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Eutanasia

Eutanasia per i poveri, un canadese su quattro è d’accordo

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Renovatio 21 traduce questo articolo di Bioedge.

 

 

Man mano che il regime canadese di assistenza medica in caso di morte si espande, sta incontrando sempre più resistenza.

 

Una delle critiche più forti, che è emersa spesso nei media, è che alcune persone con malattie croniche, la cui morte non è ragionevolmente prevedibile, scelgono di morire perché sono povere e i servizi sociali sono inadeguati. Non vogliono morire, ma sentono di non avere scelta.

 

I critici affermano che questi casi dimostrano che le persone vengono indotte a scegliere l’eutanasia e non sono in grado di fare una scelta veramente autonoma.

 

Tuttavia, i critici potrebbero remare controcorrente. Secondo un recente sondaggio di Research Co, che monitora l’opinione pubblica in Canada, più di un canadese su quattro consentirebbe l’eutanasia per senzatetto (28%) e per povertà (27%).

 

Ancora più scioccante è che il sondaggio ha mostrato che il 50% dei canadesi consentirebbe l’eutanasia per le persone che non hanno potuto accedere alle cure mediche e il 51% per le persone con disabilità.

 

I millennial sono ancora più favorevoli. In un editoriale sul Prince George Citizen, Mario Canseco, il capo della Research Co, sottolinea che «gli adulti più giovani del Canada sono molto più avanti delle loro controparti più anziane nel credere che questi due motivi siano abbastanza convincenti da indurre una persona a richiedere assistenza medica in morte (60% per disabilità e 57% per cure mediche non disponibili)».

 

Alla domanda sulla punizione appropriata per un genitore ritenuto colpevole di aver assistito un figlio o una figlia malato terminale a morire, un canadese su quattro (24%) non sceglie alcuna sanzione.

 

Una stragrande maggioranza – il 73% – sostiene la legislazione sull’eutanasia del Paese, che è stata definita la più radicale al mondo.

 

I canadesi sono divisi quando si chiedono se la malattia mentale debba essere una giustificazione per un adulto per cercare assistenza medica per morire: il 43% sostiene questa idea, mentre il 45% è contrario.

 

Il governo federale ha ritardato fino a marzo 2024 la decisione finale sull’ammissibilità relativa alla malattia mentale.

 

 

Michael Cook

 

 

 

 

Renovatio 21 offre questa traduzione per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

 

 

 

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Eutanasia

La «Costituzione materiale» dell’Italia umanoide, tra eutanasia e gender di Stato

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Si è tenuta poche settimane fa, convocata dal neoeletto Presidente Augusto Barbera, la riunione straordinaria annuale della Corte Costituzionale, alla quale hanno partecipato anche il Presidente della Repubblica, rappresentanti delle camere e dell’esecutivo.

 

Nella sala a geometrie bianche e nere e con l’azzurro forte di certa araldica medievale, il quadro cromatico era adeguato al cipiglio polemicamente decisionista del presidente, accademico di lungo corso prestato alla politica su un versante che dall’ortodossia comunista degli inizi è scivolato fatalmente verso la metamorfosi ideologica del PD a trazione atlantista.

 

Dunque un uomo dei nostri tempi, nel senso della piena e progressiva consonanza con lo spirito del tempo prodotto dai potenti fabbricatori di etiche e di diritti, di pedagogie e di ideali, di cultura à la carte, ovvero del fantasmagorico luna park dove va in scena il nulla a tinta variabile, secondo le esigenze di mercato ma ad altissimo potenziale distruttivo.

 

E in una chiave «evolutiva» in ogni senso, il Presidente ha svolto il proprio discorso della corona, che come sempre in questi casi contiene il programma di governo e qualche nota sullo stato dell’unione, o meglio, della disunione che pare regnare tra la stessa Corte, la magistratura ordinaria e il Parlamento, disunione peraltro dovuta a qualche dissonanza di vedute etico politico giuridiche, peraltro opportunamente transeunti.

 

Anzitutto, in un fugace ma significativo preambolo è stato dispiegato tutto il repertorio canonico della correttezza politica in vigore. Dall’aggressione russa venuta dal nulla, all’orrore terroristico in medioriente che ha portato ad una «dura» reazione; dai femminicidi accostati ai morti sul lavoro, che così sono apparsi per quantità parificabili ai secondi, fino alla sempiterna condizione femminile, che non si sa se sia un dato archeologico o futurista.

 

Non sono mancate neppure le catastrofi ambientali causate, come è noto, oltreché dal cambiamento climatico, dalle abitudini umane, finché non è stata rievocata la fila dei camion militari pieni di bare a Bergamo e la consequenziale imposizione dell’obbligo vaccinale che, non per nulla, la Corte ha poi oculatamente legittimato.

 

Così, detto tutto quello che doveva essere detto, il Presidente Barbera è potuto entrare in medias res, per ribadire la fondatezza logica e giuridica di quell’obbligo, che era stato stabilito sulla base dei dati scientifici e sulle scelte, autorevoli per definizione, di altri autorevoli paesi. Riferimento doveroso nel giorno in cui si sono commemorate le vittime del covid, ma non quelle in continua espansione dei vaccini, per ovvi motivi di coerenza logica.

 

A proposito del rapporto tra la Corte e i giudici di merito cui spetta il compito di sollevare la questione di legittimità della norma da applicare nel caso concreto, ha lamentato come costoro, spesso, mossi da «eccesso valoriale» siano indotti a risolvere da soli tale questione, perché la overdose di scrupoli assiologici impedisce loro di attendere pazientemente il responso della Corte.

 

D’altra parte, tanto lavoro sarebbe risparmiato se questi giudici così zelanti, quando non sanno che pesci pigliare, si rivolgessero alle corti europee, vista la nota supremazia UE sull’ordinamento interno.

 

Ma la questione più grave da affrontare è, per il Presidente, quella della inerzia del Parlamento di fronte al necessario aggiornamento dei codici penale e civile sulle questioni cruciali del «fine vita», e delle note attitudini procreative e genitoriali della rinomata ditta LGBT etc.

 

Dunque una grande professione di fede progressista da parte di un attempato signore al quale la lunga esperienza di studio e di vita non impedisce di essere abbagliato dallo slancio vitale del nuovo, quello ritenuto capace di assicurare alla società sorti luminose a dispetto della realtà delle cose e della storia, della funzione ordinatrice e pedagogica del diritto, delle conseguenze di certe scelte politiche, di quella che dovrebbe essere la vocazione della intelligenza e della ragione.

 

Insomma il discorso presidenziale si è appuntato tutto sulla auspicata legalizzazione eutanasica, e sulla altrettanto auspicata legalizzazione delle «filiazioni» omosessuali, perché, in mancanza di lumi espliciti offerti dalla Carta costituzionale, è urgente che il Parlamento modifichi le norme ordinarie, in ossequio alla mutata «coscienza sociale», ovvero alla cosiddetta «costituzione materiale».

 

Solo che il problema giuridico e costituzionale è ben più complesso e sostanziale di quanto non vorrebbe far apparire la semplicistica, impavida e spericolata rappresentazione del Presidente.

 

Come ricordava Mortati, l’artefice principale della nostra, una Costituzione formale, scritta, serve a dare il necessario ordine e stabilità, con la fissazione di certi principi fondamentali, ad un ordinamento che non può giustificare la libera affermazione di comportamenti caotici lasciati a se stessi. Tuttavia, il medesimo ordinamento non può neppure rimanere estraneo alle continue mutazioni degli assetti sociali dovuti al divenire storico. Infatti sono proprio le istanze che vengono dal basso e dal diffuso sentire comune a formare una vera e propria «costituzione materiale» che precede e condiziona quella formale scritta nella quale essa si dovrebbe riconoscere.

 

Anche la Magna Charta fu il frutto della pressione e delle istanze dei baroni inglesi verso la Corona, perché il documento scritto non cade dal cielo, ma è la proiezione di forze sociali, di un sostrato ideale culturale e politico, che a sua volta è in continuo movimento. Non per nulla anche la nostra Carta costituzionale prevede la possibilità di una revisione delle proprie norme, a determinate condizioni procedurali.

 

Su questi presupposti concettuali ha fatto perno appunto il discorso del Presidente Barbera, volto a strigliare il Parlamento riluttante a legiferare su quei temi, che egli ritiene vitali per il progresso della civiltà italica, e a rispettare la «coscienza sociale» di un popolo che evidentemente, a suo modo di vedere, reclama a gran voce questo intervento e, se non lo reclamasse, mostrerebbe tutta la propria arretratezza.

 

Del resto, quando in passato il Parlamento ha registrato in via elettorale la volontà popolare, legalizzando l’aborto con la legge 194, ha posto una pietra miliare sulla via del progresso culturale e della affermazione di diritti fondamentali. Per non parlare del luminoso recente esempio fornito dalla Francia in cui l’aborto è salito al rango di diritto costituzionale.

 

Insomma «le assemblee parlamentari debbono rispondere alle esigenze della base elettiva. Il Parlamento deve cogliere le pulsioni evolutive e il continuo divenire della realtà. Mentre d’altro lato, la stessa Corte, se è custode della Costituzione, non deve costruire “una fragile Costituzione dei custodi”». Sicché, eventualmente, di fronte alla persistente inerzia del Parlamento, la Corte sarà costretta a farsi carico di dare riconoscimento in proprio ai «diritti fondamentali reclamati dalla coscienza sociale in costante evoluzione». In barba evidentemente anche alla separazione dei poteri e ad a una relativa spavalda usurpazione del potere legislativo.

 

Ma fermiamoci sull’insistita necessità di adeguamento ad una nuova coscienza sociale. Perché è anzitutto qui che casca l’asino.

 

Infatti, per parlare di coscienza sociale, bisognerebbe per prima cosa intendersi sul significato profondo e non superficialmente immaginifico di un lemma che ha bisogno di determinazione qualitativa e quantitativa. Non significa forse adeguamento ad uno zeitgeist che spira grazie alla imposizione mediatica, alla persuasione occulta attraverso il martellamento cinetelevisivo?

 

La coscienza sociale è forse quella performata attraverso la macchina mediatica? O non dovremmo guardare a una coscienza sociale che viene dal profondo dell’essere perché radicata come sedimentazione di un’etica che deve sussistere attraverso le generazioni per dare stabilità alla vita individuale e collettiva? Che a volte viene offuscata provvisoriamente dal frastuono e dalla prepotenza di minoranze chiassose e irresponsabili, come accadde proprio nei ribollimenti rivoluzionari, per tornare a riemergere una volta passata la tempesta?

 

Ma questa coscienza sociale propriamente detta non può di certo essere scambiata in modo tartufesco con quella ottenuta attraverso una omologazione programmata dall’alto. Con l’adeguamento alla pedagogia di un potere dominante munito di straordinari e sofisticati strumenti persuasivi. Un potere, tra l’altro, che dovrebbe essere incompatibile con la sbandierata eccellenza democratica, ogni riferimento alla quale è diventato indecoroso.

 

La coscienza di un popolo non è la sottomissione culturale indotta attraverso metodi sperimentali di psicologia sociale alla propaganda organizzata da una minoranza numerica che tiene in mano le redini della politica, magari come mandataria di mandanti più potenti.

 

Coscienza sociale non è l’addormentamento di sentimenti naturali attraverso l’indottrinamento di massa e la suggestiva necessità della omologazione. Non è la conformità di consensi falsamente spontanei, né la formazione di volontà e di fenomeni virtualmente «democratici».

 

Ora, se la necessità di un ordinamento giuridico è incontrovertibile, perché, come leggiamo nell’Odissea, solo i Ciclopi non hanno leggi, è anche vero che le leggi, per dirsi tali, non possono contravvenire a quella vocazione ordinatrice e di salvaguardia della comunità che chiamiamo bene comune. E questo fine non può essere perseguito senza l’ancoraggio a quel nucleo forte di valori che si traducono in principi, di regole scolpite, quelle sì, nella coscienza sociale, che chiamiamo in modo convenzionale «diritto naturale».

 

In altre parole, prima della Costituzione formale, e come sostrato stabile della costituzione materiale che la produce e la condiziona, ci deve essere un nucleo forte di principi saldi e irrefutabili, capaci di tenere in vita una società perché orientati a salvaguardare quella specificità umana che vede gli impulsi messi in forma dalla ragione, e la ragione orientata appunto al bene comune.

 

Questi sono i capisaldi morali della convivenza umana, che per i credenti sono stati scritti nelle tavole eterne della legge divina, ma che anche i laicisti possono individuare, secondo la nota lezione di Grozio «etsi Deus non daretur», nelle leggi che dovrebbero essere altrettanto eterne, individuate ed individuabili con la ragione.

 

Cose arcinote, si dirà. Ma che non ci si deve mai dimenticare di ricordare, perché è proprio qui che si annida il veleno, sempre in agguato nella retorica di una trappola terminologica. Rispetto a questo sostrato indefettibile, la Costituzione materiale di cui si parla da quando si è affermato il fenomeno costituzionale non rappresenta una entità sovrapponibile né omogenea, ma piuttosto una eccedenza sociopolitica sicuramente legata alle evoluzioni politico economiche e grosso modo culturali di un mondo in continuo movimento. Ma, al di là delle eccedenze legate a trasformazioni strutturali e istituzionali, l’etica profonda e sempre riaffiorante di una comunità umana è quella essenziale che rimane e deve rimanere immutata, in quanto ne garantisce un armonico perpetuarsi.

 

Sono le leggi fondamentali della convivenza volte teleologicamente al bene di una comunità che contiene anche l’io etico che va sottratto ai venti di dottrina e all’arbitrio del potere, che non deve essere esposto alle variabili ideologico culturali oggi più che mai dettate da interessi estranei al progresso morale e spirituale degli individui e della società di cui fanno parte.

 

Dunque, quando si parla di principi che precedono e devono precedere, per guidarla, la legge positiva, che è scritta perché posta dal potere politico, c’è il pericolo di un equivoco micidiale, di un corto circuito in cui il discorso viene imprigionato in un labirinto di parole senza uscita.

 

C’è il pericolo che per principi eterni e cogenti vengano spacciati quelli formulati nello spazio contingente occupato da una politica fine a se stessa, per dare senso alle proprie scelte operative. Basti pensare all’abusato principio di libertà intesa come affermazione di autonomia assoluta della volontà individuale, incurante delle conseguenze; o della cosiddetta uguaglianza che vorrebbe parificare capre e cavoli come appunto nel caso delle aspirazioni genitoriali della premiata ditta LGBT impegnata nella fabbricazione di umanoidi secondo scienza e incoscienza.

 

Per questo Barbera, da uomo esperto di giochi logici e paralogici, finisce per accennare polemicamente ad una mentalità positivistica, peraltro a suo dire declinante, di quanti, volendo rimanere ancorati a quello che i costituenti e il legislatore hanno scritto, evidentemente non immaginavano la deriva demenziale dei tempi avvenire, non si esaltano alla prospettiva di allargare il proprio orizzonte accogliendo le istanze di una «coscienza sociale» che invoca aborto, eutanasia e procreazioni fasulle.

 

Insomma egli critica velatamente quanti, dentro e fuori del Parlamento, rimangano ancora fermi alla attuale lettera delle leggi positive, negando la esistenza di un fantomatico diritto naturale legato alla nuova coscienza sociale, ovvero alla nuova costituzione materiale intesa nel senso che è stato indicato.

 

E non si accorge che, invocando l’intervento del Parlamento, auspica la cristallizzazione di nuovi principi etici i quali, lungi dall’essere iscritti nella coscienza comune come egli vorrebbe, sono frutto di una precisa ideologia adottata dalla politica. E non di una coscienza sociale che viene dalla sedimentazione di una storia dello spirito perché nutrita di esperienza secolare nella faticosa ricerca del bene collettivo, il solo capace di assicurare anche quello individuale. Attraverso una storia e una filosofia che in Occidente ha visto la fusione tra eredità greco romana e cristianesimo. O, più semplicemente, di una coscienza morale che sente in profondità quale vera filosofia della vita possa dare senso alla esistenza individuale e contribuire al bene comunitario al quale è non può non essere estranea l’uccisione dell’essere umano nel grembo materno, come l’unione sessuale contro natura o la morte inflitta per legge ad un innocente.

 

Barbera arriva a dire che nella Costituzione non c’è traccia letterale di principi che precludano l’ingresso di queste nuove auspicate norme. È vero, ma soltanto perché per costituenti «normali» come uomini, come politici e come giuristi, erano semplicemente impensabili queste novità venute da lontano, ma ora tutte leggibili alla luce della morte di Dio che significa morte di quell’umanità che a Dio si è sempre rivolta per dare senso alla propria esistenza.

 

Egli, più che guardare alla «coscienza» fittizia a cui si appella, dovrebbe guardare a cosa i costituenti guardavano dal punto di vista etico quando scrivevano la legge fondamentale per assicurare alla nazione una tenuta spirituale duratura. Quella che sola può assicurare la sopravvivenza identitaria di un popolo a fronte dei mutamenti contingenti e artificiali della politica e per la quale, ad esempio, già nei primi anni novanta, dopo settant’anni di ateismo di Stato, le chiese dei territori ex sovietici tornavano a traboccare di fedeli.

 

Che la Costituzione scritta preveda la necessità di un adeguamento delle leggi al divenire storico e al nuovo che materialmente si inserisce nella realtà comunemente vissuta, è vero. Ma questo adeguamento non può fare a meno di perdere l’ancoraggio a quei principi etici senza i quali le novità materiali travolgono la convivenza umana come una valanga di detriti informi che si abbatta a valle senza trovare ostacoli.

 

Inoltre, se il diritto è un prodotto del potere politico, né potrebbe essere altrimenti dal momento che occorre un’autorità capace di renderlo effettivo, esso si snatura quando diventa strumento della politica intesa come esercizio del potere che alimenta se stesso. Tanto più quando lo si crea appellandosi, per autogiustificarsi, a un sostrato ideale sottostante e lo si fa passare, in altre parole, per diritto naturale positivizzato.

 

È quanto avviene non a caso nei regimi totalitari: fu teorizzato da Vishinskij per quello sovietico e fatto proprio parimenti dal nazionalsocialismo. Qui il diritto era al servizio della politica. Si spacciava per diritto naturale proprio la scelta ideologica adottata dalla politica: non per nulla anche le leggi razziali furono introdotte in omaggio a un supposto sentimento popolare.

 

Allo stesso modo in cui le proposte normative del presidente rispecchiano la deriva culturale che la politica alimenta in ragione del proprio nichilismo ideologico. Dove il nulla morale della politica genera il nulla morale e culturale di cui fa uno strumento di potere, mentre viene spacciata per diritto naturale proprio la scelta ideologica adottata dalla politica.

 

Intanto, il veleno della disintegrazione morale risulta persino più potente perché inoculato a dosi prima piccole e poi sempre crescenti, proprio per annichilire le coscienze, come l’oppio serviva ai britannici per fiaccare il popolo che essi intendevano sottomettere.

 

Barbera dovrebbe chiedersi piuttosto, da giurista di vaglia, quali siano le conseguenze, che già si vedono, della torsione indotta su larga scala di un sentire veramente radicato che ha sorretto la vita di un popolo, dando forma alla sua arte, alla sua filosofia, alla sua letteratura, prima della débacle contemporanea.

 

Questo popolo ha conservato sempre un senso alto della vita e della morte perché inserite nella metafisica cristiana.

 

Esso ha inteso custodire nella propria anima, ad esempio, i propri figli morti lontano nella inutile strage, fermandone la memoria scolpita anche in mille lapidi di mille piccoli antichi borghi d’Italia, come nel grande tempio di Redipuglia.

 

Anche se altri ricordi meno riparati saranno poi cancellati dalle diaboliche distruzioni della nuova guerra venuta dal progresso.

 

Ma gli accorati eutanasisti di oggi, che nulla sanno della morte solitaria sul Carso, si compiacciono alla idea appagante della morte umanitaria inflitta in una stanza sterile a dozzina, perché nulla sanno del senso che la morte assume quando viene incastonata nella idea della continuazione, del congiungimento degli anelli che danno senso alla esistenza umana.

 

Non vedono come la morte inflitta in applicazione di un protocollo sanitario, compiaciuto di essere anche umanitario, diventi, proprio nella coscienza comune, un evento che nulla conserva di quella sublimazione di cui soltanto l’uomo può essere capace.

 

Del resto, è proprio l’idea della scissione a dominare lo spirito filantropico degli eutanasisti. Quella che, vestendo i paramenti nobili della autonomia, separa i morti dai vivi, e recide legami famigliari e annienta il senso alto della vita – ce lo ricordava Mario Palmaro – e toglie valore all’uomo in sé e alla sua esistenza individuale e comunitaria.

 

Il culto e la memoria dei morti secondo il destino comune collega le generazioni e non le fa sentire abitatrici di un vuoto intermedio, come la radice comune che lega il genitore al figlio riempie un vuoto in cui ci perderemmo se non fossimo tenuti per mano da chi ci ha generato, nell’alveo sacro della famiglia.

 

Ora invece si apparecchia il nulla per tutti, attraverso le anomalie della vita contro natura, e della morte à la carte. E si ritiene di mettere in forma l’anomalia appunto usando la norma, che infatti comporta normalizzazione. In entrambi i casi viene calata l’arma ricattatoria della pietà e dei buoni sentimenti. Secondo lo stesso meccanismo per cui la cremazione è preferibile «perché è una cosa pulita». E secondo la psicologia di ogni bene-fattore di modello filantropico sorosiano.

 

Tuttavia è certo che le due proposte sul tappeto, unificate dalla stessa mentalità nichilistica, agnostica e antiumana, in una visione economica neomalthusiana, seguano strade proprie sotto l’ombrello del valore oggettivo delle scelte individuali, per confluire nel travisamento della funzione e delle finalità delle leggi.

 

Le pretese LGBT, non per nulla identificate da una sigla di tipo commerciale, e la cosa basta a fotografare il fenomeno, navigano nello spazio onirico della allucinazione, di una visione drogata dal delirio di onnipotenza che pretende di ottenere consacrazione giuridica, cioè di acquistare valore assoluto in via burocratica. Una visione che rispecchia bene la disintegrazione intellettuale, prima che morale, dell’Occidente.

 

A dimostrare la incongruità di fantomatici diritti sbandierati dalla prima, dovrebbe bastare la considerazione che diritto soggettivo può essere soltanto quella pretesa riconosciuta meritevole di tutela dalla legge in quanto coincidente con l’interesse collettivo. E che da quel concetto esula invece ogni pretesa, individuale e particolare, che con quest’interesse non abbia nulla a che fare.

 

Al contrario, le istanze eutanasiche muovono da una realtà di fatto: si connettono al problema reale della sofferenza prolungata spesso indotta paradossalmente dal progresso delle tecniche sanitarie, sfruttano una realtà oggettiva per nulla insignificante. Infatti è reale e oggettiva la possibilità, anzi la frequenza, con cui chi è aggredito da sofferenze inenarrabili sia indotto ad invocare la morte liberatrice. Ed è problema antico.

 

In una scena finale della Notte di San Bartolomeo di Mérimeèe, uno di due fratelli uniti da amore profondo ma divisi da opposte scelte teologiche e politiche, e che infatti combattono a La Rochelle su fronti opposti, viene ferito a morte e soccorso proprio dall’altro, che lo mette a riparo e si dispera non accettando neppure l’idea dell’irreparabile. Il ferito in preda ormai a dolori insopportabili chiede da bere, ma questo gli viene negato perché affretterebbe la morte. Finché sopraggiunge il chirurgo e, compreso che non c’è speranza di salvarlo, fa passare il fiasco del vino al morente che spira di lì a poco.

 

L’episodio ovviamente richiama solo alla lontana e soltanto per certi profili umani il problema con cui abbiamo a che fare. Ma sta a significare come il rapporto col dolore e la morte abbia sempre impegnato la coscienza su un terreno in cui da sempre aspetti personali, etici, affettivi, razionali spesso in contrasto fra loro si intreccino chiamando in causa anche la questione della responsabilità.

 

In altre parole, si tratta in ogni caso di un problema che appartiene anzitutto, impegnandola, alla vita dello spirito, e in questo senso implica e richiede una assunzione personale di responsabilità. Mentre si snatura quando il piano della coscienza viene invaso dalla autorità calcolante del legislatore e del giudice.

 

Infatti l’aporia oggi sta proprio nella pretesa di affidare per legge ad un terzo una decisione sulla vita altrui, che per forza di cose si fonda su fattori non controllabili e indeterminati.

 

L’indisponibilità oggettiva della vita umana, è principio primo della convivenza e quindi il frutto più maturo della civiltà giuridica approdata, dopo un faticoso cammino secolare, a sancirlo, anche nei confronti dello Stato, con la abolizione della pena di morte.

 

Il monito biblico «nessuno tocchi Caino» acquista in questo senso tutto il suo contenuto più profondo.

 

Una indisponibilità oggettiva ben messa a fuoco dalle norme del codice penale che puniscono ancora, occorre dirlo con una certa apprensione, l’omicidio del consenziente e l’aiuto al suicidio. Norme da cui emerge non a caso la preoccupazione del legislatore che la possibilità dell’omicidio si possa insinuare surrettiziamente, attraverso il contributo di una minorata difesa della vittima.

 

Una preoccupazione che però non sembra sfiorare tutti i sensibilissimi promotori eutanasici incapaci di sollevare lo sguardo al di sopra dei pensieri e delle emozioni facili. Perché occorre ribadirlo in modo che può apparire brutale a chi osservi con superficialità il problema: la cosiddetta eutanasia, o la si ricolloca, sia pure con mille distinguo, nell’alveo del dominio degli affetti e delle esperienze famigliari, nella storia privata dello spirito e della vita, e della responsabilità degli individui, oppure la si getta nei meccanismi della irresponsabilità burocratica, dell’arbitrio individuale legalizzato oppure di quello sempre in agguato dello Stato.

 

Questo aspetto continua a sfuggire alle anime belle che, senza rendersene conto, preferiscono consegnare nelle mani del potere ciò che appartiene allo spazio sovrano e duttile, ma non disumanizzato, della vita irripetibile dello spirito e dei rapporti privati.

 

Il paradigma completo della questione sul tappeto, con tutte le sue inquietanti implicazioni, lo abbiamo avuto nella sacra rappresentazione allestita nel 2009 col caso Englaro.

 

Lì si sono giocati i falsi sentimenti, i falsi diritti, le falsificazioni materiali e mediatiche, le aberrazioni giuridiche e quelle politiche. Dove l’arbitrio e l’inconsapevolezza, la suggestione e la pressione psicologica, hanno fatto da padroni e allo stato di minorata difesa della vittima sacrificale ha corrisposto l’interesse e il pragmatismo, la forza del potere e le mille modulazioni psicologiche o psicopatologiche di tutti gli attori in commedia, meno le tante voci della compassione e quella di poche materne infermiere.

 

Il punto estremo a cui può arrivare un tale meccanismo inesorabile lo abbiamo potuto sperimentare con le mostruosità che continuano ad essere esibite impunemente negli infernali ospedali britannici ormai specializzati a sopprimere per ordine del giudice bambini piccolissimi di genitori inermi di fronte ad un potere dal volto diabolico.

 

Dunque, una strada aperta dalla raccapricciante vicenda di Terri Schiavo, replicata con piccole varianti da quella di Eluana Englaro e poi dai piccini uccisi in Inghilterra. Tutti casi accomunati dall’essersi trattato di condanne a morte di innocenti eseguite per ordine del giudice, dunque dalla possibile longa manus del potere politico, oppure da chi si troverà a dover applicare una legge anch’essa frutto di un accomodamento politico, o… di un ordine presidenziale.

 

Ed è proprio questo che, anche da un punto di vista strettamente giuridico, senza neppure richiamarci alla legge divina, sembra sfuggire ai nuovi illuministi. Essi non si chiedono se, una volta concessa la licenza di uccidere – non importa a quali condizioni, comunque sempre interpretabili e sempre valicabili – questo potere non possa essere usato per scopi che nulla hanno a che fare con la nobile propria con-passione per la sofferenza altrui. Ma potrebbe tornare utile anche allo Stato Leviatanico per eliminare qualche scomodo intruso.

 

Così come il giurista di vaglia assiso alla presidenza della Corte Costituzionale non si chiede neppure cosa sarà la vita inflitta ad individui venuti dal nulla oscuro dell’arbitrio individuale e di un cieco egoismo consacrato per legge. Perché, al concetto di diritto soggettivo quale pretesa meritevole di tutela da parte dell’ordinamento perché coincidente con l’interesse collettivo, ha sostituito quello stabilito a suo tempo dalle Cirinnà, dai Vendola e dal Corriere della Sera, quale riconoscimento dovuto a qualsivoglia appetito individuale o di consorteria.

 

Che ne sarà di una società popolata dai prodotti di disadattati esistenziali in delirio di onnipotenza? Questa mancanza di riflessione dovrebbe preoccupare quanti finiranno per pagare e faranno pagare ad altri le costose conseguenze della propria follia.

 

Ci sono oggettive ragioni di contenuto etico e culturale che debbono guidare il diritto nel senso della sua vocazione di miglioramento antropologico. I presupposti di valore capaci di orientare la legge verso una oggettiva eticità, il bene comune, lo abbiamo chiamato diritto naturale scritto da Dio o messo in forma dagli uomini, sempre con la finalità di tracciare i limiti entro cui la legge non diventa quella del più forte, o di un potere antiumano.

 

Qui si gioca il senso stesso del diritto che o è per l’uomo, o non è. Per l’uomo considerato valore in sé, non quantificabile e non commerciabile, non riproducibile né sopprimibile a piacimento.

 

Patrizia Fermani

 

Articolo previamente apparso su Ricognizioni.

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Eutanasia

Capo della sanità belga sostiene che l’eutanasia è la soluzione all’invecchiamento della popolazione

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Renovatio 21 traduce questo articolo di Bioedge.   Il presidente del più grande fondo sanitario belga, Christian Mutualities (CM), ha chiesto una soluzione radicale al problema dell’invecchiamento della popolazione. Luc Van Gorp ha dichiarato questa settimana ai media belgi che alle persone stanche della vita dovrebbe essere permesso di porvi fine.   Come tutti gli altri Paesi europei e, in effetti, il resto del mondo a parte l’Africa sub-sahariana, il Belgio deve far fronte a un enorme aumento del numero dei suoi anziani. Gli ultraottantenni raddoppieranno entro il 2050, passando dai circa 640.000 attuali a 1,2 milioni. La pressione finanziaria sull’assistenza sanitaria, sui farmaci e sulle case di cura aumenterà.   Più soldi non sono la soluzione, dice Van Gorp. «Non importa quanto finirai per investire, non sarà comunque sufficiente. Semplicemente non ci sono abbastanza operatori sanitari per svolgere questo lavoro», ha affermato.   «Abbiamo davvero bisogno di tutti quei centri di assistenza residenziale aggiuntivi? Costruire semplicemente stanze senza fare nulla per risolvere la carenza di personale non è un modello sostenibile. Mi manca la domanda sul perché nell’assistenza agli anziani. Perché facciamo affari nel modo in cui li facciamo adesso? Spesso non c’è risposta a questo».   È a favore di «un approccio radicalmente diverso» – non chiedendo «per quanto tempo posso vivere?», ma «per quanto tempo posso vivere una vita di qualità?». Propone l’eutanasia per le persone che credono che la loro vita sia completa. «Il suicidio è un termine troppo negativo», afferma Van Gorp. «Preferirei chiamarlo: ridare indietro la vita. So che è una questione delicata, ma dobbiamo davvero avere il coraggio di sostenere questo dibattito».   In un’intervista a Nieuwsblad, Van Gorp ha dichiarato:   «Tutti vogliono che i loro genitori e i loro nonni restino il più a lungo possibile, giusto? Ma quelle persone lo vogliono anche loro? E di cosa hanno bisogno per questo? Queste domande vengono poste troppo poco. Alcune persone con più di 80 anni non avranno bisogno di nulla per invecchiare bene. Potranno anche sostenere gli altri, ad esempio tenendo loro compagnia. Altri hanno bisogno di molte cure e, per essere chiari, dobbiamo continuare a fornirle».   «Ma che dire della categoria degli anziani che ricevono la massima assistenza, ma che ancora non hanno la qualità di vita che desiderano? Questa domanda viene posta troppo poco».

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Numerosi politici hanno sostenuto l’appello di Van Gorp a fare di «una vita completa» una giustificazione per l’eutanasia. Tuttavia, il leader cristiano-democratico Sammy Mahdi ha criticato i commenti. «Questo mi fa arrabbiare”, ha scritto su X. “Se qualcuno è stanco della vita e sente di essere d’intralcio o di non ricevere più visite, non stiamo semplicemente fallendo come società?»   Van Gorp ha ribadito i sentimenti espressi nella sua intervista a Nieuwsblad.   In un editoriale per il quotidiano belga De Morgen ha scritto:   «La domanda di cure non farà che aumentare nei prossimi anni. Se continuiamo a fare come stiamo facendo oggi, andremo incontro ad un vero e proprio crollo dell’assistenza sanitaria. Possiamo evitare che ciò accada solo se scegliamo un approccio radicalmente diverso, da quello di una società sana che metta al primo posto la qualità della vita anziché la quantità».   Semplicemente non ci sono abbastanza assistenti o spazio per far vivere gli anziani, dice: «numerosi operatori sanitari hanno da tempo indicato che non è possibile continuare in questo modo. Semplicemente non ci sono abbastanza mani professionali rimaste per fornire tutta l’assistenza. E come società, creiamo troppo poco spazio per prenderci cura di coloro che ci sono più cari».   Van Gorp chiede un dibattito nazionale urgente sulla questione: «per quanto delicata sia, dobbiamo avere il coraggio di entrare nel dibattito sulla qualità della vita, anche alla fine della vita. Meglio oggi che domani».   Michael Cook   Renovatio 21 offre questa traduzione per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

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Eutanasia

Olanda, l’eutanasia supera il 5% dei decessi nel 2023

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Secondo il Netherlands Times, nel 2023 nei Paesi Bassi sono stati registrati 9.068 decessi per eutanasia, rispetto agli 8.720 dell’anno precedente. Inoltre il rapporto evidenzia un aumento del 20% dei casi di eutanasia per motivi psicologici.

 

Nel rapporto annuale per il 2023, pubblicato il 4 aprile, i comitati regionali di revisione dell’eutanasia (RTE) identificano un aumento del 4% delle eutanasie nei Paesi Bassi rispetto al 2022. Va ricordato che in questo Paese il termine eutanasia comprende l’iniezione letale e suicidio assistito. I 9.068 decessi rappresentano il 5,4% del totale dei decessi.

 

Il Netherlands Times intende fare riferimento alle morti segnalate per eutanasia, perché gli studi indicano che circa il 20% delle morti per eutanasia non vengono denunciate.

 

Il rapporto segnala un aumento del 20% delle eutanasie di persone affette da problemi psichiatrici. Nel 2022, 115 persone sono state soppresse per questo motivo e 138 nel 2023, ovvero l’1,5% del totale delle eutanasie. Tuttavia solo il 10% delle richieste per questa causa vengono effettivamente accolte.

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«La maggior parte di loro non rientra nel quadro giuridico», spiega Gerty Casteelen, uno dei cinque psichiatri impiegati dal centro. Per ricorrere all’eutanasia il paziente deve subire «sofferenze insopportabili senza alcuna prospettiva di miglioramento». Il che è sempre difficile da giudicare in questo ambito.

 

Così, nel 2019, un paziente che si credeva soffrisse di allucinazioni psicotiche da 8 anni ha chiesto di essere sottoposto ad eutanasia. Supportato dallo psichiatra incaricato di fornire il necessario secondo parere medico, il paziente avverte gli effetti positivi di una nuova cura dopo due giorni: la prima diagnosi era errata…

 

Tra le persone che hanno fatto ricorso all’eutanasia nel 2023, il 9,6% aveva 60 anni o più. Mentre il centro ha ricevuto 322 richieste di eutanasia da persone tra i 18 e i 30 anni, con un incremento del 50% rispetto al 2022, per persone di questa fascia di età sono state convalidate in totale 40 richieste.

 

Circa il 90% delle persone sottoposte ad eutanasia soffriva di cancro, disturbi del sistema nervoso, malattie cardiovascolari, malattie polmonari o una «combinazione di patologie».

 

Infine, in cinque casi gli RTE hanno constatato che le norme relative all’eutanasia non erano state rispettate. È necessario effettuare un’indagine.

 

Ovunque nel mondo sia stata introdotta l’eutanasia, le cifre inevitabilmente aumentano di anno in anno e le possibilità si estendono: ai bambini di tutte le età come in Belgio e ai pazienti psichiatrici in diversi Paesi. Piano piano si instaura la mentalità: prima di obbligarlo a risolvere il problema pensioni?

 

Articolo previamente apparso su FSSPX.news.

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