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Necrocultura

La guerra e il credito sociale di Gaia. La nostra schiavitù inizia a Bologna?

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Il mese scorso i giornali hanno riportato la notizia che è in partenza a Bologna un sistema elettronico che assegna punteggi ai cittadini. Si chiama Smart Citizen Wallet, cioè il «portafoglio del cittadino virtuoso».

 

Si tratta della più tangibile ed estroversa manifestazione dell’introduzione di piattaforme di controllo sociale a livello cittadino.

 

A lanciarlo, l’assessore grillino all’Agenda digitale del comune retto dall’asse M5S-PD, Massimo Bugani.

 

Si tratta semplicemente di una sistema che analizza il comportamento del cittadino e, in caso egli si dimostri «virtuoso», lo premia.

 

«Il cittadino – è stato spiegato  – avrà un riconoscimento se differenzia i rifiuti, se usa i mezzi pubblici, se gestisce bene l’energia, se non prende sanzioni dalla municipale, se risulta attivo con la Card cultura». (Non capiamo cosa significhi quest’ultima cosa: si sarà obbligati a vedere la Corazzata Potemkin al cineclub?)

 

Non solo: i cittadini virtuosi ad un certo punteggio potranno poi «spendere» i punti in premi ancora da decidere, ma già buttati lì alla presentazione: «Scontistiche Tper, Hera, attività culturali e così via»

 

Alcune testate la hanno definita «card sociale», talaltre, sempre in vena di eufemismi, «patente digitale».

 

Alcune tuttavia hanno usato proprio l’espressione «credito sociale», quella con cui definiamo il sistema attivo in Cina. La cosa pazzesca è che certi articoli, che chiamavano la cosa proprio con i termini del totalitarismo digitale pechinese, non lo scrivevano in senso spregiativo.

 

La realtà è che sappiamo esattamente di cosa si tratta. È l’ennesima declinazione della tendenza del potere odierno al Control Grid, cioè alle piattaforme di controllo sociale.

 

Bisogna capire che ogni piattaforma attualmente non è fatta per premiarti, è fatta per controllarti. Vale anche per i database dinamici dei comuni ciò che vale per i social media: se è gratis, il prodotto sei tu.

 

Qui siamo oltre: se ti premiano, il prodotto non solo se tu, è la modifica del tuo comportamento secondo la loro volontà. O ancora più a fondo: ciò che premiano, soprattutto, è la tua disponibilità a dare loro i tuoi dati, cioè a sottometterti. Premiano la tua schiavitù.

 

Non si tratta di un fenomeno nuovo. Su Renovatio 21 abbiamo parlato molte volte di questo sistema di controllo dell’esistenza dei cittadini che si sta caricando in Europa (al punto da superare, in termini di pervasività, il modello cinese).

 

Si tratta, come abbiamo illustrato varie volte, di un cambio di paradigma: il cittadino diviene utente.

 

Lo Stato diviene piattaforma.

 

La cittadinanza è digitalizzata: cioè resa cibernetica, cioè, nell’etimo, resa controllabile, direzionabile.

 

Lo abbiamo ripetuto varie volte: il green pass è la prova generale, e più ancora è la stessa architettura, generata nei meandri di Bruxelles prima della pandemia, nella quale faranno girare l’euro digitale, che la BCE stessa dichiara ora inevitabile.

 

Il green pass è esattamente una piattaforma premiale: ti sei vaccinato? Bravo! Allora puoi entrare al bar, in biblioteca, in ospedale… Il green pass non solo premia il cittadino: lo controlla. Sa se ha o meno eseguito  ciò che gli è stato ordinato. Conosce dettagli dello suo stato fisico, se vogliamo dirlo, perfino a livello biomolecolare. Se l’organismo del cittadino è stato iniettato con mRNA sintetico, ora te lo dice il database del green pass, e ti dice anche quando, e quante volte.

 

Bisogna andare oltre, e capire che stanno mettendo davvero la carota: a Bologna, parlano di premi e sconti. Con la piattaforma informatica dell’euro digitale – lanciata dal green pass – è molto probabile che ci faranno avere dei soldi. Così, aggratis, ex nihilo. Danaro fiat, creato demiurgicamente dalla BCE in maniera totalmente elettronica, con un whatever it takes digitale che non costa nemmeno il prezzo della carta.

 

Si andrà, con probabilità, ancora più in là. Vi potrebbero dire che vi passeranno un bel reddito di cittadinanza, ovviamente fatto di euro digitali, cioè di danaro programmabile. Non solo sapranno come lo spendete, ma imposteranno loro cosa potrete comprare, e cosa no.

 

Il sistema del premio al cittadino virtuoso è stato accettato dal plebiscito del green pass. La pandemia, usiamo dire, è stato un grande referendum per vedere fino a che punto l’umanità poteva accettare la distruzione della sovranità, perfino quella biologica personale.

 

Le costanti demonizzazioni dei no-vax (prima dei vaccini c’erano i jogger, quelli della movida, quelli smascherati; dopo i vaccini ci sono i russi e i filo-russi) sono servite esattamente a questo: a creare nella mente della popolazione l’idea di una società divisa in base alla virtù – ovvero, segmentata secondo la sottomissione di ciascuno ai diktat verticali del potere, perfino i più disumani (non uscire di casa, non abbracciare più chi ami, separarsi dai figli, iniettarsi un siero genico sperimentale forse nocivo più e più volte).

 

Tecnicamente, si tratta, come in tutto il Reset pandemico, di un processo di liquidazione della democrazia costituzionale – in tutto il mondo.

 

Negli USA capisaldi del Bill of Rights un tempo ritenuti sacri ed inviolabili, come la libertà di espressione, il diritto di essere giudicato da una giuria di pari (non puoi denunciare le farmaceutiche), il diritto alla libertà religiosa (le chiese chiuse) e via dicendo sono stati disintegrati.

 

In Germania, l’articolo 1 della Costituzione, che meravigliosamente dichiara il primato della dignità umana («La dignità umana è inviolabile. Rispettarla e proteggerla è dovere di ogni autorità statale») è stato affogato dagli obblighi, lockdown e botte della polizia alla popolazione inerme che osa protestare.

 

In Italia abbiamo visto che la liquidazione della Costituzione ha toccato vari articoli, partendo (sindacati e padroni d’accordo) dal primo: la base della Repubblica, il lavoro, è stata detronizzata dalla necessità di esclusione dei non sottomessi via vaccino. E poi, la libertà di cura (art. 32) , la libertà di manifestazione del pensiero (art. 21), la libertà di libera circolazione nel territorio nazionale (art. 16) … la lista è lunga.

 

Nel caso delle piattaforme che stanno invadendoci, pare chiaro che qui ad essere disinstallato è l’articolo 3 della Costituzione:

 

«Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».

 

La «pari dignità sociale» è l’esatto contrario di un sistema programmato per premiare una parte della popolazione (che gode quindi di una positiva «distinzione di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali») e condannare invece un’altra.

 

Si tratta della polarizzazione della società di cui abbiamo più volte scritto: la ricetta più pura per la guerra civile, verso la quale non si può dire che vogliano spingerci, perché la loro idea, come ribadiamo, è che il segmento dissidente (cioè, «non virtuoso»), già calcolato nei suoi numeri, sarà semplicemente sacrificato, cancellato, sterminato.

 

Non si tratta, di fatto, di una minoranza, perché non ne ha i diritti.

 

E nessuno, né le autorità nei media, vuole parlarci più. Lo sapete.

 

Lo stiamo vedendo anche con la guerra ucraina: si rivolgono oramai solo alla massa vaccina, al popolo bovino che non fa domande ed è docile al punto da farsi portare al macello, come di fatto sta succedendo ora tra mRNA, fine del gas, carestia di cibo e minaccia atomica.

 

Le «carte» costituzionali vengono quindi frantumate perché il  paradigma prevede l’inversione per cui il cittadino non è più latore di diritti (certificati dalle Costituzioni), ma portatore di comportamenti che devono essere compatibili alle norme cangianti dettate volta in volta dal potere, e talvolta nemmeno conoscibili pubblicamente (pensate agli «Standard della Comunità» di Facebook o YouTube: vi hanno magari bannato perché anche solo ipotizzavate l’origine laboratoriale del COVID).

 

Lo shift è ancora più profondo: non è lo Stato ad essere creato dalla cittadinanza. È la cittadinanza ad essere permessa dallo Stato. Voi non avete diritti inalienabili. Voi siete utenti: al massimo disponete di un accesso, che è revocabile. Il potere ultimo non risiede nel popolo, ma nell’istituzione che, ci dicono, lo contiene. Lo Stato – cioè, ora, la piattaforma.

 

A questo punto capite quale ruolo fondamentale hanno svolto i social nella preparazione della nuova era.

 

Rammentiamolo: l’evo del controllo totale era stato largamente anticipato, o meglio, invocato, sin dalla matrice culturale profonda del maggior partito rappresentato attualmente in Parlamento. L’assessore Bugani del M5s è una delle colonne storiche, sta nel gruppo consiliare a Bologna dal 2011, è stato vice caposegreteria del ministro Giggino di Maio. Era socio di Rousseau – sì, un’altra piattaforma… – di cui Il Foglio scrive che rappresentava la «terza gamba» della creatura di Casaleggio.

 

Proprio a Gianroberto Casaleggio, che è l’origine culturale vera del M5S, bisogna ritornare per comprendere a fondo questo momento.

 

Un vecchio, controverso video della Casaleggio Associati (che in una nota prende le distanze dai suoi contenuti), raccontava di una guerra apocalittica a cui sarebbe seguita, evviva, una società interamente digitalizzata, dove chi non ha accesso all’unica piattaforma elettronica pubblico-privata – distinzioni divenute prive di senso – semplicemente «non esiste».

 

Il conflitto mondiale, con catastrofi fine-di-mondo che riportano la popolazione terrestre all’ecologica cifra di un miliardo di individui, come prodromo di una bella piattaforma. Il software totalizzante di «un Nuovo Ordine Mondiale» (sic), che parte il 14 agosto 2054 (per inciso: l’esatto centenario del Gianroberto).

 

Questa definitiva piattaforma elettronica di «governo mondiale» si chiamerà Gaia. «In Gaia, partiti, politiche, ideologie, religioni spariscono».

 

Il video, che impressionò tanti all’epoca, si chiamava Gaia – The Future of Politics. Gaia, la dea pagana della Terra, l’eco-demone degno di devozione ed idolatria.

 

 

La piattaforma «virtuosa» di Bologna pare che partirà dopo l’estate. L’assessore Bugani, riferiscono i giornali, in realtà l’aveva già fatta partire a Roma, dove era nello staff di Virginia Raggi, e dove tuttora sarebbe attiva a livello sperimentale.

 

Vogliamo ricordare che esiste un Paese dove un simile wallet per cittadini virtuosi, munito pure di accesso bancario e facoltà di prenotare servizi pubblici, era stato lanciato in pompa magna pochissimo tempo fa: l’Ucraina.

 

Come riportato da Renovatio 21, una delle ultime cose che Zelens’kyj ha fatto prima della guerra, è stato lanciare un sistema di identificazione digitale gestito dallo Stato ucraino.

 

La app governativa, chiamata Diia, combina carta d’identità, passaporto, licenza, libretto delle vaccinazioni, registrazioni, assicurazione, rimborsi sanitari e prestazioni sociali.

 

Non solo: sulla app era possibile ricevere danaro come premio diretto del proprio comportamento virtuoso, cioè di sottomissione agli ordini dei vertici: 1.000 grivna, cioè circa 30 euro, per una «vaccinazione completa».

 

Capite bene come nell’ora presente ci tornino in mente gli elementi dell’antico video di Casaleggio: guerra totale, piattaforma elettronica.

 

E non siamo nemmeno alla fine. La vera battaglia per noi si sta svolgendo sottoterra, ed è l’implementazione dei database blockchain con i quali controlleranno definitivamente l’esistenza del cittadino europeo sotto ogni aspetto: economico, comportamentale, fiscale, genetico.

 

Voi capite che la posta in gioco è altissima: è la chance definitiva che il despota ha per mettere per sempre il popolo in schiavitù, stringendolo una volta per tutte in infallibili catene invisibili, fatte di elettroni e calcolatori inarrivabili.

 

È la possibilità definitiva di distruggere ciò che rimane delle sovranità umane (politica, finanziaria, famigliare, biologica perfino spirituale) e sottomettere l’essere umano ad un progetto contronaturale, cioè in pratica la possibilità di resettarlo, e riscriverlo come vorrà il padrone del mondo.

 

Voi capite che per niente al mondo possono permettere che il programma perda aderenza in questo momento.

 

Lo stiamo vedendo ora: sono disposti alla guerra totale per il Control Grid. Sono disposti a qualsiasi cosa per non perdere la possibilità di dominarci.

 

Rifiutate la sottomissione a qualsiasi piattaforma. Rifiutate qualsiasi sottomissione.

 

Rifiutate la schiavitù della Necrocultura, che vuole trasformare le persone in organismi, i cittadini in numeri, gli esseri umani in androidi riprogrammabili a piacere, gli uomini liberi in servi – trasformare la vita umana nella scienza del controllo e della morte.

 

Siete stati creati per la libertà. E tutto quello che stiamo esperendo ora altro non è se non un attacco al Creatore divino che ve l’ha infusa e alla divina natura umana.

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

Immagine di koujioshiro via Deviantart pubblicata su licenza Creative Commons Attribution NonCommercial-ShareAlike 3.0 Unported (CC BY-NC-SA 3.0); immagine croppata.

 

 

 

 

 

 

 

Bioetica

La pop star britannica Lily Allen ride mentre racconta i suoi molteplici aborti

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La cantante, cantautrice e attrice Lily Allen, candidata ai Grammy ha dichiarato in un recente podcast, di non ricordare quanti aborti ha avuto, mentre rideva sguaiatamente della materia.

 

In una puntata del podcast Miss Me? del 1° luglio, Allen ha parlato dettagliatamente della sua vita personale. «Ora ho una spirale», cioè dispositivo contraccettivo intrauterino (che di fatto è un abortivo e non un contraccettivo, perché uccide l’emrbione), ha detto alla co-conduttrice del podcast Miquita Oliver. «Credo di essere al terzo o quarto figlio e ricordo solo che prima era una zona disastrata. Rimanevo incinta di continuo».

 

La Allen, che ha una figlia di 13 anni e una di 11 con l’ex marito (il secondo marito è il robusto attore hollywoodiano David Harbour, noto per la serie Stranger Things e per le sue veementi sparate contro Trump; ma sembra si sia separata anche da questo) ha poi parlato dei bambini che ha abortito. «Aborti, ne ho avuti alcuni, ma d’altronde», ha cantato ridacchiando sulle note della nota canzone My Way di Frank Sinatra, poi rifatta dai Sex Pistols. «Non ricordo esattamente quanti. Non ricordo, sì. Penso forse cinque, quattro o cinque».

 

 

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«Ricordo che una volta sono rimasta incinta e l’uomo mi ha pagato l’aborto, e io ho pensato che fosse così romantico», ha detto la cantante. Tuttavia, la donna da allora ha cambiato idea su quell’episodio in particolare. «Ti dico quanto è stato romantico: non credo che mi abbia scritto dopo. Giusto, a dire il vero. Ero una pazza stronza. Lo sono ancora».

 

Lungi dall’essere scioccata, l’intervistatrice Miquita Oliver ha risposto osservando che anche lei aveva avuto «circa cinque» aborti e che l’inserimento della spirale contraccettiva le aveva assicurato di «smettere di abortire», cosa che pare fosse divenuta diventata di routine. «Lo schema era: sfortunatamente, rimango incinta, non voglio esserlo, abortisco, poi mentre sono sedata durante l’aborto, mi mettono la spirale», ha detto. «Mi sentivo davvero in imbarazzo anche solo a dire di aver avuto più di un aborto, perché diavolo dovrei vergognarmi? Ne ho avuti diversi».

 

«Mi irrita davvero, e l’ho già detto apertamente. Ho visto meme in giro a volte, su Instagram, da account pro-aborto o altro, ogni volta che si parla di questo argomento, e all’improvviso si comincia a vedere gente che pubblica cose su motivi straordinari per abortire», ha ammesso Allen.

 

«Tipo: “Mia zia aveva una figlia con questa disabilità”, o qualcosa del genere, ‘Se fosse andata a termine la morte l’avrebbe uccisa, quindi dobbiamo farlo”», ha continuato. «È come dire: ‘Stai zitto!’ Semplicemente: “Non voglio un fottuto bambino in questo momento”. Letteralmente: “Non voglio un bambino” è una ragione sufficiente».

 

«In uno degli aborti che ho avuto, odiavo quell’uomo e non avevo assolutamente alcun interesse ad avere quel fottuto figlio», ha aggiunto Oliver. «Ho pensato: “Assolutamente no”, e come sapete, per tutti i miei 20 e 30 anni, avere un bambino non è stato poi così importante per me, e mi sarebbe dispiaciuto non avere la possibilità e la libertà di fare ciò che dovevo fare per la mia vita».

 

La Allen ha da tempo espresso apertamente la sua posizione pro-aborto. Nel 2012, mentre era incinta (di un bambino che aveva tenuto in grembo), rispose su Twitter al suggerimento del ministro della Salute britannico Jeremy Hunt di ridurre il limite di aborto a 12 settimane, scrivendo: «possono questi idioti dalla mente ristretta smettere di dire alle donne se hanno diritto o meno all’aborto, per favore?»

 

Nel 2022, è salita sul palco con Olivia Rodrigo al festival musicale di Glastonbury per cantare la sua hit Fuck You, per denunciare la decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti di ribaltare la sentenza Roe v. Wade.

 

«Vorrei che la gente smettesse di pubblicare esempi di motivi eccezionali per abortire» aveva scritto su Instagram. «La maggior parte delle persone che conosco, me compresa, semplicemente non voleva avere un fottuto bambino. E questa è una ragione sufficiente! Non dobbiamo giustificarlo. Non dovrebbe essere necessario dirlo, e penso che tutti questi esempi facciano solo il gioco dei cattivi».

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Si tratta del libero aborto invocato dalle femministe – cioè senza alcuna remore, feticidio a comando, per capriccio, pure, magari pure pagato dallo Stato.

 

La realtà è che si sta andando oltre: le frange femministe, sempre più vecchie e inacidite (la vita «libera», cui aspiravano, che era di fatto solo mancanza di morale e odio della legge naturale, ha presentato il conto) stanno trasformando l’aborto da diritto a vero e proprio «sacramento» della vita moderna.

 

Ciò è in linea con varie realtà religiose, come le serque di sigle ebraiche (cui si sono aggiunti i satanisti organizzati) che hanno reagito alla sentenza della Corte Suprema Dobbs v. Jackson che defederalizzava il diritto di aborto dichiarando che il feticidio è un loro diritto religioso.

 

Guardiamo la realtà per quello che è: le popstar ridono del sacrificio umano, vi partecipano, ne difendono la continuazione. La situazione della cultura popolare oggi è questa. Sappiamo come chiamarla: la musica, il cinema, la TV e pure altre forme di intrattenimento come le letteratura, la filosofia, la politica, vivono sotto l’ombra della Necrocultura.

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Immagine di Justin Higuchi via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic

 

 

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Essere genitori

Giurare per Ippocrate, o giurare per il CUP. La macchina sanitaria disumana e tuo figlio

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Una minimale, micrologica avventura sanitaria di questo pater familias, e del suo figliolo, per cercare di significare il grande disegno di distruzione in cui, ticket dopo ticket, ci troviamo tutti.   Venerdì mattina il bambino, mentre lo porto verso uno dei suoi ultimi giorni di quarta elementare, mi dice che ha qualcosa all’orecchio. Non ci vuole molto a capire che, semplicemente, gli si è formato un tappo. Di fatto, quando gli parlo, sembra sentire poco. Un breve consulto con la madre conferma: «ma sì, è come quello dell’anno scorso. Non ti ricordi?» No, sono il padre, non la mamma, la mia tendenza è svuotare, in automatico, in tempi brevissimi, la cache cerebrale dei problemi.   Un’altra cosa mi spinge a mettere più attenzione del dovuto su quel tappo: lo ha, con estrema probabilità, ereditato direttamente da me. Nel senso: l’orecchio è stato a lungo per me quello che definiscono un «organo-bersaglio», come si alza lo stress ecco che arrivano occlusioni, otiti esterne dolorosissime, o perfino (immagino che la cosa sia collegata) problemi ai denti del giudizio.

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Non prendo la cosa sottogamba, perché so che non passa da solo: puoi provare tutto, gli spray, le goccette che ti sfrigolano dentro, i candelotti fumanti piantati verso il timpano. Un tappo è un tappo: si leva solo con una certa pressione. In passato, me lo hanno tolto otorinolaringoiatri, dottori generici, persino qualche infermiera di ambulatorio. Non bevo, quindi posso dire che nella vita ho stappato più orecchi che bottiglie di alcolico.   Non è una grande operazione: serve solo il siringone e quella bacinella metallica a forma di rene (o di fagiuolo) che devi tenere a lato, dove ad una certa apparirà, in tutto il suo orrore, il tappo, mentre nell’orecchio risuona la libertà, per la gioia dell’organismo tutto. La durata totale è, chiunque lo sa, qualche minuto appena.   Tornato a casa la sera, lo trovo nella stessa condizione. Il bambino sente poco, è ancora avvolto in quella sensazione di fastidio e rassegnazione che ricordo benissimo.   Decido di fare la mossa: è venerdì sera, il pediatra non c’è (e non devo essere sicuro che faccia queste cose, mi dicono), posso solo pensare ad una mossa radicale, portarlo in ospedale, al Pronto Soccorso pediatrico. Un luogo che, da passate esperienze, ricordo non troppo affollato, dove si può incontrare un medico abbastanza speditamente. Vuoi non trovare lì un dottore che gli lavi l’orecchio in un minuto, con pure alle spalle una laurea per farlo e un giuramento, quello di Ippocrate, per cui vive nell’imperativo di guarire il prossimo (specie quando il prossimo è un bimbo)?   Caricato in macchina il bambino, e ivi portatolo, mi trovo innanzi a diversi capannelli di infermiere del reparto emergenze dei bambini che chiacchierano: il lavoro non deve essere tantissimo, bene. Arrivati dietro il vetro dell’ufficietto che reca la scritta «accettazione» (il posto giusto, no?) una ragazza con la mascherina, con attorno altre colleghe con cui stava amabilmente conversando nel silenzio del reparto vuoto, mi dà l’informazione che avevo tentato scacciare dalla testa: per accedere al Pronto Soccorso Pediatrico devo prima passare da quello degli adulti.   Il che vuol dire ore e ore di attesa se devi vedere un medico, in un’atmosfera di estenuazione che richiede le guardie giurate in sala d’attesa (novità degli ultimi anni: cos’è cambiato? È peggiorato il servizio? Sono arrivati «ospiti» stranieri che tendono alle escandescenze? Il combinato disposto dei due fenomeni). La fila più drammatica, illogica, disperante è in realtà prima ancora, quella del cosiddetto «triage» – no, la parola italiana non la vogliono: è già questo dice tanto sulla macchina della sanità, cioè sul fatto che la sanità è una macchina.   C’est-à-dire: fai la fila, lungamente, solo per dire cos’hai e farti aprire la pratica da una tizia dietro ad un doppiovetro. Una fila disorganizzata, senza biglietti e con la costante di masse immigrate prima di te (la condizione comune della cittadinanza nella Repubblica Italiana nel secolo XXI), nessuna attenzione per la tua situazione – sei grave? Hai bisogno solo di una carta? etc. – cioè, nessun triage di nessun tipo.   Qui scatta la prima realizzazione: la tua situazione medica, la tua vita, è in realtà sottomessa ad un sistema di prenotazione. Un macchinario più grande di te, che non ti considera davvero se non come numero, e di fatto ti danno un braccialetto con un codice a barre, una cosa che era nei film di fantascienza distopica non troppo anni fa.

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Lo dico perché lo so per esperienza: l’anno scorso, in una storia che non ho ancora raccontato su Renovatio 21, ma che qualche lettore conosce perché coincise con la rarità assoluta del sito fermo per una settimana, andai in pronto soccorso per un malanno piuttosto intenso. Flashback.   Fu proprio durante la fila del triage, in cui arrivai bianco e barcollante, che ad un certo punto cedetti in modo talmente spettacoloso che ancora oggi ne vado fiero: al culmine della capacità di resistere al problema che avevo, mi sentii mancare completamente il respiro (sensazione mai avuta, neanche facendo una vasca di piscina in apnea), non avevo nemmeno la forza di chiedere aiuto… quindi, forse per la terza o quarta volta in tutta l’intera mia esistenza, vomitai – ad abundantiam, scatenando il fuggi fuggi generale, neanche fosse apparso nel nosocomio Godzilla, o un altro mostro gigante sputatore a caso.   Era l’immagine di un uomo piegato dal problema biologico, e nessuno, nessun medico, nessun infermiere, nel limbo-triage della coda burocratica multietnica, lo volle aiutare: furono proprio le guardie giurate, quelli che non hanno giurato ipocritamente per Ippocrate, e forse proprio per questo hanno conservato una qualche umanità. Quando tornai a respirare, messo dal personale in una sedia a rotelle, immaginavo che mi avrebbero fatto saltare la coda, vista la gravità – quelli prima di me stavano tutti in piedi e non avevano appena rimesso un ettolitro di anima, vitrea e gialla, sul pavimento davanti alla porta automatica proibita (si apre solo da dentro) che dà al reparto dove attendere senza speranza per altre ore ed ore.   Maddeché: feci un’altra ora di fila seduto, sconvolto e dolorante, sulla sedia a rotelle ospedaliera, e arrivato al bancone con il supervetro, l’infermiere pure mi redarguì per quello che avevo fatto. A quel punto, raccolta un po’ di adrenalina e di rabbia, mi alzai dalla sedia e alzai la voce flebile: «eccerto, la prossima volta che sto per morire improvvisamente soffocato avverto prima voi, però guardi, c’era la sua fila». L’infermiere rimase zitto.   Il proseguo di questa storia dell’anno scorso, il cui racconto rimando da tempo perché tocca il tema delicato delle trasfusioni e del loro rifiuto, lo racconto un’altra volta – anticipo tuttavia che di lì a qualche giorno di ospedalizzazione il primario con codazzo di una diecina di dottori si presentò al mio letto e, poco prima che fossi operato, usò parole che dipinsero con chiarezza nella mia mente l’immagine della mia morte per dissanguamento sul tavolo operatorio. «Lei rifiuta le trasfusioni … e tante altre cose… quindi, se succede qualcosa, che facciamo, la lasciamo morire dissanguato?»   Devo dire che nessuno, nemmeno nelle risse più belluine, mi aveva mai fatto sentire una violenza simile, la violenza della morte, con tutto ciò che adesso essa comporta per la mia discendenza. La risposta mi venne immediata: «visto che si è portato un po’ di testimoni, dichiaro pure pubblicamente che rifiuto anche l’espianto di organi». Il barone chirurgico, e tutti i suoi vassalli, valvassori, valvassini in camice bianco uscirono in silenzio, senza salutare.   Quindi, mentre venerdì sera aspettavo in quella stessa fila con mio figlio, non potevo non pensare a quei momenti dell’estate scorso. Non potevo permettermi di far passare un bambino, sangue del mio sangue, attraverso il processo di disumanizzazione che conosco e ho testimoniato – anche solo quello dell’attesa ridicola del triage, che è solo il primo grado della cancellazione della dignità umana con la sanità moderna può tranquillamente portarti alla morte. (Renovatio 21, lo sapete, non parla d’altro, su tutti i fronti declinabili).
  Fine flashback. Quindi, dopo aver resistito mezzora in fila solo per avere un pezzo di carta con cui far curare un bimbo in un reparto vuoto, non gliela ho più fatta.   Il padre, stringendo la mano del figlio, lo porta via. «Papà… ma tutti gli ospedali sono così?» chiede lui, intuendo che il silenzio prolungato del genitore nasconde l’incontenibile disprezzo per il sistema. C’è di peggio, gli dico. Ma la questione è la Sanità, lo Stato moderno, in generale, cioè lo Stato impersonale e immorale che giocoforza fa male agli uomini sino ad eliminarli, gli spiego borbottando come il vecchio che sto diventando, incurante del fatto che questi sono discorsi per i miei lettori e non per un bambino di nove anni.   Piano B: mancano pochi minuti alle 20, la grande farmacia sulla strada è aperta. Lì, avevo visto in precedenza, eseguono visite otoscopiche e lavaggi auricolari. Sessanta euro: un salasso. Sono disposto a sobbarcarmelo, pur di liberare mio figlio dal suo problemino all’orecchio, che è il mio. (Sangue del mio sangue… cerume del mio cerume?)   Facciamo la fila anche qui, ma in questo caso c’è il numero, stile salumiere al supermercato. Quindi, la sorpresa: no, in realtà i lavaggi non li fanno, cioè li fanno, sì, ma non sono i farmacisti (anche loro laureati, anche loro con giuramento), ma delle infermiere apposite, che vengono solo ogni tanto, bisogna prenotare, etc. Usciamo dal negozio con il materiale per il Piano C: spruzzo di acqua di mare da 15 euro a bomboletta, flaconcino di dimetilbenzene per ammorbidire il tappo da non so quanto.   Arrivati a casa il Piano C si rivela esattamente quello a cui cercavo di non pensare: un fallimento totale. Lo spruzzetto è insignificante, le goccette sono inefficaci al punto che pensiamo di aver fatto peggio.

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È a questo punto che si fa largo nella mia mente – che mai si deve rassegnare, se si tratta di un bambino – il Piano D: chiamare la guardia medica, quella bizzarra istituzione parallela all’ospedale, l’ambulatorietto dove, diciamoci le cose come stanno, vai quando hai troppa paura della fila in pronto soccorso. Apre la sera, a significare che loro ci sono quando i dottori non ci sono, come se prima essere curato, o anche solo ascoltato, avviene senza problema. Ad ogni modo, una volta andavi, entravi, aspettavi, parlavi col dottore, che ti dava la prescrizione, e via. Non più: dopo il COVID devi chiamare al telefono, dove puoi trovare a volte una persona che ti scoraggia dal presentarti, e prenotare. La pandemia è stata essenzialmente una buropandemia, con la burocrazia che ha infettato qualsiasi istituzione, dalle scuole, alle banche, ai bar… lo sappiamo.   Faccio il numero della guardia medica, ma è troppo presto. Rispondono solo dopo le 20. Attendo, chiamo. Dopo un po’ rispondono. Racconto. Mi dicono che la guardia medica non si occupa dei bambini, che un tappo all’orecchio non è un’emergenza, e di certo loro non fanno lavaggi all’orecchio… io faccio silenzio, perché nell’intimo comincio a capire che la tattica vincente è quella di fare in modo che ascoltino se stessi. Funziona: la ragazza – la dottoressa – mi dice che vabbè, posso portarlo, ma solo per farlo vedere.   Fatta, penso io: ambiente ambulatoriale, niente masse afroasiatiche che premono alle porte, solo un medico e un bambino che sta male, che può essere aiutato con una manovra che dura un minuto, migliorandogli di netto la vita.   Macché. Arriviamo in ambulatorio, una casa cubica grigia praticamente senza finestre e un portone blindato modernissimo. Suoni il campanello, confermi di aver un appuntamento. Entrati, nessuno ci riceve, stiamo 15 minuti ad aspettare da soli al buio. Di sopra senti degli schiamazzi: il personale sta facendo bisbocce, suona come una pausa prolungata, visto che l’orario dell’appuntamento, e dell’inizio delle attività dell’ambulatorio, è quello delle 20:30.   Finalmente scende una ragazzina in camice, è una dottoressa, è quella con cui ho parlato al telefono. Se ha avuto l’umanità di visitare il piccolo, vuoi che non abbia quella di aiutarlo con la più semplice delle procedure, fatta letteralmente di acqua fresca? Guardo nell’armadio: la bacinella-fagiuola c’è, il siringone pure. Fatta. Fatta. Dai.   Invece, la dott.ssa Tizia ci dice che non può fare nulla, loro non guardano i bambini, tantomeno possono fare lavaggi, per quelli devo andare dal pediatra, e visto che non ci sarà per giorni, al Pronto Soccorso pediatrico, cioè il luogo da cui sono fuggito in preda alla rabbia contro il mostro sanitario applicato su tutti, soprattutto sul mio bimbo.   Epperò, per gentilezza, la Tizia dottoressa si offre di «guardarlo», come promesso, e lo fa: fuori l’otoscopio, e in meno di cinque secondi scatta la difficile diagnosi: «sì c’è un bel tappo». Grazie, non avevamo capito. Poi si mette a scrivere a verbale, e qui ci mette un quarto d’ora. La proporzione, mentre aspetto, mi è già chiarissima: cinque secondi per guardare il bambino, e non risolvere nulla perché non è sua mansione, e un quarto d’ora per riempire un modulo burocratico: cosa è importante, per i medici odierni, è chiarissimo. Prima della persona, viene la macchina, il sistema sanitario di cui sono ingranaggi salariati. Prima di Ippocrate, viene il Centro Unico di Prenotazione, il CUP.   La dottoressa ci dà pure una prescrizione per un altro tipo di gocce. Tornando a casa, sconfitti, ci saranno anche quelle da comprare. Così, dirigo verso la farmacia di turno (a quel punto la sola aperta) di un quartiere non semplicissimo (cioè, vinto dall’invasione immigrata), una farmacia non nota per la gentilezza: nemmeno parli attraverso lo spioncino, ma tramite il cassettone con cui devi scambiare la tessera sanitaria, i soldi, il bancomat, contro i farmaci – il farmacista non lo vedi in faccia mai, e neppure, in verità, ne odi la voce. È una transazione impersonale e difficile, cui già mi ero proprio lì sottoposto settimane prima sempre fuori orario, facendo anche allora una fila colossale.   Arriviamo, tra la serqua di immigrati che spuntano ovunque tra il bar e il parchetto circostante, notiamo davanti a noi un africano: ha la testa praticamente dentro il cassettone serale della farmacia, è piegato in avanti e parla a voce altissima, del resto la struttura, come ho detto, non sembra essere fatta per ascoltare il paziente. «Io devo prendere quel farmaco» spiega l’africano al farmacista invisibile. «Io devo… io prendo sempre… non ho ricetta perché non posso andare dal dottor, perché lavoro, faccio autista tutto giorno», garantisce. A fianco a lui, un altro africano a caso, in ciabatte e cappello da baseball, fissa nel vuoto il tramonto sui condomini del quartiere popolare.   Davanti alla persistenza dell’immigrato che cerca di farsi dare un farmaco senza ricetta, e alla blindatura del farmacista ignoto che la rimbalza, perdo, per l’ennesima vola la pazienza: non posso perdere altro tempo qui, con il bambino per mano, e neppure posso rischiare quando l’africano, probabilisticamente, andrà in escandescenze, non capendo, o fingendo di non capire, che per la medicina che vuole ci vuole un documento medico, la prescrizione. Quando ciò accadrà, penso, il pericolo ce lo beccheremo tutto io e mio figlio, che siamo in partibus infidelium, mentre il farmacista invisibile tornerà tranquillo a guardarsi Netflix, protetto da schermature di metallo e vetro antisfondamento.

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Fuggiamo anche da lì, mentre il risentimento per il mondialismo e la Necrocultura sanitaria traspirano dalla mia pelle – il piccolo, sembra comprendere telepaticamente. Del resto è mio figlio, e lo sto crescendo io… Il problema all’orecchio tuttavia rimane, e il papà non sa davvero risolverlo.   Ripieghiamo: altra farmacia di turno, fuori città. Ci metteremo un po’, ma almeno non permetterò che mio figlio possa essere messo in pericolo da colui che senz’altro ci pagherà le pensioni. Qui c’è uno spioncino dci venti centimetri per venti, una finestrella che ti fa vedere una stanza vuota e, quando entra, parte della faccia del farmacista di turno. Qui mi azzardo: «scusi… non è che fate lavaggi auricolari? Se non può aprirmi le passo la testa di mio figlio attraverso la finestrella». Sorride. Non ha idea dello sforzo, e dell’umiliazione, che sto vivendo per trovare qualcuno che aiuti mio figlio. È notte inoltrata.   A casa, è tardi. Preghiere, libro, a letto. Quando gli spengo la luce spero tanto che si svegli con il problema risolto automaticamente. Non è così. Discussioni mattutine con la madre. Forse va via da solo, ma bisogna aspettare. Era successo quando eravamo andati alle terme (altro evento svuotato via dalla memoria cache paterna). Va bene.   Sabato mattinata, lavoro, faccio la spesa, commissioni varie, ma il pensiero mi tarantola. Cosa sto facendo? Lo lascio lì, mio figlio, con un malanno addosso? Ma che roba è?   Il giorno dopo avrebbe avuto il capitolo finale di una delle cose più fondamentali dell’universo, il minibasket. Cosa fa, va in campo e non sente le indicazioni dell’allenatrice? Poco dopo, ci sarebbe un ulteriore evento determinante: esame di passaggio di cintura a judo. Il lettore di Renovatio 21 sa che, nel mondo moderno che ha programmaticamente cancellato ogni forma di iniziazione maschile (con il risultato di generazioni di drogati ed omosessuali), il genitore deve attaccarsi allo sport, surrogato della caccia e della guerra, per ogni briciola iniziatica di sviluppo spirituale possibile.   È così che prendo la decisione più dura: vado a Canossa. Cioè, torno in ospedale. Piano E. Va bene, farò la fila al triage del Pronto Soccorso adulto, quella dove rischiavo di morire soffocato l’anno passato, è per il bene di mio figlio. E poi magari a quest’ora non c’è nessuno, ci mandano subito al pediatrico, e zac, problema risolto, assieme alla mia dissonanza cognitiva di padre che non riesce a trovare, in tutto il sistema, una persona in grado di mettere un po’ di acqua nell’orecchio di un bambino.   Muniti di una Nintendo Switch strategica – per cui la noia me la ciuccio via io, mentre lui seduto gioca a Zelda o Capitan Tsubasa – ci ripresentiamo al Pronto Soccorso, e – colpo di fortuna! Alè! – non v’è nessuno. Subito al bancone, dove però l’infermiera ci mette un po’ a guardarci in faccia. Quando lo fa, dobbiamo rispiegare tutto, ma va bene, siamo vicini alla meta, l’orecchio stappato è dietro l’angolo. Scatta il braccialetto con codice a barre distopico. Evvai. Ampie falcate verso il Pronto Soccorso pediatrico, cioè verso la tanto attesa liberazione auricolare.   Eccoci: le infermiere pediatriche sono appollaiate nei consueti capannelli a reparto praticamente vuoto. Ripeti tutta la storia. Poi le domande importanti. Salute? Sì, sempre in salute. Allergie? No, nessuna. Vaccini?   «No».   «Dico, i vaccini pediatrici normali…», precisa lei. No, nemmeno uno.   L’infermiera esita, si irrigidisce un pochino, vedo. Poi chiede di possibili allergie di farmaci. No. Io ribadisco che vorrei solo, compatibilmente con i loro tempi e le emergenze, che lavassero l’orecchio di mio figlio. Lei chiama una collega più giovane, che, mascherata, mi dice perentoria: ma no, qui non facciamo lavaggi d’orecchio, ci mancherebbe, e poi sono lì per le emergenze… Non c’è nessuno, dico io. «Non possiamo fare questa cosa», dice. Va bene, dico, ma c’è un dottore, in questo momento? Ne hanno disponibili addirittura due, mi informa, e io penso il silenzio del reparto vuoto è tale che probabilmente stanno pure ascoltando direttamente la conversazione.   Le dottoresse, continua l’infermiera mascherinata, al massimo possono vedere il bambino.   A quel punto mi indurisco io: scusi, siamo già stati in guardia medica, abbiamo il referto, cinque secondi di otoscopio hanno confermato che il bambino ha solo un tappo, nient’altro. A questo punto, se non è possibile fare altro, noi andiamo, stiamo perdendo tempo noi, facendone perdere anche a voi.   «È libero di farlo. Metteremo “non risponde alla chiamata”». Chiamata de che? Praticamente ci siamo solo noi. E quindi, pagherò il ticket anche senza ottenere nulla? «Sì certo, arriverà a casa». Nella mia testa, mentre il fastidio tocca vette stratosferiche, si fa largo anche la prospettiva che poi, da qualche parte resterà il fatto che porto mio figlio all’ospedale e poi però spariamo. Sapete: quel tipo di cosa che poi può essere usato contro di te quando magari le istituzioni cercano materia per darti addosso – chi conosce la storia dell’antivaccinismo in Italia sa di cosa parlo.

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Per cui, eccoci con le mani legate (da un braccialetto con codice a barre). La chiamata però è, come intuibile, immediata. Nell’ambulatorio c’è una dottoressa semi-meridionale, anche gentile, con uno stuolo di infermiere che vanno e vengono dalle porte. C’è la possibilità che si consumi l’atto di umanità, e la dottoressa levi il tappo di cerume a mio figlio? No. «Non sono cose che facciamo. Le fa l’otorinolaringoiatra». Quindi, ci mandate di sopra, in otorinolaringoiatria, chiedo. «No, non si può. L’otorino il sabato e la domenica c’è solo al mattino fino a mezzogiorno. È andato via poche ore fa. Non è che possiamo richiamarlo per un orecchio tappato».   Io non replico nulla, continuo semplicemente a concentrare il mio sentimento guardandola dritta negli occhi. Ad un certo punto, per un istante brevissimo, sento che anche lei capisce quanto la situazione sia grottesca, e toglie lo sguardo. Forse solo per un attimo, nella sua mente può essersi fatto largo il pensiero che il suo lavoro, anzi il suo compito, la sua missione, è diverso dal passare le carte, dal fare solo ciò che è demandato burocraticamente?   Forse. Io però ad un certo punto obietto, sia pure con una certa calma: «dottoressa, quindi, mi vuole dire che, tra le migliaia di dottori e infermieri che lavorano in questo ospedale, non c’è nessuno che può fare un lavaggio all’orecchio di mio figlio?». No, mi dice, bisogna sentire l’otorino, che non c’è. Ecco, potete venire domani mattina, se e quando avrà tempo, vi seguirà lui. Queste sono le carte.   Usciamo anche da questo ennesimo capitolo di tritacarne buro-sanitario sconfitti. Nessuno, nell’universo provinciale di dottori, infermieri, farmacisti, vuole aiutarci, nemmeno con un’inezia come un lavaggio d’orecchio – non è (più) suo compito, punto.   SMS alla madre, che era già disillusa. «Tornate a casa… lo sapevamo». Io però non ho intenzione di mollare, e quindi ragiono: quello che ci serve non è un medico, né un sanitario, uno specialista, nulla. No: dobbiamo solo trovare, qui dentro, una persona rimasta umana. Dobbiamo trovare qualcuno che si ricorda che ha giurato per Ippocrate, e non per il CUP. Qualcuno che vede un bambino mogio e, invece, di compilare scartoffie per mandarlo via, lo aiuta.   Piano F, Mission Impossibile: trovare umanità residua, in ospedale? È l’ultima cosa da fare, l’extrema ratio a cui giungere: la ricerca della persona umana. Saltare i canali istituzionali, l’imbuto della burocrazia sanitaria, e parlare faccia a faccia con un essere umano non divorato dalla macchina.   Quindi, ascensore. Reparto Otorinolaringoiatria, dritti – e pazienza se mi hanno detto che il dottore non c’è: una laurea non è la sostanza che stiamo cercando in questo momento. Arriviamo, ho il bambino per mano: c’è silenzio, ma capisco che sono tutti impegnati. In una saletta-ambulatorio c’è un tizio seduto ad una scrivania che parla con uno in piedi, immagino siano dottore ed infermiere, non so, faccio sempre fatica a distinguerli, forse è un effetto voluto, come la sparizione delle suore dagli ospedali.   Mi guardano, ma non si curano, non stanno chiacchierando, ma discutendo operativamente. Io, per cortesia, non li interrompo. So che per la cosa che devo chiedere non devo sembrare scortese, perché ho capito quanto questa quisquilia sia contra legem, quanto l’elasticità della medicina sia totalmente perduta. Non insisto, ma persisto, aspetto fuori dalla porta.   Arriva una vecchia infermiera: «scusi… ha bisogno?» Le spiego tutto. Vorrei solo un lavaggio d’orecchio per questo bambino. «Ma è stato in Pronto Soccorso pediatrico?»… «Veniamo da lì. Ci hanno dato appuntamento qui per domani. In realtà io mi chiedevo se non ci fosse qualcuno in grado di farlo ora… Signora, sono due giorni che giro come una palla da flipper» Mentre mi esce questa similitudine mai venutami prima, sento che, in questo contesto, le mie parole, anche nella volontà di non lasciar trasparire nessun fastidio, possono suonare come pura sfacciataggine. Ma come, senza prenotazione? Ma come, fuori orario così?   «Senta, in realtà il dottore è ancora qui… è molto impegnato però… doveva andare via ore fa. Io non le assicuro nulla, se posso glielo chiedo, vediamo cosa dice. Lei aspetti qui». Mi si apre il cuore: «signora, quello che sta facendo per noi è già ora molto di più quello che ha fatto una dozzina di suoi colleghi nelle ultime ore».

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Il ragionamento era giusto: un essere umano in ospedale ancora esisteva. Ora bisognava vedere se questa sua umanità era condivisa con il suo superiore: cosa non impossibile, perché bonun sui diffusivum, diceva San Tommaso, il bene si espande, la carità è contagiosa. Aspetto in piedi sulla porta, il bambino lo metto seduto con i videogiochi. In reparto lavoro ne avevano: torme di pazienti con il naso fasciato escono dalle camere durante l’orario di visita, ad un certo punto vedo una ragazza che crolla al suolo, non so se per scherzo, mentre famigliari e infermieri turbinano attorno a lei. Un sabato pomeriggio intenso, e io sono lì sono per uno stupido tappo all’orecchio, in effetti.   Arriva, infine, la tanto agognata notizia: vedo l’infermiera buona che parla in fondo al corridoio con il dottore, che è proprio quello che prima stava alla scrivania. Vengono verso di me, lui mi dice che va bene, è tardi, ma facciamolo. Piazzano il bambino su una sedia accanto ad una macchina complicata, che in realtà è uno spruzzo per le orecchie professionale, montato però in modo che il tubicino non arriva benissimo (quanto lo usano…?).   Entrano in sala, dal nulla, altre quattro infermiere, ognuna tiene qualcosa. Il dottore va di otoscopio e conferma: tappone sul destro, tappino, pure, sul sinistro. Zum, acqua nell’orecchio, gli occhietti chiusi in una smorfia di dolore. Salta fuori una roba nera gigantesca, tra inni esultanti delle infermiere.  
  Per il sinistro è più difficile, il dottore chiede uno strumento con un cognome francese – pinza di Villot? Boh! – che nessuna delle astanti sa cosa sia. Se lo trova lui, un ferretto ansato. Due colpetti dentro al padiglione auricolare, tra smorfie di estemporaneo dolore vero del bambino. Acqua: salta un altro tappo, più chiaro, che nuota sconfitto nella bacinella metallica. Altri versi esultanti delle infermiere.   Fatto. Durata del tutto: meno, molto meno di cinque minuti. Difficoltà dell’operazione: inesistente – ma riconosco il bonus ricevuto dall’estrema professionalità dello specialista. Il quale giunge infine alla tremenda realizzazione… non ci sono le carte adeguate… «quindi non posso scrivere niente?» No, però ha aiutato il bambino. E suo padre. Grazie. Grazie infinite.   Il piccolo, come nuovo. Quel senso di liberazione lo conosco bene: sono io, del resto, che probabilmente gli ho trasmesso geneticamente, o chissà in che altro modo, quel problema. Il sabato pomeriggio è andato totalmente (con tutta la sera del venerdì), e lui rifiuta pure di suggellare la vittoria con il gelato: è un bambino tanto bravo, i dolci li mangia solo raramente, e solo quando ne ha davvero voglia.   Io ho modo di elaborare sull’accaduto: sì, come sapevo, la classe medica è cambiata, in nessun modo sente la necessità di aiutare il prossimo, come prevedeva il giuramento di Ippocrate. Non è avvenuto tutto di colpo: giurare di «non somministrare farmaci mortali o suggerire consigli tali, né fornire medicinali abortivi» e poi lavorare tra 194, RU486, vaccini, psicofarmaci, eutanasia, predazione degli organi, non è conciliabile.   Tuttavia, capiamo come la pandemia abbia completato la trasformazione: il dottore è esecutore, lo si può vedere solo tramite interfaccia informatica (quando lo si vede: basta una mail, e ti trovi il farmaco prescritto in farmacia, senza neanche risposta), e una sua eventuale dissidenza, in scienza e coscienza, rispetto alla vulgata dominante è punita draconianamente: radiazione, penale, pubblico ludibrio.   Se la professione medica si automatizza, non possiamo aspettarci che essa tratti i pazienti anzitutto come esseri umani. Giocoforza, la sanità odierna, con i suoi dogmi e i suoi computer, i codici a barre e l’ultra-specialismo, i farmaci non testati e la fine del consenso informato, non può che essere un processo disumanizzante.   Non sono concetti astratti, analisi bioetiche da accademia: è la vostra realtà presente, è ciò che c’è dietro ad un’odissea sfiancante per trovare qualcuno che, semplicemente, faccia un lavaggio auricolare ad un bambino.   Ora, tremiamo davanti all’imbuto che la Sanità dell’impero della Necrocultura mette davanti a chiunque ha un problema ben più grave. E vibriamo di rabbia quando pensiamo che tale problema può essere stato causato dal problema stesso. Che il danno iatrogeno sia in realtà diffuso al punto da rendere insostenibile la società nel suo insieme.   Non si tratta di una questione di poco conto. La ridefinizione totale del sistema sanitario ridotto ad apparato di dolore e morte, pena l’implosione sua e della civiltà, è la sfida più grande che ogni partito politico raziocinante, ogni essere umano rimasto tale, deve intraprendere.   Perché, ne ho dimostrazione materiale, questa macchina disumana è qualcosa che non possiamo permetterci vedere inflitta sui nostri figli.   Roberto Dal Bosco

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Necrocultura

La terapia antirigetto sta finendo. Il tempo dei mostri e delle vacche sacre arcobaleno pure

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Nella vita è capitato a tutti, magari giocando da bambini, di infilarsi una scheggia sotto pelle. A quel punto interveniva la saggezza della mamma o della nonna: non ti preoccupare, il corpo espellerà il pezzettino di legno, è una reazione naturale.

 

Il corpo non tollera qualcosa di altro da sé, qualcosa di contrario al suo programma.

 

Che poi è la grande questione – rimossa, censurata nel palcoscenico pubblico – dei trapianti: ti dicono che hanno trovato un donatore «compatibile», poi però il trapiantato finché campa deve pigliare farmaci che impediscano il rigetto dell’organo alieno inserito nel suo corpo (uccidendo un’altra persona, ma questo è un altro discorso…fino ad un certo punto). Un modo come un altro – ce ne sono vari altri, tutti di gran moda – di diventare ad vitam cliente di Big Pharma.

 

In pratica l’immenso business dei trapianti non si reggerebbe senza le droghe che reprimono la natura e i suoi processi fisiologici. In mancanza di farmaci antirigetto, la realtà dei trapianti si manifesterebbe per quello che è: una discendenza del mostro gotico di Frankenstein.

 

Ora, lo stesso fenomeno si può dire lo abbiamo subìto per la mente. Non solo la nostra, ma quella di tutta la società mondiale.

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Per decadi (in ispecie l’ultima), hanno trapiantato nel cervello dei singoli e dei popoli ogni sorta di aberrazione: ecco i matrimoni gay, ecco il feticidio come diritto assoluto, ecco la morte di Stato per deboli ed ammalati, ecco gli immigrati importati e privilegiati, ecco il fanatismo climatico appaltato alla ragazzina Asperger, ecco i sieri genici obbligatori, ecco i bambini castrati e imbottiti di ormoni sintetici (prodotti forse biochimicamente nemmeno troppo lontani dai quelli usati per evitare il rigetto di organi altrui).

 

Non è la prima volta che nella società umana sono innestati tessuti mostruosi – la decadenza è simile per ogni civiltà – e nel tempo, emersa la loro incompatibilità con la vita, sono stati combattuti e infine esplusi. Essi, per potersi mantenere e replicare all’interno del corpo sociale, richiedono dosi potenti di immunosoppressori e di cocktail antirigetto.

 

Adesso sappiamo come ciò avveniva: dalla nuova amministrazione americana apprendiamo che serque infinite di enti, conventicole e movimenti venivano pagati da USAID (che, con un budget di 50 miliardi, poteva distribuire 1 miliardo di dollari a settimana) per megafonare l’aberrazione, la riforma antinaturale della società.

 

L’orda di effeminati infervorati, di obese con la chioma viola, di psicosessuologhe oltranziste, di avvocaticchi d’assalto, e di comizi, corsi di aggiornamento, conferenze e concerti di riporto, non erano un fatto organico, spontaneo. No. Erano innaturali come i capelli pittati o il davanzale al silicone di un trans disperato: erano tutti lì, a suonare lo stesso spartito, solo perché pagati per diffonderlo urbi et orbi, sulla pelle dei più vulnerabili.

 

Siccome ogni società umana rimasta sana tende alla propria sopravvivenza e non tollera inclusioni ad essa incompatibili, era indispensabile una propaganda senza requie, ed era necessario pure abbinarla alla censura, per spegnere i globuli bianchi ancora in circolazione.

 

Per decenni siamo stati drogati per accettare il gender, l’Ucraina democratica, ogni sorta di diktat della cultura della morte. Ci hanno iniettato oceani di sostanze antirigetto. La scuola, le serie TV, lo sport, i film, Sanremo… la terapia è stata ubiqua e persistente. Eppure – ci viene da sorridere – siamo ancora qui. E stiamo per assistere alla fine di questa cura fallita.

 

Possiamo sperare che la chiusura dei rubinetti da parte dello Stato profondo americano produrrà esiti da non credere: muri di opposizione si sbricioleranno, agenti della necrocultura cambieranno mestiere, armate di attivisti agguerriti svaniranno lasciando il nulla dietro di sé. Vacche sacre arcobaleno si dissolveranno.

 

Niente di tutto questo esisteva davvero: si trattava di una presenza disorganica nelle nostre vite, che pensavamo di non poter scacciare mai, ma che stava lì solo perché qualcuno pagava un esercito di piccoli mostri mercenari per tenerla in piedi.

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Qualche esempio concreto lo abbiamo appena veduto.

 

Nello studio ovale, il presidente ha investito del massimo potere sanitario il re dell’antivaccinismo mondiale. E nel discorso di investitura, ha citato l’autismo, e il numero tragico di cui è (era…) proibito parlare in pubblico: pochi anni fa i bambini autistici erano uno su 10.000, ora nello spettro se ne conta uno ogni 38.

 

A Monaco, davanti ai papaveri europei e mondiali, il vicepresidente americano ha parlato, chiamandolo per nome e cognome, di Adam Smith-Connor, il veterano britannico arrestato e condannato per aver pregato in silenzio dinanzi a una clinica abortista.

 

Ora, capiamoci: questa storia di Connor era circolata solo sui siti pro-life, e in Italia probabilmente gli unici a conoscerla erano i lettori di questa testata. Ora invece ne parla il numero 2 della superpotenza egemone, e in faccia ai burocrati parassiti che vegetano ai vertici della geopolitica planetaria.

 

È come se il nostro piccolo mondo antico fosse ora il mondo intero.

 

Quelle che sembravano energie sprecate, storie dimenticate, battaglie perdute, sono ora al centro di tutto, nella stanza dei bottoni. O almeno, pare proprio che sia così. Stropicciamoci gli occhi: era solo l’incubo di una lunga notte.

 

Il tempo dei mostri sembra che stia per finire, la natura si riapproprierà dei suoi spazi come un elastico di ritorno, e presenterà i suoi conti. Mai avremmo pensato di vedere il momento in cui d’improvviso diventa possibile dirlo.

 

Dopo la disintossicazione della società dal trattamento di immunosoppressione massiva forse si prepara una nuova vittoria della realtà e della vita.

 

Roberto Dal Bosco

Elisabetta Frezza

 

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