Pensiero
Napolitano e Messina Denaro, misteri atlantici
Nelle stesse ore in cui spirava a 98 anni l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il boss mafioso Matteo Messina Denaro entrava in coma «irreversibile» – qualunque cosa voglia dire.
Sono due facce, lontanissime nel sentire comune, del medesimo Paese – ma anche, dello stesso mondo. Sono volti che per chi scrive rimangono altamente enigmatici.
Prendiamo Napolitano. Non è ancora chiaro perché lo chiamassero Re Giorgio, espressione che ancora dice qualcosa per via del Regno del nonno di Carlo III, Giorgio VI. Fino a che l’ex comunista non salì al colle, l’espressione «Re Giorgio», tuttavia, era riservata a Giorgio Armani, et pour cause: un re nello stile e nella professionalità, nella creazione di bellezza e nella conduzione aziendale.
I giornali che ora si riempiono di titoli dove campeggia a la dicitura «Re Giorgio», stanno quasi tutti giustamente ignorando la chiacchiera – falsa, fasulla, da cui prendiamo le distanze – per cui sarebbe stato figlio biologico di Umberto II di Savoia. Su Internet per anni sono circolate immagini con le foto comparate del «re di maggio» e dell’uomo asceso alla più alta carica dello Stato, e definito poi (forse a seguito di un articolo del New York Times), appunto, «Re Giorgio».
Certo, la continuità della famiglia che con la massoneria ha unito l’Italia – il cosiddetto «Risorgimento» – anche al di là dell’esilio, passando attraverso un membro del PCI, è di per sé una storia di fantasia romanzesca estrema.
Inutile sbatterci la testa: ho conosciuto nobiluomini – ora non più fra noi – che erano pronti a giurare di aver notizie di prima mano sulla questione, ma in tanti smontano l’allucinante ipotesi. Nel ritratto del defunto fatto oggi su Il Tempo da Luigi Bisignani – che ha sempre smentito di essere mai appartenuto a qualsiasi Loggia e anche alla P2, anche se il suo nome, dice il Corriere, fu trovato negli elenchi trovati a Castiglion Fibocchi – la questione sabauda (una dinastia che, questo sito deve ricordarlo, magari con la Loggia qualcosa ha avuto a che fare) è affrontata di petto: quella per cui «Napolitano potesse essere effettivamente di sangue blu, figlio illegittimo dell’ultimo re d’Italia, Umberto II di Savoia, e per questo chiamato “Re Giorgio”» è solo una bufala «corroborata da una certa somiglianza fisica».
Bisignani va avanti: si tratta di «un gossip alimentato dalla circostanza che sua madre, contessa di Napoli (titolo che, da comunista doc, lui ha sempre accuratamente nascosto), fosse una delle dame di compagnia della regina. Invece quel “titolo nobiliare”, meno romanticamente, gli venne affibbiato su input dell’ex presidente della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky, durante il caso delle intercettazioni telefoniche con Nicola Mancino per la vicenda della trattativa Stato-mafia. Napolitano voleva che fossero distrutte in quanto giudicate irrilevanti: così Zagrebelsky lo accusò di “rivendicare privilegi da monarca assoluto”, appunto da re».
Sarà così. C’entra la storia dello Stato-mafia, allora. Va bene. Anche quella, è un bel mistero. Dei misteri della mafia però parliamo dopo.
Del resto il Napolitano sapeva fare cose stupefacenti, enigmatiche: nel 1978, fu il primo dirigente del Partito Comunista Italiano a cui gli USA fecero un visto d’entrata. Non una cosa da poco.
Il lettore anche non anzianissimo può ricordare che chi andava negli USA, fino a non troppi anni fa, in aereo doveva compilare un formulario in cui tra le altre cose c’era la domanda da film di Nanni Moretti: lei è comunista? Un mio professore della scuola del cinema, si narrava tra gli studenti che ne scherzavano la verve ingenua e militante, scrisse immediatamente «Sìiiii»: lo arrestarono immantinente. Non so se questa storia sia vera, ma è sicuramente vero che da comunista entrò tranquillo negli USA.
Secondo le cronache, tenne conferenze ad Aspen, cittadina sciistica del Colorado sede di quell’Aspen Institute di cui sarebbe socia italiana – con Tremonti, Prodi, Brunetta, Giorgetti, John Elkann – Giorgia Meloni, e per questo chiamata dai suoi critici «Lady Aspen».
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Nello stesso viaggio parlerà anche ad Harvard, fucina dell’élite statunitense, dove era professore un personaggio che lo prenderà in grande simpatia: Henry Kissinger, plenipotenziario per la politica Estera americana, accusato di crimini internazionali atroci, ma tuttavia amicissimo di Gianni Agnelli, il quale, riportano, nello stesso viaggio ospiterà il Napolitano nella sua celeberrima magione di Park Avenue, la splendida casa che sarà in seguito teatro di party dove, si mormora, l’unico della famiglia a potere entrare era Lapo (e chissà perché, e chissà se è vero…), che peraltro di Kissinger fu stagista.
Kissinger, che oramai centenario gli sopravvive alla grandissima, consegnerà alla storia una definizione eccezionale, che di fatto contrassegnava l’uomo prima di «Re Giorgio»: «il mio comunista preferito». Sì: Napolitano era il comunista preferito di Kissinger. Anche qui, chissà perché.
Il tour in America di Napolitano, effettuato dal 4 al 19 aprile 1978, cade in un momento tragico della Repubblica: il 16 marzo, cioè poco più di due settimane prima, era stato rapito il Presidente della DC Aldo Moro. Del terrorismo italiano parlò in America in un’intervista con il diffuso settimanale Newsweek, parlando di «degenerazioni, fino al delirio ideologico e al crimine più barbaro, dell’ispirazione rivoluzionaria del marxismo e del movimento comunista».
Napolitano, che fino al 1974 era tra i comunisti che criticava Solzhenitsyn, teneva per quella che fu chiamata «linea della fermezza»: nessuna concessione alle Brigate Rosse. Il risultato sappiamo quale è stato – ma chissà, con i «se» la storia non si fa, e poi anche quello di Moro è un mistero, dove si perdono, per citare il titolo di un libro sulla P2 di un parlamentare comunista suo compagno di partito, le Trame atlantiche.
I rapporti con gli yankee vanno a gonfie vele anche in Italia. Richard Gardner, l’ambasciatore americano in Italia durante gli anni di piombo, ha confidato tempo dopo che «Napolitano era l’unico tra i dirigenti del PCI con cui parlavo. Ci vedemmo riservatamente per ben quattro volte in casa del nostro amico Cesare Merlini, presidente dell’Istituto per gli Affari internazionali». Il Quotidiano Nazionale scrive che Napolitano «dal 20 luglio 1978 cambia l’orientamento dell’ambasciata USA a Roma»: gli ambasciatori di Via Veneto da allora cominciano a parlare con esponenti PCI, cosa che prima, almeno in apparenza, è decisamente tabù.
Passano gli anni, il Muro crolla. Occhetto piange alla Bolognina, il Partito Comunista cambia nome. Dall’altra parte dell’oceano qualcuno potrebbe aver visto un’opportunità: un partito di sinistra, desovietizzato, fa al caso dell’Impero. I Democristiani e tutti gli altri erano leali, ma fino ad un certo punto: i rapporti erano logori, l’ideologia – sia pur intossicata dalla stessa mano americana che ha infilato in Italia il pensiero di Maritain per creare la DC, cioè qualcosa che consentisse pragmaticamente la contraddizione di un Paese cattolico liberale – aveva ancora qualcosa di concreto, aveva delle radici, addirittura, orrore, «cattoliche».
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Dall’altra parte, era tabula rasa. Qualsiasi contorsione era possibile con un partito traumatizzato, fino alle lagrime, dalla perdita della propria identità profonda. Il PD di oggi, i cui militanti inneggiano al Battaglione Azov, chiedono il Nuovo Ordine Mondiale (sic) e accettano qualsiasi deriva neoliberale senza battere ciglio, è esattamente quello che qualcuno nella stanza dei bottoni atlantici aveva visto trenta anni fa – un partito radicale di massa, come diceva Augusto Del Noce, ma anche qualcosa di più: un nuovo alleato, anche molto affidabile, in qualcosa che va al di là dello scacchiere geopolitico – cioè il desiderio impellente dello Stato profondo, la riforma finale dell’essere umano, sessualmente e biomedicalmente ora evidentissima.
Il cambio di cavallo del dopo muro non riguardò solo l’Italia, investita per coincidenza da Tangentopoli: pensiamo al Sud Africa, dove di lì a poco un uomo considerato un terrorista marxista, Nelson Mandela, viene riabilitato totalmente, fatto uscire di prigione e messo alla presidenza del Paese. Anche il Giappone, sia pur con minor effetto, fu vittima di qualche scossa nei suoi gangli politici, con una sorta di «Mani Pulite» in salsa teriyaki che ha fatto da prolusione allo scoppio della baboru, cioè la fine della cavalcata dell’economia giapponese, finita in crisi nei decenni seguenti distruggendo per sempre l’idea di acchiappare economicamente gli USA e pure conquistarli pezzo per pezzo.
In Italia, però, arriva un tizio che gli Americani odieranno sempre: Silvio Berlusconi. Il suo governo, uscito da una schiacciante vittoria nel 1994 contro la sedicente «gioiosa macchina da guerra» di Occhetto («lo zombie coi baffi», disse Cossiga) dura pochissimo: arrivano nuove elezioni che installano Prodi, e Napolitano – riprendiamo il filo del nostro racconto misterico – fa da ministro dell’Interno.
Rammento confusamente il futuro presidente come ministro: ho un vago ricordo, senza possibilità di verificare, di una puntata di Sgarbi quotidiani dove il critico d’arte se la prendeva con una dichiarazione di Napolitano alla liberazione dell’imprenditore sequestrato Giuseppe Soffiantini: il ministro Napolitano, secondo quanto ricordava, parlava di vittoria dello Stato, quando quello che sarebbe successo, con il blocco dei beni, è che la famiglia aveva trovato comunque il mondo, dopo fallite operazioni delle teste di cuoio, di pagare ai sequestratori un riscatto da quattro milioni di dollari. Sgarbi attaccava a testa bassa. Napolitano, all’epoca non impressionava.
Di certo, non va dimenticato che con Livia Turco al Viminale sfornò la legge Turco-Napolitano, che creò i centri di permanenza temporanea per gli immigrati clandestini. Non va scordato neppure che fu subissato di critiche perché, nel 1998, gli fuggì all’estero Licio Gelli, cioè proprio il supermassone a capo della P2, dove, en passant, in lista è segnato pure Vittorio Emanuele di Savoia.
Tuttavia il suo lavoro atlantico dietro le quinte non si è mai fermato. Nel 1994, tornato in viaggio in USA, incontra George Soros, che poco prima aveva affossato la lira. Nel 1996 sbarcherà a New York anche Massimo D’Alema: di lì a pochi anni diverrà premier, e con Clinton alla Casa Bianca (più Blair a Downing Street: il cosiddetto «Ulivo Mondiale») formerà un governo che permetterà la penultima guerra americana, pardon, del Patto Atlantico, in Europa.
È il 1999, la NATO, cioè i caccia americani che partono dalle nostre basi, bombardano la Serbia per formare il Kosovo albanese, staterello satellite USA ma pure, in seguito, grande protagonista di traffici di organi e fornitore di miliziani ISIS. Ministro della Difesa del tempo, lo hanno riportato alla memoria i giornali parlando dei vari filamenti del caso Vannacci-uranio impoverito, era l’attuale presidente Mattarella.
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Dei suoi trascorsi da europarlamentare per i DS – il partito allora si chiamava così – resta impresso solo uno scandaletto tirato fuori dalla stampa tedesca sui rimborsi biglietti aerei.
Nel 2005, Ciampi (quello che stava in plancia di comando alle finanze del Paese quando Soros attaccò la lira, e che poi divenne presidente della Repubblica) lo fece senatore a vita. Lo stesso Ciampi si dimetterà anticipatamente nel 2006 per far insediare il Napolitano eletto il 10 maggio alla quarta votazione come undicesimo presidente della storia repubblicana: il comunista preferito di Kissinger è ora capo dello Stato italiano.
Sono anni turbolenti: il governo Prodi cade ancora, le elezioni riportano al potere, e alla grandissima, Silvio Berlusconi, che è geopoliticamente sempre più scatenato: con Putin l’intesa è totale (fino ad essere, lo abbiamo visto di recente, commovente), più c’è la questione che il milanese riesce a ricavare con Gheddafi una pace assai lucrosa per l’Italia.
Nel 2011 accadono una serie di cose assai significative, le cui ramificazioni paghiamo ancora oggidì, dove Napolitano sembrerebbe aver avuto un ruolo. Prima «Re Giorgio» fa senatore a vita un tecnocrate relativamente sconosciuto, l’ex preside della Bocconi e Commissario Europeo, Mario Monti. Poco dopo, complice una manovra favorita da Parigi e Berlino (e l’assenso USA, ricorda nel suo libro l’ex ministro del Tesoro USA Timothy Geithner) e lo psicoterrorismo dello «spread», il premier regolarmente eletto Berlusconi viene detronizzato e viene piazzato in sua vece proprio il Monti.
Non solo: poco prima, quando al governo c’era ancora Silvio, la Libia viene attaccata da un’operazione anglo-francese, anche qui con il placet di Washington. Gheddafi viene linciato a morte. Dall’altra parte dell’oceano Hillary Clinton, informata della cosa, ride in modo isterico, quasi demoniaco, dinanzi alle telecamere.
Esponenti del centrodestra e dei 5 stelle negli anni dichiarano che dietro all’intervento del 2011 in Libia c’era lui, Giorgio Napolitano. Il presidente ha smentito.
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«Non interessa ora indagare sui motivi che spinsero Sarkozy a iniziare in tal modo l’attacco alla Libia di Gheddafi» disse Napolitano intervistato da Repubblica, facendo capire che la storia dei fondi di Gheddafi alla campagna del presidente francese può essere tralasciata. «Quella iniziativa intempestiva e anomala fu superata da altri sviluppi». Come si dice in questi casi, fait accompli.
«La consultazione informale di emergenza si tenne in coincidenza con la celebrazione al Teatro dell’Opera dei 150 anni dell’Unità d’Italia» prosegue il ricordo di Napolitano. «ma quella sera la discussione fu aperta dall’allora consigliere diplomatico di Palazzo Chigi, Bruno Archi, che era in contatto diretto con New York mentre veniva varata la seconda risoluzione delle Nazioni Unite che autorizzò e sollecitò un intervento armato ai sensi del capitolo settimo della Carta dell’ONU».
Insomma, c’era un contatto con gli USA, con Nuova York, ma non è quello che pensate voi: non è il giro di Kissinger, è l’ONU.
«In quella sede informale potemmo tutti renderci conto della riluttanza del Presidente Berlusconi a partecipare all’intervento ONU in Libia» continua Napolitano. Pochi mesi dopo, il riluttante Berlusconi sarebbe stato sostituito da Monti nel primo vero esperimento di tecnocrazia del Paese.
La storia del Re va avanti. A ridosso delle elezioni 2013, per la prima volta nella Repubblica, viene rieletto presidente: tuttavia, è una manovra di lunghi coltelli nel suo partito, e pure una manovra astutissima di Berlusconi contro Prodi e contro i democratici in panne: al termine della votazione, dopo gli applausi di rito, si ode alla Camera un coro: «Sil-vio-Sil-vio…»
Nel 2015 Napolitano si dimette, sale al potere Mattarella. Anche lui dal PD, anche lui bissato dalla palude parlamentare. A Palazzo Chigi un nuovo tecnocrate, anche lui passato per Bruxelles (e per la Goldman Sachs), Mario Draghi.
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Ci dobbiamo fermare qua: dovevamo solo, in fondo, mettere insieme dei puntini, e magari indicare qualche mistero atlantico come abbiamo promesso dal titolo.
Abbiamo lasciato fuori qualcosa? Ah sì, Matteo Messina Denaro, l’immagine opposta di un capo dello Stato repubblicano, un capo dell’anti-Stato mafioso, per coincidenza finito in coma mentre il 98enne Napolitano lasciava la spirale mortale.
Cosa c’entra Messina Denaro con questa storia? Niente. In comune con Napolitano, oggi può avere solo il mistero sincronico della Vita e della Morte.
Tuttavia, uno pensa ai misteri atlantici e all’Italia, alle storie di presidenti e poteri fortissimi, e non è che può dimenticarsi quell’incontro, l’8 dicembre 1943, del presidente Roosevelt con Patton, Eisenhower (un altro futuro presidente) e vari altissimi comandanti dell’esercito USA… a Castelvetrano.
Sì, Roosevelt a Castelvetrano. Lo stesso luogo dove ha passato decenni in tranquillissima latitanza Matteo Messina Denaro, pure avvistato pubblicamente qui e là in un contorno, hanno improvvisamente ricostruito i giornali, pieno di massoni.
Il mistero si infittisce: lo prendono, gli anarchici immediatamente cominciano a protestare contro il 41 bis. Lui tuttavia non sembra molto interessato.
L’arresto è tranquillissimo, l’uscita dalla clinica è una sfilata geometrica. Ci dicono subito che ha il cancro.
In queste ore, scrivono i giornali, al suo capezzale ci sarebbe la figlia, cresciuta con un altro cognome, ma che in questi giorni ha chiesto e ottenuto di chiamarsi come il padre.
È un’immagine di paternità e destino che siamo qui ad osservare, e con cui ci sentiamo di chiudere questo articolo.
Roberto Dal Bosco
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Immagine di pubblico dominio CC0 via Flickr
Pensiero
«L’inganno di Medjugorje». E. Michael Jones racconta
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Pensiero
Il lato oscuro di Medjugorje. Intervista a E. Michael Jones
Il nuovo documento vaticano sul «fenomeno Medjugorje» sta facendo discutere. Il Nihil obstat proveniente dal Dicastero per la Dottrina della Fede di Victor Emanuel «Tucho» Fernandez di fatto non ammette l’origine soprannaturale delle apparizioni mariane, tuttavia , bizzarramente, dà semaforo verde per presunti «frutti positivi» provenienti dal paesino tra le brulle colline dell’Erzegovina.
Renovatio 21 ha intervistato quindi uno dei primi ad occuparsi del «fenomeno Medjugorje», lo studioso americano E. Michael Jones, direttore della rivista Culture Wars, fondatore delle edizioni Fidelity Press, nonché autore di libri di importanza capitale per il pensiero cattolico.
A partire da testi scritti già nel lontano 1988, il professor Jones ha pubblicato The Medjugorje Deception: Queen of Peace, Ethnic Cleansing, Ruined Lives, («L’inganno di Medjugorje: Regina della pace, pulizia etnica, vite rovinate»), probabilmente uno dei primi testi sistematici sulla questione Medjugorje, e – attualmente – uno dei pochissimi a carattere critico, e non solo in ambito di editoria cattolica.
I commenti e le impressioni di Jones sono spesso davvero impressionanti, e si scontrano drammaticamente con certa percezione bonaria che si ha della questione medjugoriana.
Dottor Jones, lei ha iniziato a scrivere su Medjugorje circa 36 anni fa. Cosa è cambiato da allora?
I pellegrinaggi sono continuati, ma la discussione pubblica è cessata perché tutti hanno praticamente deciso sulla sua autenticità, in un modo o nell’altro. Il principale cambiamento di status è il recente documento vaticano che concede al pellegrinaggio il Nihil obstat, che è l’equivalente vaticano dell’approvazione, senza assicurare in alcun modo ai fedeli che i veggenti non mentono. Questo messaggio contraddittorio sicuramente farà rivivere la controversia che si era spenta anni fa.
Come le è venuta l’idea di scrivere L’inganno di Medjugorje?
Dopo aver scritto Medjugorje: The Untold Story nel 1988, fui contattato da un ricco californiano che voleva che raccontassi la sua storia. Ciò significava un ritorno a Medjugorje nel 1996 e un tentativo di spiegare perché i messaggi di Nostra Signora Regina della Pace avevano portato ad una feroce guerra civile finita con la disgregazione della Jugoslavia.
Ci è andato? Qual è stata la sua esperienza in quella che a quei tempi veniva chiamata Jugoslavia?
Sì, sono andato a Mostar nel 1996 e ho assistito in prima persona alla devastazione che la guerra civile vi aveva creato. L’omonimo vecchio ponte (mostar significa vecchio ponte in croato) era stato fatto saltare in aria e giaceva in pezzi sul fondo del fiume Nredva. Mostar era stata devastata dalla battaglia che seguì alla rottura dell’alleanza croato-musulmana. Tutta l’animosità etnica che avrebbe dovuto essere sanata da Nostra Signora Regina della Pace era esplosa con rinnovata ferocia. E ho cercato di collegare tutto questo alla storia del nazionalismo croato ustascia che dilagò nel Paese durante la Seconda Guerra Mondiale e che portò ad atrocità contro i serbi proprio sul luogo delle apparizioni.
In che senso Medjugorje potrebbe essere legato alla pulizia etnica?
Una volta crollata la Jugoslavia, i vari gruppi etnici che la componevano dovettero ritirarsi nelle rispettive enclave etniche, cosa impossibile perché molte di quelle persone erano «jugoslave», cioè serbi che avevano sposato croati, o sloveni che avevano sposato bosniaci. Era un compito impossibile, ma la NATO era determinata a smembrare la Jugoslavia e la pulizia etnica era parte del danno collaterale.
Lei collega Medjugorje anche a uno dei temi principali dei suoi studi, la rivoluzione sessuale…
Vi sono state accuse di carattere sessuale per più sacerdoti legati a Medjugorje.
Qual è stata la reazione al suo libro?
Totale funkstille. [Espressione tedesca che significa «silenzio radio totale», ndr]
È vero che è stato minacciato telefonicamente?
No, è stato di persona, tramite una seconda persona.
Cosa può dire un buon cattolico riguardo all’ultimo documento su Medjugorje?
Che la Chiesa è più interessata al denaro che alla verità.
Ci sono molti seguaci di Medjugorje negli Stati Uniti?
Non così tanti come 40 anni fa.
Cosa dovremmo pensare del vescovo Joseph Strickland, che ha recentemente visitato Medjugorje?
Che sta cercando un nuovo gruppo di sostenitori dopo essere stato espulso da Tyler, in Texas. Che non capisce il protocollo della Chiesa. Perché non ha mostrato rispetto per il giudizio negativo espresso dai vescovi Zanic e Peric, i due precedenti ordinari della diocesi di Mostar-Duvno?
Lei dice spesso che gli Stati Uniti sono come l’ex Jugoslavia, un paese in cui i gruppi non sono più identificati con l’etnia, ma con la religione – ortodossi, cattolici e musulmani in Jugoslavia, Cattolici, protestanti ed ebrei negli Stati Uniti. Vuole spiegare questa teoria del «Triple melting pot»?
Dopo aver letto il libro di Franjo Tudjman [1922-1999, primo presidente della Croazia indipendente, ndr] sul nazionalismo, mi sono reso conto che l’America e la Jugoslavia avevano la stessa forma di organizzazione politica. Entrambi i Paesi erano composti da tre gruppi etnici basati su tre religioni: protestante, cattolico, ebraico in America; serbi, croati e musulmani in Jugoslavia.
Significa forse che gli Stati Uniti, come la Jugoslavia, potrebbero avviarsi verso una guerra civile?
No. Abbiamo già avuto la nostra guerra civile. Gli Stati Uniti si stanno dirigendo verso l’anarchia e la tirannia allo stesso tempo. Platone diceva che quest’ultima deriva sempre dalla prima.
Quali sono quindi, secondo lei, i veri frutti del fenomeno Medjugorje?
La possessione demoniaca è uno dei frutti principali di Medjugorje, seguita dal divorzio. Medjugorje è infestata dai demoni, cosa che non dovrebbe sorprendere dal momento che San Giovanni della Croce disse che il diavolo si rallegra quando le persone cercano rivelazioni private.
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