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Sorveglianza digitale: il vero motivo dietro la spinta a vaccinare i bambini

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Renovatio 21 traduce questo articolo per gentile concessione di Children’s Health Defense.

 

 

«Il vero scopo dietro la storica e senza precedenti spinta a vaccinare i giovanissimi anche contro malattie come il COVID, che non rappresentano una minaccia per loro, è quello di introdurre l’attuale generazione di bambini nel fiorente sistema di identità digitale globale».

 

 

 

Il COVID-19 potrebbe aver colto di sorpresa gran parte del pianeta tra la fine del 2019 e l’inizio del 2020, ma gran parte delle basi per la tecnologia ora ampiamente utilizzata come «risposta» alla pandemia è stata concettualizzata e sviluppata anni prima.

 

Negli Stati Uniti e in tutto il mondo, c’è stata recentemente una forte spinta per implementare una varietà di regimi di «passaporto vaccinale», molti dei quali basati su tecnologie digitali come le applicazioni mobili per registrare – almeno finora – il proprio registro di vaccinazione COVID -19.

 

Gran parte delle basi per la tecnologia ora ampiamente utilizzata come «risposta» alla pandemia è stata concettualizzata e sviluppata anni prima

Questi «strumenti» vengono presentati da funzionari pubblici e sezioni significative dei media nelle ultime settimane e mesi come qualcosa di ineluttabile, una progressione tecnologica naturale come respirare.

 

Si presentano anche come «nuova» risposta a una crisi senza precedenti.

 

Queste applicazioni tecnologiche sono propagandate come un mezzo per mantenere aperte le attività commerciali e garantire la «tranquillità» per le persone ancora diffidenti a entrare negli spazi pubblici.

 

Ma quanto è nuova questa «nuova» tecnologia? E l’uso della tecnologia sarà limitato alle vaccinazioni COVID o alla «salute»?

 

 

«Alleanze» internazionali a sostegno della fusione di «Big Tech» e «Big Health»

Era l’inizio del decennio precedente, gennaio 2010, quando Bill Gates, tramite la Bill & Melinda Gates Foundation, dichiarò: «[dobbiamo] far sì che questo sia il decennio dei vaccini», aggiungendo che «l’innovazione consentirà di salvare tanti bambini come mai prima d’ora».

 

Nel lanciare questo cosiddetto «Decennio dei vaccini», la Fondazione Gates ha promesso un finanziamento di 10 miliardi di dollari. Ma Gates non era l’unico attore dietro questa iniziativa.

 

Ad esempio, il programma «Decennio dei vaccini» ha utilizzato un modello proveniente dalla Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health per prevedere il potenziale impatto dei vaccini sulle morti infantili nel decennio a venire.

 

L’annuncio dell’iniziativa «Decennio dei vaccini» è stato dato all’incontro di quell’anno del World Economic Forum (WEF)

E l’annuncio dell’iniziativa «Decennio dei vaccini» è stato dato all’incontro di quell’anno del World Economic Forum (WEF).

 

Questi stessi attori – la Bill & Melinda Gates Foundation, la Johns Hopkins Bloomberg School of Public Health e il WEF – hanno organizzato l’ormai famigerata simulazione della pandemia Event 201, nell’ottobre 2019, poco prima che il COVID entrasse nelle nostre vite.

 

Inoltre, nel 2010 è stato annunciato un «Piano d’azione globale sui vaccini» come parte di questa iniziativa. Si trattava di una collaborazione con l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), l’UNICEF e l’Istituto nazionale per le allergie e le malattie infettive (NIAID), con il dott. Anthony Fauci nel consiglio direttivo.

 

Come ha dichiarato la Fondazione Gates all’epoca:

 

«Il Global Vaccine Action Plan consentirà un maggiore coordinamento tra tutti i gruppi di parti interessate – governi nazionali, organizzazioni multilaterali, società civile, settore privato e organizzazioni filantropiche – e identificherà politiche, risorse e altri divari critici che devono essere affrontati per realizzare la vita- potenziale di risparmio dei vaccini».

 

Il comitato direttivo per il «Piano d’azione globale sui vaccini» includeva un membro della GAVI Alliance. In particolare, l’annuncio iniziale del «Decennio dei vaccini» è stato fatto alla presenza di Julian Lob-Levyt, allora CEO di GAVI Alliance.

 

Cosa, o chi, è GAVI Alliance? Conosciuta anche come l’«Alleanza Vaccinale»», conduce una missione per «salvare vite e proteggere la salute delle persone» e afferma di «aiutare a vaccinare quasi la metà dei bambini del mondo contro malattie infettive mortali e debilitanti».

 

GAVI continua descrivendo la sua partnership principale con varie organizzazioni internazionali, inclusi nomi ormai familiari: l’OMS, l’UNICEF, la Fondazione Bill & Melinda Gates e la Banca Mondiale. (Lungi dall’aiutare i poveri del mondo, la Banca Mondiale è stata definita da un ex membro, John Perkins, come un’organizzazione che usa «sicari economici» per soggiogare paesi finanziariamente in difficoltà).

 

Nel 2018, GAVI, attraverso la sua iniziativa INFUSE (Innovation for Uupdate, Scale and Equity in Immunization), ha proposto i seguenti «spunti di riflessione»:

 

«Immaginate un futuro in cui tutti i bambini abbiano accesso a vaccini salvavita, indipendentemente da dove vivono, un futuro in cui i genitori e gli operatori sanitari assicurino la loro vaccinazione tempestiva, un futuro in cui abbiano il proprio libretto sanitario archiviato digitalmente che non può essere perso o rubato, un futuro in cui, indipendentemente dal genere, dalla posizione economica o sociale, questo record consente a ciascun bambino (e ai genitori) di avere accesso a un conto bancario, andare a scuola, accedere ai servizi e, infine, costruire una vita prospera».

 

«Con gli ultimi progressi nelle tecnologie digitali che mettono a disposizione sistemi più efficaci di registrare, identificare le nascite e rilasciare prove di identità e autenticazione per l’accesso ai servizi, siamo sul punto di costruire un futuro più sano e prospero per i bambini vulnerabili del mondo» GAVI, progetto INFUSE

«Questo futuro è possibile oggi. Con gli ultimi progressi nelle tecnologie digitali che mettono a disposizione sistemi più efficaci di registrare, identificare le nascite e rilasciare prove di identità e autenticazione per l’accesso ai servizi, siamo sul punto di costruire un futuro più sano e prospero per i bambini vulnerabili del mondo».

 

Questo si realizzerebbe, secondo GAVI, attraverso l’iniziativa INFUSE, in particolare «richiedendo innovazioni che sfruttino le nuove tecnologie per modernizzare il processo di identificazione e registrazione dei bambini che hanno più necessità di vaccini salvavita».

 

Come scrive il giornalista investigativo Leo Hohmann:

 

«Non lasciatevi confondere dal “costruire un futuro più sano e più prospero”. È solo una facciata. Si tratta di raccolta dati e non ha nulla a che fare con la salute».

 

«Il vero scopo dietro la storica e senza precedenti spinta a vaccinare i giovanissimi anche contro malattie come il COVID, che non rappresentano una minaccia per loro, è quello di inserire l’attuale generazione di bambini nel fiorente sistema di identità digitale globale».

 

La stessa GAVI ha confermato la dichiarazione di cui sopra, poiché ha descritto i potenziali usi di queste «nuove tecnologie» che vanno oltre il rilascio di una «tessera sanitaria digitale per bambini» verso l’«accesso ad altri servizi», compresi i «servizi finanziari» nel senso più ampio del termine.

 

«Il vero scopo dietro la storica e senza precedenti spinta a vaccinare i giovanissimi anche contro malattie come il COVID, che non rappresentano una minaccia per loro, è quello di inserire l’attuale generazione di bambini nel fiorente sistema di identità digitale globale»

Le limitazioni all’«accesso» a tali «altri servizi» sono già evidenti nelle giurisdizioni in cui i passaporti COVID limitano l’accesso ad aziende, banche e altri spazi privati per i non vaccinati

 

La GAVI Alliance collabora strettamente anche con l’Alleanza ID2020, fondata nel 2016, che dichiara di sostenere «approcci etici e di protezione della privacy all’ID digitale», aggiungendo che «elaborare correttamente l’ID digitale significa proteggere le libertà civili».

 

Non sorprende che non vengano forniti chiarimenti in merito alla potenziale perdita delle libertà civili per gli individui che scelgono, per qualsiasi motivo, di non essere vaccinati e che sono quindi esclusi da ampie fasce della società nelle aree in cui sono stati implementati e imposti i passaporti COVID.

 

Tale retorica da parte di ID2020 ricorda le dichiarazioni pubbliche rilasciate dall’Unione Europea (UE) mentre si preparava a lanciare il suo cosiddetto «Green Pass» all’inizio di quest’anno.

 

Funzionari dell’UE, come il presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen – che ha recentemente chiesto una «discussione» sulle vaccinazioni obbligatorie nell’UE – hanno fatto di tutto per sottolineare che la privacy delle persone sarebbe stata protetta.

 

In un modo che alcuni potrebbero considerare fuori tono, hanno ulteriormente sottolineato che un tale pass digitale consentirebbe alle persone di «muoversi in sicurezza» per «lavoro o turismo», come se la libera circolazione fosse un nuovo concetto che solo un pass digitale potrebbe rendere possibile.

 

Ancora una volta, le restrizioni sui non vaccinati, comprese quelle relative a «lavoro o turismo», erano del tutto assenti dalla retorica pubblica che circondava questa nuova misura.

 

Evidenziando le opportunità che la collaborazione GAVI-ID2020 potrebbe aprire, il bando INFUSE per l’innovazione afferma:

 

«Secondo l’Alleanza ID2020 – una partnership pubblico-privata che include GAVI – l’uso delle tessere sanitarie digitali per i bambini potrebbe migliorare direttamente i tassi di copertura garantendo una registrazione verificabile e accurata e spingendo i genitori a portare i propri figli per la dose successiva.

 

«Dal punto di vista dei genitori, i documenti digitali possono essere pratici per tenere traccia dei vaccini di un bambino ed eliminare scartoffie inutili».

 

«E man mano che i bambini crescono, la loro tessera sanitaria digitale può essere utilizzata per accedere a servizi secondari, come la scuola primaria, o facilitare il processo di ottenimento di credenziali alternative. In effetti, la tessera sanitaria digitale potrebbe, a seconda delle esigenze e della disponibilità del Paese, diventare potenzialmente il primo passo per stabilire un’identità legale ampiamente riconosciuta»

«E man mano che i bambini crescono, la loro tessera sanitaria digitale può essere utilizzata per accedere a servizi secondari, come la scuola primaria, o facilitare il processo di ottenimento di credenziali alternative. In effetti, la tessera sanitaria digitale potrebbe, a seconda delle esigenze e della disponibilità del Paese, diventare potenzialmente il primo passo per stabilire un’identità legale ampiamente riconosciuta».

 

Tutte queste proposte e iniziative sembrano, a loro volta, essere strettamente allineate con gli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite, e in particolare con l’obiettivo 16.9, che prevede la fornitura di un’identità giuridica digitale per tutti, compresi i neonati, entro il 2030.

 

A tal fine, nel 2018 le Nazioni Unite hanno istituito la task force dell’agenda sull’identità giuridica delle Nazioni Unite. Nel maggio 2021, questa task force, insieme al Programma di sviluppo delle Nazioni Unite e a una varietà di attori del settore privato, ha organizzato sessioni della tavola rotonda «Future of Technology and Institutional Governance in Identity Management».

 

Il rapporto ONU: espansione dei partenariati pubblico-privato per l’ulteriore sviluppo e attuazione dei regimi di identificazione digitale in tutto il mondo, incluso il Sud del mondo.

Il rapporto finale di queste sessioni indica, tra le altre cose, il desiderio delle parti interessate per l’espansione dei partenariati pubblico-privato per l’ulteriore sviluppo e attuazione dei regimi di identificazione digitale in tutto il mondo, incluso il Sud del mondo.

 

Una delle parti interessate presenti, la Secure Identity Alliance, senza scopo di lucro, ribadisce il suo sostegno «per fornire un’identità legale e affidabile per tutti e guidare lo sviluppo di servizi digitali inclusivi necessari per la crescita e prosperità economica sostenibile e mondiale».

 

Un documento pubblicato a luglio dalla Security Identity Alliance parla di «rendere i certificati sanitari una realtà attuabile».

 

Uno dei cinque principi che il documento propone per tali passaporti sanitari è che sono «a prova di futuro», offrendo «funzionalità multiuso» al fine di «assicurare un valore continuo oltre l’attuale crisi».

 

La Secure Identity Alliance annovera tra i suoi osservatori autorità governative di paesi come Germania, Paesi Bassi, Estonia, Slovenia, Emirati Arabi Uniti, Nigeria e Guinea.

 

Inoltre, uno dei fondatori e attuali membri del consiglio è il Thales Group, una società privata coinvolta nell’aerospazio, nella difesa e nella sicurezza, in breve, appaltatore della Difesa.

 

I documenti disponibili in questo Digital ID Wallet vanno oltre le «credenziali sanitarie» e includono carte d’identità nazionali, patenti di guida e qualsiasi altro documento ufficiale

Sul suo sito web, il Thales Group promuove con orgoglio la sua «Tessera sanitaria intelligente» e la tecnologia Digital ID Wallet. Tra un linguaggio utopico che afferma «siamo pronti per il cambiamento» e «mettere sotto controllo i cittadini», il Digital ID Wallet promette al pubblico la possibilità di «accedere ai diritti e ai servizi a cui abbiamo diritto».

 

In effetti, i documenti disponibili in questo Digital ID Wallet vanno oltre le «credenziali sanitarie» e includono carte d’identità nazionali, patenti di guida e qualsiasi altro documento ufficiale.

 

Numerosi Paesi del mondo, compresi gli Stati Uniti, si trovano attualmente in diverse fasi di implementazione proprio di questo tipo di «portafoglio digitale».

 

 

Fare un passo (o più) avanti con i «passaporti sanitari»: i regimi dei portafogli digitali prendono forma

Il 30 novembre la Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti ha approvato l’HR 550, l’Immunization Infrastructure Modernization Act del 2021.

 

Se approvata dal Congresso, questa legge fornirebbe finanziamenti per 400 milioni di dollari allo scopo di espandere i sistemi di tracciamento dei vaccini a livello statale e locale, consentendo ai funzionari sanitari statali di monitorare lo stato di vaccinazione dei cittadini americani e di fornire queste informazioni al governo federale.

 

I passaporti vaccinali e le liste nere per i non vaccinati – un concetto per il quale Fauci ha espresso il suo sostegno – potrebbero essere creati secondo la legge.

 

Il disegno di legge, presentato dalla deputata Annie Kuster (NH-02), è passato alla Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti con 294 voti, tutti i democratici e 80 repubblicani. Ora è all’esame del Senato, dove è al vaglio della commissione per la salute, l’istruzione, il lavoro e le pensioni.

 

Da quando è stato approvato dalla Camera, il disegno di legge ha riscosso una discreta attenzione: altri recenti sviluppi dell’identificazione digitale negli Stati Uniti, tuttavia, sembrano essere rimasti relativamente sotto il radar.

 

Apple ha annunciato una partnership con otto Stati – Arizona, Connecticut, Georgia, Iowa, Kentucky, Maryland, Oklahoma e Utah – per rendere disponibili le patenti di guida dei rispettivi stati in formato digitale tramite la piattaforma Apple Wallet

A settembre, ad esempio, Apple ha annunciato una partnership con otto Stati – Arizona, Connecticut, Georgia, Iowa, Kentucky, Maryland, Oklahoma e Utah – per rendere disponibili le patenti di guida dei rispettivi stati in formato digitale tramite la piattaforma Apple Wallet.

 

Nel frattempo, altri Stati, tra cui New York (tramite il suo «Excelsior Pass») e il Connecticut, hanno introdotto il proprio certificato di vaccinazione COVID digitale.

 

In modo simile a quello con cui l’UE ha promosso i passaporti vaccinali, queste iniziative a livello statale negli Stati Uniti sono propagandate come un mezzo per riaprire «in sicurezza» l’economia e incoraggiare i viaggi e gli spostamenti.

 

In effetti, New York è arrivata al punto da rendere disponibile un «progetto» della sua piattaforma di pass per i vaccini, «come guida per assistere altri stati, territori ed entità nell’espansione dei sistemi di credenziali del vaccino COVID-19 compatibili per far progredire gli sforzi di sviluppo economico a livello nazionale».

 

Guardando all’UE, una delle priorità del blocco nell’ambito del suo piano quinquennale 2019-2024 è creare una «identità digitale per tutti i cittadini europei». Vale a dire, ogni cittadino e residente dell’UE avrebbe accesso a un «portafoglio digitale personale» nell’ambito di questa iniziativa.

 

Questo «portafoglio digitale personale» potrebbe includere documenti come carte d’identità nazionali, certificati di nascita, certificati medici e patenti di guida.

 

L’UE ha successivamente presentato i suoi piani per il «Decennio digitale europeo», in cui sotto il «Digital Compass» dell’UE, il 100% dei servizi pubblici chiave sarà disponibile in formato digitale, con un obiettivo di utilizzo dei documenti di identificazione digitale dell’80%.

 

Già diversi Stati membri dell’UE stanno entrando in azione.

 

La Germania, che dispone di carte d’identità nazionali elettroniche (tramite chip biometrici) dal 2010, ha introdotto le versioni digitali di queste carte d’identità lo scorso autunno, tramite l’AusweisApp2. Nella stessa app sono disponibili digitalmente le patenti di guida tedesche.

 

Germania e Spagna hanno recentemente firmato un accordo per avviare un programma transfrontaliero per l’identificazione digitale

Inoltre, Germania e Spagna hanno recentemente firmato un accordo per avviare un programma transfrontaliero per l’identificazione digitale, che comporterebbe il riconoscimento reciproco dei rispettivi documenti digitali ufficiali

 

Anche la Francia ha recentemente annunciato l’ intenzione di integrare la propria carta d’identità nazionale con gli smartphone.

 

La Grecia ha ricevuto elogi dalla stampa globale quando ha introdotto strumenti digitali particolarmente draconiani durante i due lockdown per il COVID, come una piattaforma SMS del governo a cui i residenti avrebbero dovuto inviare un messaggio di testo per poter circolare in pubblico per una serie limitata di «ragioni».

 

Più di recente, la Grecia ha annunciato l’imminente creazione di un portafoglio digitale che conterrà documenti come la carta d’identità nazionale, la patente di guida e la documentazione sanitaria.

 

L’Estonia, considerata leader mondiale nell’introduzione dell’e-governance digitale e che dispone di carte d’identità digitali dal 2002, sta preparando il proprio sistema di portafoglio digitale mentre esprime sostegno al «Digital Compass» dell’UE.

 

La Grecia ha annunciato l’imminente creazione di un portafoglio digitale che conterrà documenti come la carta d’identità nazionale, la patente di guida e la documentazione sanitaria

Al di fuori dell’Europa, anche molti altri paesi hanno ampliato i loro regimi di identificazione digitale in vari modi.

 

In Australia, ad esempio, stati come il New South Wales, il South Australia e il Queensland hanno introdotto o testato le patenti di guida digitali.

 

È in India, tuttavia, che tali documenti digitali sembrano aver generato finora il maggior grado di controversia.

 

La Ayushman Bharat Digital Mission è stata annunciata nel 2020 e lanciata come programma pilota in sei regioni dell’India nel 2021. È un’app che fornisce un ID sanitario digitale univoco a ciascun cittadino ed è collegata alla sua cartella sanitaria personale.

 

In Australia, ad esempio, stati come il New South Wales, il South Australia e il Queensland hanno introdotto o testato le patenti di guida digitali

La sua istituzione segue le orme dello sviluppo di Aadhaar, il sistema di carte d’identità digitale nazionale dell’India.

 

Aadhaar ha generato polemiche sui piani del governo di collegarlo al database nazionale degli elettori, mentre è stato anche bersaglio di hacker.

 

 

Le domande sorgono man mano che vengono lanciate più piattaforme digitali per «scopi ufficiali»

Il lancio delle piattaforme digitali solleva interrogativi sulla sicurezza dei dati delle persone su queste piattaforme digitali, nonostante le rassicurazioni del governo in merito alla privacy.

 

Inoltre, non è chiaro per quanto tempo i «passaporti COVID», in formato digitale o cartaceo, rimarranno in vigore o se i governi intendano rendere permanente tale regime.

 

In un recente articolo su The Atlantic, «Perché non stiamo nemmeno parlando di allentare le restrizioni COVID?» ci si chiede perché gli obblighi dei passaporti vaccinali negli Stati Uniti non abbiano una data di scadenza.

 

La gamma di modi in cui i portafogli digitali possono essere potenzialmente utilizzati è sbalorditiva, incluso, ad esempio, il tracciamento delle «quote di carbonio personali»

In effetti, se la proclamazione della Secure Identity Alliance sulla necessità «a prova di futuro» di tali documenti digitali è un’indicazione, potrebbe essere il caso che i governi non abbiano intenzione di eliminare i passaporti vaccinali.

 

Anche se tali usi specifici dei «passaporti» digitali alla fine scompariranno, la gamma di modi in cui i portafogli digitali possono essere potenzialmente utilizzati è sbalorditiva, incluso, ad esempio, il tracciamento delle «quote di carbonio personali», come riportato in precedenza da The Defender.

 

 

Michael Nevradakis, Ph.D.

 

 

Traduzione di Alessandra Buoni

 

© 15 dicembre 2021, Children’s Health Defense, Inc. Questo articolo è riprodotto e distribuito con il permesso di Children’s Health Defense, Inc. Vuoi saperne di più dalla Difesa della salute dei bambini? Iscriviti per ricevere gratuitamente notizie e aggiornamenti da Robert F. Kennedy, Jr. e la Difesa della salute dei bambini. La tua donazione ci aiuterà a supportare gli sforzi di CHD.

 

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Una nuova ricerca rivela come i vaccini possano causare la morte in culla

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Renovatio 21 traduce questo articolo per gentile concessione di Children’s Health Defense. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.

 

I ricercatori che hanno scoperto che in alcuni neonati i percorsi sottosviluppati degli enzimi epatici potrebbero rendere più difficile per loro elaborare gli ingredienti tossici presenti nei vaccini, una condizione che potrebbe portare alla SIDS, hanno affermato che il loro studio, pubblicato sull’International Journal of Medical Sciences, potrebbe portare a interventi terapeutici in grado di salvare vite umane.

 

Secondo un nuovo studio pubblicato sull’International Journal of Medical Sciences, in alcuni neonati i percorsi sottosviluppati degli enzimi epatici potrebbero rendere più difficile per loro elaborare gli ingredienti tossici presenti nei vaccini, una condizione che potrebbe portare alla sindrome della morte improvvisa del lattante (SIDS).

 

Lo studio ha esaminato la letteratura scientifica esistente, i dati farmacogenetici e gli studi epidemiologici per analizzare in che modo gli enzimi immaturi o variabili del citocromo P450 (CYP450) dei neonati influenzano il modo in cui metabolizzano gli eccipienti o gli ingredienti inattivi del vaccino e le implicazioni per la risposta immunitaria e gli esiti sulla sicurezza.

 

Gli enzimi CYP450, presenti principalmente nel fegato, sono essenziali per il metabolismo dei farmaci.

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Gli autori sottolineano che in genere si ritiene che gli eccipienti (ingredienti inattivi utilizzati come conservanti o per aumentare l’efficacia di un vaccino) siano presenti in quantità talmente ridotte da non influenzare il modo in cui l’organismo metabolizza il vaccino.

 

Tuttavia, sostengono che la crescente complessità delle formulazioni dei vaccini e l’elevato numero di iniezioni somministrate ai neonati sollevano preoccupazioni circa gli effetti che gli eccipienti potrebbero avere sulle persone vulnerabili.

 

Studi su neonati deceduti per SIDS hanno rilevato anomalie del tronco encefalico e del midollo nella maggior parte dei casi. Entrambe queste anomalie possono essere causate da infezioni o infiammazioni.

 

Nello studio, gli autori ipotizzano che una ridotta funzionalità del CYP450 possa rendere difficile per alcuni bambini eliminare gli ingredienti tossici dei vaccini. Ciò potrebbe portare a un’esposizione prolungata all’infiammazione, rendendo i bambini più vulnerabili a tali anomalie.

 

Questi bambini non sono in grado di tollerare in modo sicuro i vaccini attualmente raccomandati.

 

«Il risultato è un meccanismo biologicamente plausibile che collega la vaccinazione precoce alla morte improvvisa del neonato, in particolare nei soggetti con vulnerabilità genetiche o dello sviluppo», secondo l’ epidemiologo Nicolas Hulscher, che per primo ha presentato lo studio.

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Capacità dei neonati di metabolizzare le tossine non completamente sviluppata, altamente variabile

I neonati nascono con un sistema enzimatico CYP450 immaturo che matura nei primi anni di vita. I neonati pretermine e altri neonati possono avere una capacità del CYP450 particolarmente limitata.

 

Karl Jablonowski, Ph.D., ricercatore senior presso Children’s Health Defense, ha affermato che il percorso di disintossicazione del CYP450 è incompleto alla nascita perché, fino a poco tempo fa, l’organismo dei neonati non aveva bisogno di confrontarsi con più tossine.

 

«In assenza della medicina moderna, il neonato consuma solo il latte materno», ha affermato, e quindi non avrebbe bisogno di metabolizzare eccipienti tossici.

 

Gli autori hanno notato che, oltre al fatto che i percorsi sono sviluppati solo parzialmente in tutti i neonati, alcuni neonati ereditano anche geni diversi che possono influenzare i loro sistemi CYP450.

 

Le differenze genetiche possono portare a polimorfismi del CYP450, ovvero a diverse espressioni del sistema enzimatico, che possono rendere alcuni neonati particolarmente limitati nella loro capacità di eliminare le tossine.

 

Gli eccipienti sono generalmente presenti in tracce in qualsiasi vaccino, ma l’esposizione cumulativa a più vaccini nella prima infanzia può facilmente superare le soglie di sicurezza, in particolare nei neonati con polimorfismi del CYP450, hanno affermato gli autori.

 

Ai neonati prematuri, che hanno maggiori probabilità di avere vie CYP450 sottosviluppate, vengono spesso somministrati più vaccini rispetto agli altri neonati, perché hanno risposte immunitarie alterate e non riescono a raggiungere i marcatori immunitari desiderati senza ulteriori dosi di vaccino, hanno scritto gli autori.

 

«Il periodo di gestazione umana si è accorciato nella medicina moderna, con tagli cesarei programmati per anticipare l’inizio del travaglio», ha affermato Jablonowski. «È pratica medica comune somministrare vaccini in modo più aggressivo ai neonati prematuri, quando la loro costituzione è meno in grado di gestirli».

 

«Un bambino nato oggi negli Stati Uniti dovrebbe convivere con le tossine contenute nel vaccino contro l’epatite B fin dalla nascita. E due mesi dopo – quello che può essere descritto come un assalto tossico – con i vaccini contro virus respiratorio sinciziale, epatite B, rotavirus, difterite, tetano, pertosse, Hib, pneumococco e poliovirus».

 

Il CYP450 non è responsabile del metabolismo di tutti gli eccipienti. Tuttavia, svolge un ruolo per molti di essi, inclusi gli adiuvanti come i sali di alluminio, ampiamente utilizzati nei vaccini e considerati sicuri dagli enti regolatori. Svolge anche un ruolo nel metabolismo della formaldeide e del polisorbato 80.

 

Gli autori del nuovo studio hanno anche osservato che l’attivazione immunitaria dovuta alla vaccinazione stessa può sopprimere l’attività dell’enzima CYP450.

 

«Ciò innesca un pericoloso circolo vizioso: la stessa attivazione immunitaria innescata dalla vaccinazione compromette ulteriormente la capacità del neonato di disintossicarsi dagli eccipienti tossici, amplificando la tossicità sistemica», ha scritto Hulscher.

 

Jablonowski ha osservato che «il Tylenol, ancora somministrato in modo esasperante a neonati come i gemelli Shaw, interagisce anche con il pathway del CYP450. L’ultima cosa che si vuole è intasare i meccanismi di eliminazione delle tossine quando si inondano i neonati di tossine».

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Il CYP450 potrebbe essere collegato alla SIDS e ad altri disturbi dello sviluppo neurologico

Ogni anno, negli Stati Uniti si registrano più di cinque decessi infantili ogni 1.000 nati vivi, un tasso di gran lunga superiore a quello di altri Paesi ad alto reddito. Dopo malformazioni congenite e prematurità, la SIDS è la terza causa di morte infantile.

 

I dati del VAERS rivelano che oltre il 75% dei casi di SIDS segnalati si verifica entro una settimana dalla vaccinazione, con un picco il secondo giorno, secondo Hulscher, mentre i restanti casi si verificano entro due mesi dalla vaccinazione. Ciò suggerisce fortemente un legame biologico con i vaccini, ha scritto.

 

Le prove dimostrano inoltre che, poiché non esistono protocolli post-mortem coerenti, le indagini sulle morti indesiderate in età adulta spesso non riescono a individuare tutti i casi e le possibili cause neuropatologiche, il che potrebbe oscurare il collegamento con i vaccini, hanno osservato gli autori del rapporto.

 

Gli autori hanno scoperto che le prove contenute nella ricerca sottoposta a revisione paritaria supportano la loro ipotesi secondo cui la soppressione degli enzimi CYP450 indotta dall’infiammazione solleva interrogativi sulla vulnerabilità metabolica nei neonati e suggerisce che potrebbe essere collegata alla SIDS, nonché ad altri disturbi dello sviluppo neurologico e problemi di salute infantile.

 

Sostengono che una limitata capacità metabolica nei primi anni di vita aumenta gli effetti dell’esposizione a sostanze tossiche e potrebbe essere collegata a condizioni quali il disturbo dello spettro autistico (ASD), il disturbo da deficit di attenzione/iperattività (ADHD), l’epilessia e i disturbi dell’apprendimento.

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Lo studio solleva la possibilità di interventi terapeutici

Gli autori sollecitano ulteriori ricerche su questi temi e sostengono che tali ricerche potrebbero avere importanti implicazioni per gli interventi terapeutici.

 

Gli attuali programmi di vaccinazione non tengono conto delle variazioni nella capacità dei neonati di metabolizzare i vaccini, né dell’impatto dei polimorfismi negli enzimi chiave, che possono avere gravi conseguenze per i neonati che sono scarsi metabolizzatori, hanno scritto.

 

I loro risultati sollevano la possibilità che i neonati possano essere sottoposti a screening per i polimorfismi genetici correlati al CYP450. Ciò consentirebbe ai medici di modificare il dosaggio dei farmaci per ridurre al minimo gli effetti avversi e salvare vite umane.

 

Aiuterebbe a sostenere la medicina di precisione, hanno affermato, aggiungendo:

 

«Comprendere l’impatto metabolico degli eccipienti dei vaccini e l’esposizione cumulativa potrebbe contribuire a pratiche di immunizzazione più sicure. Integrare queste conoscenze nella pratica clinica potrebbe in definitiva migliorare i risultati clinici dei pazienti, allineando gli interventi terapeutici ai profili metabolici individuali».

 

L’integrazione della «farmacogenomica», ovvero lo studio di come i geni influenzano il modo in cui una persona risponde ai farmaci, nella valutazione del rischio dei vaccini potrebbe avere un impatto significativo sulla sicurezza e l’efficacia dei vaccini per tutti i neonati.

 

«Nel complesso, questi risultati supportano l’urgente rimozione degli eccipienti tossici dai vaccini e una completa ristrutturazione del programma di ipervaccinazione infantile, come passi necessari per rendere l’America di nuovo sana», ha affermato Hulscher.

 

Jablonowski concorda. «Incorporare la farmacogenomica e la metabolomica nella valutazione del rischio vaccinale è un’idea sensata che si distingue dalle pratiche di immunizzazione altrimenti sconsiderate».

 

Brenda Baletti

Ph.D.

 

© 3 giugno 2025, Children’s Health Defense, Inc. Questo articolo è riprodotto e distribuito con il permesso di Children’s Health Defense, Inc. Vuoi saperne di più dalla Difesa della salute dei bambini? Iscriviti per ricevere gratuitamente notizie e aggiornamenti da Robert F. Kennedy, Jr. e la Difesa della salute dei bambini. La tua donazione ci aiuterà a supportare gli sforzi di CHD.

 

Renovatio 21 offre questa traduzione per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

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Una minimale, micrologica avventura sanitaria di questo pater familias, e del suo figliolo, per cercare di significare il grande disegno di distruzione in cui, ticket dopo ticket, ci troviamo tutti.   Venerdì mattina il bambino, mentre lo porto verso uno dei suoi ultimi giorni di quarta elementare, mi dice che ha qualcosa all’orecchio. Non ci vuole molto a capire che, semplicemente, gli si è formato un tappo. Di fatto, quando gli parlo, sembra sentire poco. Un breve consulto con la madre conferma: «ma sì, è come quello dell’anno scorso. Non ti ricordi?» No, sono il padre, non la mamma, la mia tendenza è svuotare, in automatico, in tempi brevissimi, la cache cerebrale dei problemi.   Un’altra cosa mi spinge a mettere più attenzione del dovuto su quel tappo: lo ha, con estrema probabilità, ereditato direttamente da me. Nel senso: l’orecchio è stato a lungo per me quello che definiscono un «organo-bersaglio», come si alza lo stress ecco che arrivano occlusioni, otiti esterne dolorosissime, o perfino (immagino che la cosa sia collegata) problemi ai denti del giudizio.

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Non prendo la cosa sottogamba, perché so che non passa da solo: puoi provare tutto, gli spray, le goccette che ti sfrigolano dentro, i candelotti fumanti piantati verso il timpano. Un tappo è un tappo: si leva solo con una certa pressione. In passato, me lo hanno tolto otorinolaringoiatri, dottori generici, persino qualche infermiera di ambulatorio. Non bevo, quindi posso dire che nella vita ho stappato più orecchi che bottiglie di alcolico.   Non è una grande operazione: serve solo il siringone e quella bacinella metallica a forma di rene (o di fagiuolo) che devi tenere a lato, dove ad una certa apparirà, in tutto il suo orrore, il tappo, mentre nell’orecchio risuona la libertà, per la gioia dell’organismo tutto. La durata totale è, chiunque lo sa, qualche minuto appena.   Tornato a casa la sera, lo trovo nella stessa condizione. Il bambino sente poco, è ancora avvolto in quella sensazione di fastidio e rassegnazione che ricordo benissimo.   Decido di fare la mossa: è venerdì sera, il pediatra non c’è (e non devo essere sicuro che faccia queste cose, mi dicono), posso solo pensare ad una mossa radicale, portarlo in ospedale, al Pronto Soccorso pediatrico. Un luogo che, da passate esperienze, ricordo non troppo affollato, dove si può incontrare un medico abbastanza speditamente. Vuoi non trovare lì un dottore che gli lavi l’orecchio in un minuto, con pure alle spalle una laurea per farlo e un giuramento, quello di Ippocrate, per cui vive nell’imperativo di guarire il prossimo (specie quando il prossimo è un bimbo)?   Caricato in macchina il bambino, e ivi portatolo, mi trovo innanzi a diversi capannelli di infermiere del reparto emergenze dei bambini che chiacchierano: il lavoro non deve essere tantissimo, bene. Arrivati dietro il vetro dell’ufficietto che reca la scritta «accettazione» (il posto giusto, no?) una ragazza con la mascherina, con attorno altre colleghe con cui stava amabilmente conversando nel silenzio del reparto vuoto, mi dà l’informazione che avevo tentato scacciare dalla testa: per accedere al Pronto Soccorso Pediatrico devo prima passare da quello degli adulti.   Il che vuol dire ore e ore di attesa se devi vedere un medico, in un’atmosfera di estenuazione che richiede le guardie giurate in sala d’attesa (novità degli ultimi anni: cos’è cambiato? È peggiorato il servizio? Sono arrivati «ospiti» stranieri che tendono alle escandescenze? Il combinato disposto dei due fenomeni). La fila più drammatica, illogica, disperante è in realtà prima ancora, quella del cosiddetto «triage» – no, la parola italiana non la vogliono: è già questo dice tanto sulla macchina della sanità, cioè sul fatto che la sanità è una macchina.   C’est-à-dire: fai la fila, lungamente, solo per dire cos’hai e farti aprire la pratica da una tizia dietro ad un doppiovetro. Una fila disorganizzata, senza biglietti e con la costante di masse immigrate prima di te (la condizione comune della cittadinanza nella Repubblica Italiana nel secolo XXI), nessuna attenzione per la tua situazione – sei grave? Hai bisogno solo di una carta? etc. – cioè, nessun triage di nessun tipo.   Qui scatta la prima realizzazione: la tua situazione medica, la tua vita, è in realtà sottomessa ad un sistema di prenotazione. Un macchinario più grande di te, che non ti considera davvero se non come numero, e di fatto ti danno un braccialetto con un codice a barre, una cosa che era nei film di fantascienza distopica non troppo anni fa.

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Lo dico perché lo so per esperienza: l’anno scorso, in una storia che non ho ancora raccontato su Renovatio 21, ma che qualche lettore conosce perché coincise con la rarità assoluta del sito fermo per una settimana, andai in pronto soccorso per un malanno piuttosto intenso. Flashback.   Fu proprio durante la fila del triage, in cui arrivai bianco e barcollante, che ad un certo punto cedetti in modo talmente spettacoloso che ancora oggi ne vado fiero: al culmine della capacità di resistere al problema che avevo, mi sentii mancare completamente il respiro (sensazione mai avuta, neanche facendo una vasca di piscina in apnea), non avevo nemmeno la forza di chiedere aiuto… quindi, forse per la terza o quarta volta in tutta l’intera mia esistenza, vomitai – ad abundantiam, scatenando il fuggi fuggi generale, neanche fosse apparso nel nosocomio Godzilla, o un altro mostro gigante sputatore a caso.   Era l’immagine di un uomo piegato dal problema biologico, e nessuno, nessun medico, nessun infermiere, nel limbo-triage della coda burocratica multietnica, lo volle aiutare: furono proprio le guardie giurate, quelli che non hanno giurato ipocritamente per Ippocrate, e forse proprio per questo hanno conservato una qualche umanità. Quando tornai a respirare, messo dal personale in una sedia a rotelle, immaginavo che mi avrebbero fatto saltare la coda, vista la gravità – quelli prima di me stavano tutti in piedi e non avevano appena rimesso un ettolitro di anima, vitrea e gialla, sul pavimento davanti alla porta automatica proibita (si apre solo da dentro) che dà al reparto dove attendere senza speranza per altre ore ed ore.   Maddeché: feci un’altra ora di fila seduto, sconvolto e dolorante, sulla sedia a rotelle ospedaliera, e arrivato al bancone con il supervetro, l’infermiere pure mi redarguì per quello che avevo fatto. A quel punto, raccolta un po’ di adrenalina e di rabbia, mi alzai dalla sedia e alzai la voce flebile: «eccerto, la prossima volta che sto per morire improvvisamente soffocato avverto prima voi, però guardi, c’era la sua fila». L’infermiere rimase zitto.   Il proseguo di questa storia dell’anno scorso, il cui racconto rimando da tempo perché tocca il tema delicato delle trasfusioni e del loro rifiuto, lo racconto un’altra volta – anticipo tuttavia che di lì a qualche giorno di ospedalizzazione il primario con codazzo di una diecina di dottori si presentò al mio letto e, poco prima che fossi operato, usò parole che dipinsero con chiarezza nella mia mente l’immagine della mia morte per dissanguamento sul tavolo operatorio. «Lei rifiuta le trasfusioni … e tante altre cose… quindi, se succede qualcosa, che facciamo, la lasciamo morire dissanguato?»   Devo dire che nessuno, nemmeno nelle risse più belluine, mi aveva mai fatto sentire una violenza simile, la violenza della morte, con tutto ciò che adesso essa comporta per la mia discendenza. La risposta mi venne immediata: «visto che si è portato un po’ di testimoni, dichiaro pure pubblicamente che rifiuto anche l’espianto di organi». Il barone chirurgico, e tutti i suoi vassalli, valvassori, valvassini in camice bianco uscirono in silenzio, senza salutare.   Quindi, mentre venerdì sera aspettavo in quella stessa fila con mio figlio, non potevo non pensare a quei momenti dell’estate scorso. Non potevo permettermi di far passare un bambino, sangue del mio sangue, attraverso il processo di disumanizzazione che conosco e ho testimoniato – anche solo quello dell’attesa ridicola del triage, che è solo il primo grado della cancellazione della dignità umana con la sanità moderna può tranquillamente portarti alla morte. (Renovatio 21, lo sapete, non parla d’altro, su tutti i fronti declinabili).
  Fine flashback. Quindi, dopo aver resistito mezzora in fila solo per avere un pezzo di carta con cui far curare un bimbo in un reparto vuoto, non gliela ho più fatta.   Il padre, stringendo la mano del figlio, lo porta via. «Papà… ma tutti gli ospedali sono così?» chiede lui, intuendo che il silenzio prolungato del genitore nasconde l’incontenibile disprezzo per il sistema. C’è di peggio, gli dico. Ma la questione è la Sanità, lo Stato moderno, in generale, cioè lo Stato impersonale e immorale che giocoforza fa male agli uomini sino ad eliminarli, gli spiego borbottando come il vecchio che sto diventando, incurante del fatto che questi sono discorsi per i miei lettori e non per un bambino di nove anni.   Piano B: mancano pochi minuti alle 20, la grande farmacia sulla strada è aperta. Lì, avevo visto in precedenza, eseguono visite otoscopiche e lavaggi auricolari. Sessanta euro: un salasso. Sono disposto a sobbarcarmelo, pur di liberare mio figlio dal suo problemino all’orecchio, che è il mio. (Sangue del mio sangue… cerume del mio cerume?)   Facciamo la fila anche qui, ma in questo caso c’è il numero, stile salumiere al supermercato. Quindi, la sorpresa: no, in realtà i lavaggi non li fanno, cioè li fanno, sì, ma non sono i farmacisti (anche loro laureati, anche loro con giuramento), ma delle infermiere apposite, che vengono solo ogni tanto, bisogna prenotare, etc. Usciamo dal negozio con il materiale per il Piano C: spruzzo di acqua di mare da 15 euro a bomboletta, flaconcino di dimetilbenzene per ammorbidire il tappo da non so quanto.   Arrivati a casa il Piano C si rivela esattamente quello a cui cercavo di non pensare: un fallimento totale. Lo spruzzetto è insignificante, le goccette sono inefficaci al punto che pensiamo di aver fatto peggio.

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È a questo punto che si fa largo nella mia mente – che mai si deve rassegnare, se si tratta di un bambino – il Piano D: chiamare la guardia medica, quella bizzarra istituzione parallela all’ospedale, l’ambulatorietto dove, diciamoci le cose come stanno, vai quando hai troppa paura della fila in pronto soccorso. Apre la sera, a significare che loro ci sono quando i dottori non ci sono, come se prima essere curato, o anche solo ascoltato, avviene senza problema. Ad ogni modo, una volta andavi, entravi, aspettavi, parlavi col dottore, che ti dava la prescrizione, e via. Non più: dopo il COVID devi chiamare al telefono, dove puoi trovare a volte una persona che ti scoraggia dal presentarti, e prenotare. La pandemia è stata essenzialmente una buropandemia, con la burocrazia che ha infettato qualsiasi istituzione, dalle scuole, alle banche, ai bar… lo sappiamo.   Faccio il numero della guardia medica, ma è troppo presto. Rispondono solo dopo le 20. Attendo, chiamo. Dopo un po’ rispondono. Racconto. Mi dicono che la guardia medica non si occupa dei bambini, che un tappo all’orecchio non è un’emergenza, e di certo loro non fanno lavaggi all’orecchio… io faccio silenzio, perché nell’intimo comincio a capire che la tattica vincente è quella di fare in modo che ascoltino se stessi. Funziona: la ragazza – la dottoressa – mi dice che vabbè, posso portarlo, ma solo per farlo vedere.   Fatta, penso io: ambiente ambulatoriale, niente masse afroasiatiche che premono alle porte, solo un medico e un bambino che sta male, che può essere aiutato con una manovra che dura un minuto, migliorandogli di netto la vita.   Macché. Arriviamo in ambulatorio, una casa cubica grigia praticamente senza finestre e un portone blindato modernissimo. Suoni il campanello, confermi di aver un appuntamento. Entrati, nessuno ci riceve, stiamo 15 minuti ad aspettare da soli al buio. Di sopra senti degli schiamazzi: il personale sta facendo bisbocce, suona come una pausa prolungata, visto che l’orario dell’appuntamento, e dell’inizio delle attività dell’ambulatorio, è quello delle 20:30.   Finalmente scende una ragazzina in camice, è una dottoressa, è quella con cui ho parlato al telefono. Se ha avuto l’umanità di visitare il piccolo, vuoi che non abbia quella di aiutarlo con la più semplice delle procedure, fatta letteralmente di acqua fresca? Guardo nell’armadio: la bacinella-fagiuola c’è, il siringone pure. Fatta. Fatta. Dai.   Invece, la dott.ssa Tizia ci dice che non può fare nulla, loro non guardano i bambini, tantomeno possono fare lavaggi, per quelli devo andare dal pediatra, e visto che non ci sarà per giorni, al Pronto Soccorso pediatrico, cioè il luogo da cui sono fuggito in preda alla rabbia contro il mostro sanitario applicato su tutti, soprattutto sul mio bimbo.   Epperò, per gentilezza, la Tizia dottoressa si offre di «guardarlo», come promesso, e lo fa: fuori l’otoscopio, e in meno di cinque secondi scatta la difficile diagnosi: «sì c’è un bel tappo». Grazie, non avevamo capito. Poi si mette a scrivere a verbale, e qui ci mette un quarto d’ora. La proporzione, mentre aspetto, mi è già chiarissima: cinque secondi per guardare il bambino, e non risolvere nulla perché non è sua mansione, e un quarto d’ora per riempire un modulo burocratico: cosa è importante, per i medici odierni, è chiarissimo. Prima della persona, viene la macchina, il sistema sanitario di cui sono ingranaggi salariati. Prima di Ippocrate, viene il Centro Unico di Prenotazione, il CUP.   La dottoressa ci dà pure una prescrizione per un altro tipo di gocce. Tornando a casa, sconfitti, ci saranno anche quelle da comprare. Così, dirigo verso la farmacia di turno (a quel punto la sola aperta) di un quartiere non semplicissimo (cioè, vinto dall’invasione immigrata), una farmacia non nota per la gentilezza: nemmeno parli attraverso lo spioncino, ma tramite il cassettone con cui devi scambiare la tessera sanitaria, i soldi, il bancomat, contro i farmaci – il farmacista non lo vedi in faccia mai, e neppure, in verità, ne odi la voce. È una transazione impersonale e difficile, cui già mi ero proprio lì sottoposto settimane prima sempre fuori orario, facendo anche allora una fila colossale.   Arriviamo, tra la serqua di immigrati che spuntano ovunque tra il bar e il parchetto circostante, notiamo davanti a noi un africano: ha la testa praticamente dentro il cassettone serale della farmacia, è piegato in avanti e parla a voce altissima, del resto la struttura, come ho detto, non sembra essere fatta per ascoltare il paziente. «Io devo prendere quel farmaco» spiega l’africano al farmacista invisibile. «Io devo… io prendo sempre… non ho ricetta perché non posso andare dal dottor, perché lavoro, faccio autista tutto giorno», garantisce. A fianco a lui, un altro africano a caso, in ciabatte e cappello da baseball, fissa nel vuoto il tramonto sui condomini del quartiere popolare.   Davanti alla persistenza dell’immigrato che cerca di farsi dare un farmaco senza ricetta, e alla blindatura del farmacista ignoto che la rimbalza, perdo, per l’ennesima vola la pazienza: non posso perdere altro tempo qui, con il bambino per mano, e neppure posso rischiare quando l’africano, probabilisticamente, andrà in escandescenze, non capendo, o fingendo di non capire, che per la medicina che vuole ci vuole un documento medico, la prescrizione. Quando ciò accadrà, penso, il pericolo ce lo beccheremo tutto io e mio figlio, che siamo in partibus infidelium, mentre il farmacista invisibile tornerà tranquillo a guardarsi Netflix, protetto da schermature di metallo e vetro antisfondamento.

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Fuggiamo anche da lì, mentre il risentimento per il mondialismo e la Necrocultura sanitaria traspirano dalla mia pelle – il piccolo, sembra comprendere telepaticamente. Del resto è mio figlio, e lo sto crescendo io… Il problema all’orecchio tuttavia rimane, e il papà non sa davvero risolverlo.   Ripieghiamo: altra farmacia di turno, fuori città. Ci metteremo un po’, ma almeno non permetterò che mio figlio possa essere messo in pericolo da colui che senz’altro ci pagherà le pensioni. Qui c’è uno spioncino dci venti centimetri per venti, una finestrella che ti fa vedere una stanza vuota e, quando entra, parte della faccia del farmacista di turno. Qui mi azzardo: «scusi… non è che fate lavaggi auricolari? Se non può aprirmi le passo la testa di mio figlio attraverso la finestrella». Sorride. Non ha idea dello sforzo, e dell’umiliazione, che sto vivendo per trovare qualcuno che aiuti mio figlio. È notte inoltrata.   A casa, è tardi. Preghiere, libro, a letto. Quando gli spengo la luce spero tanto che si svegli con il problema risolto automaticamente. Non è così. Discussioni mattutine con la madre. Forse va via da solo, ma bisogna aspettare. Era successo quando eravamo andati alle terme (altro evento svuotato via dalla memoria cache paterna). Va bene.   Sabato mattinata, lavoro, faccio la spesa, commissioni varie, ma il pensiero mi tarantola. Cosa sto facendo? Lo lascio lì, mio figlio, con un malanno addosso? Ma che roba è?   Il giorno dopo avrebbe avuto il capitolo finale di una delle cose più fondamentali dell’universo, il minibasket. Cosa fa, va in campo e non sente le indicazioni dell’allenatrice? Poco dopo, ci sarebbe un ulteriore evento determinante: esame di passaggio di cintura a judo. Il lettore di Renovatio 21 sa che, nel mondo moderno che ha programmaticamente cancellato ogni forma di iniziazione maschile (con il risultato di generazioni di drogati ed omosessuali), il genitore deve attaccarsi allo sport, surrogato della caccia e della guerra, per ogni briciola iniziatica di sviluppo spirituale possibile.   È così che prendo la decisione più dura: vado a Canossa. Cioè, torno in ospedale. Piano E. Va bene, farò la fila al triage del Pronto Soccorso adulto, quella dove rischiavo di morire soffocato l’anno passato, è per il bene di mio figlio. E poi magari a quest’ora non c’è nessuno, ci mandano subito al pediatrico, e zac, problema risolto, assieme alla mia dissonanza cognitiva di padre che non riesce a trovare, in tutto il sistema, una persona in grado di mettere un po’ di acqua nell’orecchio di un bambino.   Muniti di una Nintendo Switch strategica – per cui la noia me la ciuccio via io, mentre lui seduto gioca a Zelda o Capitan Tsubasa – ci ripresentiamo al Pronto Soccorso, e – colpo di fortuna! Alè! – non v’è nessuno. Subito al bancone, dove però l’infermiera ci mette un po’ a guardarci in faccia. Quando lo fa, dobbiamo rispiegare tutto, ma va bene, siamo vicini alla meta, l’orecchio stappato è dietro l’angolo. Scatta il braccialetto con codice a barre distopico. Evvai. Ampie falcate verso il Pronto Soccorso pediatrico, cioè verso la tanto attesa liberazione auricolare.   Eccoci: le infermiere pediatriche sono appollaiate nei consueti capannelli a reparto praticamente vuoto. Ripeti tutta la storia. Poi le domande importanti. Salute? Sì, sempre in salute. Allergie? No, nessuna. Vaccini?   «No».   «Dico, i vaccini pediatrici normali…», precisa lei. No, nemmeno uno.   L’infermiera esita, si irrigidisce un pochino, vedo. Poi chiede di possibili allergie di farmaci. No. Io ribadisco che vorrei solo, compatibilmente con i loro tempi e le emergenze, che lavassero l’orecchio di mio figlio. Lei chiama una collega più giovane, che, mascherata, mi dice perentoria: ma no, qui non facciamo lavaggi d’orecchio, ci mancherebbe, e poi sono lì per le emergenze… Non c’è nessuno, dico io. «Non possiamo fare questa cosa», dice. Va bene, dico, ma c’è un dottore, in questo momento? Ne hanno disponibili addirittura due, mi informa, e io penso il silenzio del reparto vuoto è tale che probabilmente stanno pure ascoltando direttamente la conversazione.   Le dottoresse, continua l’infermiera mascherinata, al massimo possono vedere il bambino.   A quel punto mi indurisco io: scusi, siamo già stati in guardia medica, abbiamo il referto, cinque secondi di otoscopio hanno confermato che il bambino ha solo un tappo, nient’altro. A questo punto, se non è possibile fare altro, noi andiamo, stiamo perdendo tempo noi, facendone perdere anche a voi.   «È libero di farlo. Metteremo “non risponde alla chiamata”». Chiamata de che? Praticamente ci siamo solo noi. E quindi, pagherò il ticket anche senza ottenere nulla? «Sì certo, arriverà a casa». Nella mia testa, mentre il fastidio tocca vette stratosferiche, si fa largo anche la prospettiva che poi, da qualche parte resterà il fatto che porto mio figlio all’ospedale e poi però spariamo. Sapete: quel tipo di cosa che poi può essere usato contro di te quando magari le istituzioni cercano materia per darti addosso – chi conosce la storia dell’antivaccinismo in Italia sa di cosa parlo.

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Per cui, eccoci con le mani legate (da un braccialetto con codice a barre). La chiamata però è, come intuibile, immediata. Nell’ambulatorio c’è una dottoressa semi-meridionale, anche gentile, con uno stuolo di infermiere che vanno e vengono dalle porte. C’è la possibilità che si consumi l’atto di umanità, e la dottoressa levi il tappo di cerume a mio figlio? No. «Non sono cose che facciamo. Le fa l’otorinolaringoiatra». Quindi, ci mandate di sopra, in otorinolaringoiatria, chiedo. «No, non si può. L’otorino il sabato e la domenica c’è solo al mattino fino a mezzogiorno. È andato via poche ore fa. Non è che possiamo richiamarlo per un orecchio tappato».   Io non replico nulla, continuo semplicemente a concentrare il mio sentimento guardandola dritta negli occhi. Ad un certo punto, per un istante brevissimo, sento che anche lei capisce quanto la situazione sia grottesca, e toglie lo sguardo. Forse solo per un attimo, nella sua mente può essersi fatto largo il pensiero che il suo lavoro, anzi il suo compito, la sua missione, è diverso dal passare le carte, dal fare solo ciò che è demandato burocraticamente?   Forse. Io però ad un certo punto obietto, sia pure con una certa calma: «dottoressa, quindi, mi vuole dire che, tra le migliaia di dottori e infermieri che lavorano in questo ospedale, non c’è nessuno che può fare un lavaggio all’orecchio di mio figlio?». No, mi dice, bisogna sentire l’otorino, che non c’è. Ecco, potete venire domani mattina, se e quando avrà tempo, vi seguirà lui. Queste sono le carte.   Usciamo anche da questo ennesimo capitolo di tritacarne buro-sanitario sconfitti. Nessuno, nell’universo provinciale di dottori, infermieri, farmacisti, vuole aiutarci, nemmeno con un’inezia come un lavaggio d’orecchio – non è (più) suo compito, punto.   SMS alla madre, che era già disillusa. «Tornate a casa… lo sapevamo». Io però non ho intenzione di mollare, e quindi ragiono: quello che ci serve non è un medico, né un sanitario, uno specialista, nulla. No: dobbiamo solo trovare, qui dentro, una persona rimasta umana. Dobbiamo trovare qualcuno che si ricorda che ha giurato per Ippocrate, e non per il CUP. Qualcuno che vede un bambino mogio e, invece, di compilare scartoffie per mandarlo via, lo aiuta.   Piano F, Mission Impossibile: trovare umanità residua, in ospedale? È l’ultima cosa da fare, l’extrema ratio a cui giungere: la ricerca della persona umana. Saltare i canali istituzionali, l’imbuto della burocrazia sanitaria, e parlare faccia a faccia con un essere umano non divorato dalla macchina.   Quindi, ascensore. Reparto Otorinolaringoiatria, dritti – e pazienza se mi hanno detto che il dottore non c’è: una laurea non è la sostanza che stiamo cercando in questo momento. Arriviamo, ho il bambino per mano: c’è silenzio, ma capisco che sono tutti impegnati. In una saletta-ambulatorio c’è un tizio seduto ad una scrivania che parla con uno in piedi, immagino siano dottore ed infermiere, non so, faccio sempre fatica a distinguerli, forse è un effetto voluto, come la sparizione delle suore dagli ospedali.   Mi guardano, ma non si curano, non stanno chiacchierando, ma discutendo operativamente. Io, per cortesia, non li interrompo. So che per la cosa che devo chiedere non devo sembrare scortese, perché ho capito quanto questa quisquilia sia contra legem, quanto l’elasticità della medicina sia totalmente perduta. Non insisto, ma persisto, aspetto fuori dalla porta.   Arriva una vecchia infermiera: «scusi… ha bisogno?» Le spiego tutto. Vorrei solo un lavaggio d’orecchio per questo bambino. «Ma è stato in Pronto Soccorso pediatrico?»… «Veniamo da lì. Ci hanno dato appuntamento qui per domani. In realtà io mi chiedevo se non ci fosse qualcuno in grado di farlo ora… Signora, sono due giorni che giro come una palla da flipper» Mentre mi esce questa similitudine mai venutami prima, sento che, in questo contesto, le mie parole, anche nella volontà di non lasciar trasparire nessun fastidio, possono suonare come pura sfacciataggine. Ma come, senza prenotazione? Ma come, fuori orario così?   «Senta, in realtà il dottore è ancora qui… è molto impegnato però… doveva andare via ore fa. Io non le assicuro nulla, se posso glielo chiedo, vediamo cosa dice. Lei aspetti qui». Mi si apre il cuore: «signora, quello che sta facendo per noi è già ora molto di più quello che ha fatto una dozzina di suoi colleghi nelle ultime ore».

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Il ragionamento era giusto: un essere umano in ospedale ancora esisteva. Ora bisognava vedere se questa sua umanità era condivisa con il suo superiore: cosa non impossibile, perché bonun sui diffusivum, diceva San Tommaso, il bene si espande, la carità è contagiosa. Aspetto in piedi sulla porta, il bambino lo metto seduto con i videogiochi. In reparto lavoro ne avevano: torme di pazienti con il naso fasciato escono dalle camere durante l’orario di visita, ad un certo punto vedo una ragazza che crolla al suolo, non so se per scherzo, mentre famigliari e infermieri turbinano attorno a lei. Un sabato pomeriggio intenso, e io sono lì sono per uno stupido tappo all’orecchio, in effetti.   Arriva, infine, la tanto agognata notizia: vedo l’infermiera buona che parla in fondo al corridoio con il dottore, che è proprio quello che prima stava alla scrivania. Vengono verso di me, lui mi dice che va bene, è tardi, ma facciamolo. Piazzano il bambino su una sedia accanto ad una macchina complicata, che in realtà è uno spruzzo per le orecchie professionale, montato però in modo che il tubicino non arriva benissimo (quanto lo usano…?).   Entrano in sala, dal nulla, altre quattro infermiere, ognuna tiene qualcosa. Il dottore va di otoscopio e conferma: tappone sul destro, tappino, pure, sul sinistro. Zum, acqua nell’orecchio, gli occhietti chiusi in una smorfia di dolore. Salta fuori una roba nera gigantesca, tra inni esultanti delle infermiere.  
  Per il sinistro è più difficile, il dottore chiede uno strumento con un cognome francese – pinza di Villot? Boh! – che nessuna delle astanti sa cosa sia. Se lo trova lui, un ferretto ansato. Due colpetti dentro al padiglione auricolare, tra smorfie di estemporaneo dolore vero del bambino. Acqua: salta un altro tappo, più chiaro, che nuota sconfitto nella bacinella metallica. Altri versi esultanti delle infermiere.   Fatto. Durata del tutto: meno, molto meno di cinque minuti. Difficoltà dell’operazione: inesistente – ma riconosco il bonus ricevuto dall’estrema professionalità dello specialista. Il quale giunge infine alla tremenda realizzazione… non ci sono le carte adeguate… «quindi non posso scrivere niente?» No, però ha aiutato il bambino. E suo padre. Grazie. Grazie infinite.   Il piccolo, come nuovo. Quel senso di liberazione lo conosco bene: sono io, del resto, che probabilmente gli ho trasmesso geneticamente, o chissà in che altro modo, quel problema. Il sabato pomeriggio è andato totalmente (con tutta la sera del venerdì), e lui rifiuta pure di suggellare la vittoria con il gelato: è un bambino tanto bravo, i dolci li mangia solo raramente, e solo quando ne ha davvero voglia.   Io ho modo di elaborare sull’accaduto: sì, come sapevo, la classe medica è cambiata, in nessun modo sente la necessità di aiutare il prossimo, come prevedeva il giuramento di Ippocrate. Non è avvenuto tutto di colpo: giurare di «non somministrare farmaci mortali o suggerire consigli tali, né fornire medicinali abortivi» e poi lavorare tra 194, RU486, vaccini, psicofarmaci, eutanasia, predazione degli organi, non è conciliabile.   Tuttavia, capiamo come la pandemia abbia completato la trasformazione: il dottore è esecutore, lo si può vedere solo tramite interfaccia informatica (quando lo si vede: basta una mail, e ti trovi il farmaco prescritto in farmacia, senza neanche risposta), e una sua eventuale dissidenza, in scienza e coscienza, rispetto alla vulgata dominante è punita draconianamente: radiazione, penale, pubblico ludibrio.   Se la professione medica si automatizza, non possiamo aspettarci che essa tratti i pazienti anzitutto come esseri umani. Giocoforza, la sanità odierna, con i suoi dogmi e i suoi computer, i codici a barre e l’ultra-specialismo, i farmaci non testati e la fine del consenso informato, non può che essere un processo disumanizzante.   Non sono concetti astratti, analisi bioetiche da accademia: è la vostra realtà presente, è ciò che c’è dietro ad un’odissea sfiancante per trovare qualcuno che, semplicemente, faccia un lavaggio auricolare ad un bambino.   Ora, tremiamo davanti all’imbuto che la Sanità dell’impero della Necrocultura mette davanti a chiunque ha un problema ben più grave. E vibriamo di rabbia quando pensiamo che tale problema può essere stato causato dal problema stesso. Che il danno iatrogeno sia in realtà diffuso al punto da rendere insostenibile la società nel suo insieme.   Non si tratta di una questione di poco conto. La ridefinizione totale del sistema sanitario ridotto ad apparato di dolore e morte, pena l’implosione sua e della civiltà, è la sfida più grande che ogni partito politico raziocinante, ogni essere umano rimasto tale, deve intraprendere.   Perché, ne ho dimostrazione materiale, questa macchina disumana è qualcosa che non possiamo permetterci vedere inflitta sui nostri figli.   Roberto Dal Bosco

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Essere genitori

Donna sudafricana condannata all’ergastolo per aver venduto la figlia di 6 anni. È finita sacrificata per pozioni di magia nera?

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Un tribunale sudafricano ha condannato all’ergastolo una donna per aver rapito e venduto la figlia di 6 anni; i pubblici ministeri sostengono che la bambina sia stata venduta a un guaritore tradizionale per i suoi occhi e la sua carnagione chiara.

 

La bambina, Joshlin Smith, è scomparsa nel febbraio dell’anno scorso dalla sua casa a Saldanha Bay, una cittadina di pescatori a 135 chilometri a Nord di Città del Capo.

 

La scomparsa aveva dato inizio a un’imponente ricerca a livello nazionale e la madre, Racquel «Kelly» Smith, fu inizialmente oggetto di grande compassione in tutto il Paese.

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La madre di Joshlin, Racquel «Kelly» Smith, il suo fidanzato Jacquen «Boeta» Appollis e il conoscente di famiglia Steveno «Steffie» van Rhyn sono stati dichiarati colpevoli dall’Alta Corte del Capo Occidentale all’inizio di questo mese. Giovedì sono stati condannati all’ergastolo per tratta di esseri umani e a 10 anni per rapimento. Mentre giovedì i tre individui condannati per il rapimento e il traffico di Joshlin sono stati condannati all’ergastolo per i reati commessi, la polizia ha affermato che le ricerche della bambina continueranno.

 

Non si è più avuta traccia di Joshlin dalla sua scomparsa dalla sua casa di Middelpos, nella baia di Saldanha, il 19 febbraio 2024. Le prove del processo hanno dimostrato che era stata venduta per 20.000 rand, circa 980 euro.

 

I loro nomi, ha affermato il giudice, dovevano essere aggiunti anche al registro della tutela dei minori. «Non c’è nulla che io possa trovare che sia giustificabile e meritevole di una pena inferiore alla più severa che posso infliggere», ha affermato, ricordando che la Smith, che ha altri due figli, non ha mostrato «alcun segno di rimorso» per la scomparsa di Joshlin.

 

 

Il giudice ha anche affermato che il fatto che tutti gli imputati fossero consumatori di droga non è una scusa. Molte persone presenti in aula, tra cui la nonna della ragazza, hanno applaudito quando è stato annunciato il verdetto. I condannati hanno dichiarato che presenteranno ricorso. I tre non hanno testimoniato a loro difesa.

 

In una dichiarazione, il commissario di polizia provinciale del Capo Occidentale, il Tenente Generale Thembisile Patekile, ha elogiato tutti gli agenti, i detective e gli specialisti coinvolti nel caso. «La vostra dedizione riflette il meglio delle forze dell’ordine del nostro Paese e porta speranza alle famiglie che ancora aspettano giustizia», ​​ha dichiarato a Saldanha, dove si è svolto il caso.

 

«I nostri pensieri sono rivolti alla famiglia di Joshlin Smith. Che possano trovare conforto nella consapevolezza che la giustizia ha prevalso», ha detto. «La SAPS resta fermamente impegnata a esplorare ogni possibile pista per giungere a una vera conclusione di questa tragica vicenda».

 

La madrina di Joshlin, Natasha Andrews, ha affermato che il silenzio dei tre durante la sentenza ha aggravato il dolore della famiglia. «Era la nostra bambina. Viveva con noi, mangiava e andava in vacanza con noi, facevamo tutto per lei».

 

 

«Hanno avuto la possibilità di dire qualcosa, qualsiasi cosa che potesse aiutarci a trovarla, ma non hanno detto nulla. Kelly non ha versato nemmeno una lacrima. Se avessero voluto aiutarci, l’avrebbero fatto. Quell’occasione è andata, e ora speriamo solo di trovarla un giorno».

 

La Andrews ha dichiarato di aver fatto visita alla Kelly dopo la sentenza. «Singhiozzava, ma alla fine non abbiamo ancora risposte. Continuo a sperare che Joshlin venga ritrovata. Non ci arrenderemo. Kelly mi ha accolto nella sua vita e in quella di Joshlin. Non smetterò mai di farle visita finché non avremo una risposta».

 

La nonna paterna di Joshlin, Louretta Yon, ha dichiarato: «quello che Kelly ha fatto è stato duro. Forse un giorno dirà la verità su quello che è successo a Joshlin. Non voglio dire niente a Kelly ora». La madre di Kelly, Amanda Smith-Daniels, ha dichiarato: «ha commesso il crimine e la legge deve fare il suo corso. Non è bello che mia figlia debba passare la vita in prigione, ma ha fatto qualcosa di sbagliato e deve affrontarne le conseguenze».

 

Nella sentenza il giudice non ha specificato a chi è stata venduta la ragazza né perché. Tuttavia i pubblici ministeri hanno sostenuto che Joshlin è stata venduta a un sangoma, o guaritore tradizionale, e che la ragazza era desiderata per i suoi «occhi e la sua pelle».

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Le foto pubblicate su Internet dopo la sua scomparsa mostravano i sorprendenti occhi verdi di Joshlin. Ciò apre alla prospettiva mostruosa che la bambina sia stata venduta al witch-doctor – santoni praticanti la magia nera animista – per essere squartata, con gli organi utilizzati per pozioni e quant’altro, un fenomeno diffuso in Africa e che prende di mira soprattutto i bambini albini, ma che sta avendo incrementi tali in Paesi come la Nigeria da far portare l’emergenza dei troppi sacrifici umani in Parlamento.

 

Un pastore che ha testimoniato al processo sudafricano, iniziato a marzo, aveva affermato che la madre gli aveva parlato della vendita prevista per il 2023.

 

Nel Sudafrica mandeliano post-Apartheid, Paese con uno dei tassi di criminalità più alti al mondo, è in aumento il rapimento di bambini.

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Immagine screenshot da YouTube

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