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«Megamorte». L’aborto uccide più della bomba atomica

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Chi ha vissuto ai tempi della Guerra Fredda può averlo dimenticato. Le nuove generazioni certo non lo sanno.

 

C’è stato un tempo in cui l’umanità viveva sotto l’incubo costante dell’annientamento planetario. Immediato, istantaneo.

 

Un attacco da parte di una delle due superpotenze avrebbe avuto come conseguenza diretta la reazione della triade nucleare (missili intercontinentali, bombardieri volanti, razzi lanciati da sottomarino) avversaria, incendiando l’intero mondo con il fuoco atomico.

 

L’umanità emersa dalle rovine radioattive di Nagasaki era conscia di trovarsi  sul bordo di questo baratro: lo aveva essa stessa creato, ma di esso non vedeva il fondo.

 

Lo scienziato John Von Neumann la chiamò M.A.D., mutual assured distruction: distruzione mutuale assicurata. Eppure, nonostante il marchio della catastrofe definitiva fosse ben visibile sulla guerra ventura,  la dottrina militare atomica aveva una sua strategia.

 

Gli americani affidarono larga parte della sua elaborazione ad un think tank finanziato dal Pentagono e da privati, la RAND Corporation. Capofila degli strateghi atomici era Herman Kahn. Esperto di teoria dei giochi, Kahn relativizzò la portata dell’opzione atomica, e cominciò ad affermare – scandalizzando i più – che una guerra nucleare non solo è possibile, ma che essa può anche essere vinta.

 

Kahn osava pensare l’impensabile, come suggerisce il titolo di un suo libro del 1962, Thinking the Unthinkable:

 

«Nel nostro tempo, la guerra termonucleare può sembrare impensabile, immorale, insana, orrenda, molto improbabile, ma essa non è impossibile (…). Nonostante i nostri sforzi un giorno potremmo trovarci faccia a faccia con la scelta netta di arrenderci o andare in guerra» (1).

 

Realista, smaliziato, nel 1960 Kahn raccolse i suoi pensieri in un libro che sortì uno shock su entrambi i lati della cortina di ferro: On Thermonuclear War, cioè «Sulla guerra termonucleare», con richiamo evidente al Von Clausevitz di Sulla guerra. Il testo produsse un impatto notevole anche su Stanley Kubrick, che pensò al suo capolavoro Il Dottor Stranamore leggendo Kahn, e ispirando a lui vari personaggi della pellicola.

 

Lo stratega americano dipinse un quadro completo: prevedeva che, nel dopobomba, gli anziani avrebbero dovuto mangiare il cibo contaminato, riservando alle nuove generazioni la precedenza sugli alimenti non radioattivi; il fallout nucleare sarebbe divenuto solo uno dei tanti contrattempi della vita; le deformazioni fetali prodotte dalle radiazioni vi sarebbero state, sì, ma un certo numero di bambini sarebbe comunque nato sano. Tutti questi sono «tragic but distinguishable postwar states» (2), stati postbellici tragici ma percepibili, descrivibili. Life goes on, la vita continua, sembra dire lo Stranamore della RAND.

 

Ma vi è, in particolare, uno specifico termine per il quale bisogna essere grati a Kahn. Ancora nei primi anni Cinquanta, quando cominciò a definirsi il paesaggio  dell’apocalisse dell’atomo (l’URSS rese pubblico il suo primo esperimento nel 1949), lo stratega notò che «era difficile per le persone di distinguere  tra 2 milioni di morti e 100 milioni di morti. Oggi, dopo una decade di valutazione di questi problemi, possiamo fare queste distinzioni forse anche troppo chiaramente». (3)

 

Per dare un metro che orientasse questo scenario di morte, Kahn si inventò una nuova unità di misura, il megadeath, o megacorpse: la «megamorte», il «megacadavere».

 

Un megadeath corrisponde a un milione di morti. Little Boy, la bomba atomica da 16 kilotoni sganciata su Hiroshima il 6 agosto 1945, produsse sul momento 66 mila morti, pari a 0,06 megadeath.

 

Fat Man, l’ordigno da 21 kilotoni che tre giorni dopo distrusse la città cattolica di Nagasaki, può essere misurato in 0,135 megadeath. Nella prospettiva di un conflitto con la tecnologia atomica successiva, queste cifre (gli zero virgola) vanno del tutto dimenticate.

 

La potenza delle bombe successive si misura difatti in megatoni: sono, cioè, centinaia di volte più distruttive di quelle giapponesi. Un megatone equivale a mille kilotoni, e un kilotone  equivale a mille tonnellate di TNT. Tanto per dare un’idea di quello di cui stiamo parlando, la «Bomba Zar» – l’arma atomica sovietica rivelatasi la più devastante mai testata dall’uomo – sortì nel 1961 una esplosione da 58 megatoni. Sarebbe a dire, dalle 20 alle 30 mila volte quella di Hiroshima e Nagasaki. Possiamo immaginare che, lanciata su zone altamente popolate – come le regioni italiane (4) – la quantità di megadeath procurati possa avvicinarsi alla doppia cifra.

 

Ebbene, è ora di realizzare che una strage misurabile in diversi megadeath è avvenuta pure senza che venisse sganciata una sola bomba. Sappiamo che dall’attuazione della legge 194, ben 6 milioni di italiani sono stati annientati. Nei termini della dottrina militare termonucleare, questo è un danno da 6 megadeath. In modo molto pratico, si può pensare che è come se avessero sganciato sul nostro Paese almeno una cinquantina di vecchie bombe atomiche da venti kilotoni.

 

Non è difficile immaginarlo: 6 milioni di persone uccise, sono perfettamente pensabili come un attacco atomico che cancella tutto il Triveneto, o la Sicilia e la Calabria assieme, o l’Emilia-Romagna con l’Umbria e le Marche, o tutto il Lazio e zone limitrofe, o due terzi della Lombardia.

 

Per quanto possa sembrare allucinante, dobbiamo guardare in faccia la realtà: l’Italia è una rovina post-atomica. E neppure lo sa.

 

Chi è credente sa che siamo davanti ad uno delle più riuscite opere del demonio nei nostri secoli: il massacro degli umani senza distruzione ambientale. Come una bomba al neutrone – l’arma di nuova generazione che uccide la vita biologica ma mantiene intatti i palazzi – piantata nel ventre della Nazione. Strage senza conflitto, morte infertile, delitto che rende la madre – sommo capolavoro infernale – una volenterosa carnefice dei suoi stessi figli.

 

Questo è, in termini politici, autogenocidio a spese del contribuente: lo Stato incoraggia e finanzia la costruzione di bombe nucleari che poi fa detonare nel suo stesso grembo. La Repubblica Italiana ha pagato perché venissero inferte al suo popolo almeno 50 Nagasaki.

 

Davanti alla follia di questa realtà, comprendiamo quanto abbia ragione Kahn: la guerra atomica è sopravvivibile. E perfino, osiamo dire, preferibile: la guerra atomica è un evento nel quale l’uomo può percepire nettamente il bene e il male. La società dell’aborto, invece, no: nella notte relativista, a Moloch possono essere sacrificate milioni di vite, senza che in capo al consorzio umano sia chiaro che ciò che si ha innanzi è il Male vero.

 

Ne consegue, che, considerati gli obbiettivi di riduzione della popolazione terrestre che informano le centrali di potere planetarie, l’aborto diviene un surrogato della bomba all’idrogeno: gli effetti, misurabili in megamorti, sono gli stessi.

 

L’aborto è la continuazione della guerra atomica con altri mezzi. Ciò è vero da un punto di vista numerico e statistico, militare ed umano.

 

«Sento che oggigiorno il più grande distruttore di pace è l’aborto, perché è una guerra diretta, una diretta uccisione, un diretto omicidio per mano della madre stessa» (5): le parole di Madre Teresa, pronunziate in occasione del Premio Nobel per la Pace 1979, sono vere alla lettera. L’aborto mina alla pace perché l’aborto è guerra: è quindi, nell’era tecnica odierna la guerra dell’aborto diviene proporzionale alla guerra atomica.

 

D’un tratto, comprendiamo meglio anche la dottrina militare e socio-riproduttiva cinese.

 

Diceva Mao che «la bomba atomica è una tigre di carta di cui i reazionari americani si servono per far paura alla gente. Ha un aspetto terribile, ma di fatto non è terribile. Certamente, la bomba atomica è un’arma che può provocare massacri immensi, ma soltanto il popolo decide l’esito di una guerra, e non una o due armi nuove».(6)

 

In sostanza, Mao con scaltra concretezza orientale, era già arrivato al realismo apocalittico di Kahn e dei megadeath intellectuals: la guerra atomica può essere sopravvissuta. Potete infierire alla Cina Popolare anche 100, 200, 300 milioni di morti… Avremmo sempre altre centinaia di milioni di sopravvissuti pronti a combattere, a lanciarsi in una nuova Lunga Marcia tra rottami radioattivi.

 

Come non vedere che questa stessa mentalità post-apocalittica è quella che ha spinto il successore di Mao, Deng Xiaoping, verso la politica di controllo delle nascite e la conseguente strage assoluta: 336 milioni di aborti dal 1971, secondo dati diffusi lo scorso marzo dal governo di Pechino. 336 megadeath: la tigre di carta ha colpito davvero. Testate atomiche da diversi megatoni sono state gettate su tutte le iperpopolate aree metropolitane della Cina. Pechino, Shanghai, Guangzhou, Shenzhen, Wenzhou, Tianjin, Chengdu, Chongqing, Xian, Harbin, Hong Kong, Nanchino: la cifra di 336 megadeath copre multipli della somma delle vittime di uno strike nucleare simultaneo su tutte queste megalopoli. La Cina, come l’Italia, ha fatto deflagrare infinite Nagasaki sui propri figli.

 

Non è diverso il discorso da fare per gli Stati Uniti, che dal 1973 (l’anno della Roe v. Wade, ossia l’inizio dell’aborto legale in USA) al 2007 hanno ospitato 48.460.950 aborti chirurgici. Questo, fornito dal Guttmacher Institute – il braccio di «ricerca e sviluppo» della multinazionale dell’aborto Planned Parenthood – è un numero molto blando: vuoi perché tenuto basso per questioni di PR (agli abortisti ora conviene dire che i feticidi sono pochi), vuoi perché gli aborti chimici, i feti scartati in IVF, le pillole del giorno dopo, i concepiti uccisi dai contraccettivi abortivi (come la pillola di tipo 2) non sono qui conteggiati.

 

L’attivista cattolico americano Michael Voris suggerisce di aggiungervi il ghost number della generazione perduta: le 6.392.900 femmine abortite tra il 1973 e il 1982 avrebbero oggi 25-40 anni, e quindi con alta probabilità almeno un figlio di media (chi due, chi cinque, chi zero). Otteniamo così la cifra di 54.853.850 persone spazzate via dall’anagrafe, sottratte alla società statunitense.

 

Un danno di quasi 55 megadeath: come se il temuto showdown nucleare con la Russia, fosse avvenuto – e senza che i sovietici sparassero un solo colpo. Basandosi sulle attuali statistiche demografiche americane, è possibile calcolare che tra questi 55 milioni vi potrebbero essere stati 7 giudici della Corte Suprema, 31 premi Nobel, 6000 atleti professionisti, 11.010 suore, 1.102.403 insegnanti, 553.821 camionisti, 224.518 camerieri, 336.939 spazzini, 134.028 contadini, 109.984 poliziotti, 39.447 pompieri, 17.221 barbieri.

 

Soprattutto, e questo deve essere meditato profondamente dalle femministe, in questo immane turbine di morte sono state disintegrate 27.426.925 donne. Le quali sono, senza dubbio alcuno, il bene più prezioso che esista sulla Terra: ogni cellula uovo che la donna ovulerà in tutta la sua vita, è già formata dal feto a poche settimane dal concepimento. La prima cellula del nostro corpo – l’ovocita – già esisteva dentro nostra madre quando era un feto, venti, trenta, quaranta anni prima che venissimo alla luce. Un’autentica, insondabile meraviglia: la vita contenuta dentro la vita.

 

L’aborto interrompe questa catena superiore. Come diceva un detto ebraico: chi uccide un uomo uccide l’umanità; ammazzi qualcuno e rovini per sempre le generazioni che seguiranno. Peggio di un fallout radioattivo, l’aborto reca un danno aberrante, che si accumula distruggendo il futuro – i figli, i figli dei nostri figli – su una scala che non possiamo immaginare. Chi non crede a queste romanticherie scientifiche e umanistiche, pensi ai soldi: i 55 megadeath causati dall’aborto in USA rappresentano 55 milioni di lavoratori e consumatori americani che non pagano le tasse e non partecipano al mercato nazionale. Dal PIL, è  possibile calcolare che l’aborto abbia causato all’economia americana un danno di $37.600.000.000.000.

 

Rileggiamo: 37 trilioni e 600 miliardi di dollari. Una quantità di danaro astronomica, con la quale, per darci un’idea, sarebbe possibile comprare 169.802.662 case (ecco perché nessuno oggi in America riesce a vendere la casa, hanno sterminato i clienti), 1.321.428.571 automobili nuove (bello notare come le case automobilistiche – in Italia la FIAT – siano tra i finanziatori delle Lobby della Morte).

 

Il budget federale USA  di 2 trilioni e 600 miliardi di dollari è contenuto 14 volte nella ricchezza che avrebbero prodotto i morti per aborto. Il danno finanziario della Roe v. Wade è peggiore di quello di una ordigno atomico innescato sotto Wall Street.

 

Se questo ancora non bastasse, per realizzare le dimensioni della sciagura si prenda una mappa degli Stati Uniti, e si immagini che  sottraendo 55 milioni di persone (come se si abbattesse una pioggia di testate atomiche da 55 megadeath), sparirebbero l’Alaska, il South Dakota, il South Carolina, il Nevada, il Vermont, il Mississippi, l’Idaho, il West Virginia, il New Mexico, il Maine, il Kansas, il Minnesota, il Kentucky, lo Utah, l’Arkansas, il Montana, il Nebraska, il North Dakota, l’Oklahoma, Il Wyoming, il New Hampshire, l’Iowa, l’Indiana.

 

Come evidente, questo è un incubo da guerra fredda, uno scenario di distruzione termonucleare.

 

Il problema è che dell’abisso di cui stiamo parlando non vi è stata ancora nessuna rappresentazione adeguata alla sua immensità apocalittica. Né la polemologia (la disciplina che nel Novecento si è dedicata allo studio della guerra), né la psicologia, né la filosofia paiono comprendere questo Inferno per intero.

 

Due secoli fa,  Hegel, sconvolto dalle guerre illuministe e dall’uso delle armi da fuoco, ebbe a scrivere che «questa guerra non è di famiglie contro famiglie, ma di popoli contro popoli (…) la morte va a finire nell’universale, così come proviene dall’universale ed è senza collera che si crea come pure si sopprime. L’arma da fuoco è la scoperta dell’arma universale, indifferente, impersonale» (6).

 

Il filosofo idealista non si immaginava quale «arma, universale, indifferente, impersonale» sarebbe entrata in opera con la bomba H. Di più, non poteva intuire che la violenza e la perversione della tecnologia sarebbero sorte non tra «famiglie contro famiglie» o tra «popoli contro popoli», ma nei popoli stessi, all’interno della famiglia in sé: più annientante, universale ed impersonale dell’atomica c’è solo l’aborto, che distrugge numericamente il popolo dal di dentro, sconquassando per sempre la sua unità-base, la famiglia, invertendone oscenamente il ruolo di matrice di vita. E il tutto in apparente tempo di pace.

 

Ma Hegel è un caso di incomprensione a sé, poiché il filosofo idealista mai è sfiorato dalla sensazione che, diffondendo egli stesso un pensiero di negazione del Primato dell’Essere, egli preparasse la mente dell’uomo a guerre ancora più cruente di quelle napoleonidi, finanche alla guerra biologica dell’aborto, Aufhebung suprema di un mondo che ha negato Dio.

 

Lo psicanalista Franco Fornari nei suoi studi sulla minaccia atomica risalenti agli anni Sessanta notava che «la guerra è sempre stata una strana agenzia di import-export di distruzione: il fatto nuovo che si verifica con l’avvento dell’era atomica è la prospettiva pantoclastica, per cui l’ingorgo delle aggressività nello Stato non può più essere drenato attraverso l’esportazione, e rischia quindi di determinare una specie di crescenza tumorale che assorbe in modo sempre più vistoso le energie di ciascuna nazione – specie di quelle atomizzate». (8)

 

Lo studioso suggerisce che le Nazioni, private della valvola di sfogo della guerra dal tabù dello scontro atomico, finiscano per dover somatizzare con dolore nel loro stesso corpo sociale questa quantità di violenza inespressa.

 

La realtà è che la «prospettiva pantoclastica» di cui parla Fornari è stata già rovesciata in una prospettiva «autoclastica»: l’aborto di Stato è infatti lo scenario in cui la distruzione è inflitta dall’umanità a se stessa, in totale consonanza numerica e morale con l’aggressività sterminatoria di un eventuale conflitto atomico.

 

Fornari fallisce nel riconoscere come la mortido, il todestrieb, l’impulso di morte pensato dal suo maestro Freud, finisca per torcersi contro l’altra enantiodromica radice dell’essere umano, la libido. La libido, il cui fine per il riduzionismo scientifico della psicanalisi è la continuazione della specie, è nell’aborto aggredita e negata dalla annichilente volontà di morte del suo impulso speculare.

 

Nella disarmonica devastazione dei costrutti psichici primari dell’uomo – un impulso contro l’altro, la Morte contro la Vita – possiamo vedere come degno di essere chiamato «prospettiva pantoclastica», lo scenario di rovina totale di cui scrive Fornari, sia in realtà – più che il conflitto atomico – proprio l’aborto. L’uomo dell’era dell’aborto è scisso, schizofrenico. È al contempo assassino e suicida, è nel medesimo istante genitore e carnefice.

 

Un altro psicanalista, l’inglese Edward Glover, intuì che sul piatto del gioco atomico non vi era solo la salvezza fisica dell’uomo, ma la sua stessa sostanza psichica.

 

A  pochi mesi dalle detonazioni di Hiroshima e Nagasaki, Glover scrisse che la bomba atomica « è più un’arma di sterminio più che un’arma bellica [e per questo] ben adatta alle più sanguinarie fantasie di cui l’uomo è segretamente preoccupato durante la fase di frustrazione acuta (…) La capacità così dolorosamente acquisita dagli uomini normali di distinguere tra sonno, illusione, allucinazione è la realtà oggettiva della vita da svegli è stata, per la prima volta nella storia umana, seriamente indebolita». (9)

 

Anche qui, viene da pensare che l’arma di distruzione di massa dell’aborto supera la bomba H, pervertendo la mente dell’uomo in modo ulteriore, distruggendo per sempre il limite tra il bene e il male, cancellando l’amore per i suoi figli, invertendone la natura, indebolendo la realtà oggettiva della vita da svegli che – con la legge naturale – gli dice: non uccidere, ama la tua prole, sii responsabile di quello che fai.

 

Glover sostiene che il pericolo della bomba atomica sia quello di vellicare le fantasie sanguinarie profonde dell’uomo, con grande rischio che un frequentatore di quelle «fasi di frustrazione acuta» possa essere anche una di quelle persone in possesso, per esempio, dei codici di lancio dei missili termonucleari; ebbene, lo stesso può dirsi dell’aborto, con l’aggiunta che i codici di lancio per gli ordigni di morte sono forniti dallo Stato all’intera classe medica e paramedica mondiale.

 

La bomba demografica dei milioni di aborti è infatti possibile solo grazie ad operosi, entusiasti boia in camice bianco, sulle cui fantasie di morte attualizzate in ambulatorio ancora troppo poco si è scritto.

 

Ma torniamo a Herman Kahn e alla sua dottrina. Pragmatico, Kahn si chiede, in un capitolo di On Thermonuclear War: «i sopravvissuti invidieranno i morti?»[10]. La risposta che si dà – veniva da una famiglia di ebrei praticanti ma divenne col tempo totalmente ateo – è che alla fine no, i vivi non invidieranno i morti. Per l’uomo del dopo-bomba, è Business as usual.

 

I cattolici possono però pensarla in modo diverso. Perché in maniera opposta si è espressa la Santa Vergine apparsa il 13 ottobre 1973 ad Akita, in Giappone, nell’ultima apparizione mariana ufficialmente approvata dalla Chiesa di Roma (in particolare, a seguire il caso a suo tempo fu il Cardinale Ratzinger).  Alla veggente Suor Agnese Sasagawa, la Vergine, Marya-sama, disse: «Hi ga Ten kara kudari».

 

Verrà il fuoco dal cielo. Suor Agnese prosegue nel racconto delle parole della Madonna: «una grande parte dell’umanità verrà distrutta, e né i preti né i fedeli saranno risparmiati. I sopravvissuti invidieranno i morti».

 

La promessa di Nostra Signora di Akita risponde dettagliatamente al pensiero post-atomico di Kahn. Il vero castigo che Dio abbatterà sulla terra, sarà peggiore della devastazione termonucleare del pianeta immaginata da strateghi e generali.

 

Non è difficile vedere come l’aborto, il più terribile dei peccati dei quali la Madonna in Giappone ha chiesto il pentimento immediato dell’Umanità, sia una blasfema anticipazione di questa apocalisse con l’uomo che si erige a giudice della Vita quasi fosse Dio, e allo stesso tempo sia il delitto che più di ogni altro chiama la punizione divina. La pioggia di fuoco che dal Paradiso si abbatterà sui figli di Dio.

 

Prima che questa avvenga, però, facciamo i conti con il nostro mondo umano.

 

Da ulteriori dati emersi dal documento dell’Istituto Guttmacher Abortion Worldwide: A Decade of Uneven Progress, si ottiene che il numero degli aborti commessi negli ultimi 40 anni potrebbe andare al di là di ogni immaginazione: se il 2003 ha visto a livello mondiale 41,6 milioni di interruzioni di gravidanza, è facile presumere che dagli anni Settanta ad oggi il numero totale di aborti ecceda il miliardo.

 

Avete letto bene: un miliardo di morti.

 

In termini di guerra atomica, per un effetto simile ci vuole un ordigno-fine-del-mondo, una bomba in grado di spazzare via un continente intero. Una simile arma, ad oggi, non esiste.

 

Un miliardo di morti non si conta più nemmeno in megadeath; un miliardo di morti  è un gigadeath. Mille milioni di morti: un concetto che lo stesso Kahn nel suo libro non arriva ad usare. Eppure, questa strage è avvenuta, è qui: questa bomba è scoppiata.

 

La Storia dell’Arte ci mostra come dalla peste nera del 1348 scaturì un nuovo tema iconografico, chiamato il «trionfo della morte»: dipinti che mostravano  la morte stessa – rappresentata come uno scheletro dotato di falce – mentre decima indiscriminatamente la popolazione, qui raffigurata nei suoi diversi ceti sottolineando in dettaglio come Re, papi e gente comune siano uguali innanzi ad essa, mentre diavoli e demoni aiutano il mietitore in questo compito tremendo.

 

Ebbene, quello che abbiamo davanti a noi, con la distruzione massiva dell’aborto, non ha ancora trovato modo di essere dipinto, perché di fatto eccede la fantasia più oscura.

 

È il trionfo della mega-morte. Perché, appunto, qui non parliamo più di morte, ma di megadeath, di megamorte,  di milioni – miliardi! – di vittime.

 

E quanto ai diavoli che assistono la mega-morte trionfante, pensiamola così: sappiamo che una bomba atomica da un megatone sganciata su di una città demolisce ogni muro producendo un cratere di 400 metri di diametro e 70 metri di profondità.

 

La bomba abortista, invece, distrugge non metropoli, ma intere nazioni e crea nella terra abissi talmente profondi da arrivare all’Inferno. I demoni, così liberati dal loro arcano rifugio, hanno quindi con l’aborto un canale aperto per giungere diretti in superficie.

 

È bene che si comincino a prendere le misure di questa storia, che è senza dubbio alcuno la più grande tragedia mai occorsa nella Storia, la più terrificante minaccia mai comparsa sul cammino dell’uomo.

 

È bene che tutti noi comprendiamo, una volte per tutte, che ci hanno scagliato contro un diluvio di testate nucleari – qualcosa come otto-diecimila Nagasaki –  e al momento non pare che nessuno voglia davvero prendere provvedimenti.

 

Chi disconosce questa fatale realtà, è una ingenua vittima di questa guerra infinita: è una scoria radioattiva ambulante, è uno zombie apocalittico, un barbaro post-atomico incapace di pensare al di fuori dei propri micro-interessi alimentari.

 

Chi crede che l’aborto non sia una priorità assoluta non solo per la Chiesa, ma per l’Umanità tutta, chi ritiene che anzi esso sia una stupida «ossessione» di cui i cattolici devono cominciare fare a meno, è complice della bomba del Male, è collaboratore di questo sterminio demoniaco, è un Quisling della giga-morte che cancella generazioni e generazioni dei nostri fratelli, dei nostri figli.

 

Chi non capisce che la guerra atomica dell’aborto va fermata ora, è complice di Akuma, come chiamano in Giappone il Principe di questo mondo. Disse Nostra Signora ad Akita: «Akuma ha, Kyōkai no naka made hairikomi».

 

Il demonio entrerà sin dentro la Chiesa. «Cardeinaru ha Cardeinaru ni, Shikyō wa Shikyō ni tairetsu suru deshō». Cardinali serreranno le proprie fila contro altri Cardinali, Vescovi contro Vescovi. Akuma guiderà molti preti e religiosi lontano da Dio. Quei preti che mi riveriscono saranno disprezzati ed attaccati. Chiese ed altari saranno dissacrati. «Kyōkai ha, dakyō suru mono de ippai ni nari». La Chiesa sarà riempita di compromessi. Akuma si concentrerà specialmente sui consacrati.

 

Dunque, è giunta l’ora di chiedere a noi stessi: fino a quando?

 

Fino a quando dovremo tollerare questa guerra nucleare in cui – inermi, inerti, impotenti –  vediamo i nostri fratelli morire a migliaia di milioni?

 

Fino a quando dovremo sopportare la mano dei carnefici che preparano l’apocalisse?

 

Fino a quando incasseremo passivi questa ondata senza fine di morte, senza pensare mai che si va à la guerre comme à la guerre?

 

Sta scritto: «Allora Pietro gli si avvicinò e gli disse: “Signore, quante volte dovrò perdonare al mio fratello, se pecca contro di me? Fino a sette volte?”. E Gesù gli rispose: “Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette”». (11)

 

Abbiamo perdonato, sì. Ma qui siamo andati ben oltre le settanta volte sette. I nostri fratelli assassini, hanno peccato contro gli innocenti – uccidendoli –  almeno un miliardo di volte.

 

La misericordia di Dio è infinita. Quella dell’uomo, logicamente, non può esserlo.

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

NOTE

1) Herman Kahn, Thinking About the Unthinkable, Horizon, New York 1962; p.21.

2) Herman Kahn, On Thermonuclear War, Transaction Publishers, Piscataway 2011; p.20.

2) Herman Kahn, On Thermonuclear War, cit.; p.169.

5) Nikita Khrushev, in quell’aprile 1959 in cui l’Italia firmò per ospitare i missili Jupiter americani, fu chiarissimo: promise che «in caso di guerra, l’Italia sarebbe stata uno dei primi obbiettivi di distruzione atomica». Paolo Cacace, L’atomica europea, Fazi, Roma 2004; p.81. In particolare, dai pochissimi file declassificati, si è potuto apprendere del destino di annientamento a cui sarebbero andate congiuntamente incontro l’Alta Italia e a Baviera. In uno studio sulla strategia degli eserciti del Patto di Varsavia in caso di scontro frontale col mondo libero, lo storico ceco-americano Vojtech Mastny ha raccolto materiale per affermare che «sul fianco meridionale, il compito dell’esercito ungherese era quello di far parte di un’operazione in cui Monaco, Verona e Vicenza sarebbero state incenerite da un bombardamento atomico, così come lo sarebbe stata Vienna, capitale della neutrale Austria». Vojtech Mastny, A cardboard castle? An inside history of the Warsaw Pact 1955-1991, Central European University Press, Budapest 2005; p.23. I dettagli dell’operazione, come spiegano con dovizia di particolare gli studiosi Suppan e Mueller, sono contenuti in una grande manovra di esercitazione militare che Mosca e Budapest lanciarono nel maggio 1965: «ad un possibile attacco dell’Occidente con 30 ordigni atomici, il Patto di Varsavia avrebbe risposto con un immediato contrattacco nucleare da 7405 kilotoni su Baviera Austria e Alta Italia (…) armi nucleari occidentali avrebbero colpito Budapest, Debrecen, Miskole, Szekesfehervar e altre città alle ore 07:00. Nello stesso preciso istante Vienna avrebbe dovuto essere distrutta da due bombe atomiche da 500 kilotoni l’una, seguita alle 07:02 da Monaco, Oberammergau, Verona, e Vicenza». Arnold Suppan – Wolfgang Mueller, Peaceful Coexistence or Iron Curtain? Austria, Neutrality, and Eastern Europe in the Cold War and Détente, LIT Verlag Muensterm, Berlino-Muenster-Vienna 2009; p.209).

5) Gregg Watts, Mother Theresa: Faith in the Darkness, Lion Books, Oxford 2009; p.130.

6) Si tratta della famosa zhǐlǎohǔ, l’espressione mandarina (composta letteralmente dagli ideogrammi “carta” “vecchia” “tigre”) divenuta proverbiale anche in Occidente con la traduzione di «tigre di carta». Mao spiegò il concetto nell’agosto 1948 durante l’intervista alla giornalista americana Anna Louise Strong. In Mao Tse-Tung, Opere scelte, 4 voll., Casa editrice in lingue estere, Pechino 1969-1975, p.99. Mao tornò sul concetto della bomba atomica come tigre di carta a Mosca durante l’Incontro Internazionale dei Partiti Comunisti ed Operai (18 novembre 1957), e durante un discorso al Convegno di Wuchang (1 dicembre 1958) dell’Ufficio Politico del Partito Comunista Cinese.

7) In Claudio Cesa (a cura di), Hegel. Antologia di scritti Politici, il Mulino, Bologna 1977.

8) Franco Fornari, Psicanalisi della Guerra, Feltrinelli, Milano 1970; p.21

9) Edward Glover, War, Sadism and Pacifism, George Allen & Unwin, Londra 1946; p.274.

10) Herman Kahn, On Thermonuclear War, cit. p.40.

11) Matteo 18, 21-23.

 

 

 

 

Articolo del 2014 già apparso su Riscossa Cristiana, poi su Ricognizioni, con il titolo «Il trionfo della megamorte. Meditazione su aborto e bomba atomica».

 

Bioetica

La pop star britannica Lily Allen ride mentre racconta i suoi molteplici aborti

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La cantante, cantautrice e attrice Lily Allen, candidata ai Grammy ha dichiarato in un recente podcast, di non ricordare quanti aborti ha avuto, mentre rideva sguaiatamente della materia.

 

In una puntata del podcast Miss Me? del 1° luglio, Allen ha parlato dettagliatamente della sua vita personale. «Ora ho una spirale», cioè dispositivo contraccettivo intrauterino (che di fatto è un abortivo e non un contraccettivo, perché uccide l’emrbione), ha detto alla co-conduttrice del podcast Miquita Oliver. «Credo di essere al terzo o quarto figlio e ricordo solo che prima era una zona disastrata. Rimanevo incinta di continuo».

 

La Allen, che ha una figlia di 13 anni e una di 11 con l’ex marito (il secondo marito è il robusto attore hollywoodiano David Harbour, noto per la serie Stranger Things e per le sue veementi sparate contro Trump; ma sembra si sia separata anche da questo) ha poi parlato dei bambini che ha abortito. «Aborti, ne ho avuti alcuni, ma d’altronde», ha cantato ridacchiando sulle note della nota canzone My Way di Frank Sinatra, poi rifatta dai Sex Pistols. «Non ricordo esattamente quanti. Non ricordo, sì. Penso forse cinque, quattro o cinque».

 

 

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«Ricordo che una volta sono rimasta incinta e l’uomo mi ha pagato l’aborto, e io ho pensato che fosse così romantico», ha detto la cantante. Tuttavia, la donna da allora ha cambiato idea su quell’episodio in particolare. «Ti dico quanto è stato romantico: non credo che mi abbia scritto dopo. Giusto, a dire il vero. Ero una pazza stronza. Lo sono ancora».

 

Lungi dall’essere scioccata, l’intervistatrice Miquita Oliver ha risposto osservando che anche lei aveva avuto «circa cinque» aborti e che l’inserimento della spirale contraccettiva le aveva assicurato di «smettere di abortire», cosa che pare fosse divenuta diventata di routine. «Lo schema era: sfortunatamente, rimango incinta, non voglio esserlo, abortisco, poi mentre sono sedata durante l’aborto, mi mettono la spirale», ha detto. «Mi sentivo davvero in imbarazzo anche solo a dire di aver avuto più di un aborto, perché diavolo dovrei vergognarmi? Ne ho avuti diversi».

 

«Mi irrita davvero, e l’ho già detto apertamente. Ho visto meme in giro a volte, su Instagram, da account pro-aborto o altro, ogni volta che si parla di questo argomento, e all’improvviso si comincia a vedere gente che pubblica cose su motivi straordinari per abortire», ha ammesso Allen.

 

«Tipo: “Mia zia aveva una figlia con questa disabilità”, o qualcosa del genere, ‘Se fosse andata a termine la morte l’avrebbe uccisa, quindi dobbiamo farlo”», ha continuato. «È come dire: ‘Stai zitto!’ Semplicemente: “Non voglio un fottuto bambino in questo momento”. Letteralmente: “Non voglio un bambino” è una ragione sufficiente».

 

«In uno degli aborti che ho avuto, odiavo quell’uomo e non avevo assolutamente alcun interesse ad avere quel fottuto figlio», ha aggiunto Oliver. «Ho pensato: “Assolutamente no”, e come sapete, per tutti i miei 20 e 30 anni, avere un bambino non è stato poi così importante per me, e mi sarebbe dispiaciuto non avere la possibilità e la libertà di fare ciò che dovevo fare per la mia vita».

 

La Allen ha da tempo espresso apertamente la sua posizione pro-aborto. Nel 2012, mentre era incinta (di un bambino che aveva tenuto in grembo), rispose su Twitter al suggerimento del ministro della Salute britannico Jeremy Hunt di ridurre il limite di aborto a 12 settimane, scrivendo: «possono questi idioti dalla mente ristretta smettere di dire alle donne se hanno diritto o meno all’aborto, per favore?»

 

Nel 2022, è salita sul palco con Olivia Rodrigo al festival musicale di Glastonbury per cantare la sua hit Fuck You, per denunciare la decisione della Corte Suprema degli Stati Uniti di ribaltare la sentenza Roe v. Wade.

 

«Vorrei che la gente smettesse di pubblicare esempi di motivi eccezionali per abortire» aveva scritto su Instagram. «La maggior parte delle persone che conosco, me compresa, semplicemente non voleva avere un fottuto bambino. E questa è una ragione sufficiente! Non dobbiamo giustificarlo. Non dovrebbe essere necessario dirlo, e penso che tutti questi esempi facciano solo il gioco dei cattivi».

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Si tratta del libero aborto invocato dalle femministe – cioè senza alcuna remore, feticidio a comando, per capriccio, pure, magari pure pagato dallo Stato.

 

La realtà è che si sta andando oltre: le frange femministe, sempre più vecchie e inacidite (la vita «libera», cui aspiravano, che era di fatto solo mancanza di morale e odio della legge naturale, ha presentato il conto) stanno trasformando l’aborto da diritto a vero e proprio «sacramento» della vita moderna.

 

Ciò è in linea con varie realtà religiose, come le serque di sigle ebraiche (cui si sono aggiunti i satanisti organizzati) che hanno reagito alla sentenza della Corte Suprema Dobbs v. Jackson che defederalizzava il diritto di aborto dichiarando che il feticidio è un loro diritto religioso.

 

Guardiamo la realtà per quello che è: le popstar ridono del sacrificio umano, vi partecipano, ne difendono la continuazione. La situazione della cultura popolare oggi è questa. Sappiamo come chiamarla: la musica, il cinema, la TV e pure altre forme di intrattenimento come le letteratura, la filosofia, la politica, vivono sotto l’ombra della Necrocultura.

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Immagine di Justin Higuchi via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic

 

 

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Essere genitori

Giurare per Ippocrate, o giurare per il CUP. La macchina sanitaria disumana e tuo figlio

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Una minimale, micrologica avventura sanitaria di questo pater familias, e del suo figliolo, per cercare di significare il grande disegno di distruzione in cui, ticket dopo ticket, ci troviamo tutti.   Venerdì mattina il bambino, mentre lo porto verso uno dei suoi ultimi giorni di quarta elementare, mi dice che ha qualcosa all’orecchio. Non ci vuole molto a capire che, semplicemente, gli si è formato un tappo. Di fatto, quando gli parlo, sembra sentire poco. Un breve consulto con la madre conferma: «ma sì, è come quello dell’anno scorso. Non ti ricordi?» No, sono il padre, non la mamma, la mia tendenza è svuotare, in automatico, in tempi brevissimi, la cache cerebrale dei problemi.   Un’altra cosa mi spinge a mettere più attenzione del dovuto su quel tappo: lo ha, con estrema probabilità, ereditato direttamente da me. Nel senso: l’orecchio è stato a lungo per me quello che definiscono un «organo-bersaglio», come si alza lo stress ecco che arrivano occlusioni, otiti esterne dolorosissime, o perfino (immagino che la cosa sia collegata) problemi ai denti del giudizio.

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Non prendo la cosa sottogamba, perché so che non passa da solo: puoi provare tutto, gli spray, le goccette che ti sfrigolano dentro, i candelotti fumanti piantati verso il timpano. Un tappo è un tappo: si leva solo con una certa pressione. In passato, me lo hanno tolto otorinolaringoiatri, dottori generici, persino qualche infermiera di ambulatorio. Non bevo, quindi posso dire che nella vita ho stappato più orecchi che bottiglie di alcolico.   Non è una grande operazione: serve solo il siringone e quella bacinella metallica a forma di rene (o di fagiuolo) che devi tenere a lato, dove ad una certa apparirà, in tutto il suo orrore, il tappo, mentre nell’orecchio risuona la libertà, per la gioia dell’organismo tutto. La durata totale è, chiunque lo sa, qualche minuto appena.   Tornato a casa la sera, lo trovo nella stessa condizione. Il bambino sente poco, è ancora avvolto in quella sensazione di fastidio e rassegnazione che ricordo benissimo.   Decido di fare la mossa: è venerdì sera, il pediatra non c’è (e non devo essere sicuro che faccia queste cose, mi dicono), posso solo pensare ad una mossa radicale, portarlo in ospedale, al Pronto Soccorso pediatrico. Un luogo che, da passate esperienze, ricordo non troppo affollato, dove si può incontrare un medico abbastanza speditamente. Vuoi non trovare lì un dottore che gli lavi l’orecchio in un minuto, con pure alle spalle una laurea per farlo e un giuramento, quello di Ippocrate, per cui vive nell’imperativo di guarire il prossimo (specie quando il prossimo è un bimbo)?   Caricato in macchina il bambino, e ivi portatolo, mi trovo innanzi a diversi capannelli di infermiere del reparto emergenze dei bambini che chiacchierano: il lavoro non deve essere tantissimo, bene. Arrivati dietro il vetro dell’ufficietto che reca la scritta «accettazione» (il posto giusto, no?) una ragazza con la mascherina, con attorno altre colleghe con cui stava amabilmente conversando nel silenzio del reparto vuoto, mi dà l’informazione che avevo tentato scacciare dalla testa: per accedere al Pronto Soccorso Pediatrico devo prima passare da quello degli adulti.   Il che vuol dire ore e ore di attesa se devi vedere un medico, in un’atmosfera di estenuazione che richiede le guardie giurate in sala d’attesa (novità degli ultimi anni: cos’è cambiato? È peggiorato il servizio? Sono arrivati «ospiti» stranieri che tendono alle escandescenze? Il combinato disposto dei due fenomeni). La fila più drammatica, illogica, disperante è in realtà prima ancora, quella del cosiddetto «triage» – no, la parola italiana non la vogliono: è già questo dice tanto sulla macchina della sanità, cioè sul fatto che la sanità è una macchina.   C’est-à-dire: fai la fila, lungamente, solo per dire cos’hai e farti aprire la pratica da una tizia dietro ad un doppiovetro. Una fila disorganizzata, senza biglietti e con la costante di masse immigrate prima di te (la condizione comune della cittadinanza nella Repubblica Italiana nel secolo XXI), nessuna attenzione per la tua situazione – sei grave? Hai bisogno solo di una carta? etc. – cioè, nessun triage di nessun tipo.   Qui scatta la prima realizzazione: la tua situazione medica, la tua vita, è in realtà sottomessa ad un sistema di prenotazione. Un macchinario più grande di te, che non ti considera davvero se non come numero, e di fatto ti danno un braccialetto con un codice a barre, una cosa che era nei film di fantascienza distopica non troppo anni fa.

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Lo dico perché lo so per esperienza: l’anno scorso, in una storia che non ho ancora raccontato su Renovatio 21, ma che qualche lettore conosce perché coincise con la rarità assoluta del sito fermo per una settimana, andai in pronto soccorso per un malanno piuttosto intenso. Flashback.   Fu proprio durante la fila del triage, in cui arrivai bianco e barcollante, che ad un certo punto cedetti in modo talmente spettacoloso che ancora oggi ne vado fiero: al culmine della capacità di resistere al problema che avevo, mi sentii mancare completamente il respiro (sensazione mai avuta, neanche facendo una vasca di piscina in apnea), non avevo nemmeno la forza di chiedere aiuto… quindi, forse per la terza o quarta volta in tutta l’intera mia esistenza, vomitai – ad abundantiam, scatenando il fuggi fuggi generale, neanche fosse apparso nel nosocomio Godzilla, o un altro mostro gigante sputatore a caso.   Era l’immagine di un uomo piegato dal problema biologico, e nessuno, nessun medico, nessun infermiere, nel limbo-triage della coda burocratica multietnica, lo volle aiutare: furono proprio le guardie giurate, quelli che non hanno giurato ipocritamente per Ippocrate, e forse proprio per questo hanno conservato una qualche umanità. Quando tornai a respirare, messo dal personale in una sedia a rotelle, immaginavo che mi avrebbero fatto saltare la coda, vista la gravità – quelli prima di me stavano tutti in piedi e non avevano appena rimesso un ettolitro di anima, vitrea e gialla, sul pavimento davanti alla porta automatica proibita (si apre solo da dentro) che dà al reparto dove attendere senza speranza per altre ore ed ore.   Maddeché: feci un’altra ora di fila seduto, sconvolto e dolorante, sulla sedia a rotelle ospedaliera, e arrivato al bancone con il supervetro, l’infermiere pure mi redarguì per quello che avevo fatto. A quel punto, raccolta un po’ di adrenalina e di rabbia, mi alzai dalla sedia e alzai la voce flebile: «eccerto, la prossima volta che sto per morire improvvisamente soffocato avverto prima voi, però guardi, c’era la sua fila». L’infermiere rimase zitto.   Il proseguo di questa storia dell’anno scorso, il cui racconto rimando da tempo perché tocca il tema delicato delle trasfusioni e del loro rifiuto, lo racconto un’altra volta – anticipo tuttavia che di lì a qualche giorno di ospedalizzazione il primario con codazzo di una diecina di dottori si presentò al mio letto e, poco prima che fossi operato, usò parole che dipinsero con chiarezza nella mia mente l’immagine della mia morte per dissanguamento sul tavolo operatorio. «Lei rifiuta le trasfusioni … e tante altre cose… quindi, se succede qualcosa, che facciamo, la lasciamo morire dissanguato?»   Devo dire che nessuno, nemmeno nelle risse più belluine, mi aveva mai fatto sentire una violenza simile, la violenza della morte, con tutto ciò che adesso essa comporta per la mia discendenza. La risposta mi venne immediata: «visto che si è portato un po’ di testimoni, dichiaro pure pubblicamente che rifiuto anche l’espianto di organi». Il barone chirurgico, e tutti i suoi vassalli, valvassori, valvassini in camice bianco uscirono in silenzio, senza salutare.   Quindi, mentre venerdì sera aspettavo in quella stessa fila con mio figlio, non potevo non pensare a quei momenti dell’estate scorso. Non potevo permettermi di far passare un bambino, sangue del mio sangue, attraverso il processo di disumanizzazione che conosco e ho testimoniato – anche solo quello dell’attesa ridicola del triage, che è solo il primo grado della cancellazione della dignità umana con la sanità moderna può tranquillamente portarti alla morte. (Renovatio 21, lo sapete, non parla d’altro, su tutti i fronti declinabili).
  Fine flashback. Quindi, dopo aver resistito mezzora in fila solo per avere un pezzo di carta con cui far curare un bimbo in un reparto vuoto, non gliela ho più fatta.   Il padre, stringendo la mano del figlio, lo porta via. «Papà… ma tutti gli ospedali sono così?» chiede lui, intuendo che il silenzio prolungato del genitore nasconde l’incontenibile disprezzo per il sistema. C’è di peggio, gli dico. Ma la questione è la Sanità, lo Stato moderno, in generale, cioè lo Stato impersonale e immorale che giocoforza fa male agli uomini sino ad eliminarli, gli spiego borbottando come il vecchio che sto diventando, incurante del fatto che questi sono discorsi per i miei lettori e non per un bambino di nove anni.   Piano B: mancano pochi minuti alle 20, la grande farmacia sulla strada è aperta. Lì, avevo visto in precedenza, eseguono visite otoscopiche e lavaggi auricolari. Sessanta euro: un salasso. Sono disposto a sobbarcarmelo, pur di liberare mio figlio dal suo problemino all’orecchio, che è il mio. (Sangue del mio sangue… cerume del mio cerume?)   Facciamo la fila anche qui, ma in questo caso c’è il numero, stile salumiere al supermercato. Quindi, la sorpresa: no, in realtà i lavaggi non li fanno, cioè li fanno, sì, ma non sono i farmacisti (anche loro laureati, anche loro con giuramento), ma delle infermiere apposite, che vengono solo ogni tanto, bisogna prenotare, etc. Usciamo dal negozio con il materiale per il Piano C: spruzzo di acqua di mare da 15 euro a bomboletta, flaconcino di dimetilbenzene per ammorbidire il tappo da non so quanto.   Arrivati a casa il Piano C si rivela esattamente quello a cui cercavo di non pensare: un fallimento totale. Lo spruzzetto è insignificante, le goccette sono inefficaci al punto che pensiamo di aver fatto peggio.

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È a questo punto che si fa largo nella mia mente – che mai si deve rassegnare, se si tratta di un bambino – il Piano D: chiamare la guardia medica, quella bizzarra istituzione parallela all’ospedale, l’ambulatorietto dove, diciamoci le cose come stanno, vai quando hai troppa paura della fila in pronto soccorso. Apre la sera, a significare che loro ci sono quando i dottori non ci sono, come se prima essere curato, o anche solo ascoltato, avviene senza problema. Ad ogni modo, una volta andavi, entravi, aspettavi, parlavi col dottore, che ti dava la prescrizione, e via. Non più: dopo il COVID devi chiamare al telefono, dove puoi trovare a volte una persona che ti scoraggia dal presentarti, e prenotare. La pandemia è stata essenzialmente una buropandemia, con la burocrazia che ha infettato qualsiasi istituzione, dalle scuole, alle banche, ai bar… lo sappiamo.   Faccio il numero della guardia medica, ma è troppo presto. Rispondono solo dopo le 20. Attendo, chiamo. Dopo un po’ rispondono. Racconto. Mi dicono che la guardia medica non si occupa dei bambini, che un tappo all’orecchio non è un’emergenza, e di certo loro non fanno lavaggi all’orecchio… io faccio silenzio, perché nell’intimo comincio a capire che la tattica vincente è quella di fare in modo che ascoltino se stessi. Funziona: la ragazza – la dottoressa – mi dice che vabbè, posso portarlo, ma solo per farlo vedere.   Fatta, penso io: ambiente ambulatoriale, niente masse afroasiatiche che premono alle porte, solo un medico e un bambino che sta male, che può essere aiutato con una manovra che dura un minuto, migliorandogli di netto la vita.   Macché. Arriviamo in ambulatorio, una casa cubica grigia praticamente senza finestre e un portone blindato modernissimo. Suoni il campanello, confermi di aver un appuntamento. Entrati, nessuno ci riceve, stiamo 15 minuti ad aspettare da soli al buio. Di sopra senti degli schiamazzi: il personale sta facendo bisbocce, suona come una pausa prolungata, visto che l’orario dell’appuntamento, e dell’inizio delle attività dell’ambulatorio, è quello delle 20:30.   Finalmente scende una ragazzina in camice, è una dottoressa, è quella con cui ho parlato al telefono. Se ha avuto l’umanità di visitare il piccolo, vuoi che non abbia quella di aiutarlo con la più semplice delle procedure, fatta letteralmente di acqua fresca? Guardo nell’armadio: la bacinella-fagiuola c’è, il siringone pure. Fatta. Fatta. Dai.   Invece, la dott.ssa Tizia ci dice che non può fare nulla, loro non guardano i bambini, tantomeno possono fare lavaggi, per quelli devo andare dal pediatra, e visto che non ci sarà per giorni, al Pronto Soccorso pediatrico, cioè il luogo da cui sono fuggito in preda alla rabbia contro il mostro sanitario applicato su tutti, soprattutto sul mio bimbo.   Epperò, per gentilezza, la Tizia dottoressa si offre di «guardarlo», come promesso, e lo fa: fuori l’otoscopio, e in meno di cinque secondi scatta la difficile diagnosi: «sì c’è un bel tappo». Grazie, non avevamo capito. Poi si mette a scrivere a verbale, e qui ci mette un quarto d’ora. La proporzione, mentre aspetto, mi è già chiarissima: cinque secondi per guardare il bambino, e non risolvere nulla perché non è sua mansione, e un quarto d’ora per riempire un modulo burocratico: cosa è importante, per i medici odierni, è chiarissimo. Prima della persona, viene la macchina, il sistema sanitario di cui sono ingranaggi salariati. Prima di Ippocrate, viene il Centro Unico di Prenotazione, il CUP.   La dottoressa ci dà pure una prescrizione per un altro tipo di gocce. Tornando a casa, sconfitti, ci saranno anche quelle da comprare. Così, dirigo verso la farmacia di turno (a quel punto la sola aperta) di un quartiere non semplicissimo (cioè, vinto dall’invasione immigrata), una farmacia non nota per la gentilezza: nemmeno parli attraverso lo spioncino, ma tramite il cassettone con cui devi scambiare la tessera sanitaria, i soldi, il bancomat, contro i farmaci – il farmacista non lo vedi in faccia mai, e neppure, in verità, ne odi la voce. È una transazione impersonale e difficile, cui già mi ero proprio lì sottoposto settimane prima sempre fuori orario, facendo anche allora una fila colossale.   Arriviamo, tra la serqua di immigrati che spuntano ovunque tra il bar e il parchetto circostante, notiamo davanti a noi un africano: ha la testa praticamente dentro il cassettone serale della farmacia, è piegato in avanti e parla a voce altissima, del resto la struttura, come ho detto, non sembra essere fatta per ascoltare il paziente. «Io devo prendere quel farmaco» spiega l’africano al farmacista invisibile. «Io devo… io prendo sempre… non ho ricetta perché non posso andare dal dottor, perché lavoro, faccio autista tutto giorno», garantisce. A fianco a lui, un altro africano a caso, in ciabatte e cappello da baseball, fissa nel vuoto il tramonto sui condomini del quartiere popolare.   Davanti alla persistenza dell’immigrato che cerca di farsi dare un farmaco senza ricetta, e alla blindatura del farmacista ignoto che la rimbalza, perdo, per l’ennesima vola la pazienza: non posso perdere altro tempo qui, con il bambino per mano, e neppure posso rischiare quando l’africano, probabilisticamente, andrà in escandescenze, non capendo, o fingendo di non capire, che per la medicina che vuole ci vuole un documento medico, la prescrizione. Quando ciò accadrà, penso, il pericolo ce lo beccheremo tutto io e mio figlio, che siamo in partibus infidelium, mentre il farmacista invisibile tornerà tranquillo a guardarsi Netflix, protetto da schermature di metallo e vetro antisfondamento.

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Fuggiamo anche da lì, mentre il risentimento per il mondialismo e la Necrocultura sanitaria traspirano dalla mia pelle – il piccolo, sembra comprendere telepaticamente. Del resto è mio figlio, e lo sto crescendo io… Il problema all’orecchio tuttavia rimane, e il papà non sa davvero risolverlo.   Ripieghiamo: altra farmacia di turno, fuori città. Ci metteremo un po’, ma almeno non permetterò che mio figlio possa essere messo in pericolo da colui che senz’altro ci pagherà le pensioni. Qui c’è uno spioncino dci venti centimetri per venti, una finestrella che ti fa vedere una stanza vuota e, quando entra, parte della faccia del farmacista di turno. Qui mi azzardo: «scusi… non è che fate lavaggi auricolari? Se non può aprirmi le passo la testa di mio figlio attraverso la finestrella». Sorride. Non ha idea dello sforzo, e dell’umiliazione, che sto vivendo per trovare qualcuno che aiuti mio figlio. È notte inoltrata.   A casa, è tardi. Preghiere, libro, a letto. Quando gli spengo la luce spero tanto che si svegli con il problema risolto automaticamente. Non è così. Discussioni mattutine con la madre. Forse va via da solo, ma bisogna aspettare. Era successo quando eravamo andati alle terme (altro evento svuotato via dalla memoria cache paterna). Va bene.   Sabato mattinata, lavoro, faccio la spesa, commissioni varie, ma il pensiero mi tarantola. Cosa sto facendo? Lo lascio lì, mio figlio, con un malanno addosso? Ma che roba è?   Il giorno dopo avrebbe avuto il capitolo finale di una delle cose più fondamentali dell’universo, il minibasket. Cosa fa, va in campo e non sente le indicazioni dell’allenatrice? Poco dopo, ci sarebbe un ulteriore evento determinante: esame di passaggio di cintura a judo. Il lettore di Renovatio 21 sa che, nel mondo moderno che ha programmaticamente cancellato ogni forma di iniziazione maschile (con il risultato di generazioni di drogati ed omosessuali), il genitore deve attaccarsi allo sport, surrogato della caccia e della guerra, per ogni briciola iniziatica di sviluppo spirituale possibile.   È così che prendo la decisione più dura: vado a Canossa. Cioè, torno in ospedale. Piano E. Va bene, farò la fila al triage del Pronto Soccorso adulto, quella dove rischiavo di morire soffocato l’anno passato, è per il bene di mio figlio. E poi magari a quest’ora non c’è nessuno, ci mandano subito al pediatrico, e zac, problema risolto, assieme alla mia dissonanza cognitiva di padre che non riesce a trovare, in tutto il sistema, una persona in grado di mettere un po’ di acqua nell’orecchio di un bambino.   Muniti di una Nintendo Switch strategica – per cui la noia me la ciuccio via io, mentre lui seduto gioca a Zelda o Capitan Tsubasa – ci ripresentiamo al Pronto Soccorso, e – colpo di fortuna! Alè! – non v’è nessuno. Subito al bancone, dove però l’infermiera ci mette un po’ a guardarci in faccia. Quando lo fa, dobbiamo rispiegare tutto, ma va bene, siamo vicini alla meta, l’orecchio stappato è dietro l’angolo. Scatta il braccialetto con codice a barre distopico. Evvai. Ampie falcate verso il Pronto Soccorso pediatrico, cioè verso la tanto attesa liberazione auricolare.   Eccoci: le infermiere pediatriche sono appollaiate nei consueti capannelli a reparto praticamente vuoto. Ripeti tutta la storia. Poi le domande importanti. Salute? Sì, sempre in salute. Allergie? No, nessuna. Vaccini?   «No».   «Dico, i vaccini pediatrici normali…», precisa lei. No, nemmeno uno.   L’infermiera esita, si irrigidisce un pochino, vedo. Poi chiede di possibili allergie di farmaci. No. Io ribadisco che vorrei solo, compatibilmente con i loro tempi e le emergenze, che lavassero l’orecchio di mio figlio. Lei chiama una collega più giovane, che, mascherata, mi dice perentoria: ma no, qui non facciamo lavaggi d’orecchio, ci mancherebbe, e poi sono lì per le emergenze… Non c’è nessuno, dico io. «Non possiamo fare questa cosa», dice. Va bene, dico, ma c’è un dottore, in questo momento? Ne hanno disponibili addirittura due, mi informa, e io penso il silenzio del reparto vuoto è tale che probabilmente stanno pure ascoltando direttamente la conversazione.   Le dottoresse, continua l’infermiera mascherinata, al massimo possono vedere il bambino.   A quel punto mi indurisco io: scusi, siamo già stati in guardia medica, abbiamo il referto, cinque secondi di otoscopio hanno confermato che il bambino ha solo un tappo, nient’altro. A questo punto, se non è possibile fare altro, noi andiamo, stiamo perdendo tempo noi, facendone perdere anche a voi.   «È libero di farlo. Metteremo “non risponde alla chiamata”». Chiamata de che? Praticamente ci siamo solo noi. E quindi, pagherò il ticket anche senza ottenere nulla? «Sì certo, arriverà a casa». Nella mia testa, mentre il fastidio tocca vette stratosferiche, si fa largo anche la prospettiva che poi, da qualche parte resterà il fatto che porto mio figlio all’ospedale e poi però spariamo. Sapete: quel tipo di cosa che poi può essere usato contro di te quando magari le istituzioni cercano materia per darti addosso – chi conosce la storia dell’antivaccinismo in Italia sa di cosa parlo.

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Per cui, eccoci con le mani legate (da un braccialetto con codice a barre). La chiamata però è, come intuibile, immediata. Nell’ambulatorio c’è una dottoressa semi-meridionale, anche gentile, con uno stuolo di infermiere che vanno e vengono dalle porte. C’è la possibilità che si consumi l’atto di umanità, e la dottoressa levi il tappo di cerume a mio figlio? No. «Non sono cose che facciamo. Le fa l’otorinolaringoiatra». Quindi, ci mandate di sopra, in otorinolaringoiatria, chiedo. «No, non si può. L’otorino il sabato e la domenica c’è solo al mattino fino a mezzogiorno. È andato via poche ore fa. Non è che possiamo richiamarlo per un orecchio tappato».   Io non replico nulla, continuo semplicemente a concentrare il mio sentimento guardandola dritta negli occhi. Ad un certo punto, per un istante brevissimo, sento che anche lei capisce quanto la situazione sia grottesca, e toglie lo sguardo. Forse solo per un attimo, nella sua mente può essersi fatto largo il pensiero che il suo lavoro, anzi il suo compito, la sua missione, è diverso dal passare le carte, dal fare solo ciò che è demandato burocraticamente?   Forse. Io però ad un certo punto obietto, sia pure con una certa calma: «dottoressa, quindi, mi vuole dire che, tra le migliaia di dottori e infermieri che lavorano in questo ospedale, non c’è nessuno che può fare un lavaggio all’orecchio di mio figlio?». No, mi dice, bisogna sentire l’otorino, che non c’è. Ecco, potete venire domani mattina, se e quando avrà tempo, vi seguirà lui. Queste sono le carte.   Usciamo anche da questo ennesimo capitolo di tritacarne buro-sanitario sconfitti. Nessuno, nell’universo provinciale di dottori, infermieri, farmacisti, vuole aiutarci, nemmeno con un’inezia come un lavaggio d’orecchio – non è (più) suo compito, punto.   SMS alla madre, che era già disillusa. «Tornate a casa… lo sapevamo». Io però non ho intenzione di mollare, e quindi ragiono: quello che ci serve non è un medico, né un sanitario, uno specialista, nulla. No: dobbiamo solo trovare, qui dentro, una persona rimasta umana. Dobbiamo trovare qualcuno che si ricorda che ha giurato per Ippocrate, e non per il CUP. Qualcuno che vede un bambino mogio e, invece, di compilare scartoffie per mandarlo via, lo aiuta.   Piano F, Mission Impossibile: trovare umanità residua, in ospedale? È l’ultima cosa da fare, l’extrema ratio a cui giungere: la ricerca della persona umana. Saltare i canali istituzionali, l’imbuto della burocrazia sanitaria, e parlare faccia a faccia con un essere umano non divorato dalla macchina.   Quindi, ascensore. Reparto Otorinolaringoiatria, dritti – e pazienza se mi hanno detto che il dottore non c’è: una laurea non è la sostanza che stiamo cercando in questo momento. Arriviamo, ho il bambino per mano: c’è silenzio, ma capisco che sono tutti impegnati. In una saletta-ambulatorio c’è un tizio seduto ad una scrivania che parla con uno in piedi, immagino siano dottore ed infermiere, non so, faccio sempre fatica a distinguerli, forse è un effetto voluto, come la sparizione delle suore dagli ospedali.   Mi guardano, ma non si curano, non stanno chiacchierando, ma discutendo operativamente. Io, per cortesia, non li interrompo. So che per la cosa che devo chiedere non devo sembrare scortese, perché ho capito quanto questa quisquilia sia contra legem, quanto l’elasticità della medicina sia totalmente perduta. Non insisto, ma persisto, aspetto fuori dalla porta.   Arriva una vecchia infermiera: «scusi… ha bisogno?» Le spiego tutto. Vorrei solo un lavaggio d’orecchio per questo bambino. «Ma è stato in Pronto Soccorso pediatrico?»… «Veniamo da lì. Ci hanno dato appuntamento qui per domani. In realtà io mi chiedevo se non ci fosse qualcuno in grado di farlo ora… Signora, sono due giorni che giro come una palla da flipper» Mentre mi esce questa similitudine mai venutami prima, sento che, in questo contesto, le mie parole, anche nella volontà di non lasciar trasparire nessun fastidio, possono suonare come pura sfacciataggine. Ma come, senza prenotazione? Ma come, fuori orario così?   «Senta, in realtà il dottore è ancora qui… è molto impegnato però… doveva andare via ore fa. Io non le assicuro nulla, se posso glielo chiedo, vediamo cosa dice. Lei aspetti qui». Mi si apre il cuore: «signora, quello che sta facendo per noi è già ora molto di più quello che ha fatto una dozzina di suoi colleghi nelle ultime ore».

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Il ragionamento era giusto: un essere umano in ospedale ancora esisteva. Ora bisognava vedere se questa sua umanità era condivisa con il suo superiore: cosa non impossibile, perché bonun sui diffusivum, diceva San Tommaso, il bene si espande, la carità è contagiosa. Aspetto in piedi sulla porta, il bambino lo metto seduto con i videogiochi. In reparto lavoro ne avevano: torme di pazienti con il naso fasciato escono dalle camere durante l’orario di visita, ad un certo punto vedo una ragazza che crolla al suolo, non so se per scherzo, mentre famigliari e infermieri turbinano attorno a lei. Un sabato pomeriggio intenso, e io sono lì sono per uno stupido tappo all’orecchio, in effetti.   Arriva, infine, la tanto agognata notizia: vedo l’infermiera buona che parla in fondo al corridoio con il dottore, che è proprio quello che prima stava alla scrivania. Vengono verso di me, lui mi dice che va bene, è tardi, ma facciamolo. Piazzano il bambino su una sedia accanto ad una macchina complicata, che in realtà è uno spruzzo per le orecchie professionale, montato però in modo che il tubicino non arriva benissimo (quanto lo usano…?).   Entrano in sala, dal nulla, altre quattro infermiere, ognuna tiene qualcosa. Il dottore va di otoscopio e conferma: tappone sul destro, tappino, pure, sul sinistro. Zum, acqua nell’orecchio, gli occhietti chiusi in una smorfia di dolore. Salta fuori una roba nera gigantesca, tra inni esultanti delle infermiere.  
  Per il sinistro è più difficile, il dottore chiede uno strumento con un cognome francese – pinza di Villot? Boh! – che nessuna delle astanti sa cosa sia. Se lo trova lui, un ferretto ansato. Due colpetti dentro al padiglione auricolare, tra smorfie di estemporaneo dolore vero del bambino. Acqua: salta un altro tappo, più chiaro, che nuota sconfitto nella bacinella metallica. Altri versi esultanti delle infermiere.   Fatto. Durata del tutto: meno, molto meno di cinque minuti. Difficoltà dell’operazione: inesistente – ma riconosco il bonus ricevuto dall’estrema professionalità dello specialista. Il quale giunge infine alla tremenda realizzazione… non ci sono le carte adeguate… «quindi non posso scrivere niente?» No, però ha aiutato il bambino. E suo padre. Grazie. Grazie infinite.   Il piccolo, come nuovo. Quel senso di liberazione lo conosco bene: sono io, del resto, che probabilmente gli ho trasmesso geneticamente, o chissà in che altro modo, quel problema. Il sabato pomeriggio è andato totalmente (con tutta la sera del venerdì), e lui rifiuta pure di suggellare la vittoria con il gelato: è un bambino tanto bravo, i dolci li mangia solo raramente, e solo quando ne ha davvero voglia.   Io ho modo di elaborare sull’accaduto: sì, come sapevo, la classe medica è cambiata, in nessun modo sente la necessità di aiutare il prossimo, come prevedeva il giuramento di Ippocrate. Non è avvenuto tutto di colpo: giurare di «non somministrare farmaci mortali o suggerire consigli tali, né fornire medicinali abortivi» e poi lavorare tra 194, RU486, vaccini, psicofarmaci, eutanasia, predazione degli organi, non è conciliabile.   Tuttavia, capiamo come la pandemia abbia completato la trasformazione: il dottore è esecutore, lo si può vedere solo tramite interfaccia informatica (quando lo si vede: basta una mail, e ti trovi il farmaco prescritto in farmacia, senza neanche risposta), e una sua eventuale dissidenza, in scienza e coscienza, rispetto alla vulgata dominante è punita draconianamente: radiazione, penale, pubblico ludibrio.   Se la professione medica si automatizza, non possiamo aspettarci che essa tratti i pazienti anzitutto come esseri umani. Giocoforza, la sanità odierna, con i suoi dogmi e i suoi computer, i codici a barre e l’ultra-specialismo, i farmaci non testati e la fine del consenso informato, non può che essere un processo disumanizzante.   Non sono concetti astratti, analisi bioetiche da accademia: è la vostra realtà presente, è ciò che c’è dietro ad un’odissea sfiancante per trovare qualcuno che, semplicemente, faccia un lavaggio auricolare ad un bambino.   Ora, tremiamo davanti all’imbuto che la Sanità dell’impero della Necrocultura mette davanti a chiunque ha un problema ben più grave. E vibriamo di rabbia quando pensiamo che tale problema può essere stato causato dal problema stesso. Che il danno iatrogeno sia in realtà diffuso al punto da rendere insostenibile la società nel suo insieme.   Non si tratta di una questione di poco conto. La ridefinizione totale del sistema sanitario ridotto ad apparato di dolore e morte, pena l’implosione sua e della civiltà, è la sfida più grande che ogni partito politico raziocinante, ogni essere umano rimasto tale, deve intraprendere.   Perché, ne ho dimostrazione materiale, questa macchina disumana è qualcosa che non possiamo permetterci vedere inflitta sui nostri figli.   Roberto Dal Bosco

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Necrocultura

La terapia antirigetto sta finendo. Il tempo dei mostri e delle vacche sacre arcobaleno pure

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Nella vita è capitato a tutti, magari giocando da bambini, di infilarsi una scheggia sotto pelle. A quel punto interveniva la saggezza della mamma o della nonna: non ti preoccupare, il corpo espellerà il pezzettino di legno, è una reazione naturale.

 

Il corpo non tollera qualcosa di altro da sé, qualcosa di contrario al suo programma.

 

Che poi è la grande questione – rimossa, censurata nel palcoscenico pubblico – dei trapianti: ti dicono che hanno trovato un donatore «compatibile», poi però il trapiantato finché campa deve pigliare farmaci che impediscano il rigetto dell’organo alieno inserito nel suo corpo (uccidendo un’altra persona, ma questo è un altro discorso…fino ad un certo punto). Un modo come un altro – ce ne sono vari altri, tutti di gran moda – di diventare ad vitam cliente di Big Pharma.

 

In pratica l’immenso business dei trapianti non si reggerebbe senza le droghe che reprimono la natura e i suoi processi fisiologici. In mancanza di farmaci antirigetto, la realtà dei trapianti si manifesterebbe per quello che è: una discendenza del mostro gotico di Frankenstein.

 

Ora, lo stesso fenomeno si può dire lo abbiamo subìto per la mente. Non solo la nostra, ma quella di tutta la società mondiale.

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Per decadi (in ispecie l’ultima), hanno trapiantato nel cervello dei singoli e dei popoli ogni sorta di aberrazione: ecco i matrimoni gay, ecco il feticidio come diritto assoluto, ecco la morte di Stato per deboli ed ammalati, ecco gli immigrati importati e privilegiati, ecco il fanatismo climatico appaltato alla ragazzina Asperger, ecco i sieri genici obbligatori, ecco i bambini castrati e imbottiti di ormoni sintetici (prodotti forse biochimicamente nemmeno troppo lontani dai quelli usati per evitare il rigetto di organi altrui).

 

Non è la prima volta che nella società umana sono innestati tessuti mostruosi – la decadenza è simile per ogni civiltà – e nel tempo, emersa la loro incompatibilità con la vita, sono stati combattuti e infine esplusi. Essi, per potersi mantenere e replicare all’interno del corpo sociale, richiedono dosi potenti di immunosoppressori e di cocktail antirigetto.

 

Adesso sappiamo come ciò avveniva: dalla nuova amministrazione americana apprendiamo che serque infinite di enti, conventicole e movimenti venivano pagati da USAID (che, con un budget di 50 miliardi, poteva distribuire 1 miliardo di dollari a settimana) per megafonare l’aberrazione, la riforma antinaturale della società.

 

L’orda di effeminati infervorati, di obese con la chioma viola, di psicosessuologhe oltranziste, di avvocaticchi d’assalto, e di comizi, corsi di aggiornamento, conferenze e concerti di riporto, non erano un fatto organico, spontaneo. No. Erano innaturali come i capelli pittati o il davanzale al silicone di un trans disperato: erano tutti lì, a suonare lo stesso spartito, solo perché pagati per diffonderlo urbi et orbi, sulla pelle dei più vulnerabili.

 

Siccome ogni società umana rimasta sana tende alla propria sopravvivenza e non tollera inclusioni ad essa incompatibili, era indispensabile una propaganda senza requie, ed era necessario pure abbinarla alla censura, per spegnere i globuli bianchi ancora in circolazione.

 

Per decenni siamo stati drogati per accettare il gender, l’Ucraina democratica, ogni sorta di diktat della cultura della morte. Ci hanno iniettato oceani di sostanze antirigetto. La scuola, le serie TV, lo sport, i film, Sanremo… la terapia è stata ubiqua e persistente. Eppure – ci viene da sorridere – siamo ancora qui. E stiamo per assistere alla fine di questa cura fallita.

 

Possiamo sperare che la chiusura dei rubinetti da parte dello Stato profondo americano produrrà esiti da non credere: muri di opposizione si sbricioleranno, agenti della necrocultura cambieranno mestiere, armate di attivisti agguerriti svaniranno lasciando il nulla dietro di sé. Vacche sacre arcobaleno si dissolveranno.

 

Niente di tutto questo esisteva davvero: si trattava di una presenza disorganica nelle nostre vite, che pensavamo di non poter scacciare mai, ma che stava lì solo perché qualcuno pagava un esercito di piccoli mostri mercenari per tenerla in piedi.

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Qualche esempio concreto lo abbiamo appena veduto.

 

Nello studio ovale, il presidente ha investito del massimo potere sanitario il re dell’antivaccinismo mondiale. E nel discorso di investitura, ha citato l’autismo, e il numero tragico di cui è (era…) proibito parlare in pubblico: pochi anni fa i bambini autistici erano uno su 10.000, ora nello spettro se ne conta uno ogni 38.

 

A Monaco, davanti ai papaveri europei e mondiali, il vicepresidente americano ha parlato, chiamandolo per nome e cognome, di Adam Smith-Connor, il veterano britannico arrestato e condannato per aver pregato in silenzio dinanzi a una clinica abortista.

 

Ora, capiamoci: questa storia di Connor era circolata solo sui siti pro-life, e in Italia probabilmente gli unici a conoscerla erano i lettori di questa testata. Ora invece ne parla il numero 2 della superpotenza egemone, e in faccia ai burocrati parassiti che vegetano ai vertici della geopolitica planetaria.

 

È come se il nostro piccolo mondo antico fosse ora il mondo intero.

 

Quelle che sembravano energie sprecate, storie dimenticate, battaglie perdute, sono ora al centro di tutto, nella stanza dei bottoni. O almeno, pare proprio che sia così. Stropicciamoci gli occhi: era solo l’incubo di una lunga notte.

 

Il tempo dei mostri sembra che stia per finire, la natura si riapproprierà dei suoi spazi come un elastico di ritorno, e presenterà i suoi conti. Mai avremmo pensato di vedere il momento in cui d’improvviso diventa possibile dirlo.

 

Dopo la disintossicazione della società dal trattamento di immunosoppressione massiva forse si prepara una nuova vittoria della realtà e della vita.

 

Roberto Dal Bosco

Elisabetta Frezza

 

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