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La scuola e l’eclissi della parola. Intervento di Elisabetta Frezza al convegno presso la Camera dei Deputati

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Renovatio 21 pubblica in versione l’integrale l’intervento di Elisabetta Frezza al convegno dell’associazione Asimmetrie «La scuola artificiale. Età evolutiva ed evoluzione tecnologica» tenutosi presso la Camera dei Deputati il 10 luglio 2024 alla presenza del ministro Valditara.

 

Da qualche decennio a questa parte la scuola italiana è posseduta dal demone della innovazione: versa in uno stato di riforma permanente. È sovraccarica, ormai sfigurata, eppure chiunque passi dalle parti di quel ministero si sente in dovere di aggiungere la propria impronta senza chiedersi a quale τέλος [tèlos] essa concorra. Ammesso che un τέλος ci sia.

 

Si accenni solo a tre passaggi legislativi salienti, ex multis

 

  • nel 1997 l’autonomia scolastica ha aperto gli istituti al territorio e li ha incoraggiati ad avventurarsi in ogni genere di sperimentazione, creando per questa via un surreale clima di competizione mercatista tra le varie scuole; 

 

  • nel 2015 la cosiddetta «buona scuola», tra l’altro (tra molto altro), ha fatto delle innovazioni didattiche – qualunque fosse il loro risultato – una sorta di obbligo e un titolo per accedere alle premialità; 

 

  • nel 2019 la legge istitutiva della «nuova educazione civica» ha sfruttato quest’etichetta dal suono familiare e rassicurante per inondare l’orario curricolare di contenuti ad alto tasso ideologico (il piatto forte è l’Agenda 2030, nuovo libro sacro sui cui dogmi catechizzare, dall’asilo fino all’università, schiere di fedeli), contribuendo pesantemente a relegare la didattica delle discipline – già tanto sacrificata da attività estemporanee di ogni genere, spesso scadenti se non addirittura imbarazzanti – in uno spazio che si può a buon diritto definire residuale. 

 

Ormai fare scuola a scuola è diventata un’esperienza piuttosto eccezionale e non occorre spiegare come le continue distrazioni, anche senza entrare nel loro merito, producano l’effetto plurimo di: interrompere il ritmo didattico; immiserire i contenuti dell’insegnamento; disperdere l’attenzione in mille rivoli ciechi; contribuire alla interiorizzazione della superficialità come metodo di lavoro. 

 

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Così, lanciata alla rincorsa di magnifiche sorti e progressive, la scuola si è via via trasformata in altro da sé. Ha finito per rinunciare al suo compito specifico ed esclusivo, che è innanzitutto quello di alfabetizzare e quindi – attraverso la chiave di accesso del linguaggio – di trasmettere le conoscenze, con particolare riguardo a quelle che hanno resistito alla prova del tempo, agli invarianti; e di iniziare al sapere teoretico, che vuol dire afferrare le cause, elevarsi alle leggi, agli universali, che sono gli strumenti di comprensione della realtà. 

 

A farci caso, il modello a cui i riformatori nostrani si abbeverano parla un’altra lingua, parla inglese: skills, life long learning, cooperative learning, problem solving, peer education, gamification, job shadowing, etc. 

 

E infatti, la demolizione controllata del nostro sistema di istruzione, che aveva il grave difetto di funzionare a dovere, è avvenuta tramite l’importazione massiva dei pacchetti pedagogici anglosassoni, con tutto il loro repertorio di stilemi attraenti. Essi rappresentano una parte – non certo secondaria – di quel capillare processo di colonizzazione culturale che da tempo, in Italia, gioiosamente ci autoinfliggiamo.

 

Erano gli anni Settanta del Novecento, quando Elémire Zolla, avendo in mente proprio la pedagogia progressiva di John Dewey (definito come colui che «consigliò di aggiogare il maestro all’alunno») commentava che «gli italiani, come macilenti gatti di periferia, si ostinano a nutrirsi dei rifiuti altrui». 

 

In realtà il prodotto di importazione, presentatoci sotto il segno invincibile della innovazione, per paradosso è tutt’altro che nuovo: è vecchio di secoli. Non solo – paradosso su paradosso – si è pure dimostrato empiricamente fallimentare: la devastazione cognitiva e culturale delle scuole americane è una piaga non controvertibile.

 

La spiega con dovizia di particolari Eric Donald Hirsch nel suo saggio Le scuole di cui abbiamo bisogno e perché non le abbiamo, uscito in prima edizione nel ’96 in America e recentemente tradotto in italiano da Paolo di Remigio e Fausto Di Biase (edizioni Petite Plaisance). 

 

Il nostro legislatore quindi – o chi gli fa da scrittore ombra – continua ad attingere a una fonte tossica e a riscaldare una minestra già andata a male nel paese di origine.

 

Ma cosa contengono questi pacchetti? Sono plasmati su quell’impostazione pedagogica puerocentrica di stampo ludico-pratico e laboratoriale, che fa leva sul pragmatismo e sull’attivismo didattico, sul mito della personalizzazione e sul culto del benessere; e che, correlativamente, si nutre di un profondo pregiudizio anticognitivo, perché porta con sé l’avversione per le conoscenze teoriche, per i libri, per la scrittura, per la parola. 

 

La sua stella polare è il protagonismo dell’alunno, ritenuto capace di dare forma a se stesso (la base filosofica risale al mito dello stato di natura e del “buon selvaggio”, e della civiltà come struttura corruttrice dell’innocenza): un’idea comprensibilmente dotata di una particolare presa emotiva, tant’è che, grazie alla sua suggestione vischiosa, si è talmente incistata nella mentalità corrente da sembrare ormai inestirpabile e da impedire, come una lente deformata, di ritrovare il vero perché della scuola. 

 

Questo pregiudizio anticognitivo si sublima nella fede che l’ignoranza possa formare alunni creativi che pensano con le loro teste. Si tratta della fede che sta alla base della didattica per competenze: si crede che l’acquisizione di abilità cognitive (le famose skills) avvenga in assenza di cognizioni, vale a dire che si possa pensare criticamente un argomento senza conoscerlo. Quindi, si dovrebbe «imparare a imparare» senza imparare mai nulla (la metacognizione appesa nel vuoto cognitivo) e il senso critico nascerebbe per partenogenesi, confondendosi con l’esercizio di qualsiasi protervo vaniloquio.

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L’impeto digitale – scatenato dalla nuova superstizione che va sotto il nome di tecnolatria – è coerente con questo sistema di pensiero, dal quale è stato propiziato: la scuola 4.0 può essere ben vista come l’ultima declinazione, al passo con il progresso, della solita teoria pedagogica secondo cui il bambino, alla stregua di un cucciolo d’animale, svilupperebbe la sua mente spontaneamente e avrebbe bisogno soltanto di un ambiente attrezzato intorno a lui e di un inserviente al suo fianco.

 

La novità è che oggi questo ambiente ribattezzato «ecosistema di apprendimento» o «eduverso», o ambiente onlife (sic), tende ad abbandonare la presa sul mondo reale per popolarsi dei fantasmi di quello virtuale. E così la scuola si trasforma in una grande sala giochi in cui la tempesta di immagini sostituisce le parole, la scrittura, lo studio delle leggi della realtà. 

 

Osservata dall’altra parte (non del cliente ma del gestore), la scuola 4.0 si presenta come una distesa sterminata di materiale umano da scrutare, da sfruttare, da spolpare, da offrire in pasto alle banche dati e infine da assoggettare agli automatismi degli algoritmi delegati a predire i destini futuri dal loro impenetrabile ὀμϕαλός [onfalòs]

 

Ma, sempre da questa prospettiva puerocentrica, deriva anche dell’altro: deriva da un lato lo snaturamento della figura del docente; dall’altro l’ubriacatura dell’«utenza», cioè delle famiglie che usano del servizio che alla scuola compete. 

 

I docenti. Dovrebbero essere i promotori del sapere e invece, costretti a farsi satelliti dell’alunno e a inchinarsi alla sua singolarità sovrana, assumono il ruolo subalterno di assistenti, di animatori, di facilitatori, finiscono per degradarsi al dilettantismo psicologico e ora soprattutto informatico (il ministro Bianchi parlò apertis verbis di ri-addestramento digitale del corpo docente); mentre diventa irrilevante, paradossalmente quasi inopportuno, che conoscano bene la propria materia di insegnamento al fine di trasmetterne la sostanza, e l’amore.

 

In questo modo, fatalmente perdono autorevolezza e prestigio, vengono umiliati nella loro professionalità e marginalizzati in un contesto che non valorizza la preparazione, restano totalmente disarmati di fronte all’imbarbarimento dilagante. Nel tempo, questo trattamento li ha intimamente passivizzati.

 

I genitori. Si fanno abbagliare dagli effetti speciali esposti in vetrina (la vetrina si chiama PTOF e, grazie al regime di concorrenza di cui sopra, contiene quante più attrazioni possibili per sedurre la clientela, salire nell’indice di gradimento degli osservatori, accaparrare fondi). Alimentano così l’ipertrofia dei progetti inutili scordandosi dei fondamentali – a partire dal leggere, scrivere, far di conto – con tanti saluti al «diritto all’istruzione» dei propri figli.

 

La più parte di loro si accontenta del bel voto gonfiato, da ottenere senza fatica, senza stress e senza frustrazioni. Non comprendono – non solo loro per la verità – che la prodigalità valutativa, essendo una finzione, è non soltanto diseducativa, ma mortificante sia per il mittente sia per il destinatario.

 

Hanno recepito l’idea che la scuola debba essere ritagliata come un abito su misura addosso al loro figlio (peccato che questo cambi taglia ogni momento, perché cresce e matura, per fortuna). La personalizzazione viene spacciata urbi et orbi come un salto di qualità necessario, quando invece conduce da un lato alla paralisi didattica, dall’altro alla medicalizzazione delle fragilità – per cui qualsiasi ostacolo non è più qualcosa da superare, da vincere, per conquistare un traguardo, ma semplicemente qualcosa da rimuovere dal percorso

 

È chiaro che a queste condizioni il cosiddetto «successo formativo» non può che essere garantito. Ma a che prezzo? Al prezzo di abbassare sempre più obiettivi e risultati e di rinchiudere l’alunno nel proprio bozzolo abbandonandolo a se stesso. Con il fenomenale risultato che le sue fragilità si cronicizzeranno (ora per giunta si fisseranno algoritmicamente nella memoria indelebile delle banche dati) e le sue potenzialità, non stimolate, si deprimeranno sul nascere. 

 

È questo, oltretutto, il modo migliore – il più subdolo: si chiama «inclusione» – per rompere l’ascensore sociale, cioè per far perdere alla scuola la sua funzione essenziale di assicurare la mobilità sociale. Perché l’egualitarismo dell’ignoranza interno alla scuola si traduce fatalmente al suo esterno in differenziazione classista (Gramsci, che ci aveva visto molto lungo, parlava al proposito di divisione in caste) e lo status della famiglia di provenienza diventa più decisivo che mai per il destino degli alunni. 

 

Non sono, queste, considerazioni astratte. Chi ha a che fare con l’ambiente scolastico, sa come sia sempre più frequente che gli studenti approdino alle medie, o anche alle superiori, senza saper impugnare la penna e prendere appunti; senza riuscire a mantenere l’attenzione se non per un tempo molto fugace; senza essere in grado di afferrare periodi complessi ma, ancor prima, senza comprendere il significato delle parole che eccedano un corredo sempre più scarno. Sopravvive un solo modo verbale, l’indicativo, con giusto un paio di tempi. 

 

L’italiano della nostra tradizione letteraria sta diventando di fatto una lingua straniera: è sempre meno accessibile, a tratti del tutto incomprensibile. E non ci si riferisce all’italiano di Dante o di Machiavelli, ma a quello di Pascoli, di d’Annunzio, di Manzoni (lo lamentava, ancora negli anni ’80 del Novecento, Alfonso Traina, e chissà cosa direbbe ora). 

 

Queste debolezze strutturali, diffuse e ingravescenti, ostacolano la produzione orale e scritta, e condannano troppo spesso gli alunni al silenzio e alla pagina bianca. Con tutta la frustrazione che ne deriva.

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Lungo la china percorsa da decenni, il laboratorio della pandemia ha segnato indubbiamente un cambio di passo. Dopo l’isolamento forzato e l’esperienza devastante della DAD, alle voragini cognitive si è sommato un pregiudizio psicofisico generalizzato: gli studenti sono rientrati in aula più arrugginiti e inselvaggiti che mai, regrediti, profondamente provati dalla deformazione protratta dei ritmi della loro quotidianità, dalla immersione telematica in apnea, dalla prolungata desuetudine allo studio, dalla espropriazione di quel contesto vitale, fisico e partecipato, che la classe costituisce in modo infungibile.

 

Il rapporto UNESCO del 2023 che esamina gli «effetti avversi» della chiusura delle scuole e dell’uso assorbente delle tecnologie educative si intitola significativamente An EdTech tragedy.

 

Insomma, la cattività ha fatto da detonatore a problemi preesistenti. Ma l’esperimento è servito per incrementare, normalizzare e legittimare l’invasione selvaggia del digitale dentro un luogo che, all’opposto, avrebbe dovuto esserne preservato e semmai bonificato. Subito dopo la parentesi emergenziale, le scuole sono state inondate dei soldi del PNRR da spendere in materiale tecnologico (peraltro soggetto a rapidissima obsolescenza) in ossequio a ferree condizionalità e a una tabella di marcia incalzante – la fretta, si sa, è un espediente impareggiabile per azzerare il tempo della riflessione.

 

Dal canto loro, i più giovani hanno guadagnato un alibi istituzionale per avallare la dipendenza dal dispositivo informatico, e pazienza se questo funzioni anche da idrovora di informazioni personali, da braccialetto elettronico, da profilatore, da spacciatore continuo di spazzatura fluttuante nell’etere. 

 

Non occorrono certo studi scientifici particolari – per quanto ce ne siano a bizzeffe, e siano dirimenti – per capire ciò che è autoevidente: ovvero che le funzioni, sia fisiche sia cerebrali, appaltate precocemente a una protesi, peraltro così potente, o sono inibite a priori, oppure si atrofizzano. Peccato che si tratti di funzioni non marginali, ma letteralmente fondanti. 

 

Se già da tempo i libri di testo (ciò che ne rimane) sono sempre più zeppi di immagini (oltre che di errori) e vuoti di parole, e le poche parole sono ridotte a slogan, ora vengono sovente sostituiti dai tablet, e la penna dalla tastiera. Si perdono l’abitudine alla lettura e l’abilità della scrittura, che costituiscono la base ideale e materiale di tutta attività scolastica.

 

Non è un caso che la scrittura, insieme alla grammatica e alle lingue dotte, sia sempre stata fonte di grave imbarazzo per la pedagogia progressiva: i suoi adepti, incantati dalla modalità di apprendimento del primo linguaggio orale (poiché è vero che il bambino impara a proferire le sue prime parole spontaneamente per imitazione), restano intrappolati nell’equivoco che il linguaggio tout court si apprenda spontaneamente, per istinto e senza fatica.

 

Non è così. Già gli antichi avevano capito come il linguaggio umano si dispieghi su due livelli: quello del lessico, cioè il sistema di segni; e quello del discorso, il λόγος [logos]. I γράμματα [gràmmata] –le lettere, ciò che è scritto) sono la struttura elementare, atomica, del linguaggio, il suo elemento indivisibile: stanno dentro la voce – ἐν τῇ ϕων (en té phonè) e rendono la voce significante, intellegibile, appunto in quanto scrivibile. 

 

La scrittura è dunque un atto consapevole e volontario, che richiede esercizio, e che man mano libera il linguaggio dagli errori legati all’imitazione espandendo la sua orbita lessicale e sintattica. 

 

Oggi l’arte dello scrivere a mano – in particolare della scrittura corsiva – non è più coltivata. Insieme alla manualità fine, viene così inibita tutta la vasta gamma di attitudini che si sviluppa esercitandola, a partire dalla memoria – in russo si dice рука помнит [ruka pomnit], «la mano ricorda», per sottolineare come la mente si appropri del concetto anche attraverso il corpo, attraverso la memoria muscolare che passa per la mano. Tra l’altro, la grafia è un connotato unico e distintivo del suo autore e il toglierla di mezzo a scuola rappresenta una via maestra verso la spersonalizzazione e l’omologazione. 

 

A ben vedere, la scrittura è uno degli elementi in cui si radica la distinzione tra uomo e animale. L’argomento è stato approfondito dal prof. Agamben nel suo recente saggio La voce umana (Edizioni Quodlibet, 2023). Anche l’animale, infatti, possiede un linguaggio. Ma il linguaggio umano, a differenza di quello animale, non è un mero flusso di suoni.

 

Esso consta dell’elemento costitutivo della grafia, che lo sposta da un piano sensoriale a un altro: dal binomio voce-orecchio, a quello mano-occhio. Permette di «vedere la voce», di leggerla. Più in generale, permette di oggettivare la lingua, di articolarla e, quindi, di dominarla. Separandola da sé, l’uomo ha fatto della sua lingua uno straordinario strumento di conoscenza, proprio perché con lo scritto può lasciare traccia di sé: può fissare il suo messaggio e, fissandolo, può tramandarlo.

 

Alla luce di questi pur sommari rilievi, non si può non pensare a quali ricadute abbia il togliere di mezzo a scuola il magistero e l’esperienza della scrittura, la consuetudine col segno e con il processo di astrazione che al segno è collegato; e l’esercizio della parola, che è simbolo – da συμβάλλω [symbàllo], «unisco» – , ciò che appunto unisce l’uomo sia alla cosa significata, sia ai suoi simili coi quali la condivide.

 

Il danno che si causa negando tutto questo si misura anche se si considera come tanto per l’apprendimento della lingua materna quanto per quello del linguaggio matematico (è dimostrato chei due sono intimamente correlati) esista una finestra temporale di opportunità, un periodo dentro il quale la natura ha posto una particolare sensibilità a fissare i segni e i suoni, ovvero le parole e la musicalità della lingua, a stamparli nella memoria. Passata questa fase, diventa difficile recuperare il terreno perduto.

 

E ancora, a proposito di lingua madre – e della acquisizione graduale della capacità di dominarla, di modularla, di distinguerne i diversi registri, di scoprire in ogni lemma uno scrigno di senso e di saperci mettere mano –, si pensi per contrasto alla moda del CLIL (che consiste nell’insegnamento in inglese delle materie diverse dall’inglese), una metodologia introdotta dalla «buona scuola» e oggi spinta con valanghe di denaro dal PNRR insieme all’alluvione digitale. Essa rappresenta uno straordinario veicolo di erosione della nostra lingua (e della civiltà che vive dentro la sua lingua) e un micidiale strumento di colonizzazione linguistica: costituisce un avallo alla superficialità e approssimazione espositiva e, di riflesso, contenutistica. È la rivincita del maccheronismo.

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Si diceva anche del fattore tempo, nel senso che ogni tipo di apprendimento ha il suo momento ideale. Ma non solo. Ogni apprendimento richiede un congruo tempo di assimilazione: la strada lenta e paziente della formazione non ammette troppe scorciatoie. Sempre per contrasto, si pensi allora all’altra moda della riduzione a quattro anni delle scuole superiori, come se ciò che si è sempre studiato in cinque anni, integrandosi peraltro a un percorso di crescita e maturazione complessive, possa essere strizzato e ingurgitato in quattro. Un po’ come la storia del letto di Procuste. 

 

C’è un simpatico passaggio di Proclo, che è la fonte principale su cui si fonda la storiografia di Euclide: è Proclo a collocare Euclide al tempo del primo Tolomeo e a dirci che fu discepolo di seconda generazione di Platone. Egli, nel suo Commento a Euclide (II, 68) scrive: «…si racconta che Tolomeo una volta gli chiese (chiese a Euclide, ndr) se non ci fosse una via più breve degli Elementi per apprendere la geometria; ed egli rispose che per la geometria non esistevano vie fatte per i re». 

 

Anche la matematica è un linguaggio che si nutre di segni, di scrittura, di parole, di astrazione. 

 

Oggi l’enfasi sugli STEM implica, e allo stesso tempo induce, una contrapposizione del tutto pretestuosa tra materie scientifiche e materie umanistiche; nell’orizzonte pedagogico asfittico di cui si è detto finora, la matematica, la fisica e le scienze sono degradate a mera pratica laboratoriale e sottratte all’astrazione e alla teoria; quando invece – non meno della filologia o della storia – sono anch’esse forme del contegno teoretico.

 

Fausto Di Biase, che è un matematico, spiega: «Avere abbandonato lo studio serio della geometria euclidea e avere giovani immersi nella dimensione puramente visuale a discapito di quella simbolica e verbale, a discapito in particolare del ragionamento ipotetico deduttivo che esige il rigore della dimostrazione, ecco, tutto questo già significa essere “anti-matematici”». 

 

Abolendo la prospettiva storica dei saperi, si recidono le radici, indissolubilmente intrecciate, della matematica e della filosofia, delle scienze, dell’arte e della letteratura; radici che affondano nello stesso humus, fertile e geniale, nel quale vissero Pitagora, Anassimandro, Platone, Euclide, Archimede.

 

Esiste quindi un legame inscindibile tra linguaggio e pensiero, tra categorie grammaticali e categorie logico-filosofiche. La stessa matematica, come si è visto, è impensabile al di fuori del linguaggio e di categorie logico-filosofiche. E le nostre strutture grammaticali – sempre per via di quelle ascendenze – riprendono la terminologia aristotelica: per noi, cioè, l’alfabeto del pensiero sono le categorie della lingua greca. 

 

Non è un caso che da tempo si cerchi di uccidere il liceo classico, dipinto come una sorta di monumento all’inutilità da svecchiare e professionalizzare con curvature fantasiose e altre improbabili trovate. Ce la faranno, probabilmente, ad ammazzarlo. Il colpo di grazia sarà inferto dall’orientamento vincolante, prossima barbara frontiera, semplicemente perché non vi si orienterà più nessuno, e così morirà per asfissia. 

 

Perché sarebbe un delitto? Perché il liceo classico possiede l’esclusiva dello studio della lingua greca, chiave di accesso a un deposito di pensiero e di sapere irrinunciabile. Al miracolo compiuto dai greci noi dobbiamo non soltanto modelli letterari eterni, ma anche la matematica sistematizzata da Euclide, la scienza della natura dell’epoca l’ellenistica, la filosofia di Platone e di Aristotele. Senza contare che oggi, nemmeno ce ne rendiamo conto ma nel linguaggio quotidiano parliamo greco (oltre che latino) e saper risalire all’etimo delle parole è ciò che permette di usarle comprendendo cosa davvero le abita – ἔτυμος [ètymos] significa «vero, reale».

 

Un esempio tra gli innumeri che si potrebbero fare, giusto per rimanere in tema: il ramo della scienza che si occupa dello studio e della fabbricazione degli strumenti magici capaci di scimmiottare alcune funzioni del cervello umano, è detto «cibernetica». Il κυβερνήτης [kybernètes] è il timoniere. La κυβερνητική τέχνη [kybernetiché tèchne] è l’arte di governare la nave.

 

È il greco a dirci che abbiamo a che fare con un fenomeno di sostituzione al timone della nostra nave: che stiamo cedendo questo timone a una guida aliena, meccanica, che erode la nostra libertà di decidere la rotta, intacca il nostro libero arbitrio, orienta e condiziona la nostra vita nella logica di un controllo sempre più penetrante e pervasivo. 

 

Ecco perché il primo dei servizi che la scuola dovrebbe onorare, a maggior ragione di fronte all’irruzione di tecnologie tanto sofisticate e invadenti (di fronte al sempre più aggressivo non-pensiero algoritmico), è proprio quello di coltivare il linguaggio, chiave di accesso a un patrimonio inestimabile (e indisponibile) di scienza, arte, letteratura, che non va certo ascritto semplicisticamente alla categoria del passato, bensì a quella del durevole, dell’eterno. 

 

Senza la parola infatti non c’è comunicazione, col suo valore catartico: sapersi esprimere e saper comprendere gli altri è ciò che permette di uscire dal proprio guscio autoreferenziale superando la limitatezza e l’istintività della propria esperienza contingente. 

 

Ma, prima ancora, senza la parola non c’è ragionamento. Nello sforzo di parlare, di leggere, di scrivere, cova il seme della libertà – dove libertà è il sapersi emancipare da visioni settarie e parziali, imposte ab extra, per imparare ad analizzare e interpretare autonomamente la realtà. 

 

Oggi, al contrario, la scuola fornisce contenuti ideologici preconfezionati, oltretutto prescrittivi: tende a imporre stili di vita e modi di pensare conformi, impartisce lezioncine morali sottoforma di educazioni omologate. Si fa ripetitore dei media, appropriandosi degli stessi slogan, della stessa iconografia, degli stessi codici corrivi. Così, oltre a svuotarsi dei contenuti fondamentali, imbocca una preoccupante deriva autoritaria.

 

Solo recuperando la sua sostanza culturale attraverso l’uso della parola vera, della parola che mantiene la presa sulla realtà che designa (e che è il contrario esatto della barbarie degli slogan), la scuola può tornare a essere vivaio e palestra di libertà, e può restituire ai più giovani, insieme alla cognizione della realtà e insieme al senso delle dimensioni che servono a prendere le misure della realtà – comprese l’altezza, la profondità, la distanza – anche una solidità interiore andata quasi completamente distrutta. Perché, al contrario di ciò che affermano tanti melensi luoghi comuni, l’incapacità della scuola di abituare i giovani a un lavoro impegnativo e sensato esaspera la loro fragilità psicologica.


Il professor Agamben, in un suo articolo del 2023 (intitolato Virgole e fiamme), scrisse tra l’altro: «Gli uomini hanno nel linguaggio la loro dimora vitale e se pensano e agiscono male, è perché è innanzitutto viziato il rapporto con la loro lingua. Noi viviamo da tempo in una lingua impoverita e devastata, […] ridotta a un piccolo numero di frasi fatte; il vocabolario non è mai stato così stretto e consunto, il frasario dei media impone ovunque la sua miserabile norma, nelle aule universitarie si tengono lezioni in cattivo inglese su Dante: come pretendere in simili condizioni che qualcuno riesca a formulare un pensiero corretto e ad agire in conseguenza con probità e avvedutezza? Nemmeno stupisce che chi maneggia una simile lingua abbia perso ogni consapevolezza del rapporto tra lingua e verità e creda pertanto di poter usare secondo il suo tristo profitto parole che non corrispondono più ad alcuna realtà…».

 

Infine, non si può non citare l’attacco del Vangelo di San Giovanni: «Ἐν ἀρχῇ ἦν ὁ λόγος, καὶ ὁ λόγος ἦν πρὸς τὸν θεόν, καὶ θεὸς ἦν ὁ λόγος…» («In principio era il Logos, ed il Logos era presso Dio, ed il Logos era Dio…»).

 

E più avanti: «…Καὶ ὁ λόγος σὰρξ ἐγένετο καὶ ἐσκήνωσεν ἐν ἡμῖν…» («e il Logos si fece carne, e venne ad abitare (lett: piantò la sua tenda) in mezzo a noi…». 

 

Per dire che la profondità di quanto sta accadendo sotto i nostri occhi – qualcosa di clamorosamente sottostimato e colpevolmente non indagato – è tale da intaccare il nucleo duro della natura dell’uomo, la cifra stessa dell’umano. 

 

Ecco perché non possiamo rassegnarci alla sostituzione alla guida della nostra nave, ma abbiamo il dovere assoluto di attrezzarci, e di attrezzare chi ci succede, per restare ciberneti di noi stessi e custodire il fuoco – che è il logos, la parola, il simbolo. 

 

I nostri figli, al traino della macchina e immersi nel fumo degli slogan incantatori, rischiano di perdere definitivamente l’accesso al tesoro sedimentato lungo un passato grande e maestro. Ma solo da qui può scaturire un futuro dove ancora brillino la luce della conoscenza e la forza della ragione.

 

Per elevare ad maiora, verso cose più grandi, chi avrà l’onore e l’onere di viverlo.

 

Elisabetta Frezza

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Cosa può aver capito Marco Travaglio dell’era Trump?

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La scorsa settimana il giornalista Marco Travaglio ha pubblicato un corsivo sui primi giorni dell’amministrazione Trump. Il pezzo è circolato in tutta l’infosfera dissidente, specie nei canali dei goscisti prestati temporaneamente all’allarme pandemico – Travaglio qui sembra diventato un idolo, e pazienza se stava con il governo dei lockdown.   «Il bar di Guerre stellari che chiamiamo Amministrazione Trump fa pensare a una caricaturale pena del contrappasso per tutti gli eccessi e gli errori di chi l’ha preceduta». La citazione del celeberrimo Cantina bar del pianeta Tatooine – insieme di creature da tutto l’universo con in sottofondo un motivetto irresistibile – pare in realtà un insulto: perché mai dovremmo definire il gruppo attorno a Donald – Musk, Kennedy, la Gabbard e pure Hegseth, Homan, la Noem – come un carnevale di mostri spaziali?   Fa niente: probabilmente bisogna sentirsi superiori, per qualche ragione: del resto Travaglio era quello che sostenne il governo pandemico-piddino di Giuseppe Conte, con Di Maio, Speranza, Azzolina, Bonafede. Ben altro livello.

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Travaglio vuole essere ricco di ironia ed erudizione, per cui parte la citazione dell’Alighieri: «nell’Inferno di Dante, gli ignavi che per tutta la vita ignorarono ogni ideale sono condannati post mortem a inseguire un’insegna qualunque punzecchiati da insetti e mosconi. Gli indovini che predicevano il futuro camminano a ritroso col collo torto. (…). Gli adulatori sono frustati sulle chiappe da diavoli e immersi fino alla punta dei capelli in un lago di sterco: avendo leccato culi per tutta la vita, sono dannati a sguazzare nel loro prodotto tipico in eterno» scrive il giornalista che fu con Montanelli, Scalfari, Grillo e Giuseppi.   Poi parte la spiega con ditino alzato: «ecco: Trump e la sua ciurma sembrano fatti apposta per smascherare le ipocrisie del fighettismo “democratico”, politicamente corretto, woke e finto buono».   Ecco, il senso politico, metapolitico, storico, metastorico di Trump è questo: vendetta vera contro i «fighetti democratici»: non quello che qui abbiamo definito castigo e catastrofe (la liberazione del «Donald Kraken»).   Non lo smantellamento del Deep State, che sta scomparendo sotto i nostri occhi, come visibile con USAID (il braccio di CIA e dipartimento di Stato per i lavori laidi).   Non il riattuarsi della geopolitica ottocentesca del Destino Manifesto, la dottrina Monroe che torna sotto steroidi, con riallineamento assoluto dell’assetto globale che stiamo iniziando a testimoniare. Non un evento immenso, epocale, incredibile sotto ogni punto di vista: prigionieri politici e pro-life liberati, presidenti di Paesi limitrofi (Colombia, Canada, Messico, Panama, VenezuelaDanimarca).   L’arrivo di Trump, dopo persecuzione giudiziaria e terrorista, non è punto politicamente, umanamente e – – spiritualmente apicale del XXI secolo.   Maddeché: il senso dell’era Trump è dare addosso ai i «fighetti democratici», i quali peraltro sostenevano materialmente il tanto amato governo Conte (il tizio che va alle manifestazioni massoniche), che con la fighetteria dem ha inflitto alla popolazione la clausura e una terapia genica sperimentale che ha massacrato quantità di cittadini.

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Con la prosa che trasuda quel compiacimento che crediamo di aver già veduto in passato, il Travaglio ne ha ancora: «da più scandalo Musk fatto come una zucchina per lo sgangherato saluto romano e gli spot deliranti all’AfD che tutti i golpe fascisti sostenuti dagli USA in Europa, Centro e Sudamerica» scrive, arruolando Elone ad Acca Laurentia (cioè, bevendosi la storiella della propaganda mainstream) e disprezzando l’endorsement ad Alternativa per la Germania, che pare di capire non gli piace.   Poi ecco che parla degli «stragisti neri italiani coperti dalla CIA e dai suoi derivati». Quelli rossi no? Vabbè, sono quisquilie. (No?)   «Poi c’è il contrappasso sanitario, che ci precipita da un estremo (le censure sugli effetti avversi dei vaccini) all’altro (un no-vax alla Sanità e gli USA fuori dall’OMS»). Non riusciamo a capire a sentire se vi sia una nota negativa sull’«estremismo» di Kennedy (definito «no-vax») alla DHS e dell’uscita dall’OMS. Fare la cosa giusta è fare qualcosa di «estremo»? Il Marco non si spiega benissimo, ma deve pur far circolare il pensierino con stile.   Infine un discorso di non facile compressione sul «contrappasso sulle guerre: prima fomentate e sdoganate come acqua fresca, ora prossime alla fine a ogni costo, col trionfo del più forte e le zone d’influenza (non più solo per gli USA, anche per le altre potenze)». Anche qui, c’è qualcosa di male nel far finire le guerre, pure «ad ogni costo»? C’è qualcosa di sbagliato, innaturale, riguardo le «zone di influenza»? (L’Italia ne avrebbe diverse, ma alcune ci sono state soffiate via tutte dai nemici del nemico di Travaglio, al quale arriveremo tra un minuto)   «Se il trumpismo ha un senso, è solo come espiazione» è l’amara conclusione del giornalista.   Capito? L’era Trump non è cambiamento, «rivoluzione del senso comune» (definizione del discorso del giuramento), non è palingenesi, rigenerazione. Non è quell’insieme spettacolare di cose che stiamo vedendo, e che continueranno per chissà quanto. È un’«espiazione».   Eccerto: Trump è venuto acciocché i democratici indossino un saio di iuta e si cospargano il capo di cenere. Deve essere un’immagine che risuona in Travaglio, che magari immagina anche una simil-suora che accompagna la loro marcia con il campanello ripetendo la parola «shame», vergogna.   A questo punto, ci chiediamo con sincerità: ma di Trump, ma del mondo, cosa può capire l’uomo che ha passato la vita ad attaccare Silvio Berlusconi?   Perché, davvero, ricordiamoci di chi si parla: un uomo cha a Berlusconi e alla sua corte ha dedicato, alla pari dei giudici, inchieste infuocate, trasmissioni TV al vetriolo, libri muriatici, la vena che per lustri gli si tappava dalla rabbia e lo sdegno in una lotta senza quartiere contro il miliardario ridens di Arcore, usurpatore del candore della Repubblica Italiana, dove, eccerto, non vi è nessuno Stato profondo, nessun interesse oligarchico, nessun mostro – altro che Star Wars – a cui Silvio ha pestato i piedi materializzandosi sulla scena nel 1994.   Diciamolo brevemente a Travaglio: mentre il giornalista lo attaccava con decenni di bava alla bocca, Silvio tesseva i rapporti con la Russia tracciando i lineamenti della nuova Eurasia: dietro all’amicizia (vera) con lo zar, vi era non solo l’export delle nostre imprese che decollava verso Est, ma anche contratti di fornitura di energia a costo vantaggioso, collaborazioni nell’aerospazio, costruzione di infrastrutture fondamentali per il bicontinente. Tutte cose che – puf! – sono, dolorosamente, sparite.   Mentre Travaglio trovava ogni angolo per aggredire il più grande statista italiano del XXI secolo (avete un altro nome? Aspetto…) questo aveva plasmato un rapporto molto proficuo – anche qui: energia, infrastrutture, sicurezza con la Libia, che tornava di fatto ad essere nella nostra «zona d’influenza». Anche qui: puf.   Questi sono solo alcuni dei motivi per cui il dipartimento di Stato e con probabilità la CIA hanno preso di mira, da subito, Berlusconi, ottenendone la cacciata solo dopo decadi di coriacea resistenza.   Proprio così: i nemici neanche tanto occulti di Berlusconi erano quelli che oggi Travaglio vorrebbe criticare, senza che gli venga in mente che essi stavano esattamente dalla sua parte nella battaglia antiberlusconica. Mica parliamo sono di spie e complotti: i «fighetti dem» il Marco dovrebbe ricordarseli, visto che probabilmente proprio in odium Silvii era stato imbarcato su Repubblica, la testata che si vorrebbe dei fighetti, ma che in realtà è più una cosa di oligarchi e professori delle scuole medie superiori.   Non ci aspettiamo, dunque, nessuna profondità dalle analisi di Travaglio su Trump, che è un Berlusconi che ce l’ha fatta, una macchina ad alta energia sopravvissuta ad attacchi furiosi di giornali, magistrati e perfino ad attentati. La storia di Trump, che innegabilmente segue quel solco, ci porta molte oltre Silvio: la resistenza, in questo caso, è stata vinta del tutto, con l’uomo che può agire senza più preoccuparsi degli agenti dello status quo.

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Un’ultima cosa: quando nel suo pezzo Travaglio parla di trame americane in Europa, ci siamo chiesti di tutte quelle voci su certi magistrati che magari lui ha conosciuto. O anche su certi leader politici, con cui pure ha diviso qualche palco.   Quando invece la scena la condivise con Silvio, fu grande spettacolo.   Ci appelliamo a questa sequenza, soave ed immortale, per espiare l’espiabile.     Vai Silvio, spazza quella sedia. Ora Donaldo spazza tutto il mondo.   Altro che fighetti.   Roberto Dal Bosco

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Pensiero

Controrivoluzione di Trump contro la tirannide del Nuovo Ordine Mondiale: mons. Viganò, lettera ai cattolici degli USA

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Renovatio 21 riceve e pubblica questo testo dell’arcivescovo Carlo Maria Viganò. Alcuni link sono stati introdotti da Renovatio 21 a fine di spiegazione. Le opinioni degli scritti pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

 

CONTRA SPIRITUALIA NEQUITIÆ

Lettera dell’Arcivescovo Carlo Maria Viganò già Nunzio Apostolico negli Stati Uniti d’America ai Cattolici Americani

 

Quoniam non est nobis colluctatio

 adversus carnem et sanguinem, 

sed adversus principes, et potestates, 

adversus mundi rectores tenebrarum harum, 

contra spiritualia nequitiæ, 

in cælestibus.

Eph 6, 12

 

Il recente insediamento del Presidente Donald J. Trump, dopo la vittoria alle Elezioni Presidenziali, costituisce un motivo di grande speranza per ogni Cattolico americano, ma anche per tutti quei Cattolici che nelle Nazioni occidentali, oggi soggette al golpe globalista, sono consapevoli della necessità – e della possibilità concreta – di ribellarsi alla tirannide del Nuovo Ordine Mondiale, con l’aiuto di Dio, prima che sia troppo tardi.

 

Ciò che il deep state ha impedito con la frode elettorale nel 2020, si è oggi realizzato: per la prima volta dopo anni di follia woke, un Presidente degli Stati Uniti può realizzare il programma per il quale è stato eletto, ripristinando quei principi della Legge naturale che sono alla base del vivere civile e di una società ben ordinata.

 

È la rivoluzione, o più propriamente la controrivoluzione del buon senso

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Il conflitto di interessi degli oppositori di Trump

Ma se i Cristiani e tutte le persone di buona volontà sembrano quasi tirare un sospiro di sollievo nel vedersi concretizzare giorno dopo giorno le promesse elettorali – ad iniziare dall’abolizione dell’indottrinamento LGBTQ+ e gender nelle scuole – non deve meravigliare che l’elezione di Donald Trump rappresenti per molti altri una vera e propria sciagura.

 

Tra questi vi sono certamente personaggi dalla condotta più che discutibile – esponenti delle lobby farmaceutiche, alimentari e militari, magnati dell’alta finanza o di organizzazioni internazionali – che hanno tratto e traggono tutt’ora un vantaggio in termini di potere e di denaro dall’ideologia woke, dall’Agenda 2030, dal Net Zero, dalle pandemie, dalle smart cities e dall’immigrazione incontrollata. 

 

Personaggi che nessuno ha eletto, e che non hanno alcun titolo per interferire nel governo delle Nazioni se non il potere ricattatorio sui loro servi e la corruzione dei loro complici, hanno creato delle false emergenze – sanitarie, belliche, economiche, climatiche, sociali – per poter proporre le loro soluzioni, basate su false premesse.

 

Molti di voi si sono resi conto dell’incongruenza delle risposte che governi e organismi internazionali davano a determinati eventi: ad esempio, alla pretesa relazione causale tra la percentuale di anidride carbonica nell’atmosfera e il presunto riscaldamento globale (falsa premessa) e alla conseguente necessità di ridurne la presenza nell’atmosfera (falso obbiettivo) si applicano misure draconiane nei Paesi occidentali, per diminuire l’immissione di CO2 (falsa soluzione). 

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Il vero scopo delle «emergenze»

Questa apparente incongruenza è dovuta ad un fatto che lentamente inizia ad essere compreso da sempre più persone: lo scopo ultimo di tutte queste emergenze è giustificare l’adozione di politiche sociali, economiche, alimentari e sanitarie, il cui risultato porti invariabilmente ad una drastica riduzione della popolazione mondiale.

 

Questo è lo scopo dichiarato dei seguaci del World Economic Forum di Davos capeggiato da Klaus Schwab. Non importa se la popolazione muore per i tumori indotti dai vaccini, per i veleni aggiunti ai cibi o irrorati dal cielo, per le sostanze nocive immesse nell’acqua, per la sterilità indotta psicologicamente dall’ideologia LGBTQ+ e chirurgicamente dalla transizione di genere, per la povertà causata dall’aumento dell’inflazione, per le guerre o per le violenze e i crimini degli immigrati clandestini.

 

Il risultato finale risponde ad un preciso progetto di matrice neomalthusiana, che Bill Gates e altri sedicenti «filantropi» perseguono come obbiettivo principale delle proprie aziende e fondazioni. 

 

Non è un mistero che organizzazioni private sovranazionali come l’ONU, l’OMS, il WEF, la Banca Mondiale, la BCE, il FMI rispondano ad un board, i cui membri sono tutti convinti fautori del decremento demografico e della necessità di sostituire le sovranità nazionali con il Nuovo Ordine Mondiale. 

 

Non è nemmeno un mistero che nella pubblica amministrazione vi siano enormi conflitti di interesse, derivanti dall’attività di lobbying delle multinazionali o di altri organismi che interferiscono nel governo delle Nazioni. Membri del Congresso degli Stati Uniti d’America percepiscono ingenti somme di denaro da multinazionali, in cambio dell’approvazione di leggi che le avvantaggino: ciò vale per l’industria bellica, farmaceutica, agroalimentare e tecnologica. Senza queste interferenze indebite ed eversive, non avremmo mai avuto la pandemia del COVID, l’influenza aviaria, le auto elettriche, la guerra in Ucraina e in Medio Oriente, la carne sintetica, la farina di insetti e la geoingegneria.

 

Tutte queste emergenze hanno come fine immediato l’arricchimento di precise lobby finanziarie, spesso facenti parte dei medesimi fondi di investimento. 

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Due entità eversive

Tra gli enti che sostengono l’agenda globalista per i profitti che ne traggono in termini di potere e di denaro vi è il deep state, costituito da quegli apparati che si sono incistati nel governo e che ne determinano l’azione politica e le scelte, qualunque sia il colore delle Amministrazioni che si avvicendano, agendo per i propri interessi contro quelli dei cittadini. 

 

Vi è però anche quella che io stesso ho chiamato la deep church, che similmente è composta da esponenti della Gerarchia Cattolica, i quali dopo decenni di progressiva infiltrazione e occupazione, con Jorge Mario Bergoglio sono giunti a prendere pieno controllo della Chiesa Cattolica. Queste quinte colonne dell’élite globalista usano la propria autorità per interessi di terzi e contro la gloria di Dio, l’onore della Chiesa e il bene delle anime. 

 

Queste due entità eversive – deep state e deep church, come ricordavo nella mia prima Lettera aperta al Presidente Trump nel 2020 – sono speculari e complementari: i loro membri sono traditori al servizio di poteri illegittimi, che abbiamo visto agire in modo coordinato durante la farsa pandemica, con la frode green e con il traffico dei clandestini.

 

I cittadini Americani e i fedeli Cattolici hanno ben compreso che la grave crisi sociale, economica e religiosa della Nazione è stata causata e preparata da lontano dal golpe di queste forze sovvertitrici dell’autorità legittima, una nella sfera civile e una nella sfera religiosa. Gli Americani hanno anche compreso che vi è una enorme differenza tra il profugo che fugge dalla persecuzione e una massa di uomini adulti in età militare, trasferiti in modo organizzato entro i confini nazionali, che costituiscono a tutti gli effetti un contingente nemico e una potenziale minaccia alla sicurezza nazionale e all’incolumità dei cittadini.

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La complicità tra deep state e deep church

La dimostrazione della complicità tra deep state e deep church è data non solo dal fatto che entrambi condividono i punti programmatici dell’Agenda2030 perché ne traggono un immediato vantaggio, ma anche dal non voler accettare che un Presidente legittimamente eletto possa voler realizzare concretamente gli impegni assunti in campagna elettorale, solo perché questi mettono fine alla rete di interessi e profitti che essi fraudolentemente hanno costruito negli anni passati.

 

Non è un mistero che la Conferenza Episcopale Americana (USCCB) non abbia mai – e ripeto: mai – raccolto un centesimo per combattere l’aborto, ma anzi abbia finanziato con decine di milioni di dollari associazioni aderenti alla Catholic Campaign for Human Development che promuovono l’aborto, la contraccezione e l’omosessualità.

 

Né la medesima Conferenza Episcopale si fa scrupolo alcuno nel ricevere sovvenzioni dall’erario per la gestione dell’immigrazione clandestina: lo provano i suoi bilanci, che sono pubblici. E andrebbe ricordato che, oltre ai fondi governativi, essa percepisce finanziamenti di enti e fondazioni private per le medesime finalità. 

 

Se davvero, come alcuni vorrebbero farci credere, la Gerarchia bergogliana avesse avuto a cuore la salvezza delle anime – di tutte le anime, tanto dei propri cittadini quanto dei migranti che giungono sul territorio nazionale – avrebbe dovuto fare ciò che la Chiesa Cattolica aveva già, e con successo, sperimentato in passato: occuparsi dell’evangelizzazione di queste anime, della loro conversione, della loro istruzione religiosa.

 

Penso ad esempio a Santa Francesca Saverio Cabrini, fondatrice delle Missionarie del Sacro Cuore di Gesù, che fu la prima cittadina statunitense ad essere elevata agli onori degli altari. La sua opera di assistenza agli immigrati (inizialmente Italiani) si allargò a tutti i bisognosi. Costruì chiese, asili, scuole, convitti per studentesse, orfanotrofi, case di riposo per laiche e religiose, ospedali e collegi grazie alla generosità dei Cattolici. Il suo esempio di vero spirito apostolico e missionario è stato rinnegato e la cancel culture, oggi tanto in voga nella chiesa bergogliana, si vergogna quasi dell’opera caritativa di questa e di altri Santi. 

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Il lucroso business dei flussi migratori

Ciò che oggi avviene è di segno opposto: la Gerarchia si preoccupa esclusivamente di accaparrarsi i finanziamenti governativi per la gestione dell’«accoglienza» a spese del contribuente o per l’erogazione di terapie moralmente inaccettabili, ivi comprese le mutilazioni per la transizione di genere in ospedali gestiti dalla Chiesa Cattolica. In America vi sono centinaia di strutture riferibili alla Chiesa Cattolica che percepiscono denaro pubblico per fornire servizi incompatibili con il Magistero Cattolico. 

 

Promuovendo l’«accoglienza» indiscriminata degli immigrati i Vescovi dimostrano di aver più a cuore i profitti del business dei clandestini, piuttosto che la salvezza delle anime, un autentico riscatto sociale dei più deboli e la protezione del gregge a loro affidato. Ed è qui il caso di ricordare ai fedeli Cattolici che i Vescovi hanno anzitutto una responsabilità morale dinanzi a Dio e alla Chiesa per le pecorelle del proprio gregge, che non devono esporre agli assalti dei lupi. 

 

La complicità di tanta parte dell’Episcopato americano alla crisi presente deriva dalla sua totale consentaneità con il globalismo, la cui anima è intrinsecamente anticristica, e quindi antireligiosa e antiumana.

 

Questa complicità si esplicita non solo nella promozione dell’«accoglienza» indiscriminata dei clandestini, ma anche degli altri obiettivi sostenibili dell’Agenda 2030, ivi compresa l’ideologia LGBTQ+ e la teoria gender: negli Stati Uniti vi sono oltre 150 ospedali cattolici, secondo i dati, che offrono le «terapie» – vale a dire, mutilazioni genitali – per la transizione di genere. 

 

Non ci si stupisca dunque se l’economista statunitense Mariana Mazzucato, membro del World Economic Forum e legata al Club di Roma, è stata nominata da Bergoglio alla Pontificia Accademia per la Vita nonostante sia atea e abortista. Nel Novembre 2024 ha dichiarato all’Annual Meeting di Davos che, non essendo l’élite riuscita a vaccinare l’intera popolazione mondiale mediante la crisi pandemica, è necessario puntare su una strategia meno astratta come una crisi idrica.

 

L’Amministrazione Biden, e più in generale tutte le Amministrazioni a guida democratica e neocon– si sono distinte per aver finanziato con denaro pubblico l’aborto, le mutilazioni genitali anche su giovani adolescenti, la manipolazione genetica, la maternità surrogata e l’eutanasia. Nonostante la Chiesa Cattolica condanni senza appello queste aberrazioni, il silenzio dei Vescovi americani è stato assordante.

 

Ciò fa comprendere che nell’azione «pastorale» di questi Vescovi non vi è nulla di genuinamente cattolico, e che l’unica ragione che porta l’Episcopato ad appoggiare un governo è il vantaggio che esso può trarne in termini di potere e di denaro; anche se questo significa abbandonare a se stessi milioni di esseri umani, fatti entrare negli Stati Uniti da organizzazioni criminali, per essere poi sfruttati come schiavi in condizioni di lavoro umilianti, inviati alla prostituzione (anche minorile), allo spaccio di droga e al mercato nero della predazione degli organi. 

 

Questa massa di vittime del cinismo dell’élite grava sulla coscienza di tanti governanti e di tanti Vescovi, e la nuova Amministrazione Trump lascia sperare che una saggia regolamentazione del fenomeno migratorio possa risolvere in gran parte i problemi di sicurezza e di criminalità che tutti i cittadini conoscono bene. 

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La chiesa bergogliana complice della sostituzione etnica

In questo contesto suscitano sgomento le parole di Jorge Mario Bergoglio, il quale ha recentemente affermato – riferendosi all’Italia ma parlando a tutto l’Occidente – che, dinanzi al decremento demografico l’unica soluzione sia rappresentata dall’importazione di immigrati, concretizzando con ciò la sostituzione etnica teorizzata dal paneuropeista Kalergi.

 

Questa proposta trova peraltro ampio riscontro in analoghe richieste da parte delle multinazionali, che vedono in questo un modo per ridurre drasticamente il costo della manodopera a danno dei lavoratori autoctoni, aumentando ulteriormente i propri profitti.

 

Come si vede, l’Autorità è completamente asservita ai diktat dell’élite, con la complicità dei media mainstream, anche se ciò comporta un peggioramento delle condizioni sociali e lavorative della popolazione. Anzi: proprio per questo motivo, dal momento che come ho detto lo scopo ultimo di questa lobby è lo sterminio di parte dell’umanità.

 

Le cifre parlano chiaro

Non possiamo infine dimenticare che i bilanci delle Diocesi, già ampiamente compromessi dai risarcimenti milionari per le cause di abusi sessuali e per l’abbandono di un numero sempre crescente di fedeli dalla Chiesa Cattolica ufficiale a causa del suo tradimento rispetto alla sua natura e missione, hanno nei fondi governativi per l’“accoglienza” la loro principale entrata.

 

Assieme alle organizzazioni caritative cattoliche, le somme percepite dalla Chiesa Cattolica americana per l’«accoglienza» dei clandestini ammonta ad oltre 2,4 miliardi di dollari, una cifra esorbitante che evidenzia quantomeno un grave conflitto di interessi e che non risolve minimamente i problemi di ordine sociale che ne derivano. Ed è di grave pregiudizio per l’intera Chiesa Cattolica avere dei Vescovi per i quali il mantenimento del potere rende irrilevante il nesso tra la presenza di migliaia di minori irregolari presenti sul suolo americano e il loro sfruttamento da parte di pervertiti, pedofili, predatori di organi e criminali di ogni genere

 

Il Presidente Trump e il Vicepresidente Vance stanno dimostrando di saper proteggere i piccoli di cui parla il Vangelo (Mt 18, 6) contrariamente a quanto hanno sinora fatto i Vescovi americani e lo stesso Bergoglio.

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La (contro)rivoluzione del buon senso

Gli Ordini Esecutivi del Presidente Trump non possono che essere salutati come assolutamente condivisibili da ogni Cattolico degno di questo nome, così come è da lodare l’appoggio del Presidente e del Vicepresidente alla Marcia per la Vita, che la precedente Amministrazione ha ufficialmente contrastato, fino ad arrivare ad arrestare chi pregava in silenzio nei pressi delle cliniche abortive.

 

Il Perdono Presidenziale di Donald Trump per chi era stato incarcerato conferma un’inversione di tendenza rispetto al «cattolico» Joe Biden, così come rappresenta un cambiamento radicale la fine dei finanziamenti pubblici per la multinazionale dell’aborto Planet Parenthood e il provvidenziale taglio delle erogazioni alle organizzazioni sedicenti cattoliche che favoriscono l’immigrazione clandestina. 

 

L’affermazione che vi sono solo due sessi, nella sua banale ovvietà, costituisce oggi un’affermazione rivoluzionaria – quella che il Presidente Trump chiama la rivoluzione del buon senso – eppure Vescovi, sacerdoti e suore deplorano come «divisiva» la sua azione.

 

Se vi è chi semina divisione, è proprio chi alimenta le mostruosità dell’ideologia woke contro il mandato ricevuto da Cristo: primo fra tutti, Jorge Mario Bergoglio.

 

Il ruolo della USCCB

Certo, non stupisce che gli eredi di McCarrick promossi da Bergoglio ai vertici della Chiesa cattolica negli Stati Uniti siano così solleciti nel deplorare le politiche di cancellazione delle leggi a favore dell’ideologia woke, ad iniziare da quelle che negavano la complementarietà binaria dei sessi e riconoscevano la disforia di genere anche nei minori: la loro subalternità alla lobby LGBTQ+ è ampiamente comprovata, tanto a livello istituzionale quanto personale.

 

(…)

 

Queste gravi deviazioni del Clero e dei Vescovi dovranno a suo tempo essere oggetto di una grande operazione di rimozione e di riforma, perché costituiscono un elemento eversivo all’interno della compagine ecclesiale, inconciliabile con la Fede e la Morale della Chiesa Cattolica. Le stesse Conferenze Episcopali – un organo spurio di matrice parlamentarista che non ha alcuna legittimazione sotto il profilo dottrinale e canonico – rappresentano un’entità indipendente che nei decenni come gruppo politico di lobbying dai Vescovi ultra-progressisti.

 

La proposta di revocare lo status di esenzione fiscale dell’USCCB non può quindi che essere ampiamente condivisa: di certo Bergoglio non potrà opporsi a questa salutare iniziativa, visto che è il primo a volere una «chiesa povera per i poveri»…

 

I Cattolici hanno inoltre la possibilità di destinare le proprie offerte e donazioni a quelle realtà ecclesiali che rimangono fedeli alla Tradizione e al perenne Magistero della Chiesa Cattolica, privandone le Diocesi i cui Vescovi impongono errori dottrinali e deviazioni morali. 

 

(…)

 

Molti Cattolici si aspettano che venga fatta giustizia, anzitutto per rispetto delle vittime sinora abbandonate tanto dal potere civile quanto dall’autorità ecclesiastica.

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L’uscita dall’OMS

I Cattolici sono assolutamente d’accordo con Donald Trump e con Robert F. Kennedy jr circa l’uscita degli Stati Uniti d’America dall’OMS decisa con un recente Ordine Esecutivo.

 

Le politiche promosse da questa organizzazione privata – finanziata principalmente dalle case farmaceutiche e da Bill Gates – per la cosiddetta «salute riproduttiva» e per la «parità di genere», assieme alle rivendicazioni sui presunti diritti sessuali dei minori e le inquietanti aperture sulla depenalizzazione della pedofilia, non possono essere accettate né tantomeno finanziate dai Cattolici americani.

 

Lo stesso dicasi per le politiche sanitarie globali, che l’OMS vorrebbe imporre agli Stati sovrani. 

 

La chiesa woke

I Cattolici americani hanno il diritto di pretendere che i loro Vescovi si comportino conformemente al perenne Magistero della Chiesa Cattolica, e che non prestino alcun supporto morale o materiale a ciò che ripugna alla Legge naturale ancor prima che ai Comandamenti di Dio.

 

Suscita quindi indignazione e scandalo apprendere dal Forum di Davos che importanti organizzazioni LGBTQ+ considerano Jorge Mario Bergoglio un prezioso alleato nel raggiungimento del proprio programma di normalizzazione delle perversioni sessuali. 

 

In ambito civile gli emissari del deep state hanno gravemente compromesso la fiducia dei cittadini nelle Istituzioni e nei governi, e starà al Presidente Trump e alla sua Amministrazione ripristinare la fiducia e il rispetto che i precedenti Governi (Dem o RINOs) hanno deliberatamente minato in questi anni.

 

Similmente, la deep church ha pesantemente delegittimato la fiducia dei fedeli nella Chiesa Cattolica e nella sua Gerarchia, ma non è dato sapere quando l’occupazione di questi eretici e pervertiti finirà. Per questo è comprensibile che i Cattolici si sentano in qualche modo più tutelati da un Presidente protestante che dal loro «papa» – che cattolico non è e forse nemmeno cristiano – nella lotta che egli sta conducendo contro il deep state e la Sinistra globalista.

 

Un «papa» che incarna perfettamente colui che avrebbe dovuto prendere il posto di Benedetto XVI, come rivelato dalle email di John Podesta pubblicate da Wikileaks nel 2016. (…) Come possiamo pensare che personaggi organici al sistema di corruzione possano condannare i vizi e i crimini che per primi li vedono coinvolti? E come stupirci della isterica reazione di certi Vescovi e Cardinali, davanti alla sottrazione di una greppia nella quale hanno ampiamente pasteggiato? 

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La vera battaglia inizia ora

È difficile prevedere come reagiranno queste forze eversive all’azione organizzata e incisiva dell’Amministrazione Trump. Nondimeno, è probabile che i colossali interessi economici e la rete di corruzione esistente porteranno ad uno scontro tra forze opposte e inconciliabili. In questa battaglia, che giustamente San Paolo ci indica come eminentemente spirituale, il ruolo dei Cattolici sarà determinante, e sarà una battaglia condotta senza esclusione di colpi.

 

Se il deep state è giunto a sovvertire gli esiti delle precedenti Elezioni Presidenziali e la deep church a far nominare un proprio emissario sulla Cattedra di Pietro che incarnasse gli ideali woke di una «primavera progressista» gradita al deep state, è improbabile che rinuncino al potere acquisito, solo perché la maggioranza degli Americani ha compreso la minaccia che costoro rappresentano.

 

Anzi: la consapevolezza sempre più diffusa del golpe perpetrato dall’élite globalista e la fine del sistema censorio di alcune piattaforme sociali rendono questo redde rationem inevitabile. E come le tessere del domino, assieme al crollo della cabala woke negli Stati Uniti inizierà a perdere pezzi anche la lobby eversiva di altre Nazioni, ad iniziare dall’Europa.

 

Il significato della parola apocalisse è «svelamento», «rivelazione». In questi tempi epocali, le forze del Bene devono finalmente unirsi per far fronte comune contro le forze del Male, che da sempre sono organizzate e potentissime. E i Cattolici devono comprendere che, come insegnano la Sacra Scrittura e il Magistero della Chiesa, nell’approssimarsi della fine dei tempi si giungerà ad uno scontro che renderà palesi gli schieramenti.

 

Questa sarà la vera rivelazione, come annunciato a Maria Santissima dal profeta Simeone: Egli è qui per la caduta e la risurrezione di molti in Israele e come segno di contraddizione […], affinché siano svelati i pensieri di molti cuori (Lc 2, 34-35).

 

Questo svelamento ci mostrerà le vere intenzioni nascoste dietro le emergenze e le crisi pretestuosamente pianificate dall’élite globalista e ratificate dalla chiesa bergogliana, e ci imporrà di schierarci con Cristo o contro Cristo, poiché nessuno può servire due padroni; […] non potete servire Dio e il denaro (Mt 6, 24).

 

E il denaro, come vediamo, è veramente lo sterco di Satana che muove la macchina infernale del Nuovo Ordine Mondiale. 

 

L’autorità in terra, tanto quella temporale quanto quella spirituale, appartiene esclusivamente a Nostro Signore Gesù Cristo, Re e Pontefice. Mi è stata data ogni potestà in cielo e sulla terra (Mt 28, 18), ha detto Nostro Signore. Egli la concede in forma vicaria ai Suoi rappresentanti, perché la esercitino entro i ben delineati confini del Bene e del Vero.

 

Se questa autorità vicaria, temporale o spirituale che sia, è esercitata contro lo scopo per cui essa è stata voluta da Dio, essa è illegittima e nulla. Per questo motivo, davanti all’evidenza del tradimento di chi ricopre l’Autorità in terra, ogni Cattolico deve rifiutare di prestare obbedienza a chi per primo disobbedisce a Cristo; né deve attribuire alla Santa Chiesa le colpe, per quanto orribili, dei suoi indegni Ministri.

 

Piuttosto, dobbiamo pregare perché il Signore custodisca le Sue pecorelle e punisca i lupi travestiti da agnelli. Ricordiamo con sicura speranza le parole del Signore: Vi ho detto queste cose, affinché abbiate pace in Me; nel mondo avrete tribolazione, ma fatevi coraggio: Io ho vinto il mondo (Gv 16, 33). 

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Conclusione

La salvezza viene da Dio, ma questo non significa che dobbiamo attendere passivamente un intervento divino, senza cooperarvi con il nostro impegno, la nostra testimonianza e la coerenza della nostra vita. Iniziamo dunque a fare nostra questa controrivoluzione del buon senso, rifiutando le menzogne e gli inganni di chi cerca di sovvertire i fondamenti stessi della Legge naturale, dopo aver calpestato la Legge divina.

 

Difendiamo la famiglia, i bambini, i deboli. Custodiamo gelosamente la nostra Fede, la civiltà su di essa edificata, le tradizioni dei nostri padri.

 

Possa la Vergine Santissima di Guadalupe, Imperatrice delle Americhe, stendere il Suo manto protettore su tutti voi, cari fratelli, sul Presidente Trump e sul Vicepresidente Vance e su tutti coloro che non indietreggiano davanti all’arroganza dei malvagi. E che Dio benedica gli Stati Uniti d’America.

 

+ Carlo Maria Viganò

Arcivescovo

 

2 Febbraio 2025

Purificazione della B.V.M.

Presentazione al Tempio di N.S.G.C.

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Renovatio 21 offre questo testo di monsignor Viganò per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

 

 

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Pensiero

Argomenti della Civiltà del Tabarro

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Renovatio 21 pubblica estratti video della conferenza «Argomenti della Civiltà del Tabarro» tenutasi in occasione della Tabarrata Nazionale 2024 lo scorso anno a Chioggia, città metropolitana di Venezia.   Intervengono: Roberto Dal Bosco, presidente della Civiltà del Tabarro, e incidentalmente fondatore di Renovatio 21; Sandro Zara, maestro rifondatore dell’arte del Tabarro; Corrado Beldì, segretario della Civiltà del Tabarro.   Di particolare importanza le parole spede dal Dal Bosco contro il cosplaying, un fenomeno che funesta le nostre città e minaccia il futuro dei nostri figli. L’eleganza eterna del Tabarro si promette come antidoto assoluto agli orrori della modernità e dei suoi schiavi.    

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  Come sa il lettore, si terrà tra poche ore la Tabarrata Nazionale 2025 nella città di Lucca, con grande programma a base del lucchese autore dell’opera lirica «Il Tabarro» (1916) Giacomo Puccini, con visista alla mostra «Giacomo Puccini Manifesto» (gratuita per chi indossa un Tabarro) e concerto pucciniano di arie da «Il Tabarro» presso il CRED di Lucca.   Seguirà la conferenza «Sentimenti della Civiltà del Tabarro e tradizionale premiazione dei tabarristi dell’anno.   Renovatio 21 invita i suoi lettori a partecipare ed esperire in prima persona questa giornata dove all’eleganza vestiaria eterna si mischia un irresistibile cucchiaino di follia.   Provare per credere.

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