Giunti al punto in cui siamo giunti, qualsiasi discorso che cerchi di fornire una lettura ragionata dei fatti può sembrare vano e inconcludente.
Civiltà
Siamo tecnicamente tutti detenuti
Renovatio 21 pubblica il testo dell’intervento di Elisabetta Frezza al convegno Sapiens^3. Superare un’antropologia disumana, Roma, 4 dicembre 2021.
Là fuori, infatti, c’è un tran tran che continua imperterrito, in apparenza sempre uguale a se stesso, e ha però i connotati di una parodia: viaggia su un piano parallelo, «sterilizzato», e ormai svuotato di ogni verità.
E noi siamo le comparse involontarie di questo teatro dell’assurdo. Per cui vien da pensare che sia proprio l’assurdo l’unica chiave per leggere infallibilmente la realtà delle cose.
Siamo condannati senza giudizio al 41 bis o, in alternativa, se muniti di tessera tecnosanitaria, alla libertà vigilata: in ogni caso, soggetti a un regime penitenziario più o meno rigido, ma siamo tecnicamente tutti dei detenuti
Basti pensare che siamo condannati senza giudizio (o con giudizio sommario, che non contempla l’esercizio del diritto di difesa) al 41 bis o, in alternativa, se muniti di tessera tecnosanitaria, alla libertà vigilata (comunque a scadenza fino a successivo rinnovo): in ogni caso, soggetti a un regime penitenziario più o meno rigido, ma siamo tecnicamente tutti dei detenuti.
Molti vengono privati addirittura del lavoro, dello studio, cioè dei mezzi di sostentamento fisico e intellettuale. E tutto sulla base di una premessa indimostrata, semplicemente perché indimostrabile.
Forse il senso di continuare ad analizzare e interpretare i fatti sta nella necessità di capire come e perché bisogna ostinatamente resistere, senza farsi inghiottire dal film – un po’ come avviene nella Rosa Purpurea del Cairo – ma di seguirne la trama con uno sguardo disincantato, il più possibile lucido, anche per disporre degli argomenti utili per sottrarre qualcun altro a un micidiale meccanismo di immedesimazione. È difficile, è logorante, perché sappiamo bene che dentro quel film non si spara a salve, ma si giocano davvero le nostre vite e, soprattutto, le vite dei nostri figli.
Fatta questa premessa, proverò ora a mettere insieme qualche riflessione sparsa, ben conscia della mia inadeguatezza a trattare di un tema, come quello della libertà, così sterminato da dare le vertigini.
La libertà è materia impastata con l’uomo, ha a che fare con la sua creaturalità e con la sua natura di essere razionale.
Fin dalle origini del pensiero, da quando, agli albori della nostra civiltà, l’uomo ha cominciato a interrogarsi su se stesso – sulle costanti e le varianti della sua natura – e sulla realtà che lo circonda, il tema della libertà è stato al centro di una speculazione – filosofica, teologica, etica e politica – mai interrotta.
La libertà appartiene all’uomo: nelle sue estrinsecazioni fondamentali – libertà personale, di pensiero e di manifestazione del pensiero, di religione, di circolazione, di associazione e di riunione, eccetera – è poi entrata nel diritto (in particolare, in età moderna, nelle Costituzioni degli Stati di diritto) essendone un antecedente; è, cioè, un a-priori della legge: fenomeno pregiuridico
La libertà appartiene all’uomo: nelle sue estrinsecazioni fondamentali – libertà personale, di pensiero e di manifestazione del pensiero, di religione, di circolazione, di associazione e di riunione, eccetera – è poi entrata nel diritto (in particolare, in età moderna, nelle Costituzioni degli Stati di diritto) essendone un antecedente; è, cioè, un a-priori della legge: fenomeno pregiuridico che il diritto positivo (lo ius positum) non fonda ex novo, ma deve semplicemente riconoscere, e quindi tutelare, anche e soprattutto contro l’arbitrio, sempre in agguato, del potere costituito.
In un ordinamento che si definisca democratico, una eventuale e per forza di cose circoscritta limitazione di questa sfera essenziale di libertà non può prescindere dalla presenza di presupposti di fatto certi, verificati e dimostrati, che la giustifichino e, in ogni caso, da uno scrupoloso bilanciamento tra esigenze e interessi concorrenti.
Sta di fatto che lo Stato di diritto è chiamato a proteggere i suoi cittadini anche da se stesso, ossia contro le proprie derive autoritarie, ogniqualvolta si affacci la tentazione di travalicare gli argini che presidiano quel nucleo inscalfibile e irriducibile che si può distillare nel concetto (atecnico, ma pregnante) di «dignità» umana.
La divisione dei poteri, l’indipendenza e il reciproco controllo tra gli organi che li impersonano, serve a rendere effettivo questo presidio e ad evitare degenerazioni liberticide.
È evidente che il diritto, lo ius – che non per nulla condivide la sua radice etimologica con quella della iustitia – deve avere un fondamento che lo trascende: un fondamento sostanziale solido e non fluttuante secondo gli estri di maggioranze estemporanee. Se così non fosse, si manifesterebbe nel mero uso della forza di cui il sovrano dispone per rendere effettivo il proprio potere.
Il buon funzionamento di qualsivoglia sistema normativo contingente dipende cioè dalla sua adesione a un riferimento esterno ad esso, un riferimento oggettivo e superiore, fatto di un novero di principi fondamentali che afferisce alla natura immutabile dell’uomo e che, proprio per questo, può e deve orientare e limitare l’esercizio del potere sovrano.
Del resto, che al di sopra della volontà del sovrano insista un modello superiore di giustizia, era chiaro già agli antichi: lo sapeva re Salomone quando invocava la grazia di essere un legislatore giusto; lo gridava Antigone quando disobbediva all’editto di Creonte per dare sepoltura al fratello Polinice, a costo della propria vita.
La produzione di norme sganciate da un criterio oggettivo di valore non può, viceversa, che generare mostri.
Ecco per esempio che, con decreto imperiale, Caligola insignì il proprio cavallo del titolo di senatore.
Ecco che il partito nazionalsocialista, a Norimberga, nel 1935, in occasione del «raduno della libertà» promulgò le leggi razziali.
In un ordinamento che si definisca democratico, una eventuale e per forza di cose circoscritta limitazione di questa sfera essenziale di libertà non può prescindere dalla presenza di presupposti di fatto certi, verificati e dimostrati, che la giustifichino e, in ogni caso, da uno scrupoloso bilanciamento tra esigenze e interessi concorrenti
Ecco che con raffiche di DPCM (fonte peraltro inventata per l’occasione, inesistente in rerum natura), di decreti-legge, e poi, a cascata, di circolari, ordinanze, protocolli e altra paccottiglia palesemente illegittima (in quanto sconta appunto un vizio di origine), i nuovi despoti grandi e piccini, centrali e periferici, tutti servi di altri padroni, praticano senza freni e in modo continuato, in danno dei cittadini, l’abuso legalizzato (e ormai normalizzato) del diritto, fingendosi tuttora al riparo di un ordinamento costituzionale che, di fatto, è stato proditoriamente sbaraccato. Ma che viene tenuto lì, esposto alla vista dei sudditi, come una mummia, come un’insegna luminosa appesa sulla facciata pericolante di un rudere diroccato.
Maestranze ottuse o ottusamente conniventi, al guinzaglio di avventurieri senza scrupoli, se ne stanno infrattate nei gangli delle burocrazie, a riprodurre in serie schemi e procedure del sistema cosiddetto democratico – inscenano i suoi riti – per instaurare un sostanziale assolutismo.
Non è un caso che la ripartizione dei poteri, di cui dicevamo poc’anzi – teorizzata a garanzia di un equilibrio necessario per salvaguardare le libertà – oggi sia appannata, se non del tutto dissolta, perché il potere, oggi, fa capo a un’unica centrale operativa, tecnocratica, occupata stabilmente sempre dalle stesse pedine, fluttuanti tra Quirinale, Consulta, Palazzo Chigi, Magistrature superiori. Mentre il Parlamento, l’organo rappresentativo, è disattivato.
Costoro eseguono i diktat che sono formulati in sede extra e sovranazionale da organismi opachi, senza volto e senza responsabilità, e che sono diramati da altri groppuscoli tecnico-scientifici dai molti nomi, apparecchiati nelle retrovie istituzionali per fare da ripetitore e da cinghia di trasmissione di quei diktat, contestualmente esautorando la politica; o meglio, ciò che resta di una politica da tempo ostaggio di personaggi per lo più privi del senso stesso del mestiere che, per grazia ricevuta, si trovano a praticare.
È una anomalia politica quella che avvolge e sconvolge il nostro presente, individuale e collettivo, facendoci affondare nelle sabbie mobili del caos mentre un potere sadico e vorace demolisce tutt’intorno, giorno dopo giorno, le regole scritte e non scritte del vivere civile, della ragione, della stessa religione
È una anomalia politica quella che avvolge e sconvolge il nostro presente, individuale e collettivo, facendoci affondare nelle sabbie mobili del caos mentre un potere sadico e vorace demolisce tutt’intorno, giorno dopo giorno, le regole scritte e non scritte del vivere civile, della ragione, della stessa religione.
Il paradosso è che lo strapotere che veste i panni liberal democratici, in questa vorticosa giostra di artifizi e raggiri, riesce nell’incantesimo di inglobare i sudditi nel proprio stesso corpo, di farli parte integrante di sé dopo averli ipnotizzati e plasmati in funzione del proprio perpetuarsi. Lo fa attraverso la torsione delle parole e lo sgretolamento dei concetti, riempiendo le une e gli altri di contenuti cangianti, strumentali ai propri obiettivi.
In tal modo gli stessi sudditi, adeguatamente addomesticati, da antagonisti genetici del potere si trasformano nel suo corpo di guardia: diventano insomma i pretoriani pronti a reprimere, e potenzialmente sopprimere, i propri simili non allineati.
Fatte salve le poche e luminose eccezioni che ormai tutti conosciamo e che ancor più brillano nella eclissi totale delle idee e delle parole sensate, ciò che più colpisce, in questa grottesca sceneggiata infarcita e ricoperta da strati di menzogna, è l’afasia di quanti dovrebbero gridare per primi alla nudità del re – soprattutto giuristi, legulei, magistrati e giusfilosofi, o sedicenti intellettuali, tutti ovviamente democraticissimi. Costoro fino a ieri pomposamente predicavano quanto oggi vedono impunemente calpestato sotto i loro occhi, e tacciono con ignominia di fronte alla normalizzazione dell’incertezza del diritto e del suo sistematico sfregio.
In effetti viene da domandarsi cosa mai si insegni, oggi, nelle lezioni di diritto costituzionale in Università.
Si tengono ancora, nelle aule delle facoltà di giurisprudenza, i corsi di diritto costituzionale? Se sì, con quale coraggio? Lo chiedo con sincera curiosità, da allieva, in un tempo ormai lontano, di un docente che fu anche presidente di Corte Costituzionale e che raccontava tutt’altra storia di quei 139 articoli e 18 disposizioni transitorie tuttora formalmente vigenti. Norme che, tanto più in quanto apicali nella gerarchia delle fonti, dovrebbero preservare il loro significato e la loro ratio al di là della prevalenza estemporanea dell’uno o dell’altro flusso di potere, o della linea bassamente politica del momento al cui servizio vengono invece piegate, come un ferro caldo.
In compenso, questo vuoto pneumatico e questo silenzio tombale da parte degli interpreti naturali del diritto sono stati riempiti dallo starnazzo perpetuo dei piazzisti televisivi variamente qualificati i quali, anch’essi a libro paga dei tenutari di un’agenda inflessibile nella sua mostruosità, si prestano a ruminare le battute farsesche e volgari di un copione fantascientifico e fantasanitario che, scritto da qualche sceneggiatore psicopatico, è calato sulle vite di tutti, dei volenti e dei nolenti.
A sentire Monti, nel suo recente invito a scoprire le carte, dovrebbero essere questi fenomeni pappagalleschi ad aggiudicarsi l’esclusiva dell’informazione, in regime di monopolio. «I potere è nostro e guai a chi ce lo tocca», insomma, senza più tanti giri di parole.
La «prevalenza» dell’interesse collettivo è il nuovo totem al quale sacrificare i diritti fondamentali dell’individuo: l’interesse collettivo si impone oggi come concetto di ordine quantitativo, avulso dallo sforzo di un giudizio di valore che investirebbe invece quel piano del dover essere su cui per definizione si muove il diritto, con le sue norme
I nuovi pensatori e le nuove pensatrici sono quelli che, al suono della parola libertà, partono in quarta a intonare i ritornelli di repertorio, il più famoso (e idiota) dei quali suona: «la tua libertà finisce dove comincia quella degli altri».
Un giochetto di parole che, per la sua orecchiabilità, piace tanto sia ai guitti sia all’uditorio belante. Nessuno di essi però – essendo tutti in vacanza cerebrale di gruppo per motivi di salute pubblica – è in grado di fare una analisi del testo e di domandarsi se la filastrocca, al di là del bel suono, voglia effettivamente dire qualcosa.
Basterebbe chiedersi: chi ha titolo per tracciare questo confine tra la mia libertà e quella altrui? Con quale criterio verrebbe definito il discrimine? Con quale metro si misura lo spazio rispettivo? Chi sarebbero gli “altri” la cui libertà per definizione limiterebbe la mia?
Tanto per cominciare, gli altri sono una sommatoria di enne individui, che quindi, in virtù del mero fattore numerico, appaiono ictu oculi prevalenti sul singolo, grazie alla mistica de «la maggioranza vince» e all’onnipresente equivoco democratico.
La «prevalenza» dell’interesse collettivo è il nuovo totem al quale sacrificare i diritti fondamentali dell’individuo: l’interesse collettivo si impone oggi come concetto di ordine quantitativo, avulso dallo sforzo di un giudizio di valore che investirebbe invece quel piano del dover essere su cui per definizione si muove il diritto, con le sue norme – che sono, per definizione, generali e astratte, e anche tendenzialmente stabili e dunque certe.
La collettività non è altro che la massa inerte a trazione mediatica nel cui nome la sedicente autorità – cioè chi detiene il potere e dispone dell’uso della forza – si appropria del titolo per diventare onnipotente e disfarsi dell’intralcio di minoranze disfunzionali alla realizzazione del proprio programma
Di fatto quindi, la collettività non è altro che la massa inerte a trazione mediatica nel cui nome la sedicente autorità – cioè chi detiene il potere e dispone dell’uso della forza – si appropria del titolo per diventare onnipotente e disfarsi dell’intralcio di minoranze disfunzionali alla realizzazione del proprio programma: e così, per esempio, può impossessarsi del mio corpo contro la mia volontà e la mia salute, può irrompere nello spazio sacro e inviolabile della mia sovranità famigliare e biologica, e ghermire i miei figli contro la mia volontà e la loro salute.
Allora, per tornare alla formuletta ebete e tralatizia sulla libertà mia e altrui, il confine tra le due, e il criterio per tracciarlo – vista la assoluta relatività dei concetti in gioco, evidentemente non oggettivizzabili – alla fine non possono essere che quelli decisi discrezionalmente dal dominus di turno, in funzione degli obiettivi prescelti.
A margine, notiamo come tra i pensatori e le pensatrici del nuovo corso diversamente democratico, pronti a invocare la tortura e l’apartheid per i refrattari alla sperimentazione di massa, spiccano quelli che fino a ieri abitavano un luogo chiamato Casa delle libertà: oggi, inebriati dal vento igienista e rigorista che soffia fuori, brandiscono baldanzosi il nuovo manganello che gli è stato dato in dotazione.
… Straordinario paradigma della involuzione dell’ominide neolibertario, destinato per vocazione a ricoprire lo status del più servile strumento nelle mani del tiranno
Loro non lo sanno, ma la parabola che li vede protagonisti rappresenta uno straordinario paradigma della involuzione dell’ominide neolibertario, destinato per vocazione a ricoprire lo status del più servile strumento nelle mani del tiranno.
Ma cos’ha potuto farci precipitare tanto in basso e con tanta stupefacente velocità?
La recente accelerazione ha attecchito su un terreno già reso fertile dalla progressiva inesorabile demolizione delle strutture portanti di una civiltà in seno alla quale erano stati elaborati i sistemi concettuali e le forme di pensiero capaci tanto di ordinare e regolare il vivere comune, quanto di rispondere alle esigenze spirituali profonde dell’uomo di ogni tempo; in seno a questa civiltà erano fioriti la filosofia, l’arte, il diritto e la politica, l’etica e l’estetica, la poesia e la letteratura, la scienza e l’economia, e la fede cristiana: tutto quel patrimonio di bellezza e di senso che ha innervato nei secoli il tessuto sociale della nostra terra, e che l’onda montante della demenza globalizzata e della barbarie travestita da progresso ha calpestato assieme alla identità e alla memoria di un popolo.
Di questa vertiginosa involuzione ci ha regalato una sintesi folgorante Cingolani, tenutario di un dicastero di cui non sentivamo la mancanza, che ha esposto la propria ricetta risolutiva per l’istruzione d’avanguardia: «non serve studiare quattro volte le guerre puniche, servono più digital manager». E a noi non servono i commenti.
Ma quel terreno era stato reso fertile, per paradosso, anche dalla ipostatizzazione dello stesso concetto di libertà, previamente contraffatto per funzionare da arma di distrazione e distruzione di massa.
La libertà (quella vera) ha potuto essere soppressa impunemente proprio nel nome di tutte le libertà (false) che sono state innalzate una dopo l’altra sull’altare della cosiddetta autodeterminazione.
Con pagamento anticipato, in cambio della nostra libertà, ci avevano già elargita l’illusione di poterci autodeterminare senza limiti nel disporre della nostra vita, e di decidere anche della nostra morte
Con pagamento anticipato, in cambio della nostra libertà, ci avevano già elargita l’illusione di poterci autodeterminare senza limiti nel disporre della nostra vita, e di decidere anche della nostra morte.
E ci avevano già convinti che questa sbornia libertaria fosse cosa buona e giusta, attraverso il suo graduale assorbimento nella legge. La legittimazione giuridica di una condotta è capace, infatti, di far evaporare pian piano la percezione del suo disvalore intrinseco: perché tutto ciò che viene reso giuridicamente lecito, nell’immaginario collettivo diventa anche moralmente accettabile; in altri termini, viene istintivo identificare il bene e il male con ciò che la legge consente e non consente.
E così ci hanno convinti di poter decidere – liberamente, è chiaro – di sopprimere la vita nascente; di interrompere quella già nata, ma fragile, giudicata non all’altezza di fluttuanti standard di qualità; di poter decidere di traslocare da un sesso all’altro e ritorno, portandoci dietro, o anche no, i pezzi in dotazione e quelli di ricambio; di assemblare nuovi agglomerati diversamente assortiti, e chiamarli famiglia; di fabbricare esseri umani in provetta, manipolarli e programmarli geneticamente, e di chiamarli figli; di consumare liberamente la pornografia e di praticarla anche, con esemplari di tutte le età.
Insomma, nel fantastico mondo delle finte libertà legalizzate, l’uomo misura di tutte le cose, ubriacato dal proprio delirio di onnipotenza (la hybris antica), sobbollendo nel brodo edonistico ed egoistico preparato per lui, è arrivato fino al punto di sbarazzarsi della realtà, della natura e della stessa fisiologia. Fieramente persuaso della propria sconfinata facoltà di autodeterminarsi, non si accorge di essere in realtà sommamente eterodiretto, e scagliato a tutta velocità verso il proprio annientamento programmato.
Non possiamo dire che non ci avessero avvisati per tempo dei prevedibili esiti di questa degenerazione, che è poi la somma di tante degenerazioni.
Nel fantastico mondo delle finte libertà legalizzate, l’uomo misura di tutte le cose, ubriacato dal proprio delirio di onnipotenza (la hybris antica), sobbollendo nel brodo edonistico ed egoistico preparato per lui, è arrivato fino al punto di sbarazzarsi della realtà, della natura e della stessa fisiologia
Alcuni fatti, per chi si è preso la briga di osservarli, di capirli e necessariamente di patirli, erano stati esibiti al pubblico quasi a mo’ di esplicito avvertimento; di sicuro hanno rappresentato uno spartiacque nel processo di dissoluzione.
La storia di Alfie Evans, per esempio, il piccolo inglese (ma che, ricordiamolo, ottenne anche la cittadinanza italiana in un tentativo estremo di sottrarlo ai suoi carnefici) che fu ammazzato per il suo «miglior interesse» dalle istituzioni, laiche e religiose insieme, alleate nella missione diabolica di sacrificare l’innocente in mondovisione, letteralmente strappandolo alle braccia dei suoi genitori, sotto lo sguardo sgomento di tante persone di buona volontà.
Come dire (ed ecco l’avvertimento): non decidi tu, caro cittadino, caro genitore, del bene di tuo figlio; se il potere stabilisce che è fragile, imperfetto e, in previsione futura, la sua vita non raggiungerà una qualità soddisfacente, può prendertelo e sopprimerlo.
Così la prossima volta tu magari impari a pensarci prima e a programmarlo senza vizi di fabbricazione, come la biotecnologia di Big Pharma oggi consente; e tu genitore, se ti ostini a prescindere da queste meraviglie del progresso, beh, sei un egoista che gioca alla roulette russa della natura contro il “best interest” della progenie.
La stella polare del best interest risorge ora in tema di vaccini. Il tribunale di Milano ha stabilito che un quattordicenne dovrà vaccinarsi contro il COVID nonostante non lo vogliano né lui né sua madre: dovrà farlo nel suo miglior interesse, che tanto lui quanto sua madre secondo i giudici non sono in grado di discernere perché assestati su «posizioni aprioristiche che trascurano gli approdi della scienza internazionale». E poi anche perché lo ha detto Mattarella (in motivazione si legge infatti che va considerato «il monito del PdR che il 28 luglio ha detto che la vaccinazione è un dovere morale e civico»). Bergoglio invece, per stavolta, non è diventato fonte di diritto. Quindi: la tanto pompata volontà del minore viene valorizzata solo se va nella direzione conveniente alla regia.
Il quadro, agghiacciante, si completa considerando come, pressoché contemporaneamente, si sia pronunciato il presidente della società italiana di pediatria dicendo che i bambini devono essere vaccinati per il loro miglior interesse: «per i bimbi è fondamentale la qualità della vita, che è un bene supremo, necessario per crescere in salute» (il metro di misura della qualità la decidono loro, ovviamente); «la vaccinazione, oltre ad essere una straordinaria opportunità, è un diritto per i bambini».
Tradotto: tu genitore, che eserciti cautela e applichi il principio di precauzione, sei inadeguato, egoista e anche pericoloso perché cresci come disadattati sociali i tuoi figli, che invece devono vivere marchiati, iperconnessi e contenti. Felici di ottenere il Natale-premio per buona condotta. E questo anche se il mistero, o il segreto, intorno agli effetti delle pozioni magiche, del pharmakon universale, verrà svelato nel 2076, come ci dice la Pizia di Big Pharma.
La stella polare del best interest risorge ora in tema di vaccini
Come sempre dunque, a coprire le peggiori nefandezze, è invocato il motivo umanitario (il bene della vittima). Insomma, sopra tutto ci sta sempre l’amore. Che è un’arma impropria micidiale perché, inteso come mero moto emozionale svincolato da ogni criterio superiore di giudizio, è capace di servire qualunque causa e mascherare ogni azione intrinsecamente malvagia.
Il passaggio dalla libertà alla tanto invocata autodeterminazione non è stata una operazione meramente cosmetica. È stata una metamorfosi di senso, perché sottintende l’adesione a una concezione dell’individuo come arbitro incontrastato del bene e del male e, in apparenza, del proprio destino (quando in realtà, per paradosso, è ridotto a schiavo delle superstizioni spacciate dall’alto).
La libertà senza limiti coincide infatti con la subalternità più totale, perché interiorizzata, perché inconsapevole e dunque consenziente. Non per nulla oggi, dietro l’emancipazione di facciata, domina l’obbedienza cadaverica a ogni genere di sopruso e prevaricazione.
È su questo terreno che negli ultimi tempi hanno potuto smantellare definitivamente e senza sforzo lo Stato di diritto, con tutti i suoi ammennicoli. E sarà impossibile riesumarne il cadavere: lo Stato di diritto appare infatti come un modello ormai sfibrato ed esaurito.
Insieme allo Stato di diritto, viene meno anche la fictio dei diritti umani, altra conquista dello Stato moderno.
I diritti c.d. innati, poi ribattezzati umani, sono entrati in scena quando particolari contingenze storiche hanno suggerito l’utilità di assicurare una specifica tutela al suddito nei confronti del potere sovrano, conferendo veste giuridica, anche nominale, a valori ritenuti fondamentali perché appartenenti all’uomo in quanto tale. Ma i c.d. diritti umani restano una emanazione (id est: una elargizione) del sovrano, che può toglierne o annetterne a piacimento alla lista. La loro apparente e originaria consonanza con i principi della legge naturale ha creato l’utile equivoco della loro sovrapponibilità a quest’ultima.
La libertà senza limiti coincide infatti con la subalternità più totale, perché interiorizzata, perché inconsapevole e dunque consenziente. Non per nulla oggi, dietro l’emancipazione di facciata, domina l’obbedienza cadaverica a ogni genere di sopruso e prevaricazione
In realtà, sono diritto positivo e, quando salta il patto sociale, cioè la tendenziale convergenza della legge scritta con la legge non scritta, diventano un grimaldello privilegiato perché, dietro una etichetta inattaccabile, scardinano proprio quella legge naturale sulla cui scia si erano trionfalmente aperti la strada conquistando referenze invincibili.
Torniamo dunque alla libertà. La libertà, che appartiene all’uomo e che, come abbiamo detto, precede il diritto, non ha più ragion d’essere quando l’uomo non è più uomo, ma è ridotto ad automa mercificato, animale globale, robot antropomorfo, codice informatico. A questa nuova entità non si addice la libertà, per essa tutto ruota intorno alla categoria del controllo, che è l’antitesi della libertà e le cui funzioni vengono appaltate alla macchina. Alla fine, infatti, proprio la macchina è chiamata a prendere il sopravvento sull’uomo, prima ibridandolo, poi telepilotandolo, infine sostituendolo.
Insomma, il tempo della libertà codificata e dei diritti c.d. umani codificati è giunto al capolinea perché l’obiettivo dello Stato, e del Superstato a cui lo Stato risponde, è quello di cancellare l’uomo al quale la libertà è connaturata. Cancellazione che avviene sia brutalmente attraverso il sacrificio umano, sia attraverso lo snaturamento dell’uomo, via via trasformato in qualcosa di ontologicamente altro da sé, in un cyborg senza senz’anima e senza sentimenti, in un OGM, e comunque in una merce come un’altra, inserita all’interno di una filiera produttiva che risponde alle dinamiche del mercato e alla logica del profitto, in balìa delle industrie biotecnologiche e delle multinazionali del farmaco.
Come un dispositivo elettronico qualsiasi, dovrà scaricare, a scadenze comandate, gli aggiornamenti implementati dalla casa madre, altrimenti questa gli blocca il funzionamento: la seconda, la terza, la quarta, la ennesima dose, non sono altro che l’ennesimo aggiornamento farmaco-genetico.
Ecco quindi che al post-umano, che è trans-umano e intrinsecamente dis-umano, servono altre categorie di riferimento.
Non c’è posto per la libertà laddove l’uomo non è più creatura, ma è manufatto ingegnerizzato. Non c’è più spazio per l’empatia, per la pietas, per la ragione, per la parola: il cinismo cui abbiamo assistito con orrore verso la sofferenza e la malattia, la perversione verso i più piccoli e indifesi, il disprezzo per la morte e il suo mistero, l’abdicazione violenta a tutti quei riti, fisici e carnali, che da sempre hanno connotato la civiltà umana, tutto questo segna indiscutibilmente la sua fine definitiva e l’avvento del mondo nuovo sterilizzato, informatizzato, snaturalizzato.
Non c’è più nulla di umano in una società che prescrive e istituzionalizza la fabbrica della vita negli alambicchi di laboratorio, la sua conservazione nei congelatori, la manomissione del codice genetico, la produzione seriale di ibridi e chimere, l’eugenetica e l’eutanasia, e ancora la morte in solitudine, la distruzione dei corpi, il divieto del culto ai propri defunti
Non c’è più nulla di umano in una società che prescrive e istituzionalizza la fabbrica della vita negli alambicchi di laboratorio, la sua conservazione nei congelatori, la manomissione del codice genetico, la produzione seriale di ibridi e chimere, l’eugenetica e l’eutanasia, e ancora la morte in solitudine, la distruzione dei corpi, il divieto del culto ai propri defunti.
Non c’è più nulla di umano in una società che, a colpi di decreti, pretende di manipolare e sacrificare i suoi figli.
Dunque, non ha più senso agitarsi per cercare di ripristinare, erga omnes, un assetto politico e giuridico che è già spazzato via da forze ben più grandi di noi. La libertà non è più di questo mondo qui, semplicemente perché la libertà è prerogativa dell’uomo, e questo mondo non vuole più essere umano.
La libertà deve essere recuperata altrove, al di fuori della struttura sociale e istituzionale dentro la quale eravamo abituati a considerarla incapsulata, tanto da ritenerla pacifica, scontata e definitivamente al sicuro. Deve essere innanzitutto ritrovata nel suo significato più profondo e vero. Deve essere poi custodita e coltivata, con rinnovata cura, da coloro che desiderino ostinatamente rimanere uomini, e che proprio per questo, incompatibili con un sistema irreversibilmente corrotto perché disumanizzato e disumanizzante, saranno segregati e perseguitati.
Diario Clandestino è l’opera di Giovannino Guareschi sull’esperienza della prigionia vissuta in Polonia tra il 1943 e il 1945. Dedicata «ai miei compagni che non tornarono».
Guareschi racconta una storia «dalla quale io esco senza nastrini e senza medaglie, ma vittorioso perché, nonostante tutto e tutti, sono riuscito a passare attraverso questo cataclisma senza odiare nessuno. Anzi, sono riuscito a ritrovare un prezioso amico: me stesso».
Tra le pagine, scritte nel lager e per il lager, in quanto lette passando di baracca in baracca per regalare un sorriso o un motivo di riflessione, una distrazione, un conforto, ai suoi compagni di sventura, quella che segue racchiude il cuore di questo libro.
Qualcuno diceva che è la verità che ci rende liberi. Di certo non ci rende liberi l’ubriacatura degli istinti, che azzera le facoltà mentali e ci riduce a terra di facile conquista da parte di chi ci vuole schiavi obbedienti, uguali, invertebrati
«Mi volsi e vidi che ero uscito da me stesso, mi ero sfilato dal mio involucro di carne. Ero libero. Vidi l’altro me stesso allontanarsi, e con lui si allontanavano tutti i miei affetti, e di essi mi rimaneva solo l’essenza (…). Ritroverò l’altro me stesso? Mi aspetta forse fuori del reticolato per riprendermi ancora? Ritornerò laggiù oppresso sempre dal mio involucro di carne e di abitudini? Buon Dio, se dev’essere così, prolunga all’infinito la mia prigionia. Non togliermi la mia libertà».
Guareschi ci dimostra come sia possibile essere liberi anche all’interno di un campo di prigionia, perché la radice della libertà non sta nel poter fare quello che si vuole, ma nell’avere fiducia in qualcosa di più grande di noi, che ci sovrasta e ci resiste, perché è stabile e vero.
Solo in questo modo è possibile che un prigioniero privato di tutto, invece che inveire contro il proprio aguzzino, sia felice di ritrovare se stesso e, con se stesso, gli altri che condividono con lui un’esperienza tanto estrema da ricondurre all’essenziale. Infatti, una volta rimasto solo «con le cose che aveva dentro», egli trova l’occasione per scavare a fondo, fino incontrare la sua anima. Questa, una volta liberata, è capace di volare alta anche sopra i reticolati (che non sono necessariamente quelli fatti di filo spinato).
Qualcuno diceva che è la verità che ci rende liberi. Di certo non ci rende liberi l’ubriacatura degli istinti, che azzera le facoltà mentali e ci riduce a terra di facile conquista da parte di chi ci vuole schiavi obbedienti, uguali, invertebrati.
C’è qualcosa, insomma, che fa parte di noi e che nessuno potrà mai aggredire o portarci via. Qualcosa le cui frequenze risuonano in altri che, invece di accomodarsi nella confortevole poltrona allestita dalla propaganda, fanno lo sforzo di mettersi a cercare la verità delle cose.
In questo fecondo incontro di anime libere che si riconoscono e si ritrovano – ed è un fenomeno ormai tanto reale e palpabile, quanto temuto – si annida il germe della rinascita, che deve indurci oggi a sperare contro ogni speranza.
Da quel seme – che tutti noi, consci di ciò che sta davvero accadendo, abbiamo il dovere morale di conservare integro, ad ogni costo – si potrà pian piano cominciare a ricostruire sulle macerie del diritto, della logica, del buon senso, delle più elementari leggi del buon governo.
Ci serve più che mai una «generazione fertile, perché dovrà ripopolare la storia di uomini e non di macchine»
Per fare questo, servono ora coesione, responsabilità, determinazione e coraggio; servono la pazienza e l’umiltà necessarie per rimettere insieme i frammenti di un patrimonio dissipato e prezioso, quello che ai Cingolani e ai Bianchi preme distruggere in fretta, perché non ne sono all’altezza; serve recuperare la forza del pensiero e della parola, sconosciuta anch’essa ai Cingolani, ai Draghi e a quanti come loro sragionano e straparlano, travolti dal proprio delirio di onnipotenza.
Soprattutto, serve una nuova generazione consapevole dello stato delle cose e del suo perché, capace di decifrare e interpretare i fatti e i loro nessi causali: una generazione forte, pronta a sacrificare tanto di ciò che si dava ormai per acquisito, in previsione però di un traguardo enormemente più grande; come hanno scritto proprio questi studenti di Roma, ci serve più che mai una «generazione fertile, perché dovrà ripopolare la storia di uomini e non di macchine».
E allora sì dobbiamo essere certi che, nonostante la sproporzione delle forze in campo, con l’aiuto della Provvidenza torneremo a riveder le stelle.
Elisabetta Frezza
Articolo previamente pubblicato sul sito dell’autrice.
Immagine di ptitvinc via Deviantart pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-NoDerivs 3.0 Unported (CC BY-ND 3.0)
Civiltà
Chiediamo l’abolizione degli assessorati al traffico
Renovatio 21 propone una soluzione apparentemente drastica, ma invero assai realistica, ad uno dei problemi che affligge l’uomo moderno: il traffico.
Non si parla di una questione da niente, e ci rendiamo conto che essa pertiene propriamente alla catastrofe del mondo odierno, e proprio per questo serve una modifica radicale di carattere, soprattutto, istituzionale.
Lo aveva capito il genio di Marshall McLuhan: «La strada è la fase comica dell’era meccanica (…) Il traffico è l’aspetto comico della città» (Gli Strumenti del comunicare, 1964). Il culmine comico dell’era dell’industria: la civiltà costruisce strade ed automobili per muoversi in libertà e rapidità, e si ritrova imbottigliata per ore, innervosita, massacrata da miriadi di leggi, restrizioni, multe.
Il traffico è un fenomeno generatore di caos e dolore, di isterie e sprechi – il tutto subito sulla nostra pelle, ogni singolo giorno – al quale nessuno sembra trovare soluzione, soprattutto quanti sarebbero preposti a risolverlo. Costoro sembrano invece, consapevoli o no, impegnati nell’aggravarsi del dramma.
Davanti a noi abbiamo la degradazione continua, inarrestabile della mobilità urbana. È difficile trovare qualcuno che possa dire che il traffico è migliorato, o che una soluzione azzeccata adottata su una qualche strada non sia stata poi azzerata da una scelta successiva, calata, come tutte, dall’alto, sul cittadino schiavo inerme.
Crediamo che uno dei motivi di tale regressione diacronica ed ubiqua sua l’esistenza dei cosiddetti assessorati al traffico, che si chiamano in vari modi (uffici mobilità, dipartimento dei trasporti, direzione viabilità), ma che sono tutti costruiti attorno ad uno assunto semplice: spendere un determinato budget per cambiare le strade.
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Probabilmente la questione è davvero così semplice: nell’impossibilità di non spendere l’ammontare di danaro assegnato (grande tabù per qualsiasi ente pubblico: i soldi che risparmi non generano un premio, ma una diminuzione della cifra che arriva l’anno dopo) gli assessori e i loro scherani non possono che mettere mano ovunque, con decisioni a volte incomprensibili, a volte ideologiche, e quasi sempre dannosissime.
Ecco che, perché l’assessorato deve fare qualcosa, invertono un senso unico, cagionando il disorientamento totale del cittadino automunito, che d’un tratto si trova non solo multato, ma anche al centro di un pericolo per sé e per gli altri. Ricordiamo le tecniche dei missionari: cambiare la forma del villaggio è aprire la mente dell’indigeno all’altro, qui tuttavia non c’è il Vangelo a dover essere diffuso, ma il nulla di una decisione burocratica stupida e gratuita – gratuita per modo di dire, perché anche per un’inezia del genere vi è un costo non indifferente per il contribuente.
Ecco che, perché l’assessore deve finire sui giornali, l’area viene pedonalizzata: ZTL laddove prima potevi passare per portare i figli a scuola o fermarti nel negozietto (che ne patirà, ovvio, le conseguenze). Sempre considerando che le ZTL sono da vedersi come riserve indiane degli elettori dei partiti di sinistra, gli unici che possono permettersi di vivere in centro.
Ecco che, perché l’assessore deve far carriere nel partitello con le fisime ecologiche, laddove c’erano due corsie ce ne troviamo una sola, con una, perennemente vuota, riservata ad autobus che fuori dalle ore di scuola sono oramai solo utilizzati da immigrati che con grande probabilità non pagano il biglietto e in caso potrebbero pure picchiare il controllore (succede, lo sapete). Il risultato è, giocoforza, un imbottigliamento ancora più ferale, un’eterogenesi dei fini per politica ecofascista che è, in ultima analisi, solo una mossa di PR inutile quanto oscena.
Ecco la sparizione di parcheggi gratuiti – grande segno della fine della Civiltà – così da scoraggiare, come da comandamento di Aurelio Peccei, l’uso dell’auto che produce anidride carbonica, orrenda sostanza per qualche ragione alla base della chimica organica e quindi della vita stessa, soprattutto quella umana. Chi va all’Estero – non in Giappone, ma in un Paese limitrofo come l’Austria – sogna vedendo la quantità di parcheggi sotterranei creati attorno alle cittadine, senza tanti problemi per gli scavi al punto che, con recente politica, il rampollo Porsche si è fatto il suo tunnel che lo porta da casa al centro di Salisburgo in un batter d’occhio.
Il superamento del traffico attraverso la dimensione infera è stato compreso, con la solita mistura di genio e concretezza, da Elon Musk con la sua Boring Company: se vuoi migliorare la tragedia del traffico l’unico modo di farlo è andando verso il basso, anche se sembrerebbe che il prossimo misterioso modello di Tesla, la Roadster, potrebbe poter operare verso l’alto. Noi, tuttavia, non abbiamo Elone, abbiamo gli assessori al traffico.
E poi, i capolavori – sempre trainati da ideologia verde, interessi cinesi impliciti e tagli di nastro sul giornale – della «micromobilità», con i monopattini e le bici «free-floating» rovinate, abbandonate e utilizzate, in larghissima parte, dalle masse di eleganti africani, che magari con esse si spostano con più agilità per certe loro attività, come lo spaccio di droga: massì, vuoi non pagargli, oltre che vitto-alloggio-acqua-gas elettricità-internet-telefonino-avvocato-sanità-bei vestiti alla moda anche dei mezzi di trasporto con cui, appunto, possono evitare il traffico? Tipo: un inseguimento di una gazzella della Polizia nel traffico contro un criminale in monopattino, come finisce? L’eterogenesi dei fini qui non è nemmeno comica, è tragicomica, o tragica e basta.
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Potremmo continuare con la lista. Laddove c’era una rotonda che funzionava meglio di un semaforo (ogni tanto, qualcuna la devono azzeccare, ma non dura) ecco che te la cancellano e ci mettono cordoli, fiori, pianticelle, magari perfino un monumento orrendo o una fontana lercia.
Laddove c’era una strada larga, eccotela divorata da un nuovo mega-marciapiede che non usa nessuno, se non i ciclofascisti zeloti, i quali tuttavia divengono presto vittime della follia viabilitaria, con sensi unici e corsie di trenta centimentri anche per i velocipedi.
Laddove c’era una strada dritta che in 50-100 metri ti portava allo snodo, loro, per farti arrivare al medesimo punto, ti costruiscono una deviazione di mezzo chilometro che ti manda sotto un supermercato, un tribunale, una palestra, una pizzeria, appartamenti di lusso e uffici pubblici – insomma un bel progetto di complessone che qualcuno deve aver costruito e in qualche modo venduto, con tutti incuranti del fatto che se all’esame di urbanistica all’Università proponevi una cosa del genere venivi bocciato seduta stante.
Laddove devono costruire una tangenziale, magari con decenni di ritardo, ti rendi conto che si dimenticano di fare le uscite nei comuni che attraversa e ci fanno l’immissione con uno stop invece di una corsia di accelerazione, con il risultato che entri a 0 km/h in una strada dove da sinistra ti arriva uno che viaggia ufficialmente a 70-90 km/h, che poi divengono sempre 100-120 km/h se non, nel caso del tizio con l’Audi in leasing, cinque vaccini e chissà cos’altro in corpo, perfino di più.
E non parliamo dei casi di corruzione che saltano fuori in quegli uffici – dove ci sono appalti, ci sono mazzette, uno pensa. Ma non è nemmeno questo il punto: nel disastro, gli effetti della malizia possono essere indistinguibili da quelli dell’ebetudine conclamata dei soggetti e del sistema.
È difficile, davvero, trovare qualcosa di positivo in quello che fanno quanti sono politicamente preposti al miglioramento della mobilità – cioè dell’esistenza – dei cittadini. Il motivo, lo ripetiamo, è strutturale: gli assessorati sono macchine strutturate per modificare, cioè complicare, le cose. In pratica, sono l’essenza stessa della burocrazia, con effetti fisici però immediati e devastanti.
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La soluzione a tutto questo potrebbe essere davvero facile-facile: abolizione completa degli assessorati al traffico. Con essa, si perderebbe l’incentivo strutturale a cambiare sempre e comunque tutto, e a valutare con più responsabilità le innovazioni.
Immaginiamo che se la viabilità fosse fra le mansioni dirette del sindaco, cioè se la responsabilità fosse la sua, le decisioni sulla mobilità sarebbero più dosate e sensate, perché esposte al popolo con il quale il primo cittadino ha certo un rapporto più diretto, nonché mediato dal voto, passato e soprattutto futuro.
È una proposta che non sappiamo se sia già stata fatta. Certo si possono valutare cose anche più radicali: come la punizione per quanti complicano e distruggono la viabilità delle nostre città. Lo sappiamo, è la mancanza di castigo che crea aberrazioni ed orrori, con la devastazione di tanta parte d’Italia dovuta a questo principio di irresponsabilità della casta politico-burocratica.
La realtà è che, per ottenere qualcosa, il cittadino sincero-democratico automunito deve arrabbiarsi molto di più. Non basta ringhiare al bar, o imprecare dentro l’abitacolo, magari pure, a certe latitudini, suonando il clacsone. Non serve alimentare un sistema che, alla fine, continua a produrre assessori al traffico, e traffico.
No, serve davvero di più. Perché l’auto è davvero un mezzo di libertà, e aggiungiamo, di vita – l’auto è uno strumento della famiglia. Chi vuole togliervela – come quelli di Davos, le cui idee percolano poi giù giù fino al vostro assessorino – odia la vita, odia voi e i vostri figli.
Chiedere l’abolizione degli assessorati al traffico ci sembra il minimo che possiamo fare se vogliamo sul serio lottare per la Civiltà.
Roberto Dal Bosco
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Civiltà
«Pragmatismo e realismo, rifiuto della filosofia dei blocchi». Il discorso di Putin a Valdai 2025: «la Russia non mostrerà mai debolezza o indecisione»
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Civiltà
La lingua russa, l’amicizia fra i popoli, la civiltà
Lo scorso 20 settembre l’ambasciatore della Federazione Russa in Italia, Alexey Paramonov, ha aperto le porte della sua residenza romana agli studenti italiani di lingua e letteratura russa presso la scuola della Casa Russa.
Io c’ero. Eravamo in tanti, dall’estremo Nord della penisola fino alla Sicilia.
Dell’accoglienza, impeccabile, nella splendida cornice di Villa Abamelek, ha colpito sopratutto ciò che è andato oltre i canoni della diplomazia: ci hanno conquistati la cordialità e il calore con cui l’ambasciatore si è rivolto a noi che, attraverso la via maestra della lingua, mostriamo il desiderio di avvicinarci alla sensibilità e alla cultura di un popolo la cui storia in parte parla anche italiano.

In un tempo in cui i codici comunicativi tendono inesorabilmente a immiserirsi, omologarsi, imbarbarirsi, intraprendere lo studio di un idioma identitario dalla straordinaria ricchezza espressiva – anche perché flesso e quindi più che mai duttile – e avventurarsi nei suoi meandri stilistici e nelle sue sonorità arcane, implica essere attratti dalla civiltà che ne è nutrita. Una civiltà, infatti, vive dentro la sua lingua – dentro la lingua che le fa da madre.
Per molte ragioni, sondate e insondate, il richiamo è reciproco. Sono rimasta ammirata, in questi anni, dalla conoscenza profonda che tanti russi vantano del nostro patrimonio artistico e letterario e dalla curiosità inesausta con cui continuano a esplorarlo.
Ancor più, sono rimasta stupita dall’affetto che, nonostante tutto, essi continuano a manifestare per l’Italia e per gli italiani.
Come per me, così per altri studenti con cui ho avuto modo di confrontarmi, cominciare a scoprire questa lingua dalle infinite suggestioni è stata sì una scelta figlia della passione per la cultura lussureggiante che ne è intessuta, ma non solo: discende anche da una reazione istintiva alla demonizzazione illogica, innaturale, assurda, di tutto quanto proviene da una nazione legata all’Italia da un rapporto di scambio e di amicizia radicato nei secoli. Vuole essere un modo concreto per tendere la mano a un popolo che non ci è mai stato ostile.
Davanti alla mono-narrazione mediatica che ci è imposta senza soluzione di continuità, impermeabile alle fonti e a ogni voce alternativa; davanti a decisioni sciagurate di amministrazioni sciagurate giunte fino a impunemente bandire concerti di musicisti russi, gare di atleti russi, conferenze su grandi autori russi, siamo in tanti a sentire la necessità e il dovere di alzarci e dire: non in mio nome.
Elisabetta Frezza
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Renovatio 21 pubblica il discorso tenuto il 20 settembre agli studenti e amici della lingua russa dall’ambasciatore della Federazione Russa in Italia Aleksey Paramonov. Il discorso è stato pubblicato sul sito del ministero degli Esteri di Mosca.
Cari amici!
È proprio così che mi rivolgo a Voi, poiché chi è amico della lingua russa lo è anche della Russia e dell’Ambasciata russa in Italia. Vi do il benvenuto qui a Villa Abamelek, luogo dove si parla russo già da oltre 120 anni.
La lingua è strettamente legata alla mentalità e allo spirito di ciascun popolo. Sotto questo aspetto, la lingua russa è molto vicina a quella italiana. Nella vostra lingua, infatti, si riflette tutta la profondità storica che è propria di una civiltà romanza. Anche la lingua russa, così come la vostra lingua italiana, è l’articolata, pluridimensionale manifestazione di una civiltà, e non soltanto uno strumento atto a consentire la comunicazione. Non intendo certo offendere nessuno, ma ai nostri giorni la lingua inglese, anziché farsi mezzo di espressione culturale, si tramuta sempre più in uno strumento vuoto e privo di anima.
Per noi russi, la lingua e la cultura hanno un valore a sé. Noi appoggiamo l’istanza secondo cui l’identità etnica e culturale di ciascun individuo debba essere rispettata e debba trovare realizzazione nella libera interazione con altri individui. Noi promuoviamo l’importanza di quei valori che sono fondamentali ed eterni, e difendiamo il loro primato sui dettami legati al profitto e alle logiche del mercantilismo. Ci opponiamo fermamente a ogni tentativo di sfruttare la lingua, lo sport, la cultura e l’arte, così come altri aspetti dell’attività umana, come strumento per raggiungere scopi di carattere geopolitico. Tanto più se il fine è quello di dare prova della propria superiorità ed esclusività.
Oggi, per noi la cosa più importante è che quanti più individui possibile abbiano accesso a conoscenze oggettive sulla Russia, che la percepiscano e la accolgano nella sua completezza e in tutta la sua molteplicità. Noi non ci chiudiamo né ci nascondiamo da nessuno, al contrario dell’Unione Europea. Certo, potremmo non essere ancora un «Giardino dell’Eden», ma di sicuro non siamo la giungla. Il nostro è un «Giardino dei ciliegi». I «giardinieri» di Bruxelles non ci servono.
In occasione della recente presentazione del Concorso Musicale Intervision, il ministro degli Affari Esteri della Federazione Russa Sergej Lavrov si è espresso in modo molto chiaro: «Se osserviamo [l’attuale] contesto globale, la comunicazione tra le persone più diverse si rende necessaria adesso più che mai. Stanno cercando di dividerci, di costruire nuovi “muri”, stanno imponendo sanzioni e inasprendo le normative sui visti per tagliare fuori i russi dall’Occidente. In tali circostanze, la comunicazione saprà consolidare quelle naturali tendenze positive che spingono l’umanità a perseguire una sua evoluzione; umanità che, peraltro, in generale desidera soltanto vivere in pace e in prosperità, nonché avere la possibilità di comunicare e di farsi partecipe delle culture degli altri popoli».
Perciò, comunichiamo. Noi siamo sempre pronti e disposti alla comunicazione.
Ma parliamo adesso di ciò che riguarda il bello. Il grande scrittore russo Nikolaj Gogol’, originario dell’Ucraina, in una lettera indirizzata al suo amico Sergej Aksakov nel dicembre 1844, seppe descrivere con grande accuratezza la ricchezza della lingua russa: «di fronte a Voi si estende la vastità: è la lingua russa! E allora un profondo piacere Vi chiama, il piacere di immergerVi in tutta la sua immensità e di comprenderne le meravigliose leggi …».
Anche lo scrittore russo Konstantin Paustovskij seppe esprimersi in maniera accurata e concisa sulla lingua russa: «con la lingua russa si possono fare miracoli. Non esiste nulla, nella vita così come nella nostra coscienza, che non possa trovare espressione attraverso le parole russe. Le sonorità della musica, lo splendore dei colori in tutto il loro spettro cromatico, i giochi di luce, i rumori e le ombre nei giardini, quella vaghezza sperimentata in sogno, il grave brontolio del temporale, il bisbigliare dei bambini, fino allo scalpiccio generato dalla ghiaia sul mare. Non esistono suoni, colori, immagini o pensieri per i quali nella nostra lingua non vi sia già un’espressione ben precisa».
Dal bello, passiamo adesso al lato pratico. Al giorno d’oggi, la lingua russa è parlata da 255 milioni di persone in tutto il mondo. La lingua russa si trova al quinto posto tra le lingue più parlate. Il russo è lingua ufficiale o di lavoro in ben 15 organizzazioni internazionali. Da questo punto di vista, la lingua russa occupa la quarta posizione dopo l’inglese, il francese e lo spagnolo.
Il sistema di istruzione in Russia, nel quale rientra anche l’insegnamento della lingua russa, è aperto a tutti. La Russia si colloca tra i primi 10 Paesi al mondo per numero di studenti stranieri. Si stima che quest’anno il numero di studenti stranieri nelle università russe supererà le 400 mila unità, mentre si prevede che entro il 2030 tale cifra raggiungerà le 500 mila unità.
Ahimé, amici miei, questo lo si deve perlopiù all’incremento del numero di studenti provenienti dai Paesi dell’Africa, dell’America Latina, dell’India e del Medio Oriente.
Tuttavia, anche per gli italiani che desiderano studiare in Russia, la via di accesso alle nostre università è sempre aperta. Gli studenti italiani possono studiare nelle principali università russe gratuitamente, dopo aver superato una selezione che permette loro di ottenere una borsa di studio statale. Di tale procedura si occupa la Casa Russa a Roma. Già da questi giorni sarà possibile presentare la domanda, che potrà pervenire fino alla scadenza del 15 gennaio 2026. Non lasciatevi sfuggire questa opportunità. La quota di domande pervenute da studenti stranieri si distribuisce su tutte le specializzazioni e su tutti i programmi di studio sulla base dei medesimi requisiti stabiliti per i cittadini russi.
Sebbene in Italia il russo non sia la lingua più studiata, essa comunque occupa una nicchia importante; e la sua importanza è in crescita in una situazione caratterizzata da un ordine mondiale in rapida evoluzione, dal rafforzamento, al suo interno, del multipolarismo e dall’avvento dei BRICS e dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai sul proscenio globale, nonché dal processo di creazione delle basi fondanti di quel Grande Partenariato Eurasiatico dal quale non siano esclusi neppure i Paesi situati sull’estremità più occidentale del continente eurasiatico. E diviene quindi ancor più prezioso il vostro contributo, cari amici, al consolidamento della tendenza legata allo studio della lingua russa in Italia. A frequentare i corsi della Casa Russa a Roma siete già in più di 600. Continuate così!
Desidero altresì esprimere la mia più sincera gratitudine dei confronti dei docenti di lingua e letteratura russa delle università di Catania, Venezia, Firenze, Roma e delle altre città italiane per il costante supporto mostrato nei confronti delle nostre iniziative, nonché per il fatto che, persino nel complesso momento attuale, sapete restare fedeli alla vostra missione. State portando avanti quel nobile lavoro, iniziato ormai più di 500 anni fa, atto ad avvicinare la Russia e l’Italia.
Il grande scrittore classico Ivan Turgenev, nel suo poema in prosa del 1882, che appunto si intitola «Lingua russa», scrisse: «Nei giorni del dubbio, nei giorni segnati dalla difficile e dolorosa riflessione sul destino della mia patria, tu sola sei per me di appoggio e di supporto, oh grande, potente, veritiera, libera lingua russa!».
Per questo motivo desidero rivolgermi a tutti coloro che in Italia parlano, leggono, scrivono, riflettono, amano e creano in lingua russa, o che soltanto adesso si apprestano ad immergersi nel meraviglioso mondo russo. Non lasciatevi cogliere da alcun dubbio! Sappiate che qui voi non siete soli! Le porte dell’Ambasciata della Federazione Russa in Italia e della Casa Russa a Roma rimarranno sempre aperte per Voi, per le Vostre iniziative e per i Vostri progetti, e accoglieranno sempre ogni opportunità di cooperazione culturale e umanistica. Perché dopotutto siamo amici, non è forse così?
Vi ringrazio per l’attenzione!
Alexej Paramonov
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