quale se ne esce in grande spolvero col trucco rifatto. Beninteso, è sempre il mostro di prima, ma tirato a lustro, e finalmente libero di esibire tutte le perverse potenzialità con cui era stato concepito nel lontano 1999. Perché i tempi, ora, sono maturi.

 

Come per gli altri mille tentacoli dell’apparato – una giungla di sigle cacofoniche che sbucano da ognidove – anche l’evoluzione dell’INVALSI serve l’obiettivo principe di completare il processo di smaterializzazione e disumanizzazione di tutto quanto su questa terra pulsi di vita. E il mondo della scuola è, per sua natura, un concentrato di vita: per questo è urgente intrappolarlo nella prigione ermetica del digitale, neutralizzando tutto il suo contenuto di carne e di spirito.

 

L’INVALSI è uno strumento di valutazione, che opera attraverso la somministrazione di test standardizzati composti da quesiti a risposta chiusa o a risposta aperta univoca.

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Inizialmente ce lo avevano venduto come strumento di valutazione delle scuole, e non degli studenti: l’analisi dei risultati su larga scala avrebbe permesso – ci era detto – di monitorare l’andamento generale del sistema scolastico. Ci avevano altresì venduto le prove come non obbligatorie, e infatti qualcuno le schivava, infastidito da tutte quelle richieste di informazioni su status familiare, titoli di studio e professione dei genitori, numero di locali in casa, numero di auto possedute, di libri, eccetera eccetera. Insomma, con la scusa di valutare le scuole, qualcuno intanto acquisiva una fotografia socio-economica delle famiglie, scattata dai figli.

 

Ci avevano assicurato che, comunque, tutto si svolgeva in regime di totale anonimato, non essendo possibile risalire in nessun modo dai codici alfanumerici all’identità dell’autore della prova.

 

Di fatto, l’INVALSI ha invaso le scuole e, grazie alla carica intimidatoria insita nella sua funzione, si è circondato di un’aura di sacralità, fino a convincere molti docenti a sperperare ore su ore di lezione ad allenare gli sventurati alunni con batterie di test a crocette, invece che insegnare la propria materia. Perché sì, accade anche questo: la didattica tarata sull’INVALSI.

 

Comunque, non tutti se l’erano bevuta. C’era qualcosa che non tornava nel libretto di istruzioni dello strambo marchingegno.

 

E infatti, un po’ alla volta, il mostro è sbocciato, secondo la sua natura. A un certo punto le prove Invalsi sono diventate propedeutiche agli esami di terza media e di maturità, cioè requisito necessario per l’ammissione, cioè obbligatorie. Ma non è finita là. Ora, il decreto legge PNRR stabilisce che i risultati delle prove Invalsi entreranno a fare parte del curriculum dello studente allegato al diploma finale di scuola superiore e contenuto nell’E-Portfolio cui si accede tramite la piattaforma Unica. Il mostro si è finalmente trasfigurato.

 

Conviene aprire una breve parentesi per spiegare a grandi linee cos’è UNICA. A proposito di mostri. Ce la presentano come un sublime incrocio tra: una scatola nera (sic!), perché contiene e ricorda tutto ciò che uno studente ha fatto nel suo percorso scolastico; una piazza virtuale, a cui possono avere accesso docenti, famiglie, tutor, orientatori, e chi più ne ha più ne metta; e una bussola, che serve a capire dove andare. O meglio: dove altri vogliono farti andare.

 

UNICA è una piattaforma nella quale vengono raccolti tutti i dati di tutti gli studenti italiani, e che promette di far dialogare gli studenti con le famiglie, il territorio, le imprese, le università, nonché di realizzare i quattro obiettivi fondamentali della scuola 4.0, che sono: orientamento, personalizzazione, digitalizzazione, semplificazione (le quattro parole d’ordine del ministro che sintetizzano la devastazione in programma). INVALSI stesso suggerisce agli studenti di scaricare le certificazioni ottenute in italiano, matematica, inglese, «per arricchire il proprio curriculum o e-portfolio, evidenziare i livelli di competenze raggiunti sui social network o su altre piattaforme professionali, fornire una rappresentazione visiva delle proprie competenze su un sito web»; insomma, per farsi profilare al meglio, anche attraverso un Open Badge (ed ecco spuntare un altro mostro).

 

Dunque, come si diceva, con l’avvento del PNRR i risultati delle prove INVALSI, stabiliti insindacabilmente dagli algoritmi, entreranno a fare parte del curriculum dello studente contenuto nell’E-Portfolio che sta nella piattaforma Unica. Cioè, il curriculum si arricchirà di una specifica sezione dedicata ai livelli di apprendimento raggiunti nelle prove Invalsi per ciascuna disciplina.

 

L’inserimento dei risultati INVALSI nel curriculum dello studente consentirebbe – così ci è detto – oltre al riconoscimento delle competenze acquisite durante il percorso formativo, anche la valorizzazione delle eccellenze, ovvero di «premiare gli studenti che si sono distinti nelle diverse discipline, offrendo loro un vantaggio in vista di future attività formative e lavorative».

 

Dal che risulta evidente come, nella mens del legislatore, i dati raccolti e immortalati nel profilo virtuale dello studente lungo il corso della sua storia personale sono tali da condizionarne le opportunità future. Vale a dire che sono in grado di rappresentare, nel bene e nel male, uno stigma indelebile.

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Ciò significa che, all’esito di una specifica prestazione, localizzata nel tempo e nello spazio, viene ricondotta la etichettatura definitiva di un soggetto in via di formazione: l’etichetta scolpita nella memoria delle banche dati gli resterà appiccicata addosso, facendo strame del suo potenziale di crescita e di maturazione, delle metamorfosi imprevedibili, delle salite e delle discese, delle cadute e dei miracoli che costellano la vita di ogni essere umano, soprattutto se in fase di crescita.

 

Le sorti dell’umano, insomma, le decide in anticipo la macchina valutando delle crocette sulla base di automatismi imponderabili, senza che all’umano sia possibile financo verificare ex post la correttezza del procedimento usato e del risultato ottenuto dalla macchina, e quindi senza alcuna possibilità di ripeterlo e di correggerlo, e nemmeno di ottenerne l’oblio.

 

È evidente dunque che, attraverso il PNRR e la sovrastruttura tecnologica che ad esso è legata, è stato portato a compimento un mastodontico piano di raccolta dati (non solo relativi al rendimento scolastico, ma anche al contesto sociale e culturale di appartenenza) e di schedatura capillare degli studenti italiani affidata integralmente agli algoritmi e affrancata da qualsiasi interferenza umana.

 

Dal 2022, INVALSI ha introdotto un nuovo indicatore individuale per identificare gli studenti in condizione di fragilità, alla cui scuola di appartenenza saranno destinate risorse aggiuntive per attuare didattiche differenziate.

 

Si tratta di un bollino assegnato sempre algoritmicamente in base ai risultati dei test standardizzati, il quale, certificando il rischio di dispersione implicita o abbandono scolastico, permetterebbe di predisporre precocemente misure ad hoc, non si sa bene di che tipo. Ne ha scritto diffusamente Rossella Latempa su Roarsquiqui e qui, e a lei si rimanda per un’analisi più approfondita del tema.

 

È chiaro che INVALSI, in questo modo, assume una funzione non più solo valutativa, ma anche predittiva, intestandosi un’operazione di schedatura di massa degli studenti supposti fragili. Lo ha confermato il suo presidente Roberto Ricci, nel maldestro tentativo di negare tutto: «Nessuna certificazione, nessuna etichettatura. L’idea è proprio quella di fornire indicatori che probabilisticamente individuano dei fragili. Come dire: se ho determinate caratteristiche fisiche, sono esposto a determinati rischi, e mi controllerò per prevenirli. Un’altra lettura delle cose favorisce l’oscurantismo». Commento che si commenta da solo.

 

Egli poi, sempre tentando di negarlo, ammette anche che i codici identificativi consentono di associare il valore dell’indicatore di fragilità alla scheda personale di ogni studente; e che il bollino viene loro appiccicato a totale insaputa delle famiglie. Un capolavoro assoluto di trasparenza e di democrazia, non c’è che dire.

 

Tutta la procedura si dispiega al riparo da ogni controllo esterno; non è contestabile né riproducibile; sono ignoti i criteri utilizzati per segnare la soglia di fragilità, tutto è secretato. I risultati, come dice Latempa, vanno accettati come puro atto di fede. Ipse (dove ipse è INVALSI) dixit.

 

Le parole della stessa Autorità Garante per la protezione dei dati personali (in un recente dibattito dal titolo: «Intelligenza artificiale: come proteggere i dati e come utilizzarli per la dispersione scolastica?») rendono ragione della gravità di questo potenziamento dell’INVALSI con la ridefinizione dei test in senso predittivo. Di seguito alcuni stralci del suo discorso, riportati qui.

 

«Quando uniamo IA e dati la miscela diventa esplosiva. I dati sono di fatto proiezioni, frammenti dell’identità di una persona. Messi insieme rappresentano la persona. Il chi siamo nella dimensione digitale». E ancora: «In una stagione in cui il tecnologicamente impossibile non esiste più e il tecnologicamente possibile è tutto, se cedo all’idea che quello che è tecnologicamente possibile e legittimo è democraticamente sostenibile, il risultato finale (…) è che il governo diventa della tecnologia. La tecnocrazia travolge la democrazia perché la vera regola la fissa la soluzione tecnologica (…) Rischiamo di consegnarci mani e piedi agli algoritmi e alla tecnologia (…) che esce dai laboratori di ricerca ormai sempre più nelle mani dei privati e quindi è sviluppata nel loro legittimo interesse».

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Il Garante ha fatto anche un esempio delle aberrazioni cui questo sistema può condurre:

 

«Pensiamo all’accesso abusivo a quell’informazione con il dato di Paolo Rossi, che per colpa di un algoritmo che ha messo in fila in maniera non corretta dei fattori si ritrova classificato come a rischio dispersione, poi quando quello proverà ad entrare in un’Università X o Y che cerca solo quelli bravi resterà fuori dalla porta; o quando ci sarà qualcuno che dovrà selezionarlo per un lavoro e avrà accesso ai dati dirà ma era addirittura “a rischio dispersione”». È solo un esempio, e nemmeno il più grave, nel panopticon che ci aspetta.

 

Per concludere. Attraverso una valutazione standardizzata che fuoriesce completamente dal controllo umano si pretende non soltanto di fotografare il presente, in termini di livello di apprendimento dello studente, ma anche di prevedere statisticamente i futuri possibili e di intervenire per modificarli; si pretende, tecnicamente, di influenzare il futuro ingabbiando le vite in fiore dentro una prigione informatica dalla quale diventa impossibile evadere.

 

Come dice Rossella Latempa, «L’effetto immediato è quello di rendere presenti quei futuri selezionati come più probabili, non solo attraverso la classificazione individuale, la cui traccia sociale è imprevedibile, ma soprattutto per mezzo della catena di interventi attivati (progetti di potenziamento didattico, recupero…)». In sostanza, dice sempre Latempa: «la valutazione automatizzata è un processo performativo, cioè coinvolto nella creazione della realtà che pretende di rappresentare. Il potere auto-rappresentante di una classificazione come quella di fragilità emessa dall’INVALSI non è paragonabile al giudizio umano di un insegnante, negoziabile e revisionabile. Automatizzare le valutazioni significa naturalizzare le disuguaglianze e rafforzarle».

 

Nell’incommensurabilità tra il giudizio umano, che implica una relazione interpersonale in divenire, e la tassonomia computerizzata, che sigilla una prestazione in un dato indelebile, risiede il nucleo di questa perversione.

 

Insomma, la mole imponente di dati raccolti dall’INVALSI per ciascuno studente lungo tutto il corso della sua carriera scolastica alimenta un database da cui trarre informazioni personali e premonizioni oracolari. In pratica, un mostro cibernetico inafferrabile – programmato e reso onnipotente da frotte di poveri nerd inconsapevoli – traccia e pilota le biografie dei nostri figli, obbligati a viaggiare per la vita ciascuno con la propria scatola nera cucita addosso. Non per nulla li chiamano «capitale umano».

 

Non bisogna dimenticare, a margine, la contestuale stretta sul cosiddetto «orientamento», il quale – sempre grazie al decreto PNRR – si avvia a grandi passi a diventare vincolante, ovvero sottratto alla volontà della famiglia (nel sito del MIM si legge: «si valorizza il consiglio di orientamento, rilasciato dalle istituzioni scolastiche agli alunni della classe terza della Scuola secondaria di I grado, demandando a un decreto del Ministro l’adozione di un modello unico nazionale di consiglio di orientamento, da integrare nell’E-Portfolio». Se ne parla più diffusamente qui).

 

Ecco a voi le meraviglie del progresso. Chi in questi anni avvertiva qualche disagio nel prestare la prole ai rilevamenti statistici richiesti per il miglioramento della scuola, della specie, dell’ecosistema, del pianeta; chi magari pensava addirittura che l’INVALSI, in realtà, fosse una polpetta avvelenata a lento rilascio, beh, ora sa che aveva ragione.

 

Stavano preparando il pasto perpetuo per il gigantesco Minotauro tecnocratico. Aspettiamo Teseo.

 

Elisabetta Frezza

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