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Il biofascismo contro i «fascisti»

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Robert Kennedy junior, quando l’anno scorso prese la parola all’oceanica manifestazione di Berlino a fine estate, già lo diceva senza esitazione: «Negli Stati Uniti stanno dicendo che sono venuto qui per parlare a 5.000 nazisti. E domani scriveranno che sì, sono stato qui, e ho parlato 3.000 o 5.000 nazisti».

 

Era chiaro da tempo, e in tutto l’Occidente, che l’establishment aveva il programmino semplice-semplice di dipingere nella mente del cittadino globale l’equazione rifiuto del vaccino = estremismo di destra. In America, quelli che dissentono nei confronti della discriminazione biologica (lì li chiamano anti-vaxxer) sono ovviamente dichiarati trumpiani. In Germania sono neonazisti. In Italia sono fascisti.

 

Non poteva essere altrimenti: in America si fa leva sull’eiezione di Trump dal discorso pubblico (bandito dai media e dai social, il suo popolo accusato e messo in galera per i fatti del 6 gennaio), in Europa si capitalizza su settanta e passa anni di demonizzazione del totalitarismo nero, babau del XX e XXI secolo.

 

Per farci paura, il potere ha tirato fuori l’uomo nero. Del resto, sappiamo che hanno poca fantasia. Perché, ricordatelo, spesso nella più alta stanza dei bottoni ci sono uomini mediocri

Ebbene sì: per farci paura, il potere ha tirato fuori l’uomo nero. Del resto, sappiamo che hanno poca fantasia. Perché, ricordatelo, spesso nella più alta stanza dei bottoni ci sono uomini mediocri – e forse per questo di crudeltà pericolosa.

 

Ora, tuttavia, siamo davanti ad un paradosso pleateale, anche se ignoto totalmente ai giornali.

 

Lo Stato che ti obbliga a operazioni corporali, lo Stato che ti ricatta sul lavoro se non prendi una tessera, lo Stato che ti controlla in ogni movimento, lo Stato che proibisce gli assembramenti, lo Stato che tollera la limitazione della libertà di stampa e di parola, lo Stato che nega i diritti umani fondamentali (perfino quelli previsti dalla suo stesso documento legittimante, la Costituzione), accusa i suoi oppositori di essere «fascisti».

 

No, sul serio. Il bue che dice cornuto all’asino è un dilettante. Lo avevamo visto di recente: terroristi che dicono «terroristi» ai cittadini.

 

L’uomo nero, il «fascista di ritorno», è il vero problema contro cui scagliarci per il bene dell’attuale assetto sociale – che non è quello democratico, è quello di sottomissione biologica, qualcosa a cui il fascismo non era completamente arrivato.

 

Perché, ci chiediamo: il fascismo chiedeva una tremenda sottomissione «sociale», del foro esteriore.  Non aveva i mezzi, tuttavia, per chiedere quella del foro interiore. Lo Stato pandemico invece vuole la sottomissione del «foro interiore»: devi essere tu a vaccinarti; devi tu prenotarti il buco mRNA, perché non puoi reggere altrimenti la tua vita e quella della tua famiglia; devi tu firmare tutti i documenti che manlevano la responsabilità degli altri, vaccinatori e multinazionali farmaceutiche.

 

Il fascismo storico solo con le orrende leggi razziali è arrivato alla discriminazione biologica. Ora siamo ad un livello perfino inferiore, sotto il foro interiore, sotto la coscienza, sotto il proprio gruppo etnico: si è all’apartheid biomolecolare

Di più: il fascismo storico solo con le orrende leggi razziali è arrivato alla discriminazione biologica. Ora siamo ad un livello perfino inferiore, sotto il foro interiore, sotto la coscienza, sotto il proprio gruppo etnico: si è all’apartheid biomolecolare.

 

Andiamo ancora oltre: lo Stato nazifascista e lo Stato pandemico hanno la medesima base strutturale – la cancellazione della legge naturale a favore del diritto positivo. La legge è tale non perché si accorda alla natura umana e al disegno del creato; la legge è tale perché la si pone, cioè impone, per arbitrio del potere. Dura lex sed lex. Punto.

 

È un fatto che qualcuno può, al contrario di quanto ora strilla il potere costituito, vedere lo Stato pandemico come diretta continuazione dello Stato fascista. Vi sono dei rimandi storici precisi: pensiamo alle leggi di vaccinazione obbligatoria promosse sotto il fascismo (in continuazione con quelle precedenti dell’era unitaria, presenti anche negli altri Paesi europei più o meno retti dalla massoneria ottocentesca).

 

Ma pensiamo, soprattutto, anche a casi come quello della cosiddetta «Strage di Gruaro»: nel 1933, in piena era fascista, un paesino intero costretto ad un vaccino sperimentale (un siero contro la difterite). 253 bambini tra i 13 mesi e gli otto anni inoculati, con reazione avversa massiva, e 28 di loro che muoiono miseramente. Nessuna inchiesta, e le autorità fasciste che passano sotto silenzio l’intero episodio.

 

Andiamo ancora oltre: lo Stato nazifascista e lo Stato pandemico hanno la medesima base strutturale – la cancellazione della legge naturale a favore del diritto positivo

Ricorda qualcosa? Vaccini sperimentali, obblighi, tombali silenzi della stampa (ricordate, per caso, tutti quei morti di inizio anno? Giovani e vecchi, militari e civili? Che fine hanno fatto? Qualcuno sa dove si trova Tiffany Dover?)…

 

Se il fascismo è uno stato basato sul controllo capillare e repressivo, uno Stato che implementa un medesimo controllo arrivando perfino al piano biologico può essere chiamato «biofascista». Tutti i fan scatenati di Foucault, che si sono riempiti la bocca per decenni con la parola «biopolitica», alla parola «biofascista» non sono arrivati.

 

Ora abbiamo quindi il biofascismo che dice che il pericolo sono i «fascisti».

 

Ora abbiamo quindi il biofascismo che dice che il pericolo sono i «fascisti»

I quali, secondo varie testimonianze e pure l’uso della logica, in nessun modo possono costituire la totalità della manifestazione. Ci hanno detto: qualche decina, come sempre. Dietro decine di migliaia, se non milioni in tutta Italia, di persone comuni, operai. mamme, studenti, pensionati. Vi basta guadare le immagini della manifestazione di Milano – dove, stranamente, non c’è stata violenza… – per capire che quella del bollino «uomo nero» è davvero una mossa di discredito del dissenso piuttosto disperata, stupida.

 

 

Tuttavia, niente, trovare qualcuno disposto ad ammettere questa semplice verità – ma quali fascisti, è una enorme massa trasversale a tutta la società italiana quella che sta protestando! – è impossibile.

 

Perfino quando manganellano una giornalista, che peraltro garantisce che i manganellati non avevano fatto niente, non si trova un’anima viva (nel sindacato, nella politica, nelle associazioni di vergini&prefiche) a chiedersi cosa stia succedendo. La minaccia autoritaria, per loro, fino a pochi anni fa era Silvio Berlusconi… e niente, rendiamoci conto, non c’è nemmeno da riderci sopra, visto che le bastonate testimoniate dall’inviata de La Stampa parrebbero vere.

«Sono rimasta da sola tra i no vax. Io avevo un telefonino in mano e gli altri nulla. Era un momento di calma, nessuno lanciava oggetti. Caricati e manganellati».

 

Lo avete visto. Il ragazzo va a parlare al poliziotto, gli dice frasi insulse, innocue, «dai ragazzi, noi siamo il popolo, come voi», una cosa così. Quello neanche lo sta a sentire, guarda la posizione dei colleghi, poi alza il bastone e urla: «carica!». E giubbotte.

 

A filmare tutto, finendo nella mischia, ripetiamo, è una giornalista. Nel momento in cui la stampa è manganellata, davvero vogliamo parlare di pericolo «fascista»? Ma davvero è stato esaurito il senso dei ridicolo sino a questo punto?

Il senso del ridicolo è sparito assieme al principio di realtà

 

Il senso del ridicolo è sparito assieme al principio di realtà. Ritengo che sia la conseguenza di avere al governo Draghi, tecnocrate che mai ha vissuto il conflitto, mai ha conosciuto la gente – i politici che lo hanno fatto con tutta la gavetta, da Salvini a qualche vecchio piddino, sono diventati con i loro partiti organi vestigiali del potere, sono decori ininfluenti dello Stato. Se comanda Draghi significa che la politica – quella che è fatta di esseri umani, quindi di parola, di opinione, di ascolto – è sparita, si è imboscata, oppure è finita impiccata come Antigone.

 

Draghi e il suo potere, ho scritto in passato, non possono avere lo stesso principio di realtà che ha il comune cittadino. Quindi, mi dicevo, è possibile che ad un certo punto si possa spaventare, davanti ad un dissenso sempre più massivo e materiale del quale potrebbe comprendere infine di non avere né controllo né contezza. Quando mai si è vita una sede del sindacato assaltato? Quando mai si sono viste manifestazioni di decine di migliaia di persone ogni sabato (si badi: il sabato, non un giorno qualsiasi in cui si può scioperare)? Quando mai si sono viste le forze dell’ordine che possono sfilare tra i manifestanti, quando non tengono la linea, senza temere di essere attaccare (guardate, sempre, le scene di Milano)? Quando mai si sono viste signore anziane marciare assieme agli studenti e ai portuali?

 

Mi sbagliavo, forse. Il fatto che ci troviamo in terra incognita, in un angolo della storia dove non ci sono mappe, forse non li intimorisce. Forse non hanno capito, non so. Oppure, come ho pensato altre volte, preparano una repressione ancora più grande.

 

I biofascisti mentiranno, e reprimeranno, fino a che non ne potremo più, fino a che gli obiettori non saranno sacrificati. Gli altri si beccheranno i lockdown climatici, i lockdown inflattivi, gli OGM CRISPR firmati UE, magari anche una spruzzata di geoingegneria, più qualche misura consistente di controllo delle nascite

Siamo solo all’inizio dell’autunno. Il bollino di «fascista» su chi dissentirà da qualsiasi cosa vogliono fare accadere (licenziamenti di massa, caro bollette, e magari infine l’obbligo vaccinale definitivo) certo fa comodo. Ma alla lunga non credo che sarà sostenibile. Perché la realtà, ad un certo punto, torna sempre a bussare alla porta.

 

Il progetto del mondo biofascista non prevede la realtà: mentiranno, e reprimeranno, fino a che non ne potremo più, fino a che gli obiettori non saranno sacrificati. Gli altri si beccheranno i lockdown climatici, i lockdown inflattivi, gli OGM CRISPR firmati UE, magari anche una spruzzata di geoingegneria, più qualche misura consistente di controllo delle nascite (il vero, grande obiettivo di tutto questo – il senso ultimo di ogni fascismo biotico).

 

Purtroppo per i biofascisti, la realtà, invece, esiste. Siamo noi. I nostri corpi, le nostri anime, la nostra volontà. La nostra dignità.

 

Credevate davvero che fosse così facile toglierci tutto?

 

 

Roberto Dal Bosco

 

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Orban: l’ordine mondiale liberale è finito

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Il primo ministro ungherese Vittorio Orban ha affermato che il rifiuto del suo Paese di conformarsi all’ideologia liberale porterà notevoli benefici in futuro.

 

Il politico nazionalista conservatore magiaro è al potere dal 2010, vincendo le elezioni consecutive sfidando quello che considera un regime autoritario di Bruxelles.

 

«L’ordine mondiale liberale è finito», ha dichiarato martedì durante un discorso a Budapest.

 

I leader dell’UE hanno accusato l’Orban di aver fatto marcia indietro sulla democrazia in Ungheria e di aver minato i tentativi del blocco di proiettare solidarietà sul conflitto ucraino. Orbán ha sostenuto che le politiche di Bruxelles sono state disastrose per gli stati membri dell’UE.

 

«Quando arriveranno i cambiamenti, potranno essere vincitrici solo quelle nazioni che sapranno dare il massimo», ha detto Orbán a un raduno di studenti universitari, come riportato dal suo ufficio.

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«Coloro che si assimilano, si allineano, non sono in grado di mostrare i propri valori o di scoprire la forza insita nel loro carattere nazionale, diventeranno presto irrilevanti», ha aggiunto.

 

L’Ungheria è «la nazione più occidentale e più orientale dell’Europa occidentale» e cerca di «collegarsi a tutte le potenze economiche del mondo», ha affermato Orban.

 

Budapest sostiene che la risposta dell’Occidente al conflitto in Ucraina, compresi i tentativi di punire la Russia con sanzioni economiche, ha causato un calo degli standard di vita e altri problemi in Europa.

 

A differenza di altri leader nazionali, che intendono supportare Kiev «finché sarà necessario» per sconfiggere Mosca, Orban si è rifiutato di inviare qualsiasi assistenza militare e ha tentato di mediare i colloqui di pace, sostenendo che il «piano di vittoria» di Zelens’kyj costituisce la «via più rapida per una guerra mondiale».

 

All’inizio di quest’anno, il primo ministro ha fatto visite in Ucraina, Russia, Cina e Stati Uniti durante quello che ha definito un tour di pace nel tentativo di facilitare i negoziati. L’eurodeputato verde tedesco Daniel Freund, per questa campagna per la pace mondiale, ha chiesto l’arresto di Orban. L’Ungheria è minacciata anche di espulsione dai B9, un gruppo di Paesi europei orientali e baltici. Orban è osteggiato fortemente dall’ambasciatore omosessuale americano a Budapest, che è arrivato a fare velate minacce contro il governo ungherese.

 

Orban si aspetta che il presidente eletto degli Stati Uniti Donald Trump, da lui sostenuto, apporti cambiamenti radicali in Ucraina dopo il suo insediamento a gennaio.

 

Come riportato da Renovatio 21, Orban varie volte ha dichiarato Trump come l’unico uomo che può salvare il mondo dalla catastrofe della guerra. L’ex presidente ha ripetutamente giurato di porre fine al conflitto in Ucraina entro 24 ore se eletto.

 

Come riportato da Renovatio 21, tre settimane fa Orban aveva detto che l’egemonia occidentale durata 500 anni è ora finita. In questa epoca di cambiamento, Orban vede altresì l’immigrazione guidata dalle élite come «un modo di sbarazzarsi dell’omogeneità etnica alla base dello Stato-nazione».

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Immagine di European Parliament via Flickr pubblicata su licenza CC BY 2.0

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Io difendo Ambrogio. Ambrogio difende me

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Come ogni anno Renovatio 21 pubblica questo articolo nel giorno di Sant’Ambrogio, patrono di Milano. Il pezzo, lo sappiamo, è vecchio di anni – tuttavia attualissimo. Vorremmo avere molto altro da dire, ma già tanto viene detto nelle righe sotto. Come abbiamo avuto modo di scrivere di recente, l’importanza di Ambrogio è più grande che mai: e se non lo si capisce, dopo la rivolta etnica di Corvetto degli scorsi giorni, il problema diviene irrisolvibile. Senza un ritorno ad Ambrogio Milano è finita – e quindi, è finita anche l’Italia. Invochiamo quindi, anche in questo 2024, la bontà di Ambrogio – ma anche il suo flagello. Senza un movimento per la tradizione ambrosiana la sua città diverrà un inferno, e in larghissima parte già lo è. Chiediamo ai lettori milanesi che comprendono quanto stiamo scrivendo di comunicarci qualora siano interessati a fare davvero qualcosa. Noi lo siamo.   Anche quest’anno, nella festa si Sant’Ambrogio, Renovatio 21 ripubblica un articolo sull’importanza del Santo di Milano, e della devozione in generale. L’attualità di questo santo, specie nel presente disastro geopolitico e religioso, è indiscutibile. Molti lettori lo avranno già letto, molti altri, nuovi in questo sito, non lo hanno mai letto. Preghiamo Ambrogio di difenderci nell’ora oscura in cui viviamo. A tutti i nostri lettori, milanesi e non, auguriamo: Buon Sant’Ambroeus!     Fu Penelope, una ragazza greca, a mostrarmelo per la prima volta.   In realtà mi porse una cartolina. La foto di un mosaico: un uomo dell’antichità, con la barba i baffi e i capelli corti. Un volto semplice, immerso in paramenti che invece parevan importanti. Sopra questa figura c’era scritto solo «AMBROSIVS».   «È Ambrogio. È il protettore di Milano. Tenete questa foto con voi».   Ciò accadeva, a Milano, quasi una ventina di anni fa. Per me, più di un’era geologica. Un altro pianeta, un’altra vita.   Si era, appunto, nei giorni di Sant’Ambrogio. Vivevo a Milano da un anno ma io mai avevo sentito il bisogno di sapere chi fosse Ambrogio. Mai avevo avvertito la necessità di guardarlo in faccia. Del resto, una faccia non poteva averla. Sant’Ambrogio era una festa, non una persona.   Eppure, pure in quella passata incarnazione del mio essere in cui la Fede era remota, avevo compreso che il gesto di Penelope aveva un valore inusuale. Non mi aveva passato un disco (allora c’erano) e neppure un libro (di quelli che non leggi e non restituisci). Sentivo che voleva trasmettermi qualcosa di speciale. Quasi un oggetto magico, un talismano: all’epoca le mie categorie cerebrali erano quelle.   Penelope aveva studiato negli anni Novanta con quella che allora era la mia fidanzata, una ragazza tedesco-americana.   Avevano studiato quella cosa che si chiama «design», che allora era quasi una cosa seria. Lo avevano fatto a Londra, al tempo centro di rimescolamento della intraprendenza giovanile mondiale, quel tipo di frullatore dove gli ingredienti erano americani, giapponesi, libanesi, russi, austriaci, coreani, fiamminghi, croati, i cui schizzi ormai apolidi si riversavano ad ondate nelle case di moda o negli studi pubblicitari di Milano. Erano giorni corruschi e distratti.   Niente di quel mondo poteva portarmi a pensare a quella inspiegabile scintilla che vedevo negli occhi di Penelope, un qualcosa che allora non potevo sapere come chiamare, ma ora sì: devozione. Penelope aveva ritrovato la Fede proprio in quel bailamme di colore e nichilismo che immergeva la nostra giovinezza.   Era cristiana ortodossa, anche questo scuoteva la mia ignoranza. Ma come, una ortodossa che mi parla di un santo cattolico?   «I santi venuti prima dello scisma sono santi per tutti» mi edusse con quell’accento soave. Io mica lo sapevo.

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Devozione

Fu con quella cartolina in tasca che un pomeriggio d’inverno, senza saper neanche bene perché, entrai per la prima volta nella Basilica di Sant’Ambrogio.   Vagai per la navata, che rispetto a quella del Duomo, notai, era più luminosa, e non so quanto la cosa mi piacesse. Osservai quella colonna stranissima che si erge a metà chiesa, che sopra monta un serpente di bronzo. Ero confuso.   C’era pace. Quello, sì, lo sentivo distintamente. Non passò molto prima di venir magnetizzato verso il fondo della Basilica. E di lì, giù per quella mezza manciata di scalini.   Ero entrato nella cripta.   Non ero preparato: non mi aspettavo di trovare, in quel cunicolo buio sotto l’altare, tre scheletri — gli unici punti illuminati — e una grande cancellata di metallo a dividermi da essi.   Di quella prima volta, conservo il ricordo nitido di una sola figura umana che stava dinanzi a me. Una ragazzina, che non arrivava ai vent’anni. Composta, nel suo cappottino elegante, stivali alti, gli occhi azzurri, che potevo scorgere con un bagliore proveniente dall’esterno, trasmettevano fierezza, ma non solo quella. Era in ginocchio davanti alla cancellata, rivolta verso i Santi. Le mani erano giunte in preghiera. Con le stesse, poi si aggrappava alle barre di metallo. Come se fossero le inferriate di un carcere, come se ardesse per liberare se stessa o qualcos’altro, tenuto appena oltre quelle sbarre.   Cosa stava facendo? Perché una ragazza così — una ragazza di buona famiglia, che trovavo anche carina — aveva bisogno di fare una cosa simile? Pregare con tutto lo spirito uno scheletro?   La risposta è in qualcosa che imparai a comprendere tempo dopo: devozione.   La devozione era, in realtà, quella fierezza che avevo fugacemente letto negli occhi di Penelope, e che ora veniva irradiata da questa ragazzina. Una devozione speciale, personale, locale: quella fanciulla stava pregando il protettore della città. Il difensore proprio di quella città specifica.   Passarono gli anni, passarono le fidanzate, le fortune, le sventure, gli studi, i lavori, le gioie, le disgrazie, i sindaci e i governi: eppure mi ritrovai sempre, e sempre più spesso, immerso in quella cripta. Con il tempo, mi ritrovai ad emulare quella ragazzina che non vidi mai più: in ginocchio, le mani a stringere forte quella grata, di cui anche ora che scrivo percepisco il freddo del metallo mentre tocca i miei palmi.   A volte, su quella grata appoggio anche la testa, così, tra una sbarra e l’altra, nell’impossibilità di fare passare attraverso il mio cranio, così, in quello che è anche un appoggio di sollievo, sempre con il ferro gelido a toccarmi fino alle ossa. In ginocchio, a parlare con il Patrono. A chiedergli di proteggermi, e di proteggere tutta la città dove vivevo. Proteggere Milano, perché a Milano, talvolta a distanza talvolta no, avevo visto ogni sorta di cosa.   Avevo visto la gente brutalizzarsi nel modo più abietto; avevo visto la cattiveria dei potenti; avevo visto la cattiveria degli impotenti; avevo visto uomini combattersi e ammalarsi; avevo visto amici accumulare danari perdendo l’umanità e anche la famiglia; avevo visto un uomo spararsi davanti all’ex fidanzata nel bar sottocasa; avevo visto coetanei inghiottiti da abissi notturni per non riemergere più; avevo visto la droga (sia quella illegale che quella legale) consumare le menti di una o due generazioni per non lasciare niente; avevo visto una bella conterranea fucilata dal convivente impasticcato psichiatricamente, un’altra fu squartata dal rampollo suo convivente; avevo visto luoghi di perdizione vera, che ancora oggi mi chiedo come facciano ad esistere; avevo visto il crimine convivere tranquillo con la quotidianità; avevo visto l’ambizione delle persone renderle squallide, mostruose, deformi; avevo visto tradimenti, adulterii, ogni sorta di sovversione sessuale e morale; avevo visto ragazze rifiutare i propri figli, e ucciderli; altre ne avevo viste uccidere in provetta quantità indefinite di bambini per alla fine averne uno solo in braccio.   Perversione, decadenza, morte. Milano è davvero una metropoli.   Come non invocare la protezione di Ambrogio? La cosa mi era impensabile.   Come non immaginare, mentre stringo quelle sbarre, che egli stenda un manto santo sopra la città?   Che blocchi il Male che correva libero per quelle strade?   Finii col credere fermamente che Ambrogio fosse ciò che tratteneva Milano dallo sprofondare in quell’Inferno di fuoco che avrebbe inghiottito quell’inferno umano che registravo con i miei occhi.   Per questo, la preghiera in quella cripta divenne per me assidua.

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Tales ambio defensores

Non posso enumerare le volte in cui sono finito davanti alle spoglie mortali di Ambrogio, Gervaso e Protaso. Per dei periodi, è stato un affare quotidiano.   Mi sono aggrappato a quelle sbarre migliaia di volte; spesso sono stato mandato via dal solerte signore filippino (credo) che arriva con l’enorme, tintinnante mazzo di chiavi per chiudere tutta la basilica.   Ho fatto ogni sorta di meravigliosi incontri in quel luogo santo.   Ricordo quando, inciampandole addosso, dissi «izvinite» («mi scusi») a una anziana signora velata. Si faceva multipli segni della croce ed era, chiaramente, una delle tante signore ortodosse — per lo più immagino badanti, ma vi sono talvolta anche veri e propri gruppi di pellegrini — che vanno ad omaggiare Ambrogio.   La signora, usciti dalla cripta, volle scambiare quattro chiacchiere con me, entusiasta del misero russo che stavo studiando. Pretese che salissi immediatamente con lei in metropolitana fino al Duomo, dove mi schiuse le porte di una chiesa ortodossa, che prima di allora mai avevo saputo esistere, appena dietro la cattedrale. La visita ad Ambrogio era una fermata che ella faceva prima di andare nella sua chiesa. C’erano tante signore (moldave, ucraine, bielorusse, russe, kazake…), alcune ho pensato fossero impiegate nell’assistenza di malati o anziani, altre, più giovani ed eleganti, lavoravano chiaramente nella moda; altre ancora, più formose e appariscenti, probabilmente si occupavano di altro – tutte, però, portavano il velo. C’erano i pope con barbe e vesti scure e lunghissime, le candele, l’iconostasi immensa con i suoi bagliori dorati. Tutto sembrava solenne anche se non vi era una funzione in corso. Anche la signora moldava, come Penelope, mi passò una cartolina, e cioè quel che poteva donarmi di più vicino ad una icona.   Capii di essere finito un’altra volta in un circuito invisibile il cui termine era sempre e comunque Ambrogio. La devozione.   Sì, il circuito della devozione, la cui fermata principale era quella cripta, in cui sono finito non perché ho letto un libro (ignoravo, e tuttora ignoro tutto del Santo!) ma perché sospinto da questo flusso intangibile che scorreva a Milano attraverso perfino i cuori degli stranieri.   In quella cripta ho portato tutto: dalle gioie dei primi (piccoli) incassi per i lavori compiuti alla morte di un genitore, dalla speranza di prosperità alla frantumazione del mio essere che a volte gli eventi milanesi potevano cagionare.   Soprattutto, ho portato la mia pochezza. Il mio bisogno di essere protetto, difeso.   «Tales ambio defensores» disse Ambrogio quando rinvenne i corpi dei due martiri Gervaso e Protaso che ora giacciono con lui (fu l’esito di uno scavo che egli volle commissionare guidato da un presagio interiore; l’evento gli permise di vincere definitivamente il cuore di Milano, che all’epoca contava molti eretici ariani).   Me lo sono ripetuto anche io tante volte: «Tali difensori io desidero».

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Nemici di Ambrogio

Al contempo, mi sento in dovere di difendere Ambrogio. Perché, per quanto possa sembrare incredibile, Ambrogio ha dei nemici.   Forze che bramano la distruzione di Ambrogio e di quel fiume invisibile che mi ha portato da lui.   Nel 1799 i napoleonici della Repubblica Cisalpina vollero che la Basilica venisse trasformata in un ospedale militare.   Altre forze figlie della Rivoluzione — i nostri «liberatori» angloamericani — bombardarono vigliaccamente dal cielo Sant’Ambrogio nel 1943.   Poi, il 28 giugno 2000 il Male e la sua manovalanza terrena passano all’attacco diretto, penetrando sino al cuore ambrosiano. Nascondono in un inginocchiatoio della nostra cripta uno zaino con due bottiglie contenenti benzina, collegate a un innesco chimico alimentato da una pila. Una bomba incendiaria. (Bruciare Ambrogio e il suo tempio, lo dirò più sotto, potrebbe avere un suo significato di nemesi precisa). L’ordigno è trovato dalla Digos, perché un quotidiano riceve un volantino di rivendicazione. Gli esecutori dovrebbero essere gli anarchici della sigla «Solidarietà Internazionale»; protesterebbero per una cerimonia della polizia penitenziaria.   Io in realtà so che, da secoli, vogliono colpire qualcosa di più grande, qualcosa di fondamentale per l’equilibrio di tutta la città – e della mia vita.   Vogliono colpire Ambrogio.   Vogliono colpire la sua devozione.   Perché so tutto questo, non mi son sorpreso quando qualche anno fa uscì sotto forma di libro un attacco ad Ambrogio.   Il libro, incensato dall’intero arco delle gazzette nazionali, da Il Sole 24 ore a Il Manifesto, portava la firma di una vecchia conoscenza, diciamo così, tale Franco Cardini.   Il titolo non è molto sibillino: Contro Ambrogio.

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Don Ricossa mi ricorda, con tanto di documentazione, «che Cardini è stato membro del comitato scientifico della rivista massonica Ars Regia; che Cardini ha ricevuto e accettato un’onorificenza dal Grand’Oriente d’Italia; che Cardini ha scritto la prefazione ad un libro sui Templari del figlio dell’allora Gran Maestro della Massoneria Raffi, con i proventi del libro che vanno all’opera massonica degli Asili notturni; che Cardini ha partecipato a un convegno della Gran Loggia d’Italia, obbedienza di piazza del Gesù; che Cardini si riconosce nella Leggenda medioevale dei tre anelli, ripresa dal massone Lessing, e nell’idea di cristiani, ebrei e musulmani “fratelli in Abramo”; che per Cardini ha ragione Gad Lerner nel dire che Gesù Cristo non è cristiano ma ebreo, essendo il Cristianesimo una invenzione di Saulo di Tarso; che per Cardini non è neppure storicamente certo che Gesù Cristo sia esistito; che per Cardini il film su Ipazia, martire pagana vittima dei cristiani, è storicamente ineccepibile, e che d’altronde il Cristianesimo si è imposto con la violenza ben più che l’Islam. Per cui non stupiamoci se le preferenze di Cardini vadano a preti come don Gallo: “posso attestare che pochi come lui nella storia del cristianesimo sono stati altrettanto fedeli al messaggio del Cristo e alla missione della Chiesa nel mondo”».   «Quando ero vice presidente del CNR — mi dice Roberto de Mattei — organizzai a Roma un seminario internazionale sulle Crociate, ma ritenni di non invitare il professor Cardini, perché il suo è un lavoro di decostruzione dell’idea di Crociata, incompatibile con i risultati della più recente e accreditata letteratura scientifica. Cardini mi telefonò furioso e lo giudicai una mancanza di stile».   Lo stesso lavoro demolitorio e desacralizzante il Cardini lo porta su Ambrogio.   L’episodio che dà l’avvio all’elezione di Ambrogio all’episcopato, e cioè il bambino che urla in Chiesa «Ambrogio Vescovo!» trascinando con sé tutta Milano, è per Cardini una «messinscena», un «ben architettato episodio di organizzazione del consenso», un evento da spin doctor in cui la «spontaneità popolare è accuratamente pilotata».   Tuttavia è la sottomissione di Teodosio che infastidisce di più il professore, «l’Augusto, da principe aureolato di autorità sacrale qual era sempre stato, da vicario del Cristo in terra, era sceso al livello di un semplice fedele, pronto ad umiliarsi per ricevere il perdono».   Il famoso episodio in cui il vescovo Ambrogio piega l’Imperatore inducendolo alla penitenza rappresenta per l’autore qualcosa di intollerabile, perché emblema perfetto di un «progetto di delegittimazione totale e irreversibile dei ceti diversi da quello cristiano niceno in tutto l’impero».   In breve, quel che il Cardini non può sopportare è il primato della Chiesa sul mondo. Teodosio costretto alla penitenza dal vescovo Ambrogio per la strage di Tessalonica (Salonicco, in Grecia…) è per il vecchio studioso la base «di un lungo e complesso itinerario che in vario modo, attraverso l’agostinismo politico, la riforma della Chiesa dell’XI secolo e il monarchismo pontificio» ha delineato quella Tradizione «che in ambito cattolico — una volta battute le eresie e isolati come eretici o comunque pericolosi molti movimenti “non conformisti” medievali — solo il conciliarismo quattrocentesco, in una certa misura il Vaticano II e, oggi, le scelte innovatrici di Papa Francesco, hanno teso in qualche modo a limitare e a correggere».   Comprendete? Papa Francesco — in effetti, il Papa più sottomesso all’Impero, l’Impero del Male — come antidoto ai danni provocati da Ambrogio.   La Chiesa non deve demandare al potere la penitenza se questo commette ingiuste stragi: capite l’attualità di questa richiesta?   Una Chiesa assoggettata al potere (come quella che stiamo vedendo oggi) è per il toscano la condizione giusta per la sposa di Cristo: «il liberare e il mantener libero il clero dai controlli e dai condizionamenti di qualunque autorità terrena — ben al di là se non al contrario di quanto Gesù dichiara esplicitamente a Pilato — sarebbe stata condizione necessaria e sufficiente per salvarlo dalle tentazioni terrene», tuttavia «l’intera storia della Chiesa dimostra l’opposto»   Insomma, «forse senza di lui non avremmo avuto un conflitto tra mondo cattolico e modernità».   Tradotto: senza Ambrogio il cattolicesimo sarebbe naturaliter modernista.   Prendo questi virgolettati, che in me sortiscono l’effetto di amar ancora di più il mio Santo, da un articolone celebrativo che al libercolo in questione dedicò il Paolo Mieli sul primo quotidiano nazionale.   Una di quelle doppie paginate, sempre dense ed interessantissime a dire il vero, che una volta alla settimana consentono al pluri-ex-direttore del Corrierone di recensire qualche testo più o meno revisionista.   Il Mieli, a dire il vero, potrebbe aver qualche cavallo coinvolto nella corsa. Egli è figlio dell’ex agente del Psychological Warfare Branch dei servizi segreti britannici Ralph Merrill (all’anagrafe egiziana Renato Mieli) poi direttore dell’ANSA e de L’Unità finito però, poco dopo, ad esaltare l’ultraliberismo di Hayek e Von Mises (e per questo i fondi di Confindustria non gli sono mancati); soprattutto, possiamo dire che il Mieli Paolo è, come il padre, di origine ebraica.   Mai vorrei che vi fosse, in questo petardino editoriale contro Ambrogio, l’antico pregiudizio che vede il Santo come antisemita. Perché Ambrogio affrontò a testa alta l’Imperatore Teodosio anche un’altra volta.

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Nel 388, a Callinicum (ora Raqqa, l’ex-capitale dell’ISIS), una sinagoga fu data alle fiamme. Il governatore romano locale, sostenuto da Teodosio, decise che a pagare la ricostruzione dovesse essere il vescovo locale, ritenuto sobillatore degli incendiari.   Ambrogio scrisse all’Imperatore il suo dissenso:   «Il luogo che ospita l’incredulità giudaica sarà ricostruito con le spoglie della Chiesa? (…) Questa iscrizione porranno i giudei sul frontone della loro sinagoga: Tempio dell’empietà ricostruito col bottino dei cristiani (…) Il popolo giudeo introdurrà questa solennità fra i suoi giorni festivi?»   Ambrogio aveva centrato già allora tutta la questione dell’incompatibilità tra Stato e Chiesa quando per lettera chiese a Teodosio: «che cosa dunque è più importante, l’idea di disciplina [cioè, del mantenimento dell’ordine pubblico, ndr] o il motivo della religione?».   È la medesima domande che si pose Andreotti quando capì che se non votava la legge sul libero aborto in Italia il suo governo sarebbe caduto. Sappiamo come si rispose. Lo sanno anche i 6 milioni di bambini ammazzati da quella legge, più aggiungiamo magari qualche milionata di vittime della conseguente pratica genocida della fecondazione assistita, che per ogni bambino sintetico nato ne ammazza almeno una ventina — quindi, altri milioni, molti di più, seguiranno.   Ambrogio, a differenza dei democristiani e dei loro patti con le potenze infernali, non faceva compromessi.   «Io dichiaro di aver dato alle fiamme la sinagoga — scrisse in un’altra epistola all’Imperatore — sì, sono stato io che ho dato l’incarico, perché non ci sia più nessun luogo dove Cristo venga negato».   Rileggete: «perché non ci sia più nessun luogo dove Cristo venga negato».   Anche a secoli di distanza, come pensate che lo possano perdonare ebrei, falsi cristiani, servi degli dèi della morte?

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Tradidi quod et accepi

Voglio concludere.   Molto ci sarebbe da dire, come per esempio il mio disgusto per i ciellini (e il loro vescovoni trombati e infelici) che cianciano di «libertà religiosa» quando il Santo della loro capitale ne è stato il più acerrimo nemico, e su di essa — in ispecie contro i pagani — ha combattuto una guerra infuocata, e l’ha vinta.   Qualcuno mi accuserà: perché parli, sei uno storico? Un teologo? Un sapiente?   No, non lo sono. Sono un uomo ignorante, e l’unica storia che conosco davvero, riguardo Ambrogio, è quella che mi ha portato a lui. Sono solo una persona che riesce ancora a struggersi davanti alla devozione; qualcuno di così ottuso da stupirsi del fatto che esiste ancora; qualcuno di così scemo da credere che la devozione sia non solo necessaria, ma perfino «efficace».   Sono un peccatore: sono uno che ad Ambrogio chiede aiuto. Non ci ho scritto libri, non ho studiato a fondo la sua vita e le sue opere.   Una cosa però l’ho fatta.   Ho portato ad Ambrogio una ragazza, S., tedesca, come Ambrogio.   S. aveva un problema, non riusciva più ad entrare in chiesa senza avere un attacco di pianto. Il motivo, ho ipotizzato, era legato a delle vicende personali. La sua famiglia ha attraversato momenti bui, in parte irrisolti, in parte risolti, che hanno lasciato un segno sul suo spirito. In chiesa, mi ha poi spiegato, non riusciva ad entrare perché «non mi sentivo pura a sufficienza», anche se S. è una delle persone più pure che conosco a Milano.   Ho fatto fatica. Le prime volte, trascinarla era un vero esercizio di violenza psicologica. «Io vado dentro, devi proprio fare queste scene?». Seguivano occhi sgranati, afasie, imbarazzi paralizzanti, lacrime.   Ho iniziato così pian piano a portarla alla messa della domenica sera. Nella pratica, è vero che qualche volta è svenuta, subito soccorsa da fedeli circostanti. Ma ora è tutto alle spalle. Mi esprime, anche troppo spesso, la sua gratitudine per la mia ostinazione. È amica dei sacerdoti come degli altri fedeli, è assidua.   Si chiede spesso perché io abbia spinto tanto: il perché lo sa Ambrogio, io sono solo la nanometrica parte del suo circuito invisibile.   Qualche giorno fa, S. ha ricevuto finalmente la Cresima, che le mancava. Voleva che facessi da padrino, ma lontano come sono oggi dalla Chiesa conciliare, non per un secondo ho pensato che potessi essere io a sigillare la fine di questa minuscola storia ambrosiana.   Nonostante lo stato di aberrazione in cui versa la Chiesa, posso dire che questo è il mio microscopico contributo alla Tradizione: ho tramandato la devozione che ho ricevuto, ho mandato ad Ambrogio qualcuno, come vi ero stato mandato io.   Ho conservato, e tramandato, la devozione al cuore di Milano e della vera Cristianità.   Io difendo Ambrogio perché Ambrogio difende me.   Roberto Dal Bosco

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Immagine di Anthony van Dyck (1599–1641), Sant’Ambrogio impedisce a Teodosio di entrare nel Duomo di Milano (1619-1920), National Gallery, Londra. Immagine pubblico dominio CC0 via Wikimedia          
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Biden e Bergoglio, un parallelismo. Parla mons. Viganò

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L’arcivescovo Carlo Maria Viganò ha affidato a X una breve riflessione sul caso della grazia data dal presidente americano Joe Biden al figlio Hunter.

 

Lo scandalo non si è ancora spento negli Stati Uniti, Paese nel quale Viganò è stato nunzio apostolico in era Obama.

 

Il perdono assegnato al figlio presidenziale copre tutti i suoi crimini federali (cioè considerabili come perseguibili a livello centrale, non nei singoli Stati) copre tutto quanto fatto da Hunter dal 2014, anno nel quale, con il colpo di Stato a Kiev chiamato Maidan, inizia anche il suo legame con l’Ucraina, dove diviene membro del board del colosso gasiero Burisma, e dove con il suo fondo sarebbe coinvolto nella questione dei biolaboratori.

 

Kiev è stata definita dall’ ex politico di opposizione in esilio Viktor Medvedchuk come la «mangiatoia» del clan corrotto dei Biden.

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Ora anche molti nel Partito Democratico USA – che aveva vantato il suo presunto rispetto dello «stato di diritto» e del «nessuno sopra la legge» per attaccare Trump – si chiedono dell’opportunità della grazia presidenziale infra-famigliare, soprattutto dopo che appena pochi mesi fa avevano negato, con tanto di ripetute dichiarazioni della portavoce della Casa Bianca Corinne Jean-Pierre, che il presidente potesse graziare il figlio.

 

Monsignor Viganò vede nella vicenda un parallelo possibile con il Vaticano odierno.

 

«”Nessuno è al di sopra della Legge”, ha detto Joe Biden durante la campagna elettorale, per confermare che non avrebbe graziato suo figlio Hunter, con il quale è colluso in una serie di crimini gravissimi, insabbiati per anni dai servizi segreti deviati, con la complicità dei media» scrive Viganò.

 

«Oggi vediamo quanto vale la parola di Biden: nulla. Un “presidente” criminale grazia il figlio criminale, come se fosse la cosa più normale e legittima al mondo» accusa il prelato.

 

Viganò riferisce di casi di revoca di scomunica a personaggi controversi, mentre Bergoglio «la commina a chi denuncia la corruzione del Vaticano e l’usurpazione del Soglio di Pietro».

 

Come riportato da Renovatio 21, monsignor Viganò è stato scomunicato per e-mail la scorsa estate.

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