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Economia

Canada, il blocco emergenziale dei conti corrente dei dissidenti sarà un misura permanente

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Il Canada si è mosso per rendere il congelamento dei beni parte del suo Emergencies Act, che è stato utilizzato per prendere di mira i sostenitori delle proteste dei camionisti del Convoglio della Libertà, una misura permanente.

 

Per fermare la protesta che il regime di Trudeau chiamava «blocco illegale», il governo di Ottawa ha già bloccato circa 70 conti correnti per un totale di più 3 milioni di dollari. Una cifra, a dire il vero, non altissima – pensate invece a quali ammassi di petroldollari si dovrebbero confiscare per bloccare il terrorismo islamico: con una media da conto corrente di pluridecennale risparmiatore della classe media, anche questo dato conferma l’origine spontanea, non pilotata della protesta dei camionisti, a differenza di movimenti come Black Lives Matter che ricevono diecine di milioni di dollari (per far cosa, non si sa) da grande industrie come Apple, Nike e Disney e grandi speculatori finanziari come George Soros, e forse anche dalla Repubblica Popolare Cinese.

 

Ora ai sensi dell’Emergencies Act, le banche canadesi sono tenute a bloccare i conti senza un’ingiunzione del tribunale, mentre tutte le piattaforme di crowdfunding e i fornitori di servizi di pagamento sono obbligati a fornire informazioni a FINTRAC (Financial Transactions and Reports Analysis Center of Canada), cioè l’ente di controllo finanziario atto a protegger le transazione del terrorismo e del riciclaggio.

 

Il vice primo ministro Chrystia Freeland ha annunciato che molte delle misure imposte «temporaneamente» per affrontare i manifestanti (dopo che erano stati opportunamente demonizzati come estremisti violenti) diventeranno ora permanenti.

 

«Abbiamo utilizzato tutti gli strumenti che avevamo prima dell’invocazione dell’Emergencies Act e abbiamo deciso di aver bisogno di alcuni strumenti aggiuntivi», ha annunciato Freeland, che ha un passato da giornalista nell’establishment liberal connesso al governo USA.

 

«Alcuni di questi strumenti proporremo misure per mettere in atto tali strumenti in modo permanente. Le autorità di FINTRAC, credo, debbano essere ampliate per coprire le piattaforme di crowdsourcing e le piattaforme di pagamento».

 

Summit News ha ricordato le immortali parole di Ronald Reagan: «niente dura più a lungo di un programma governativo temporaneo».

 

Gli fa eco il discorso ripetuto da Robert F. Kennedy jr.: nessun potere acquisito durante un’emergenza è stato abbandonato da un governo a emergenza finita. «Ogni potere che lo Stato acquisisce usando questa pandemia come pretesto porterà infine all’abuso al massimo effetto possibile. E questa è una legge certa come la gravità».

 

Come noto, sotto controllo finiranno, per precisa volontà del governo Trudeau, anche le criptovalute. Con questa mossa, la trasformazione del Canada in tirannia è completa: di più, dichiarandosi l’assoluto padrone anche del danaro che circola in ogni sua forma nel Paese, Justin Trudeau arriva a realizzare una tirannide di proporzioni mai viste, con una pervasività assoluta che sarà ora moltiplicata dall’abolizione del contante in arrivo anche in Europa ma in verità già partita con il green pass.

 

Come scritto sul sito dello stesso dell’entità, la Freeland nel 2019 è stata nominata tra i nuovi amministratori fiduciari del World Economic Forum di Klaus Schwab. Altri membri noti del board sono il  presidente della BCE Christine Lagarde, il presidente della Commissione Europea Ursula von der Layen, Al Gore, il banchiere statale inglese Mark Carney, la regina Rania di Giordania, il musicista Yo-Yo Ma.

 

Il caso della Freeland è quindi di uno dei tanti dove giovani elementi del WEF vengono infiltrati nei governi di tutto il mondo, operazione di cui Schwab si è vantato pubblicamente, dicendo di aver «penetrato» i gabinetti di governo di vari Paesi, beandosi in particolare del risultato canadese, dopo «più della metà» del governo è passato per i programmi di Davos.

 

 

 

 

 

 

 

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Economia

Apple sposta la produzione di iPhone in India

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Apple prevede di spostare l’assemblaggio di tutti gli iPhone destinati agli Stati Uniti dalla Cina all’India, alla luce delle crescenti tensioni commerciali tra Washington e Pechino. Lo riporta il Finacial Times.

 

All’inizio di questo mese, il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha imposto dazi doganali ingenti su numerosi paesi, con dazi che hanno raggiunto il 145% sulle merci cinesi. Ha sostenuto che le misure contribuiranno a rilanciare la produzione manifatturiera nazionale e a riequilibrare la bilancia commerciale sbilanciata. Pechino ha risposto imponendo dazi e restrizioni alle esportazioni.

 

L’agenzia statunitense per la protezione delle dogane e delle frontiere (CPD) ha poi pubblicato un elenco di articoli esentati, soggetti solo a un’aliquota separata del 20%, tra cui computer, laptop, smartphone e altri dispositivi e componenti tecnologici. Commentando la decisione, la Casa Bianca ha affermato che le esenzioni hanno lo scopo di dare alle aziende il tempo necessario per localizzare la loro produzione sul suolo statunitense.

 

Venerdì, FT ha riferito, citando fonti a conoscenza della questione, che Apple spera di completare lo spostamento delle sue linee di assemblaggio in India entro la fine del 2026, interessando oltre 60 milioni di iPhone venduti ogni anno negli Stati Uniti.

 

 

Secondo la pubblicazione, il colosso della tecnologia ha dovuto accelerare la sua strategia di diversificazione preesistente a causa dell’intensificarsi della guerra commerciale e ora punta a raddoppiare la produzione di iPhone in India.

 

Sebbene l’azienda abbia già trasferito alcune delle sue linee di assemblaggio in India e Vietnam, la Cina rimane il principale centro di produzione di iPhone a livello globale. Apple vi ha investito massicciamente per quasi due decenni.

 

Molti dei componenti costitutivi che vengono assemblati durante l’assemblaggio provengono dalla Cina, ha osservato il FT.

 

All’inizio di questo mese, il Times of India, citando alti funzionari anonimi, ha affermato che Apple aveva trasportato cinque aerei carichi di iPhone e altri dispositivi dall’India agli Stati Uniti nell’arco di tre giorni a fine marzo. La spedizione sarebbe stata effettuata in previsione di una tariffa reciproca del 10% sui prodotti indiani introdotta da Trump, entrata in vigore il 5 aprile.

 

Il modello di iPhone 16 più economico è stato lanciato negli Stati Uniti a 799 dollari lo scorso settembre. Il prezzo potrebbe ora aumentare del 43%, raggiungendo i 1.142 dollari, se Apple dovesse scaricare l’onere sui consumatori, secondo le stime di Reuters, che cita calcoli basati sulle proiezioni degli analisti di Rosenblatt Securities.

 

Come riportato da Renovatio 21, nelle scorse settimane per evitare costi aggiuntivi dovuti ai nuovi dazi del presidente Trump, Apple ha trasportato via aerea 600 tonnellate di iPhone negli Stati Uniti.

 

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Economia

Gli USA impongono dazi fino al 3.521% sulle importazioni di energia solare legate alla Cina

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Washington ha imposto dazi fino al 3.521% sulle importazioni di energia solare dal Sud-Est asiatico, secondo le informazioni pubblicate lunedì dal dipartimento del Commercio degli Stati Uniti. Gli aumenti fanno seguito alle accuse secondo cui i produttori di proprietà cinese che operano nella regione avrebbero violato le norme commerciali. Lo riporta Bloomberg.   Secondo la testata economica neoeboracena, i dazi colpiscono le importazioni da Malesia, Cambogia, Thailandia e Vietnam, Paesi che complessivamente lo scorso anno hanno fornito agli Stati Uniti apparecchiature solari per un valore di oltre 12,9 miliardi di dollari.   Note come dazi antidumping e compensativi, le misure mirano a contrastare l’impatto di quelle che il Dipartimento del Commercio degli Stati Uniti ritiene essere pratiche di sussidi e prezzi ingiusti.

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La decisione è stata presa a seguito di una petizione presentata dall’American Alliance for Solar Manufacturing Trade Committee, che rappresenta diversi produttori statunitensi. Le aziende nazionali hanno affermato che i produttori cinesi di pannelli solari con stabilimenti nei quattro paesi del Sud-Est asiatico esportavano pannelli a prezzi inferiori ai costi di produzione e beneficiavano di sussidi ingiusti che compromettevano la competitività dei prodotti americani.   Le sanzioni variano a seconda dell’azienda e del Paese: i prodotti Jinko Solar provenienti dalla Malesia sono soggetti a dazi antidumping e compensativi combinati del 41,56%, i prodotti Trina Solar realizzati in Thailandia sono soggetti a tariffe del 375,19% e i fornitori cambogiani, che non hanno collaborato all’indagine, rischiano tasse punitive fino al 3.521%.   I critici del provvedimento, come la Solar Energy Industries Association (SEIA), sostengono che i dazi danneggerebbero i produttori di energia solare statunitensi, aumentando il costo delle celle importate, che le fabbriche americane utilizzano per assemblare i pannelli, ha osservato Reuters.   La Commissione per il commercio internazionale, un’agenzia federale statunitense indipendente e imparziale che indaga su questioni legate al commercio, voterà a giugno per determinare se l’industria nazionale ha subito danni materiali a causa delle importazioni, un passaggio necessario affinché i dazi entrino in vigore pienamente.   Dopo che circa 12 anni fa erano stati imposti dazi simili sulle importazioni di energia solare dalla Cina, le aziende cinesi hanno reagito aprendo attività in altri Paesi che non erano state interessate dai dazi, ha osservato Bloomberg.   Le nuove imposte si aggiungeranno ai dazi doganali introdotti dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che hanno scosso i mercati globali. Finora, Trump ha imposto dazi del 145% sulle importazioni cinesi e ha minacciato un ulteriore possibile aumento al 245%.   La Cina ha accusato gli Stati Uniti di «bullismo», ha reagito imponendo una tassa del 125% sui prodotti statunitensi e ha promesso di «combattere fino alla fine».

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Economia

Il dollaro ai minimi storici: Trump tira dritto

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Lunedì il dollaro statunitense è crollato al minimo degli ultimi tre anni, mentre aumentava l’agitazione sui mercati per la guerra tariffaria del presidente degli Stati Uniti Donald Trump e il suo crescente disaccordo con il presidente della Federal Reserve Jerome Powell.

 

L’indice del dollaro statunitense ICE, che replica l’andamento del biglietto verde rispetto a un paniere di valute principali, è sceso di oltre l’1% a 97,923, il minimo da marzo 2022. Il dollaro ha toccato nuovi minimi anche nei confronti di euro, sterlina, yen e franco svizzero, e si è indebolito nei confronti del rublo, scendendo sotto quota 80 per la prima volta da giugno 2024.

 

La valuta è sottoposta a crescenti pressioni da quando Trump ha lanciato i dazi, definiti «Giorno della Liberazione», il 2 aprile, prendendo di mira i partner commerciali globali. La fiducia dei mercati è stata ulteriormente scossa dopo che Trump ha pubblicamente attaccato Powell giovedì sui tassi di interesse.

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Il presidente ha attaccato duramente il presidente della Fed, chiedendo tagli ai tassi e avvertendo che Powell potrebbe essere rimosso. «Se lo vuole fuori, se ne andrà molto velocemente», ha detto Trump. I suoi commenti sono arrivati ​​dopo che Powell aveva avvertito che i dazi avrebbero “molto probabilmente generato almeno un aumento temporaneo dell’inflazione” e aveva segnalato che non ci sarebbero stati tagli imminenti ai tassi.

 

Il consigliere economico della Casa Bianca, Kevin Hassett, ha dichiarato in seguito che l’amministrazione sta valutando se sia possibile licenziare legalmente Powell prima della scadenza del suo mandato.

 

 

Lo scontro ha allarmato gli investitori, nonostante Powell abbia affermato di non avere intenzione di dimettersi anticipatamente e abbia sottolineato che l’indipendenza della Fed è una «questione di diritto».

 

Lunedì Trump ha rinnovato i suoi attacchi, definendo Powell «il signor Too Late, un grande perdente» in un post su Truth Social e avvertendo che l’economia rallenterà se i tassi non verranno tagliati.

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Le azioni statunitensi hanno subito un altro colpo: il Dow Jones, il Nasdaq e l’S&P 500 hanno tutti perso più del 3%.

 

«Gli investitori stanno affrontando una nuova fonte di ansia macroeconomica: le minacce di Trump all’indipendenza della Fed», ha detto lunedì alla CNBC l’esperto del settore Adam Crisafulli di Vital Knowledge.

 

Ogni tentativo di licenziare Powell probabilmente innescherebbe una forte svendita sui mercati azionari statunitensi, ha dichiarato al quotidiano il vicepresidente di Evercore ISI, Krishna Guha.

 

Trump ha nominato Powell alla Fed nel 2018 e lo ha riconfermato l’ex presidente Joe Biden nel 2022. Il suo mandato come presidente durerà fino a maggio 2026.

 

Come riportato da Renovatio 21, durante il Forum del Club Valdai dello scorso 7 novembre, il presidente russo Vladimir Putin è stato interrogato dall’ex vicepresidente brasiliano della New Development Bank ed ex funzionario del FMI. Paulo Nogueira Batista jr. sul ruolo delle valute alternative, assicurando che la Russia non ha «cercato di abbandonare il dollaro».

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Come riportato da Renovatio 21, vari Paesi che stanno attuando politiche di allontanamento dal dollaro come l’India, l’Indonesia, il Bangladeshla Malesialo Sri Lankail Pakistan la Bolivia, l’Argentina e altre Nazioni del Sud del mondo (con timidi accenni perfino in Isvizzera) stanno seguendo si stanno sganciando dal biglietto verde. A inizio 2023 la Banca Centrale Irachena ha annunciato che consentirà scambi con la Cina direttamente in yuan cinesi, senza passare dal dollaro, mentre il Ghana si è rivolto non alla moneta statunitense, ma all’oro per stabilizzare la propria valuta nazionale.

 

Il processo di de-dollarizzazione è stato incontrovertibilmente innescato con le sanzioni anti-russe. Lo stesso Putin la scorsa estate aveva definito il fenomeno come «irreversibile». Il presidente russo mesi fa aveva dichiarato che è l’Occidente stesso a distruggere il proprio sistema finanziario.

 

Come riportato da Renovatio 21, in campagna elettorale ad un comizio in Wisconsin l’ora presidente eletto Donald Trump ha accennato ad un piano per fermare la de-dollarizzazione innescata dalle folle politiche di Biden.

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