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La scuola e l’eclissi della parola. Intervento di Elisabetta Frezza al convegno presso la Camera dei Deputati

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Renovatio 21 pubblica in versione l’integrale l’intervento di Elisabetta Frezza al convegno dell’associazione Asimmetrie «La scuola artificiale. Età evolutiva ed evoluzione tecnologica» tenutosi presso la Camera dei Deputati il 10 luglio 2024 alla presenza del ministro Valditara.

 

Da qualche decennio a questa parte la scuola italiana è posseduta dal demone della innovazione: versa in uno stato di riforma permanente. È sovraccarica, ormai sfigurata, eppure chiunque passi dalle parti di quel ministero si sente in dovere di aggiungere la propria impronta senza chiedersi a quale τέλος [tèlos] essa concorra. Ammesso che un τέλος ci sia.

 

Si accenni solo a tre passaggi legislativi salienti, ex multis

 

  • nel 1997 l’autonomia scolastica ha aperto gli istituti al territorio e li ha incoraggiati ad avventurarsi in ogni genere di sperimentazione, creando per questa via un surreale clima di competizione mercatista tra le varie scuole; 

 

  • nel 2015 la cosiddetta «buona scuola», tra l’altro (tra molto altro), ha fatto delle innovazioni didattiche – qualunque fosse il loro risultato – una sorta di obbligo e un titolo per accedere alle premialità; 

 

  • nel 2019 la legge istitutiva della «nuova educazione civica» ha sfruttato quest’etichetta dal suono familiare e rassicurante per inondare l’orario curricolare di contenuti ad alto tasso ideologico (il piatto forte è l’Agenda 2030, nuovo libro sacro sui cui dogmi catechizzare, dall’asilo fino all’università, schiere di fedeli), contribuendo pesantemente a relegare la didattica delle discipline – già tanto sacrificata da attività estemporanee di ogni genere, spesso scadenti se non addirittura imbarazzanti – in uno spazio che si può a buon diritto definire residuale. 

 

Ormai fare scuola a scuola è diventata un’esperienza piuttosto eccezionale e non occorre spiegare come le continue distrazioni, anche senza entrare nel loro merito, producano l’effetto plurimo di: interrompere il ritmo didattico; immiserire i contenuti dell’insegnamento; disperdere l’attenzione in mille rivoli ciechi; contribuire alla interiorizzazione della superficialità come metodo di lavoro. 

 

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Così, lanciata alla rincorsa di magnifiche sorti e progressive, la scuola si è via via trasformata in altro da sé. Ha finito per rinunciare al suo compito specifico ed esclusivo, che è innanzitutto quello di alfabetizzare e quindi – attraverso la chiave di accesso del linguaggio – di trasmettere le conoscenze, con particolare riguardo a quelle che hanno resistito alla prova del tempo, agli invarianti; e di iniziare al sapere teoretico, che vuol dire afferrare le cause, elevarsi alle leggi, agli universali, che sono gli strumenti di comprensione della realtà. 

 

A farci caso, il modello a cui i riformatori nostrani si abbeverano parla un’altra lingua, parla inglese: skills, life long learning, cooperative learning, problem solving, peer education, gamification, job shadowing, etc. 

 

E infatti, la demolizione controllata del nostro sistema di istruzione, che aveva il grave difetto di funzionare a dovere, è avvenuta tramite l’importazione massiva dei pacchetti pedagogici anglosassoni, con tutto il loro repertorio di stilemi attraenti. Essi rappresentano una parte – non certo secondaria – di quel capillare processo di colonizzazione culturale che da tempo, in Italia, gioiosamente ci autoinfliggiamo.

 

Erano gli anni Settanta del Novecento, quando Elémire Zolla, avendo in mente proprio la pedagogia progressiva di John Dewey (definito come colui che «consigliò di aggiogare il maestro all’alunno») commentava che «gli italiani, come macilenti gatti di periferia, si ostinano a nutrirsi dei rifiuti altrui». 

 

In realtà il prodotto di importazione, presentatoci sotto il segno invincibile della innovazione, per paradosso è tutt’altro che nuovo: è vecchio di secoli. Non solo – paradosso su paradosso – si è pure dimostrato empiricamente fallimentare: la devastazione cognitiva e culturale delle scuole americane è una piaga non controvertibile.

 

La spiega con dovizia di particolari Eric Donald Hirsch nel suo saggio Le scuole di cui abbiamo bisogno e perché non le abbiamo, uscito in prima edizione nel ’96 in America e recentemente tradotto in italiano da Paolo di Remigio e Fausto Di Biase (edizioni Petite Plaisance). 

 

Il nostro legislatore quindi – o chi gli fa da scrittore ombra – continua ad attingere a una fonte tossica e a riscaldare una minestra già andata a male nel paese di origine.

 

Ma cosa contengono questi pacchetti? Sono plasmati su quell’impostazione pedagogica puerocentrica di stampo ludico-pratico e laboratoriale, che fa leva sul pragmatismo e sull’attivismo didattico, sul mito della personalizzazione e sul culto del benessere; e che, correlativamente, si nutre di un profondo pregiudizio anticognitivo, perché porta con sé l’avversione per le conoscenze teoriche, per i libri, per la scrittura, per la parola. 

 

La sua stella polare è il protagonismo dell’alunno, ritenuto capace di dare forma a se stesso (la base filosofica risale al mito dello stato di natura e del “buon selvaggio”, e della civiltà come struttura corruttrice dell’innocenza): un’idea comprensibilmente dotata di una particolare presa emotiva, tant’è che, grazie alla sua suggestione vischiosa, si è talmente incistata nella mentalità corrente da sembrare ormai inestirpabile e da impedire, come una lente deformata, di ritrovare il vero perché della scuola. 

 

Questo pregiudizio anticognitivo si sublima nella fede che l’ignoranza possa formare alunni creativi che pensano con le loro teste. Si tratta della fede che sta alla base della didattica per competenze: si crede che l’acquisizione di abilità cognitive (le famose skills) avvenga in assenza di cognizioni, vale a dire che si possa pensare criticamente un argomento senza conoscerlo. Quindi, si dovrebbe «imparare a imparare» senza imparare mai nulla (la metacognizione appesa nel vuoto cognitivo) e il senso critico nascerebbe per partenogenesi, confondendosi con l’esercizio di qualsiasi protervo vaniloquio.

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L’impeto digitale – scatenato dalla nuova superstizione che va sotto il nome di tecnolatria – è coerente con questo sistema di pensiero, dal quale è stato propiziato: la scuola 4.0 può essere ben vista come l’ultima declinazione, al passo con il progresso, della solita teoria pedagogica secondo cui il bambino, alla stregua di un cucciolo d’animale, svilupperebbe la sua mente spontaneamente e avrebbe bisogno soltanto di un ambiente attrezzato intorno a lui e di un inserviente al suo fianco.

 

La novità è che oggi questo ambiente ribattezzato «ecosistema di apprendimento» o «eduverso», o ambiente onlife (sic), tende ad abbandonare la presa sul mondo reale per popolarsi dei fantasmi di quello virtuale. E così la scuola si trasforma in una grande sala giochi in cui la tempesta di immagini sostituisce le parole, la scrittura, lo studio delle leggi della realtà. 

 

Osservata dall’altra parte (non del cliente ma del gestore), la scuola 4.0 si presenta come una distesa sterminata di materiale umano da scrutare, da sfruttare, da spolpare, da offrire in pasto alle banche dati e infine da assoggettare agli automatismi degli algoritmi delegati a predire i destini futuri dal loro impenetrabile ὀμϕαλός [onfalòs]

 

Ma, sempre da questa prospettiva puerocentrica, deriva anche dell’altro: deriva da un lato lo snaturamento della figura del docente; dall’altro l’ubriacatura dell’«utenza», cioè delle famiglie che usano del servizio che alla scuola compete. 

 

I docenti. Dovrebbero essere i promotori del sapere e invece, costretti a farsi satelliti dell’alunno e a inchinarsi alla sua singolarità sovrana, assumono il ruolo subalterno di assistenti, di animatori, di facilitatori, finiscono per degradarsi al dilettantismo psicologico e ora soprattutto informatico (il ministro Bianchi parlò apertis verbis di ri-addestramento digitale del corpo docente); mentre diventa irrilevante, paradossalmente quasi inopportuno, che conoscano bene la propria materia di insegnamento al fine di trasmetterne la sostanza, e l’amore.

 

In questo modo, fatalmente perdono autorevolezza e prestigio, vengono umiliati nella loro professionalità e marginalizzati in un contesto che non valorizza la preparazione, restano totalmente disarmati di fronte all’imbarbarimento dilagante. Nel tempo, questo trattamento li ha intimamente passivizzati.

 

I genitori. Si fanno abbagliare dagli effetti speciali esposti in vetrina (la vetrina si chiama PTOF e, grazie al regime di concorrenza di cui sopra, contiene quante più attrazioni possibili per sedurre la clientela, salire nell’indice di gradimento degli osservatori, accaparrare fondi). Alimentano così l’ipertrofia dei progetti inutili scordandosi dei fondamentali – a partire dal leggere, scrivere, far di conto – con tanti saluti al «diritto all’istruzione» dei propri figli.

 

La più parte di loro si accontenta del bel voto gonfiato, da ottenere senza fatica, senza stress e senza frustrazioni. Non comprendono – non solo loro per la verità – che la prodigalità valutativa, essendo una finzione, è non soltanto diseducativa, ma mortificante sia per il mittente sia per il destinatario.

 

Hanno recepito l’idea che la scuola debba essere ritagliata come un abito su misura addosso al loro figlio (peccato che questo cambi taglia ogni momento, perché cresce e matura, per fortuna). La personalizzazione viene spacciata urbi et orbi come un salto di qualità necessario, quando invece conduce da un lato alla paralisi didattica, dall’altro alla medicalizzazione delle fragilità – per cui qualsiasi ostacolo non è più qualcosa da superare, da vincere, per conquistare un traguardo, ma semplicemente qualcosa da rimuovere dal percorso

 

È chiaro che a queste condizioni il cosiddetto «successo formativo» non può che essere garantito. Ma a che prezzo? Al prezzo di abbassare sempre più obiettivi e risultati e di rinchiudere l’alunno nel proprio bozzolo abbandonandolo a se stesso. Con il fenomenale risultato che le sue fragilità si cronicizzeranno (ora per giunta si fisseranno algoritmicamente nella memoria indelebile delle banche dati) e le sue potenzialità, non stimolate, si deprimeranno sul nascere. 

 

È questo, oltretutto, il modo migliore – il più subdolo: si chiama «inclusione» – per rompere l’ascensore sociale, cioè per far perdere alla scuola la sua funzione essenziale di assicurare la mobilità sociale. Perché l’egualitarismo dell’ignoranza interno alla scuola si traduce fatalmente al suo esterno in differenziazione classista (Gramsci, che ci aveva visto molto lungo, parlava al proposito di divisione in caste) e lo status della famiglia di provenienza diventa più decisivo che mai per il destino degli alunni. 

 

Non sono, queste, considerazioni astratte. Chi ha a che fare con l’ambiente scolastico, sa come sia sempre più frequente che gli studenti approdino alle medie, o anche alle superiori, senza saper impugnare la penna e prendere appunti; senza riuscire a mantenere l’attenzione se non per un tempo molto fugace; senza essere in grado di afferrare periodi complessi ma, ancor prima, senza comprendere il significato delle parole che eccedano un corredo sempre più scarno. Sopravvive un solo modo verbale, l’indicativo, con giusto un paio di tempi. 

 

L’italiano della nostra tradizione letteraria sta diventando di fatto una lingua straniera: è sempre meno accessibile, a tratti del tutto incomprensibile. E non ci si riferisce all’italiano di Dante o di Machiavelli, ma a quello di Pascoli, di d’Annunzio, di Manzoni (lo lamentava, ancora negli anni ’80 del Novecento, Alfonso Traina, e chissà cosa direbbe ora). 

 

Queste debolezze strutturali, diffuse e ingravescenti, ostacolano la produzione orale e scritta, e condannano troppo spesso gli alunni al silenzio e alla pagina bianca. Con tutta la frustrazione che ne deriva.

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Lungo la china percorsa da decenni, il laboratorio della pandemia ha segnato indubbiamente un cambio di passo. Dopo l’isolamento forzato e l’esperienza devastante della DAD, alle voragini cognitive si è sommato un pregiudizio psicofisico generalizzato: gli studenti sono rientrati in aula più arrugginiti e inselvaggiti che mai, regrediti, profondamente provati dalla deformazione protratta dei ritmi della loro quotidianità, dalla immersione telematica in apnea, dalla prolungata desuetudine allo studio, dalla espropriazione di quel contesto vitale, fisico e partecipato, che la classe costituisce in modo infungibile.

 

Il rapporto UNESCO del 2023 che esamina gli «effetti avversi» della chiusura delle scuole e dell’uso assorbente delle tecnologie educative si intitola significativamente An EdTech tragedy.

 

Insomma, la cattività ha fatto da detonatore a problemi preesistenti. Ma l’esperimento è servito per incrementare, normalizzare e legittimare l’invasione selvaggia del digitale dentro un luogo che, all’opposto, avrebbe dovuto esserne preservato e semmai bonificato. Subito dopo la parentesi emergenziale, le scuole sono state inondate dei soldi del PNRR da spendere in materiale tecnologico (peraltro soggetto a rapidissima obsolescenza) in ossequio a ferree condizionalità e a una tabella di marcia incalzante – la fretta, si sa, è un espediente impareggiabile per azzerare il tempo della riflessione.

 

Dal canto loro, i più giovani hanno guadagnato un alibi istituzionale per avallare la dipendenza dal dispositivo informatico, e pazienza se questo funzioni anche da idrovora di informazioni personali, da braccialetto elettronico, da profilatore, da spacciatore continuo di spazzatura fluttuante nell’etere. 

 

Non occorrono certo studi scientifici particolari – per quanto ce ne siano a bizzeffe, e siano dirimenti – per capire ciò che è autoevidente: ovvero che le funzioni, sia fisiche sia cerebrali, appaltate precocemente a una protesi, peraltro così potente, o sono inibite a priori, oppure si atrofizzano. Peccato che si tratti di funzioni non marginali, ma letteralmente fondanti. 

 

Se già da tempo i libri di testo (ciò che ne rimane) sono sempre più zeppi di immagini (oltre che di errori) e vuoti di parole, e le poche parole sono ridotte a slogan, ora vengono sovente sostituiti dai tablet, e la penna dalla tastiera. Si perdono l’abitudine alla lettura e l’abilità della scrittura, che costituiscono la base ideale e materiale di tutta attività scolastica.

 

Non è un caso che la scrittura, insieme alla grammatica e alle lingue dotte, sia sempre stata fonte di grave imbarazzo per la pedagogia progressiva: i suoi adepti, incantati dalla modalità di apprendimento del primo linguaggio orale (poiché è vero che il bambino impara a proferire le sue prime parole spontaneamente per imitazione), restano intrappolati nell’equivoco che il linguaggio tout court si apprenda spontaneamente, per istinto e senza fatica.

 

Non è così. Già gli antichi avevano capito come il linguaggio umano si dispieghi su due livelli: quello del lessico, cioè il sistema di segni; e quello del discorso, il λόγος [logos]. I γράμματα [gràmmata] –le lettere, ciò che è scritto) sono la struttura elementare, atomica, del linguaggio, il suo elemento indivisibile: stanno dentro la voce – ἐν τῇ ϕων (en té phonè) e rendono la voce significante, intellegibile, appunto in quanto scrivibile. 

 

La scrittura è dunque un atto consapevole e volontario, che richiede esercizio, e che man mano libera il linguaggio dagli errori legati all’imitazione espandendo la sua orbita lessicale e sintattica. 

 

Oggi l’arte dello scrivere a mano – in particolare della scrittura corsiva – non è più coltivata. Insieme alla manualità fine, viene così inibita tutta la vasta gamma di attitudini che si sviluppa esercitandola, a partire dalla memoria – in russo si dice рука помнит [ruka pomnit], «la mano ricorda», per sottolineare come la mente si appropri del concetto anche attraverso il corpo, attraverso la memoria muscolare che passa per la mano. Tra l’altro, la grafia è un connotato unico e distintivo del suo autore e il toglierla di mezzo a scuola rappresenta una via maestra verso la spersonalizzazione e l’omologazione. 

 

A ben vedere, la scrittura è uno degli elementi in cui si radica la distinzione tra uomo e animale. L’argomento è stato approfondito dal prof. Agamben nel suo recente saggio La voce umana (Edizioni Quodlibet, 2023). Anche l’animale, infatti, possiede un linguaggio. Ma il linguaggio umano, a differenza di quello animale, non è un mero flusso di suoni.

 

Esso consta dell’elemento costitutivo della grafia, che lo sposta da un piano sensoriale a un altro: dal binomio voce-orecchio, a quello mano-occhio. Permette di «vedere la voce», di leggerla. Più in generale, permette di oggettivare la lingua, di articolarla e, quindi, di dominarla. Separandola da sé, l’uomo ha fatto della sua lingua uno straordinario strumento di conoscenza, proprio perché con lo scritto può lasciare traccia di sé: può fissare il suo messaggio e, fissandolo, può tramandarlo.

 

Alla luce di questi pur sommari rilievi, non si può non pensare a quali ricadute abbia il togliere di mezzo a scuola il magistero e l’esperienza della scrittura, la consuetudine col segno e con il processo di astrazione che al segno è collegato; e l’esercizio della parola, che è simbolo – da συμβάλλω [symbàllo], «unisco» – , ciò che appunto unisce l’uomo sia alla cosa significata, sia ai suoi simili coi quali la condivide.

 

Il danno che si causa negando tutto questo si misura anche se si considera come tanto per l’apprendimento della lingua materna quanto per quello del linguaggio matematico (è dimostrato chei due sono intimamente correlati) esista una finestra temporale di opportunità, un periodo dentro il quale la natura ha posto una particolare sensibilità a fissare i segni e i suoni, ovvero le parole e la musicalità della lingua, a stamparli nella memoria. Passata questa fase, diventa difficile recuperare il terreno perduto.

 

E ancora, a proposito di lingua madre – e della acquisizione graduale della capacità di dominarla, di modularla, di distinguerne i diversi registri, di scoprire in ogni lemma uno scrigno di senso e di saperci mettere mano –, si pensi per contrasto alla moda del CLIL (che consiste nell’insegnamento in inglese delle materie diverse dall’inglese), una metodologia introdotta dalla «buona scuola» e oggi spinta con valanghe di denaro dal PNRR insieme all’alluvione digitale. Essa rappresenta uno straordinario veicolo di erosione della nostra lingua (e della civiltà che vive dentro la sua lingua) e un micidiale strumento di colonizzazione linguistica: costituisce un avallo alla superficialità e approssimazione espositiva e, di riflesso, contenutistica. È la rivincita del maccheronismo.

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Si diceva anche del fattore tempo, nel senso che ogni tipo di apprendimento ha il suo momento ideale. Ma non solo. Ogni apprendimento richiede un congruo tempo di assimilazione: la strada lenta e paziente della formazione non ammette troppe scorciatoie. Sempre per contrasto, si pensi allora all’altra moda della riduzione a quattro anni delle scuole superiori, come se ciò che si è sempre studiato in cinque anni, integrandosi peraltro a un percorso di crescita e maturazione complessive, possa essere strizzato e ingurgitato in quattro. Un po’ come la storia del letto di Procuste. 

 

C’è un simpatico passaggio di Proclo, che è la fonte principale su cui si fonda la storiografia di Euclide: è Proclo a collocare Euclide al tempo del primo Tolomeo e a dirci che fu discepolo di seconda generazione di Platone. Egli, nel suo Commento a Euclide (II, 68) scrive: «…si racconta che Tolomeo una volta gli chiese (chiese a Euclide, ndr) se non ci fosse una via più breve degli Elementi per apprendere la geometria; ed egli rispose che per la geometria non esistevano vie fatte per i re». 

 

Anche la matematica è un linguaggio che si nutre di segni, di scrittura, di parole, di astrazione. 

 

Oggi l’enfasi sugli STEM implica, e allo stesso tempo induce, una contrapposizione del tutto pretestuosa tra materie scientifiche e materie umanistiche; nell’orizzonte pedagogico asfittico di cui si è detto finora, la matematica, la fisica e le scienze sono degradate a mera pratica laboratoriale e sottratte all’astrazione e alla teoria; quando invece – non meno della filologia o della storia – sono anch’esse forme del contegno teoretico.

 

Fausto Di Biase, che è un matematico, spiega: «Avere abbandonato lo studio serio della geometria euclidea e avere giovani immersi nella dimensione puramente visuale a discapito di quella simbolica e verbale, a discapito in particolare del ragionamento ipotetico deduttivo che esige il rigore della dimostrazione, ecco, tutto questo già significa essere “anti-matematici”». 

 

Abolendo la prospettiva storica dei saperi, si recidono le radici, indissolubilmente intrecciate, della matematica e della filosofia, delle scienze, dell’arte e della letteratura; radici che affondano nello stesso humus, fertile e geniale, nel quale vissero Pitagora, Anassimandro, Platone, Euclide, Archimede.

 

Esiste quindi un legame inscindibile tra linguaggio e pensiero, tra categorie grammaticali e categorie logico-filosofiche. La stessa matematica, come si è visto, è impensabile al di fuori del linguaggio e di categorie logico-filosofiche. E le nostre strutture grammaticali – sempre per via di quelle ascendenze – riprendono la terminologia aristotelica: per noi, cioè, l’alfabeto del pensiero sono le categorie della lingua greca. 

 

Non è un caso che da tempo si cerchi di uccidere il liceo classico, dipinto come una sorta di monumento all’inutilità da svecchiare e professionalizzare con curvature fantasiose e altre improbabili trovate. Ce la faranno, probabilmente, ad ammazzarlo. Il colpo di grazia sarà inferto dall’orientamento vincolante, prossima barbara frontiera, semplicemente perché non vi si orienterà più nessuno, e così morirà per asfissia. 

 

Perché sarebbe un delitto? Perché il liceo classico possiede l’esclusiva dello studio della lingua greca, chiave di accesso a un deposito di pensiero e di sapere irrinunciabile. Al miracolo compiuto dai greci noi dobbiamo non soltanto modelli letterari eterni, ma anche la matematica sistematizzata da Euclide, la scienza della natura dell’epoca l’ellenistica, la filosofia di Platone e di Aristotele. Senza contare che oggi, nemmeno ce ne rendiamo conto ma nel linguaggio quotidiano parliamo greco (oltre che latino) e saper risalire all’etimo delle parole è ciò che permette di usarle comprendendo cosa davvero le abita – ἔτυμος [ètymos] significa «vero, reale».

 

Un esempio tra gli innumeri che si potrebbero fare, giusto per rimanere in tema: il ramo della scienza che si occupa dello studio e della fabbricazione degli strumenti magici capaci di scimmiottare alcune funzioni del cervello umano, è detto «cibernetica». Il κυβερνήτης [kybernètes] è il timoniere. La κυβερνητική τέχνη [kybernetiché tèchne] è l’arte di governare la nave.

 

È il greco a dirci che abbiamo a che fare con un fenomeno di sostituzione al timone della nostra nave: che stiamo cedendo questo timone a una guida aliena, meccanica, che erode la nostra libertà di decidere la rotta, intacca il nostro libero arbitrio, orienta e condiziona la nostra vita nella logica di un controllo sempre più penetrante e pervasivo. 

 

Ecco perché il primo dei servizi che la scuola dovrebbe onorare, a maggior ragione di fronte all’irruzione di tecnologie tanto sofisticate e invadenti (di fronte al sempre più aggressivo non-pensiero algoritmico), è proprio quello di coltivare il linguaggio, chiave di accesso a un patrimonio inestimabile (e indisponibile) di scienza, arte, letteratura, che non va certo ascritto semplicisticamente alla categoria del passato, bensì a quella del durevole, dell’eterno. 

 

Senza la parola infatti non c’è comunicazione, col suo valore catartico: sapersi esprimere e saper comprendere gli altri è ciò che permette di uscire dal proprio guscio autoreferenziale superando la limitatezza e l’istintività della propria esperienza contingente. 

 

Ma, prima ancora, senza la parola non c’è ragionamento. Nello sforzo di parlare, di leggere, di scrivere, cova il seme della libertà – dove libertà è il sapersi emancipare da visioni settarie e parziali, imposte ab extra, per imparare ad analizzare e interpretare autonomamente la realtà. 

 

Oggi, al contrario, la scuola fornisce contenuti ideologici preconfezionati, oltretutto prescrittivi: tende a imporre stili di vita e modi di pensare conformi, impartisce lezioncine morali sottoforma di educazioni omologate. Si fa ripetitore dei media, appropriandosi degli stessi slogan, della stessa iconografia, degli stessi codici corrivi. Così, oltre a svuotarsi dei contenuti fondamentali, imbocca una preoccupante deriva autoritaria.

 

Solo recuperando la sua sostanza culturale attraverso l’uso della parola vera, della parola che mantiene la presa sulla realtà che designa (e che è il contrario esatto della barbarie degli slogan), la scuola può tornare a essere vivaio e palestra di libertà, e può restituire ai più giovani, insieme alla cognizione della realtà e insieme al senso delle dimensioni che servono a prendere le misure della realtà – comprese l’altezza, la profondità, la distanza – anche una solidità interiore andata quasi completamente distrutta. Perché, al contrario di ciò che affermano tanti melensi luoghi comuni, l’incapacità della scuola di abituare i giovani a un lavoro impegnativo e sensato esaspera la loro fragilità psicologica.


Il professor Agamben, in un suo articolo del 2023 (intitolato Virgole e fiamme), scrisse tra l’altro: «Gli uomini hanno nel linguaggio la loro dimora vitale e se pensano e agiscono male, è perché è innanzitutto viziato il rapporto con la loro lingua. Noi viviamo da tempo in una lingua impoverita e devastata, […] ridotta a un piccolo numero di frasi fatte; il vocabolario non è mai stato così stretto e consunto, il frasario dei media impone ovunque la sua miserabile norma, nelle aule universitarie si tengono lezioni in cattivo inglese su Dante: come pretendere in simili condizioni che qualcuno riesca a formulare un pensiero corretto e ad agire in conseguenza con probità e avvedutezza? Nemmeno stupisce che chi maneggia una simile lingua abbia perso ogni consapevolezza del rapporto tra lingua e verità e creda pertanto di poter usare secondo il suo tristo profitto parole che non corrispondono più ad alcuna realtà…».

 

Infine, non si può non citare l’attacco del Vangelo di San Giovanni: «Ἐν ἀρχῇ ἦν ὁ λόγος, καὶ ὁ λόγος ἦν πρὸς τὸν θεόν, καὶ θεὸς ἦν ὁ λόγος…» («In principio era il Logos, ed il Logos era presso Dio, ed il Logos era Dio…»).

 

E più avanti: «…Καὶ ὁ λόγος σὰρξ ἐγένετο καὶ ἐσκήνωσεν ἐν ἡμῖν…» («e il Logos si fece carne, e venne ad abitare (lett: piantò la sua tenda) in mezzo a noi…». 

 

Per dire che la profondità di quanto sta accadendo sotto i nostri occhi – qualcosa di clamorosamente sottostimato e colpevolmente non indagato – è tale da intaccare il nucleo duro della natura dell’uomo, la cifra stessa dell’umano. 

 

Ecco perché non possiamo rassegnarci alla sostituzione alla guida della nostra nave, ma abbiamo il dovere assoluto di attrezzarci, e di attrezzare chi ci succede, per restare ciberneti di noi stessi e custodire il fuoco – che è il logos, la parola, il simbolo. 

 

I nostri figli, al traino della macchina e immersi nel fumo degli slogan incantatori, rischiano di perdere definitivamente l’accesso al tesoro sedimentato lungo un passato grande e maestro. Ma solo da qui può scaturire un futuro dove ancora brillino la luce della conoscenza e la forza della ragione.

 

Per elevare ad maiora, verso cose più grandi, chi avrà l’onore e l’onere di viverlo.

 

Elisabetta Frezza

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Professore di studi bellici avverte: molti Paesi europei si trovano in uno stato «pre-guerra civile»

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Uno dei massimi esperti studi bellici di guerra ha lanciato l’allarme: molti paesi europei sono sull’orlo della guerra civile e potrebbero aver già superato il punto di non ritorno. Lo riporta Modernity News.   David Betz, professore di guerra nel mondo moderno al King’s College di Londra, afferma che la sua ricerca dimostra che esiste una probabilità statisticamente significativa che entro cinque anni scoppi una guerra civile in un importante paese europeo, con una concreta possibilità che il conflitto possa estendersi alle nazioni vicine.   Parlando con il documentarista Andrew Gold, Betz ha inoltre osservato che probabilmente è troppo tardi per impedire che la situazione in Europa «peggiori molto e che i governi potrebbero solo prepararsi meglio all’inevitabile.     «Probabilmente eviterei le grandi città. Ti suggerirei di ridurre la tua esposizione alle grandi città, se puoi», esortò Betz con tono gelido. «Non c’è niente che possano fare, è insito. Abbiamo già superato il punto di non ritorno, secondo la mia stima… abbiamo superato il punto in cui si verifica una disfatta politica. Abbiamo superato il punto in cui la politica normale è in grado di risolvere il problema».   Betz ha sottolineato che «quasi ogni possibile soluzione da qui in poi, a mio avviso, implica una qualche forma di violenza».   «Qualsiasi cosa il governo cerchi di fare a questo punto… puoi risolvere un tipo di problema, ma nel farlo aggraverai un altro tipo di problema, e tornerai alla violenza», ha continuato il professore.   «Secondo me la questione è come mitigare i costi, non come prevenire il risultato, mi dispiace dirlo… Non ho sentito una soluzione politica credibile e non vedo una sola figura politica che sia credibile nel ruolo di salvatore nazionale, o anche solo incline a farlo», ha aggiunto.   «La conclusione è che non credo che ci sia al momento una soluzione politica a questa situazione, che consista nel far sì che tutto vada per il meglio dopo un periodo di difficoltà», conclude cupamente Betz, osservando «Le cose vanno male ora, ma peggioreranno molto».   «Spero che poi la situazione migliori, ma prima di arrivarci bisognerà attraversare un periodo in cui la situazione è molto peggiore», ha previsto.

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In sostanza, è una spirale discendente. «Capisco che ciò che dico è estremamente spiacevole», ha detto Betz, aggiungendo: «voglio solo dire, care élite, che le conseguenze delle vostre azioni sono arrivate».   Betz osserva che il Regno Unito, la Francia e la Svezia sono tutti già afflitti da una «terribile instabilità sociale», un «declino economico» e una «pusillanimità delle élite», tutti storicamente precursori di conflitti.   Lo studioso stima che una guerra civile nel Regno Unito, che ora ha una popolazione di 70 milioni di persone, potrebbe causare decine di migliaia di morti.   «Le società più instabili sono moderatamente omogenee», ha osservato in precedenza Betz, notando che i gruppi di maggioranza tradizionali sentono che il loro status è minacciato o sta per essere completamente sostituito e sono più propensi a lottare per mantenere il predominio.   Sebbene la ricerca abbia indicato che il Regno Unito è sulla buona strada per diventare un paese abitato da una minoranza bianca entro pochi decenni, Betz prevede che ciò non accadrà realmente perché un numero sufficiente di britannici nativi potrebbe trasferirsi per invertire la tendenza.   «Si potrebbe sostenere un’argomentazione del genere, ma credo che si tratti di fare troppe supposizioni sulla probabile reazione delle persone. Non credo che la società sia così inerte», ha detto il Betz, aggiungendo: «non credo che gli inglesi vogliano essere sfrattati dal proprio Paese… Credo che la gente lo rifiuterà. E la gente sta già percependo l’urgenza di agire per impedire la perdita di qualcosa a cui tiene molto».   Betz ha inoltre affermato che «l’esistenza di questa idea di Inghilterra… è seriamente in pericolo… come le persone reagiranno a questo è la questione. C’è un grave rischio che reagiscano in modi che ci porteranno fuori scala. Spero che ciò non accada, ma siamo in un momento molto pericoloso».

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Scuola, la tempesta sui nostri figli: dal terrore pandemico all’«educazione al consenso»

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Stiamo assistendo a una operazione, tanto patente quanto capillare, di rimozione e mistificazione pilotata della realtà con tutti i suoi esiti distruttivi. Va di conserva alla edificazione di un immaginario collettivo capace di riassorbire in una visione (in apparenza) coerente le rovine causate.

 

Un grande lavacro mediatico, insomma, che consente di depistare le responsabilità e mandare assolti i colpevoli, di cancellare tante vergogne contando sulla memoria corta dello spettatore passivo: quello stesso che canta in coro il ritornello dell’aggressore e dell’aggredito perché si beve sereno la storia che la storia del mondo inizia precisamente da lì, non un istante prima.

 

Ecco allora fioccare articoli e servizi su scala più o meno vasta i quali, strumentalizzando fatti e atti del vivere quotidiano, li distorcono per costruirci sopra casi esemplari e nuovi paradigmi: dal cilindro spuntano i nuovi totem da adorare, le nuove streghe da bruciare a favore di masse rimbambite chiamate a raccolta intorno a una metafisica prêt-à-porter fatta di pseudovalori da strapazzo, perché c’è pur bisogno di credere in qualcosa se questo qualcosa non è più un dio.

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Che l’operazione comporti l’effetto collaterale di stritolare persone per bene, o sacrificarne altre al monolite ideologico, pazienza. L’importante è non intralciare il flusso inebriante del progresso, tenere fede al copione e, in omaggio alla sua trama, lanciare progetti, costruire culti e altarini, inventare molte «educazioni» in grado di fabbricare ominidi di serie bravi a pappagallare a vita slogan di ordinanza.

 

Come sempre accade, i primi destinatari della fiction sono le nuove generazioni: del resto, i grandi laboratori a cielo aperto, come quello della pandemia, sono apparecchiati soprattutto per loro.

 

E come per magia si scopre d’improvviso che oggi i ragazzini sono quasi tutti stressati, sofferenti, fragilissimi. Vegetano, stanno male sia nel fisico sia nell’anima.

 

Giornaloni, giornaletti e rotocalchi emanano i bollettini di guerra dell’ultimo terribile contagio: parlano di impennata di suicidi e di atti di autolesionismo, di reparti di neuropsichiatria intasati, di sindromi post traumatiche dalle mille manifestazioni, di disturbi alimentari fuori controllo, di manie ossessivo-compulsive, di dipendenze, di distacco dalla realtà, di ansia e depressione, di difficoltà di socializzare, di frustrazione e incertezza verso il futuro, di disturbi del sonno, di aggressività, di solitudine siderale senza vie d’uscita, di psicofarmaci come se piovesse.

 

Dolori proteiformi e senza confini, e incapacità di esprimerli per incapacità di comunicare e quindi di compatire, ovvero di sciogliere il male interiore in un bacino un po’ più ampio del proprio cuore ferito.

 

In parallelo, si registra un crollo delle facoltà cognitive, espressive, logiche, speculative; della capacità di concentrazione, di memorizzazione, elaborazione, calcolo; l’inabilità diffusa a scrivere in modo intelligibile persino a se stessi, e in generale a interagire con i propri simili attraverso un linguaggio appena articolato; l’inettitudine a comprendere la propria lingua madre, coi suoi lemmi, la sua grammatica, la sua sintassi, e di analizzare un testo, e di afferrarne il senso.

 

Di fatto, mutismo e sordità sono diventate piaghe endemiche e ingravescenti: circostanza di cui la scuola che non è più scuola prende atto, compiacente.

 

Ora, una persona normale che abbia abitato questo disgraziato pianeta negli ultimi anni penserebbe subito che non poteva andare a finire diversamente per le cavie di una sperimentazione che ha voluto vedere l’effetto che fa isolare dei cuccioli d’uomo per un tempo infinito in proporzione alla loro età, terrorizzarli senza tregua, costringerli a obbedire a ordini demenziali cui i grandi obbedivano senza fiatare come soldatini sotto ipnosi (tipo sensi unici pedonali nei corridoi degli edifici, così come nelle vie della città; fogli di carta messi in quarantena, stanze di segregazione per uno sternuto; facce e voci deformate dagli schermi; palombari vaganti, distanze di sicurezza; occultamento dei volti, sterilizzazione di oggetti, di cibarie, di giardini e di spiagge; non hai diritto a un bicchier d’acqua, puoi bere solo in piedi e dopo le diciotto e quindici; fai una giravolta, falla un’altra volta, guarda in su, guarda in giù; e molto altro).

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E ancora, vedere l’effetto che fa impedire loro di giocare, di fare sport, di salire sull’autobus, di trovarsi (di assembrarsi), di sorridersi e di litigare, di correre e cascare e sporcarsi, di muoversi liberamente al chiuso e all’aperto, stando relegati in apnea nel loro fazzolettino di pavimento recintato e compulsivamente disinfettato, simpatica gabbietta per topolini domestici.

 

Vedere l’effetto che fa mostrare loro morti, imbustati dentro sacchetti neri, sparire nel nulla senza un addio, senza la pietà che ci ha insegnato Antigone agli albori di una civiltà dimenticata.

 

Infine, vedere l’effetto che fa ricattarli – loro, che manco si ammalavano di un raffreddore – per svuotare i magazzini di un farmaco sperimentale che si sapeva (quantomeno) inefficace: ti concedo un brandello di libertà vigilata, in cambio dell’ipoteca sul tuo corpo e sulla tua salute, corri a ritirarlo gratis allo hub più vicino, panino in omaggio. Insieme al distintivo di bravo cittadino da appuntarti al petto e sfoggiare in società, quella stessa che aveva elevato la delazione a valore civico supremo.

 

E sopra tutto questo inferno, una costante, frutto dell’addestramento coatto durato un paio d’anni di esercizio intensivo: fornire la carica perenne a una calamita invincibile che impone di restare appiccicati fissi a una scatoletta elettronica, unico tramite con l’altro da te nella «società senza contatto», unica valvola della pentola a pressione in cui ti hanno trasformato. Senza più giorno né notte, senza ritmi cicardiani, senza tocchi o aliti di vita.

 

La vita infatti era tossica; il primo comandamento, quello di scansarla. Vade retro, vita.

 

Qualcuno sano di mente poteva davvero pensare che i cuccioli d’uomo uscissero indenni dall’esperimento? Che a comando tornassero in forma, come un qualsiasi materiale elastico e comprimibile che riprende il suo spazio non appena liberato dalla morsa? Qualcuno può non vedere un nesso causale grande così tra l’esperimento condotto con tanta ferocia, e gli eventi dannosi che abbiamo oggi sotto gli occhi, per cui torme di espertoni si strappano i capelli?

 

A quanto pare, sì. Anche questo disastro – troppo imponente per essere taciuto – sono riusciti ad appenderlo al vuoto pneumatico dell’hic et nunc, recidendo ogni collegamento con il passato. A beneficio di tutti quanti, a ogni livello della piramide sociale, devono guadagnarsi prima l’oblio e poi l’impunità, e sono parecchi: aguzzini, carcerieri, delatori, sceriffi e sbirri improvvisati, psicopoliziotti, impegnati tutti a infierire sul proprio simile, specie se indifeso, persino sui bambini. Persino sui bambini. I volontari si arruolano a frotte.

 

Si capisce bene, allora, come sia altrettanto facile far evaporare il passato, anche recente, dalla mente collettiva, distratta su altri fronti di intrattenimento. Così, dopo aver scaricato per anni su spalle non ancora formate un peso emotivo ed esistenziale insostenibile, dopo aver organizzato la transumanza di massa nella dimensione straniante dell’artificio, giornali e TV ci raccontano adesso che a stressare i ragazzi è la scuola.

 

La scuola li rattrista, sì, ci dicono, perché è troppo esigente, vecchia e ingessata, poco amichevole, incapace di rendere gli scolari protagonisti della propria formazione. E quindi, è urgente che la scuola si aggiorni, si metta al passo con il progresso, si digitalizzi completamente; si faccia più inclusiva e ricca di attrazioni, assecondando l’indole dei suoi frequentatori che vanno divertiti e distratti perché così raggiungono il loro personale «successo formativo» e allora, finalmente, si autostimeranno.

 

Del resto, a cosa servono gli insegnanti, se non ad animare scolaresche annoiate e a gratificarle con tanti complimenti, ricchi premi e cotillons?

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Se i più giovani sono stressati, dunque, la colpa è di quegli insegnanti superstiti che ancora cercano di insegnare con rigore e serietà le proprie materie di studio, e con esse la vita. Costoro vanno sputati fuori da questo sistema «educativo» socio-assistenziale e pseudo-sanitario lanciato verso il tracollo di obiettivi e risultati, perché è l’allievo l’unità di misura di se stesso e, per non turbarlo, va coccolato nel suo status quo, dentro un bozzolo autoreferenziale inviolabile da chiunque eccetto che dallo psicoesperto.

 

E giù di psicologi e di psicopedagogisti, di psichiatri e di certificatori, che fanno affari d’oro per spianare a tutti la strada alla conquista di diplomi vuoti e luccicanti.

 

A nessuno passa per la testa che a distruggere questa generazione è stata proprio l’eclissi della scuola, che li ha completamente abbandonati, prima incarcerandoli nella loro cameretta, poi riaprendo le porte sottoforma di caserma a nonnismo libero, infine rimettendo in moto la macchina pedoburocratica come nulla fosse accaduto, e omettendo qualsiasi spiegazione dell’incredibile che è accaduto per davvero.

 

Manco delle scuse per il trattamento inflitto, per gli orrori perpetrati. Zero, come fosse solo una parentesi un po’ anomala da chiudere e dimenticare, e chi s’è visto s’è visto.

 

Così, schiere di ragazzini arrugginiti e inselvaggiti, disorientati e smarriti, contenitori viventi di ordigni inesplosi, sono tornati a condividere gli spazi fisici che per inerzia chiamiamo ancora scuola, ma sarebbe ora di trovare un altro nome. Dalla regia suggeriscono «ecosistema di apprendimento» (e però ci andrebbe spiegato quale apprendimento) o eduverso, che le sta già meglio perché non significa niente.

 

E siccome stanno tutti male, che si fa? Si elimina dal loro orizzonte ogni spinta al miglioramento e tutta la dimensione dell’impegno e dello sforzo, si personalizza il percorso di studi ritagliandolo sulla misura all’indole (immatura, per definizione) e ai limiti (presunti e provvisori, per definizione) individuati dallo scrutatore esperto; li si psicopedagogizza in serie; si mette loro in mano qualche giochino colorato dei colori dell’arcobaleno, alcune volte ancora sottoforma di vecchio libro, con tante immagini, poche parole e le poche parole ridotte a slogan; li si rieduca ai dogmi inventati a uso e consumo di una società morente: è stupendo che l’ultima trovata si chiami «educazione al consenso» (cioè imparare a dire sì) e serve a martellare nella testa degli scolari che i maschi in quanto maschi devono o castrarsi, o sparire, e comunque pentirsi di essere nati sbagliati.

 

Ma sono bellissimi anche i millemila corsi contro il bullismo, nella cui definizione entra qualsiasi cosa, dagli atti persecutori a uno scherzo innocente tra amici, di quelli che tante volte aiutano a crescere ma che bisogna imparare a reprimere per sempre. Non si può più scherzare, ragazzi, né prendersi in giro, perché l’occhiuto addetto antibullista vigila e punisce. Magari è quello stesso che pochi anni fa, con l’avallo dell’istituzione, bullizzava i ragazzini non marchiati di verde. Il bullo-antibullismo, sicofante dentro, è un altro capolavoro di questa temperie nata e cresciuta sotto il segno dell’assurdità.

 

Non dimentichiamoci infatti che era l’istituzione a discriminare gli scolari privi di lasciapassare, legittimando un trattamento differenziato tra chi era vaccinato e chi no. Che era l’istituzione, quindi, a permettere che fossero additati al pubblico ludibrio i pochi che non avevano bruciato il granello di incenso all’imperatore.

 

E che era l’allora ministro dell’istruzione ad affermare con sicumera che l’imposizione del bavaglio permanente a scuola rispondeva, più che a motivi sanitari – e infatti è dimostrato come fosse non solo inutile, ma dannoso, specialmente per i soggetti in crescita (e non ci voleva un genio a capire che tappare naso e bocca per ore con una pezza umida e sporca non è proprio un bagno di salute) – a esigenze «educative», perché serviva ad abituare i giovani alla «nuova normalità». Un addestramento su modello zootecnico, insomma.

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Ora che, davanti a una catastrofe di proporzioni mai viste, non si può non riconoscere la nocività della esposizione perpetua ai dispositivi digitali, e la dipendenza che generano – del resto sono progettati per quello –, ci si dà ai giochini delle tre carte mascherati dietro la logica del fatto compiuto: siccome la tecnologia non si può fermare, allora occorre educare i ragazzini all’«uso consapevole», sul presupposto che si debba sempre e comunque cavalcare il progresso.

 

Che è poi come dire, insegniamo l’uso consapevole del veleno, o della droga, o dei superalcolici. Avvelènati, drògati, ubriàcati, ma in modo consapevole, così tu sei spacciato, ma le coscienze degli altri profumate di bucato.

 

Oppure, l’altra novità: squilli di tromba ovunque per il divieto del telefonino in classe, e però via libera al tablet, cioè al telefonone; no allo smartphone, sì al megasmartphone. E che sia una megapresaingiro ce lo dice, oltre al buon senso minimale, anche l’ultimo prodotto commercializzato negli USA (che stanno sempre un passo avanti rispetto alle colonie): la tavoletta inerte con le fattezze dell’Ipad ma senza connessione, chiamata «metadone tecnologico», che va a ruba. Non è uno scherzo.

 

La verità è che, per frenare la corsa di questo treno impazzito a bordo del quale viaggiano i nostri figli a tutta velocità – che è partito ben prima della pandemia, ma che la pandemia ha accelerato in modo furibondo – ci sia una sola cosa e semplice da fare: restituire alla scuola il suo statuto, il suo senso e la sua dignità. E ai docenti la loro professione, che non è quella dell’animatore, dell’inserviente informatico o dell’assistente psicologico: è altro.

 

Oltre ad essere il primo luogo di aggregazione al di fuori della famiglia dove si sperimenta la socialità, dove si misura il proprio carattere nel confronto quotidiano con i propri pari e con i maestri, che pari non sono, la scuola possiede in esclusiva un compito fondamentale cui ha rovinosamente abdicato: quello di alfabetizzare e di trasmettere le conoscenze nelle materie disciplinari, che vanno studiate, imparate, capite, mettendo in campo le migliori risorse e gli sforzi necessari per farlo.

 

Albergano lì dentro, dentro quel sapere durevole e forte che ha resistito alla prova del tempo, i semi che producono frutto nel tragitto lungo della vita, perché non scivolano via alla prima pioggia della moda stagionale, delle idee effimere, del simil-pensiero usa e getta.

 

E la fatica fa parte del gioco e pretendere di toglierla di mezzo per raggiungere la pax scolastica e il «successo» a prescindere è una truffa ai danni degli studenti, perché così li si priva del gusto della conquista e si costruisce per loro un destino gramo da invertebrati, incapaci di affrontare ogni difficoltà, deprivati a priori del senso del sacrificio e dell’attitudine al combattimento, fluttuanti nell’eterno presente ipertecnologico come tante docili rotelline dell’ingranaggio che si muove al ritmo salmodiato dei mantra ipnotici mandati in filodiffusione.

 

Solo quelli dotati di una struttura spirituale e culturale robusta saranno in grado di resistere al potere fagocitante del meccanismo, e di padroneggiarlo. Saranno attrezzati per ragionare in autonomia senza restare ostaggio di narrazioni mendaci dettate dall’esterno. Sapranno comprendere dove stanno di casa le menzogne, per liberarsene. Avranno il privilegio di conoscere e assaporare la vita.

 

La scuola è uno spazio sacro, dove si impara e si cresce, e si impara a crescere (con licenza di cadere e di rialzarsi, di sbagliare e di correggersi senza essere etichettati da uno stupido algoritmo). Uno spazio, oggi abusivamente occupato, che va restituito ai suoi legittimi abitanti, bonificato dall’artificio, protetto dai predatori.

 

Non serve ammassare altri orpelli sopra un edificio già sfigurato e cadente. Serve una energica operazione di sgombero. Di purificazione.

 

Elisabetta Frezza

 

Articolo previamente apparso su Ricognizioni.

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Pensiero

La metamorfosi di Trump tra l’Iran e Israele: spietata, sanguinaria arte del deal

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Non a tutti è piaciuta quella grafica che Renovatio 21 ha fatto, e piazzato su magliette. Il profilo di Trump che si staglia sulla tenebra, e ti fissa con occhi di fuoco, ha inquietato qualcuno. Ci sono persone che ci hanno scritto per protestare. Altri hanno chiesto spiegazioni.   Subito ci siamo stupiti: riteniamo quel disegno particolarmente riuscito. L’artigiano che ci segue per le serigrafie la ha messa in esposizione come una delle sue massime opere, e in molti gli domandano come comperarla. Noi la guardiamo e pensiamo: in questa immagine c’è tutto.   Eppure no, taluni non capiscono, lasciandoci interdetti: è come se non vedessero il valore metafisico, metapolitico, metastorico a cui è assurta la figura di Donaldo. Di più: non possono vedere la cifra di determinazione, risoluzione, di giustizia che, infine, arriva – con una parola che ci fa rischiare di sembrare perfino evoliani, non realizzano l’uomo Trump come potenza.

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Ancora: vediamo che essi non ne percepiscono il carattere punitivo.   Nella tragica ora in cui il Medio Oriente si infiamma – e le fiamme sono, ha detto il direttore AIEA Rafael Grossi, radiattive – la metamorfosi di Trump a noi pare più chiara che mai. No, non è più il Trump-45, il presidente impolitico venuto dal business e dalla reality TV (con i quali, va ricordato, ha scalato, da outsider, la scena più ardua e medievale del mondo, Nuova York).   No. Lo abbiamo pensato subito, forse da qualche parte lo abbiamo pure scritto: The Donald è cambiato, molto. Doveva esservi chiaro almeno da quando giurò da presidente, quel 20 gennaio, senza – inedito totale, pure per lui stesso – toccare la Bibbia: un gesto enigmatico, ma pure, qualsiasi fosse l’intenzione, profondamente morale. Trump-47 è un’altra persona, un essere nuovo, trasformato.   Ad inizio aprile il Washington Post aveva scritto, citando un anonimo funzionario della Casa Bianca, che Trump era «at peak of not giving a fuck», cioè «al vertice del non fregarsene un cazzo». Un ultra-nichilismo funzionale al potere, una sorta di satori regale, di illuminazione definitiva del comando monarchico: uno status che pochi hanno raggiunto, e che francamente noi mai abbiamo davvero veduto.   Non crediamo che questa trance metapolitica sia stata raggiunta negli ultimi tempi. Era pienamente intuibile durante il primo attentato, quello che doveva fargli saltare la testa in mondovisione (perché la CNN aveva mandato tutte quelle telecamere per un comizio qualsiasi, in un Paesino della Virginia? Se lo chiedono in diversi). Una traiettoria spiegabile solo con la religione gli sfiora l’orecchio, linee di sangue gli rigano il volto, che diviene la riflessione perfetta della bandiera USA che garrisce sopra di lui. Lui si rialza, non banda agli agenti del Secret Service che devono portarlo via, alza al cielo il pugno, si rivolge al suo popolo, e gli chiede per tre volte di continuare a lottare. «Fight, fight, fight».   Era evidente: a quell’uomo non importa di morire. Con il cuore è decisamente altrove, in un luogo ideale che non conoscevamo e che non sappiamo bene descrivere. È oltre agli interessi individuali, e al contempo calato in modo totalizzante nel suo desiderio di comunione con il popolo, con il suo imperativo interiore di essere, prima che populista, popolare.   Credo di averlo già scritto: Mussolini è morto mentre scappava in Svizzera vestito da soldato tedesco. Hitler (in teoria, OK) si è suicidato nascosto in un bunker tra la puzza di piscio. Questo esemplare di leader sembra diverso.  
  Non è che lo abbiamo notato solo noi. Prendiamo Naomi Wolf: intellettuale proveniente dalla sinistra liberal (ebrea, studi oxoniani, un passato da abortista sfegatata), già collaboratrice dei Clinton, ora però redpillata nella comprensione del Vero, con indomito sforzo di analizzare la catastrofe pandemica già visibile, dice, nelle carte di Pfizer. Chiedere alla Wolf, che nel frattempo ha cominciato a comprendere verità geodemonologiche sul mondo moderno, di sostenere Trump era tantissimo. Tuttavia un giorno ha dovuto farlo – fu quando, a fine campagna elettorale era uscita la notizia per cui c’erano almeno cinque squadre di assassini, pure dotati di missili terra-aria, attivate per assassinare Trump. Lui di contro, twittava di cose ridicoli, provocando al solito qualcuno che gli stava antipatico. «Mi ci sono voluti anni a riconoscerlo, ma devo dirlo: tipo che sei figo».   Figo, cool: la parola significa anche «freddo». Capace di decisione; al comando della situazione.   È quello che sta mostrando, anche in modo non proprio edificante, in queste ore. Ha scritto, usando il maiuscolo, che i generali iraniani «hardliners», cioè le «teste calde» che si opponevano ai negoziati «sono tutti MORTI». Quello di Israele sembra proprio essere stato un decapitation strike. Un attacco che toglie di mezzo il centro di controllo di un sistema. Lui, piuttosto brutalmente, mostra che ciò è di suo giovamento – perché con evidenza il suo fine è il negoziato, l’arte del deal sulla quale ha costruito tutta la sua vita.   In pratica, Trump pare aver usato Israele per riportare gli ayatollah al tavolo, e alle sue condizioni.   Già qui c’è questa novità enorme: non è Israele che usa l’America, ma l’America che usa Israele. Scusate: anche qui, crediamo di mai aver veduto questa cosa. Cambio di paradigma metafisico.   Trump ha imparato la lezione. Renovatio 21 è una delle poche testate che aveva riportato le parole che mesi fa Trump aveva affidato ad una grande rivista americana, e forse pure ripetuto in altre occasioni: il generale Soleimani lo aveva fatto uccidere su pressioni di Netanyahu (come confermato anche da spie ebraiche), che alla fine però si era tirato indietro all’ultimo minuto.   «Ho avuto una brutta esperienza con Bibi», aveva detto nel maggio 2024 Trump. «È stato qualcosa che non ho mai dimenticato», aveva detto Trump a TIME, aggiungendo che l’incidente «mi ha mostrato qualcosa».   Non che la mossa gli sia costata nulla: lui, e tutta la sua famiglia, passeranno l’esistenza sperando che il Secret Service li scudi dalla vendetta iraniana, giurata perfino su video di computer grafica diffusi da canali ufficiali.    
  Oggi la faccenda è molto cambiata. Trump ha maltrattato Israele e il suo premier, al punto da suggerire, con l’idea bislacca di Gaza resa paradisiaco resort mediterraneo, l’idea che lo Stato Giudaico non avrà mai il controllo della striscia necessaria al compimento del disegno del «Grande Israele». Con evidenza, tuttavia, ha lasciato mano libera, intuendo una debolezza attuale attorno all’Iran.   La Russia e la Cina interverranno a favore di Teheran? Il potere dell’ayatollah sulla popolazione è così saldo? Sono calcoli che deve aver fatto, mentre diviene chiaro a cosa sia servito il viaggio in Arabia dello scorso mese, e quel lungo, denso discorso sulla fine della politica neocon – quindi, per paradosso, la fine della bava alla bocca contro l’Iran. A Riyadh, e negli altri regni del Golfo, Trump ha riprogrammato, deal dopo deal, l’asse del Medio Oriente, orientandolo più verso la Mecca che verso la Repubblica Islamica (che, fuori da regno dei Sauditi, tra i sunniti, godeva comunque di una presa non indifferente).

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Non possiamo sapere cosa accadrà. Il piano potrebbe non funzionare, i calcoli sulla tenuta di Khamenei, o sulla possibilità di tenere a freno lo Stato degli ebrei, potrebbero essere errati. La volontà negoziale messa in questo sforzo era partita nei primi giorni, quando dissero che aveva mandato Elon Musk a Nuova York a trattare con emissari di Teheran. Non molto pare essere stato ottenuto, e la situazione potrebbe ovviamente precipitare definitivamente – atomicamente.   Rimane che quello che stiamo vedendo è il Trump 2.0, il Donaldo scaturigine anni di pressione (con secoli di carcere minacciati dai tribunali) e di violenza, rigenerato nella lotta e nel sangue. È il re arrivato all’illuminazione oscura, al potere più enigmatico: Dark Maga Power.   Aveva scritto The Art of the Deal, l’arte di fare deal, affari. Come il suo cuore, tale arte è divenuta tenebrosa, spietata, perfino, potete dirlo, a tratti sanguinaria.   Non siamo certi che tutto questo sia bello da vedere, né – visto che ci sono di mezzo dei morti – bello. Ma mai avevamo testimoniato il potere politico utilizzato in questa tremenda purezza.   La bellezza – a volte triste, a volta tragica – che ha il castigo. Cioè quello oggi che tutti gli esseri umani rimasti tali nel mondo moderno devono chiedere al Cielo.   Roberto Dal Bosco

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