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Attacco terroristico jihadista in Niger. Coincidenza o «rivelazione del metodo»?

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La notizia è passata in sordina, ma a suo modo è clamorosa: il terrorismo islamico è tornato a colpire in Africa, e guarda caso proprio in Niger, Paese al centro dell’attenzione mondiale in questo momento, forse più ancora dell’Ucraina.

 

Almeno 17 soldati del Niger sono stati uccisi in un attacco di gruppi armati vicino al confine con il Mali, ha detto il ministero della Difesa nigerino. Secondo una dichiarazione rilasciata martedì scorso, «un distaccamento delle forze armate nigerine (FAN) che si muoveva tra Boni e Torodi è stato vittima di un’imboscata terroristica vicino alla città di Koutougou [52 km a sud-ovest di Torodi]».

 

Il ministro della giunta golpista afferma che altri 20 soldati sono rimasti feriti, tutti evacuati a Niamey, la capitale. Più di 100 assalitori sarebbero quindi stati «neutralizzati» durante la ritirata, continua il comunicato.

 

Insomma: terrorismo, stragi, fiumi di sangue. Proprio ora. Ma guarda.

 

C’è da capire che il terreno è fertile da anni: nell’ultima decade, l’area di confine dove convergono il Mali centrale, il Burkina Faso settentrionale e il Niger occidentale è diventata l’epicentro della violenza dei gruppi armati legati ad al-Qaeda e all’ISIL (ISIS) nella regione del Sahel. Il sud-est del Niger è anche l’obiettivo di gruppi armati che attraversano il Nord-Est della Nigeria, culla di una campagna avviata da Boko Haram nel 2010.

 

Sappiamo bene a cosa ha portato questo decennio di terrore africano: alla presenza militare francese – la famosa Operazione Barkhane messa in piedi da Parigi nelle sue ex colonie Ciad, Burkina Faso, Mali, Mauritania, Niger. Negli anni alla missione militare antiterroristica vengono tirate dentro anche Estonia, Svezia e Italia. Ci sono anche prede importanti: viene fatto fuori con un drone francese un leader ISIS nel Sahara, Kamel Abderrahmal.

 

C’è un piccolo problema: gli stessi governi africani, ad un certo punto, cominciano ad accusare Parigi di sostenere gli stessi terroristi che i francesi dicono di voler combattere. L’atroce pensiero è diffuso anche in altri Paesi dell’Africa francofona. In pratica, gli africani dicono: la Francia crea il problema per venderci la soluzione. È un classico. Tuttavia è da qui che è partita l’irresistibile ascesa della Russia in Africa. È da qui che nel Continente nero è entrata la Wagner, e, per la disperazione di George Clooney, da diversi anni.

 

Ora, più che alla decadenza post-coloniale della Francia – che manda i militari in Africa per poi trovarsi le proprie città devastate dagli africani – preme qui notare altro.

 

La coincidenza di questa improvvisa fiammata di sanguinario jihadismo con i fatti di Niamey è davvero singolare. I takfiri, vai a capirli, attaccano il Niger proprio quando è in mano ai militari, teso come una corda di violino per una possibile invasione dei vicini dell’ECOWAS, o peggio, snervato dall’idea che potrebbe perfino arrivare un intervento francese.

 

No, non il momento migliore per un’offensiva, un attentato, una strage simbolica – tanto più se è non è una panzana africana quella per cui nell’attacco hanno ammazzato 17 soldati per poi vedersi eliminati 100 miliziani.

 

La coincidenza, più che con l’accusa di fomentare se non controllare il terrorismo che gli africani rivolgono ai francesi, è con la visita a sorpresa in Niger del vicesegretario di Stato USA Victoria Nuland, la grande pupara neocon di vari scenari di guerra e distruzione del pianeta.

 

«Nei miei incontri di oggi ho avuto la sensazione che le persone che hanno intrapreso questa azione qui capiscano molto bene i rischi per la loro sovranità quando Wagner viene invitato» aveva detto ai giornalista la «Toria» tornata in patria, riferendosi al fatto che elementi del governo militare nigerino avrebbero contattato la Wagner, che già è presente in Mali e Burkina Faso, e cioè i due Paesi che hanno giurato di difendere il Niger dei generali qualora venisse attaccato dall’ECOWAS o da altri.

 

Fa specie sentire la regina occulta (neanche tanto) di Maidan, quella che sceglieva il vertice dello Stato ucraino con una telefonata in cui esclamava pure «si fotta la UE», parlare di sovranità. Ma al di là del wording, è innegabile che la stessa presenza della Nuland a Niamey suoni come una minaccia.

 

O fate come diciamo noi, o tenete fuori Mosca, o ne pagherete le conseguenze.

 

Pochi giorni dopo, taac, arriva l’attacco terroristico.

 

Ecco i soliti complottisti. Chiaro. Magari adesso parte pure il discorso per cui Al Qaeda (che qualche testata ha tirato in ballo, anche se al momento in cui scrivo sui pochi giornali che ne scrivono non pare essersi stabilizzata una sigla a cui attribuire l’attacco: c’è un mazzetto da cui scegliere, anche là) in realtà significa «la base», ed era di fatto il database dei mujaheddin reclutati in tutto il mondo dalla CIA tramite i sauditi e i pakistani per combattere i sovietici in Afghanistan, un database di cui uno dei gestori era il giovane, educatissimo figlio di miliardario Osama Bin Laden, che a cavallo  tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta stava a Peshawar a preparare i terroristi, pardon, i guerriglieri da infiltrare fra i monti afghani armati con armi racimolate dagli americani, prima in Egitto e forse in Israele, poi fornite direttamente dagli USA – come i famosi missili stinger, che cominciarono a decimare gli elicotteri dell’Armata Rossa.

 

No, vabbè, il discorsetto sull’origine CIA di Al Qaeda e pure dell’ISIS ve lo risparmiamo – perché davanti all’improvviso terrore nigerino dovremmo lasciare tutto al caro immaginar del lettore.

 

Tuttavia, vogliamo approfittare solo per ricordare altre curiose coincidenze di terrorismo africano delle ultime settimane.

 

Come riportato da Renovatio 21, poche settimane fa l’Uganda ha approvato una legge anti-gay. Il presidente ugandese Museveni non si è lasciato intimidire dalle pressioni internazionali – persino della Chiesa cattolica e anglicana – e dalle minacce di revoca degli aiuti (quel che sta facendo ora la banca mondiale), facendo appello anche all’orgoglio delle altre Nazioni africane affinché rifiutassero di dover ribaltare la loro morale, la loro società in cambio dell’assistenza occidentale.

 

La Casa Bianca risposto all’Uganda dicendo, per bocca del portavoce ammiraglio Kirby: «i diritti LGBT sono parte fondamentale della politica estera USA» è stato dichiarato pubblicamente.

 

Passano pochi giorni, e succede qualcosa di completamente inaspettato: 54 soldati ugandesi di stanza in Somalia per una missione di pace vengono trucidati dai terroristi islamici al-Shabaab – letteralmente la «gioventù», il gruppo stragista somalo legata ad Al Qaeda, quelli pagati milioni di euro dal governo Conte-Di Maio per riavere la cooperante poi convertitasi all’Islam (se ci tenete a sapere come è andata a finire, la procura di Roma a febbraio ha chiesto l’archiviazione dell’indagine).

 

È una coincidenza che notiamo solo noi, qui su Renovatio 21 – siamo qui a pensare male, come sempre, e quello che facciamo e vedere cospirazioni dappertutto, permettendoci perfino di ricordare che con gli Shabaab operava la «vedova bianca» Samantha Lewthwaite, britannica convertita all’Islam radicale irreperibile dopo la strage di Londra del luglio 2007, nonostante la caccia che, teoricamente, apparati di sicurezza britannici e africani le stanno dando da anni. Avvistata – chissà se vero – in Ucraina nel 2014, a quel tempo partirono stuoli di commenti di filorussi e non solo che accusavano la vedova bianca di essere un asset dell’MI6, il servizio segreto esterno britannico, quello che secondo i russi starebbe spostando commando di miliziani ucraini in Africa per guastare le cose alla Wagner.

 

Passa un’altra manciata di giorni. Ecco che l’Uganda subisce un’altra strage efferata, stavolta nel suo territorio: miliziani di un gruppo noto come Allied Democratic Forces (ADF) attaccano una scuola a Mpondwe, una città vicino al confine con la Repubblica Democratica del Congo e ammazzano almeno 37 persone. Il gruppo, che si oppone a Museveni, non colpiva in modo così feroce dal 2021. Uno dei due spezzoni che lo compongono è considerato una setta islamica.

 

Non vi sono solo l’Uganda e il Niger a vivere un’improvvisa recrudescenza del terrore in questi giorni. A giugno una sigla terrorista che non si sentiva dagli anni Novanta, il CODECO massacra con lame e armi da fuoco almeno 46 persone in un campo profughi nella provincia di Ituri, in Repubblica Democratica del Congo. Il CODECO, che starebbe per Cooperativa per lo Sviluppo del Congo, è considerato da molti una setta para-animista, con un guru che si fa chiamare «il sacrificatore».

 

E cosa c’entra ora il Congo?

 

Non c’è solo la questione dell’Africa LGBT, il Terzo Mondo da omosessualizzare con ricatti e propaganda. O meglio, la questione si innesta in un disegno geopolitico ancora più chiaro: la grande scommessa che la Russia sta facendo nel Continente nero, uno shift storicamente unico, tra immensi forum africanisti a San Pietroburgo – dove i leader africani incontrano direttamente Putin – ed un lavoro diplomatico del ministro Lavrov che negli ultimi mesi ha fatto un tour de force in Africa senza precedenti.

 

Il cambiamento rischia di essere epocale, e devastante per i poteri costituiti della geopolitica globale.

 

È possibile pensare che, quindi, qualcuno stia muovendo certe leve – le solite – per cercare di far sterzare gli africani, prima che finiscano, dopo essere entrati anche alla corte di Pechino, ad amare troppo il Cremlino?

 

È possibile se consideriamo le schiette confessioni di un personaggio come Miles Copeland (1914-1991), un personaggio che vale sempre la pena di riscoprire. Copeland è innanzitutto il padre dello Stewart Copeland batterista dei Police (e autore di tante colonne sonore di film)  e pure di Miles Copeland III, manager dei Police, di Sting e produttore dei R.E.M., delle Bangles, dei Cramps, dei Dead Kennedys.

 

Secondariamente, Copeland era uno dei più potenti agenti CIA piazzati nello scacchiere internazionale. Copeland aveva partecipato a operazioni coperte come il colpo di Stato del marzo 1949 in Siria, il golpe in Iran nel 1953, e rimane conosciuto per la sua relazione diretta come il presidente egiziano Gamal Nasser.

 

Divenuto in pensione noto le sue pubblicazioni di analisi sulla storia dell’Intelligence, al personaggio non può non essere riconosciuta una bella franchezza: in un’intervista a Rolling Stone del 1986, dichiarò che «a differenza del New York Times, di Victor Marchetti e di Philip Agee [due ferventi critici della CIA, ndr], la mia lamentela è stata che la CIA non sta rovesciando abbastanza governi antiamericani o assassinando abbastanza leader antiamericani, ma immagino che sto invecchiando».

 

Si tratta della stessa onestà con cui ha scritto il libro The Game of Nations: The Amorality of Power Politics («Il gioco delle nazioni: l’amoralità della politica di potere»), un volume del 1969 mai tradotto in Italia e ormai introvabile.

 

«Agli americani non piace il terrorismo. Sebbene a volte svolga un ruolo essenziale nelle stesse operazioni dell’Occidente contro i leader afroasiatici recalcitranti, nascondiamo questo fatto» ammetteva nel capitolo intitolato «Nasserismo e Terrorismo».

 

Copeland sostiene che il terrorista, il «fanatico», altro non è che un «perdente per definizione, ma è un’importante arma nelle mani del non fanatico che vuole vivere per la causa». Se lasciati a loro stessi, i fanatici diventano «disturbi» e la «maggioranza arriva a bloccarli, pagando qualsiasi prezzo». Tuttavia, «nelle mani di leadership non fanatiche possono diventare armi di grande flessibilità e finezza».

 

«Le sciocchezza che dicono possono essere pulite così non solo da avere un minimo di senso, ma sembrare pure come appartenenti ad un alto piano morale» continua l’agente CIA. «Talvolta hanno lo stesso valore sia da morti che da vivi. Sono stupendamente spendibili. Hanno anche il vantaggio della grande disponibilità».

 

La sincerità di Copeland è tale da insospettire – perché sappiamo che quando un ex agente della CIA vuole pubblicare un libro prima deve essere vagliato dall’agenzia stessa.

 

Ciò detto, la prospettiva qui enunciata con tanta chiarezza aiuta a capire molte cose: il terrorismo per la CIA non è il male assoluto, non è l’uomo nero a cui dare la caccia, come raccontato dai giornali, dai politici, dai film e dai telefilm. No, il terrorismo, per la CIA, è uno strumento, «un’arma» pure versatile ed elegante – quasi un linguaggio, una lingua straniera con cui non puoi comunicare in patria ma quando sei all’estero usi con voluttà.

 

Il lettore adesso può unire i puntini da solo, per le stragi africane di questi giorni e non solo.

 

C’è da comprendere anche il contesto: in Africa è possibile esercitarsi, sperimentare a volontà. Come per i vaccini imposti dagli oscuri potentati transnazionali o dagli oligarchi globali come Bill Gates: ecco il siero anti-tetano che in realtà sterilizza le kenyote, ecco i disastri dell’iniezione papillomavirus, le morti per il vaccino DPT, il ritorno della polio via vaccino ammesso dall’OMS tra casi di bambini paralizzati, ecco i cerotti vaccinali, i piccoli africani usati come cavie per il marchio dei quantum dots.

 

Per non parlare di un’altra questione, forse la più inquietante, che riguarda sempre Gates e il Pentagono stesso (e pure uno scienziato ora deputato del PD): quella delle zanzare OGM, preparate per invadere l’Africa e sterilizzare la loro specie, di modo, dicono, da far finire la malaria.

 

L’Africa è un laboratorio – e ciò che testano lì è per poi implementarlo qui, in Europa, dove la resistenza della popolazione è, per il momento, maggiore. Vale per i vaccini come vale con probabilità per il nuovo terrorismo (armato, come ci ripetono gli stessi leader africani, dal mercato nero ucraino creato dagli occidentali).

 

Ma allora, perché lo fanno in modo sempre più spudorato? Perché non coprono più nemmeno le loro tracce?

 

Qui si entra nella speculazione, in quella che alcuni osservatori chiamano «revelation of the method», la rivelazione del metodo. Si tratta dell’idea per cui vi sarebbe una tecnica di guerra psicologica per cui alla popolazione si fa sapere esattamente cosa si sta per fare. Il risultato è duplice: preparare le persone ai cambiamenti, e nel frattempo confonderle – perché se le cospirazioni più fantasiose si realizzano, la linea tra realtà e finzione sparisce, e la psiche dell’individuo diviene più malleabile.

 

La rivelazione del metodo era tornata alla ribalta con il disastro chimico di Palestine, Ohio, a inizio anno, quando si apprese che il medesimo evento era predetto in un film di due anni prima, White Noise, tratto da un romanzo di Don DeLillo: tutto collimava, l’incidente del treno, la fuoriuscita di sostanze tossiche, il paesino sotto shock… alcuni cittadini di Palestine avevano fatto le comparse per il film.

 

Altri vedono anche nel successo planetario di Squid Game, la serie più vista degli ultimi tempi in tutto il mondo, i segni di rivelazione del metodo: un gruppo di miliardari crudeli e perversi si divertono a mettere i popolani l’uno contro l’altro, utilizzando il danaro come motore della disintegrazione sociale, e godendo nel vedere che i poveri si ammazzano e riducono il loro numero tra laghi di sangue.

 

Chi sa mai cosa ci stanno cercando di dire… Altro che significati occulti.

 

E quindi, l’arma terrorista sta per essere ri-applicata ancora una volta in Europa? È possibile, sappiamo che i loro padroni amano i fiumi di sangue, sappiamo che vogliono instaurare qui un’anarco-tirannia, dove una certa dose di terrorismo, anche quotidiana, aiuterà la popolazione a rimanere divisa e sottomessa, e al padrone di proseguire con i suoi piani.

 

E altre cascate di sangue.

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

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Napolitano e Messina Denaro, misteri atlantici

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Nelle stesse ore in cui spirava a 98 anni l’ex presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, il boss mafioso Matteo Messina Denaro entrava in coma «irreversibile» – qualunque cosa voglia dire.

 

Sono due facce, lontanissime nel sentire comune, del medesimo Paese – ma anche, dello stesso mondo. Sono volti che per chi scrive rimangono altamente enigmatici.

 

Prendiamo Napolitano. Non è ancora chiaro perché lo chiamassero Re Giorgio, espressione che ancora dice qualcosa per via del Regno del nonno di Carlo III,  Giorgio VI. Fino a che l’ex comunista non salì al colle, l’espressione «Re Giorgio», tuttavia, era riservata a Giorgio Armani, et pour cause: un re nello stile e nella professionalità, nella creazione di bellezza e nella conduzione aziendale.

 

I giornali che ora si riempiono di titoli dove campeggia a la dicitura «Re Giorgio», stanno quasi tutti giustamente ignorando la chiacchiera – falsa, fasulla, da cui prendiamo le distanze – per cui sarebbe stato figlio biologico di Umberto II di Savoia. Su Internet per anni sono circolate immagini con le foto comparate del «re di maggio» e dell’uomo asceso alla più alta carica dello Stato, e definito poi (forse a seguito di un articolo del New York Times), appunto, «Re Giorgio».

 

Certo, la continuità della famiglia che con la massoneria ha unito l’Italia – il cosiddetto «Risorgimento» – anche al di là dell’esilio, passando attraverso un membro del PCI, è di per sé una storia di fantasia romanzesca estrema.

 

Inutile sbatterci la testa: ho conosciuto nobiluomini – ora non più fra noi – che erano pronti a giurare di aver notizie di prima mano sulla questione, ma in tanti smontano l’allucinante ipotesi. Nel ritratto del defunto fatto oggi su Il Tempo da Luigi Bisignani – che ha sempre smentito di essere mai appartenuto a qualsiasi Loggia e anche alla P2, anche se il suo nome, dice il Corriere, fu trovato negli elenchi trovati a Castiglion Fibocchi – la questione sabauda (una dinastia che, questo sito deve ricordarlo, magari con la Loggia qualcosa ha avuto a che fare) è affrontata di petto: quella per cui «Napolitano potesse essere effettivamente di sangue blu, figlio illegittimo dell’ultimo re d’Italia, Umberto II di Savoia, e per questo chiamato “Re Giorgio”» è solo una bufala «corroborata da una certa somiglianza fisica» che .

 

Bisignani va avanti: si tratta di «un gossip  alimentato dalla circostanza che sua madre, contessa di Napoli (titolo che, da comunista doc, lui ha sempre accuratamente nascosto), fosse una delle dame di compagnia della regina. Invece quel “titolo nobiliare”, meno romanticamente, gli venne affibbiato su input dell’ex presidente della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky, durante il caso delle intercettazioni telefoniche con Nicola Mancino per la vicenda della trattativa Stato-mafia. Napolitano voleva che fossero distrutte in quanto giudicate irrilevanti: così Zagrebelsky lo accusò di “rivendicare privilegi da monarca assoluto”, appunto da re».

 

Sarà così. C’entra la storia dello Stato-mafia, allora. Va bene. Anche quella, è un bel mistero. Dei misteri della mafia però parliamo dopo.

 

Del resto il Napolitano sapeva fare cose stupefacenti, enigmatiche: nel 1978, fu il primo dirigente del Partito Comunista Italiano a cui gli USA fecero un visto d’entrata. Non una cosa da poco.

 

Il lettore anche non anzianissimo può ricordare che chi andava negli USA, fino a non troppi anni fa, in aereo doveva compilare un formulario in cui tra le altre cose c’era la domanda da film di Nanni Moretti: lei è comunista? Un mio professore della scuola del cinema, si narrava tra gli studenti che ne scherzavano la verve ingenua e militante, scrisse immediatamente «Sìiiii»: lo arrestarono immantinente. Non so se questa storia sia vera, ma è sicuramente vero che da comunista entrò tranquillo negli USA.

 

Secondo le cronache, tenne conferenze ad Aspen, cittadina sciistica del  Colorado sede di quell’Aspen Institute di cui sarebbe socia italiana – con Tremonti, Prodi, Brunetta, Giorgetti, John Elkann – Giorgia Meloni, e per questo chiamata dai suoi critici «Lady Aspen».

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Nello stesso viaggio parlerà anche ad Harvard, fucina dell’élite statunitense, dove era professore un personaggio che lo prenderà in grande simpatia: Henry Kissinger, plenipotenziario per la politica Estera americana, accusato di crimini internazionali atroci, ma tuttavia amicissimo di Gianni Agnelli, il quale, riportano, nello stesso viaggio ospiterà il Napolitano nella sua celeberrima magione di Park Avenue, la splendida casa che sarà in seguito teatro di party dove, si mormora, l’unico della famiglia a potere entrare era Lapo (e chissà perché, e chissà se è vero…), che peraltro di Kissinger fu stagista.

 

Kissinger, che oramai centenario gli sopravvive alla grandissima, consegnerà alla storia una definizione eccezionale, che di fatto contrassegnava l’uomo prima di «Re Giorgio»: «il mio comunista preferito». Sì: Napolitano era il comunista preferito di Kissinger. Anche qui, chissà perché.

 

Il tour in America di Napolitano, effettuato dal 4 al 19 aprile 1978, cade in un momento tragico della Repubblica: il 16 marzo, cioè poco più di due settimane prima, era stato rapito il Presidente della DC Aldo Moro.  Del terrorismo italiano parlò in America in un’intervista con il diffuso settimanale Newsweek, parlando di «degenerazioni, fino al delirio ideologico e al crimine più barbaro, dell’ispirazione rivoluzionaria del marxismo e del movimento comunista».

 

Napolitano, che fino al 1974 era tra i comunisti che criticava Solzhenitsyn, teneva per quella che fu chiamata «linea della fermezza»: nessuna concessione alle Brigate Rosse. Il risultato sappiamo quale è stato – ma chissà, con i «se» la storia non si fa, e poi anche quello di Moro è un mistero, dove si perdono, per citare il titoli di un libro sulla P2 di un parlamentare comunista suo compagno di partito, le Trame atlantiche.

 

I rapporti con gli yankee vanno a gonfie vele anche in Italia. Richard Gardner, l’ambasciatore americano in Italia durante gli anni di piombo, ha confidato tempo dopo che «Napolitano era l’unico tra i dirigenti del PCI con cui parlavo. Ci vedemmo riservatamente per ben quattro volte in casa del nostro amico Cesare Merlini, presidente dell’Istituto per gli Affari internazionali». Il Quotidiano Nazionale scrive che Napolitano «dal 20 luglio 1978 cambia l’orientamento dell’ambasciata USA a Roma»: gli ambasciatori di Via Veneto da allora cominciano a parlare con esponenti PCI, cosa che prima, almeno in apparenza, è decisamente tabù.

 

Passano gli anni, il Muro crolla. Occhetto piange alla Bolognina, il Partito Comunista cambia nome. Dall’altra parte dell’oceano qualcuno potrebbe aver visto un’opportunità: un partito di sinistra, desovietizzato, fa al caso dell’Impero. I Democristiani e tutti gli altri erano leali, ma fino ad un certo punto: i rapporti erano logori, l’ideologia – sia pur intossicata dalla stessa mano americana che ha infilato in Italia il pensiero di Maritain per creare la DC, cioè qualcosa che consentisse pragmaticamente la contraddizione di un Paese cattolico liberale – aveva ancora qualcosa di concreto, aveva delle radici, addirittura, orrore, «cattoliche».

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Dall’altra parte, era tabula rasa. Qualsiasi contorsione era possibile con un partito traumatizzato, fino alle lagrime, dalla perdita della propria identità profonda. Il PD di oggi, i cui militanti inneggiano al Battaglione Azov, chiedono il Nuovo Ordine Mondiale (sic) e accettano qualsiasi deriva neoliberale senza battere ciglio, è esattamente quello che qualcuno nella stanza dei bottoni atlantici aveva visto trenta anni fa – un partito radicale di massa, come diceva Augusto Del Noce, ma anche qualcosa di più: un nuovo alleato, anche molto affidabile, in qualcosa che va al di là dello scacchiere geopolitico – cioè il desiderio impellente dello Stato profondo, la riforma finale dell’essere umano, sessualmente e biomedicalmente ora evidentissima.

 

Il cambio di cavallo del dopo muro non riguardò solo l’Italia, investita per coincidenza da Tangentopoli: pensiamo al Sud Africa, dove di lì a poco un uomo considerato un terrorista marxista, Nelson Mandela, viene riabilitato totalmente, fatto uscire di prigione e messo alla presidenza del Paese. Anche il Giappone, sia pur con minor effetto, fu vittima di qualche scossa nei suoi gangli politici, con una sorta di «Mani Pulite» in salsa teriyaki che ha fatto da prolusione allo scoppio della baboru, cioè la fine della cavalcata dell’economia giapponese, finita in crisi nei decenni seguenti distruggendo per sempre l’idea di acchiappare economicamente gli USA e pure conquistarli pezzo per pezzo.

 

In Italia, però, arriva un tizio che gli Americani odieranno sempre: Silvio Berlusconi. Il suo governo, uscito da una schiacciante vittoria nel 1994 contro la sedicente «gioiosa macchina da guerra» di Occhetto («lo zombie coi baffi», disse Cossiga) dura pochissimo: arrivano nuove elezioni che installano Prodi, e Napolitano – riprendiamo il filo del nostro racconto misterico – fa da ministro dell’Interno.

 

Rammento confusamente il futuro presidente come ministro: ho un vago ricordo, senza possibilità di verificare, di una puntata di Sgarbi quotidiani dove il critico d’arte se la prendeva con una dichiarazione di Napolitano alla liberazione dell’imprenditore sequestrato Giuseppe Soffiantini: il ministro Napolitano, secondo quanto ricordava, parlava di vittoria dello Stato, quando quello che sarebbe successo, con il blocco dei beni, è che la famiglia aveva trovato comunque il mondo, dopo fallite operazioni delle teste di cuoio, di pagare ai sequestratori un riscatto da quattro milioni di dollari. Sgarbi attaccava a testa bassa. Napolitano, all’epoca non impressionava.

 

Di certo, non va dimenticato che con Livia Turco al Viminale sfornò la legge Turco-Napolitano, che creò i centri di permanenza temporanea per gli immigrati clandestini. Non va scordato neppure che fu subissato di critiche perché, nel 1998, gli fuggì all’estero Licio Gelli, cioè proprio il supermassone a capo della P2, dove, en passant, in lista è segnato pure Vittorio Emanuele di Savoia.

 

Tuttavia il suo lavoro atlantico dietro le quinte non si è mai fermato. Nel 1994, tornato in viaggio in USA, incontra George Soros, che poco prima aveva affossato la lira. Nel 1996 sbarcherà a New York anche Massimo D’Alema: di lì a pochi anni diverrà premier, e con Clinton alla Casa Bianca (più Blair a Downing Street: il cosiddetto «Ulivo Mondiale») formerà un governo che permetterà la penultima guerra americana, pardon, del Patto Atlantico, in Europa.

 

È il 1999, la NATO, cioè i caccia americani che partono dalle nostre basi, bombardano la Serbia per formare il Kosovo albanese, staterello satellite USA ma pure, in seguito, grande protagonista di traffici di organi e fornitore di miliziani ISIS. Ministro della Difesa del tempo, lo hanno riportato alla memoria i giornali parlando dei vari filamenti del caso Vannacci-uranio impoverito, era l’attuale presidente Mattarella.

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Dei suoi trascorsi da europarlamentare per i DS – il partito allora si chiamava così – resta impresso solo uno scandaletto tirato fuori dalla stampa tedesca sui rimborsi  biglietti aerei.

 

Nel 2005, Ciampi (quello che stava in plancia di comando alle finanze del Paese quando Soros attaccò la lira, e che poi divenne presidente della Repubblica) lo fece senatore a vita. Lo stesso Ciampi si dimetterà anticipatamente nel 2006 per far insediare il Napolitano eletto il 10 maggio alla quarta votazione come undicesimo presidente della storia repubblicana: il comunista preferito di Kissinger è ora capo dello Stato italiano.

 

Sono anni turbolenti: il governo Prodi cade ancora, le elezioni riportano al potere, e alla grandissima, Silvio Berlusconi, che è geopoliticamente sempre più scatenato: con Putin l’intesa è totale (fino ad essere, lo abbiamo visto di recente, commovente), più c’è la questione che il milanese riesce a ricavare con Gheddafi una pace assai lucrosa per l’Italia.

 

Nel 2011 accadono una serie di cose assai significative, le cui ramificazioni paghiamo ancora oggidì, dove Napolitano sembrerebbe aver avuto un ruolo. Prima «Re Giorgio» fa senatore a vita un tecnocrate relativamente sconosciuto, l’ex preside della Bocconi e Commissario Europeo, Mario Monti. Poco dopo, complice una manovra favorita da Parigi e Berlino (e l’assenso USA, ricorda nel suo libro l’ex ministro del Tesoro USA Timothy Geithner) e lo psicoterrorismo dello «spread», il premier regolarmente eletto Berlusconi viene detronizzato e viene piazzato in sua vece proprio il Monti.

 

Non solo: poco prima, quando al governo c’era ancora Silvio, la Libia viene attaccata da un’operazione anglo-francese, anche qui con il placet di Washington. Gheddafi viene linciato a morte. Dall’altra parte dell’oceano Hillary Clinton, informata della cosa, ride in modo isterico, quasi demoniaco, dinanzi alle telecamere.

 

Esponenti del centrodestra e dei 5 stelle negli anni dichiarano che dietro all’intervento del 2011 in Libia c’era lui, Giorgio Napolitano. Il presidente ha smentito.

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«Non interessa ora indagare sui motivi che spinsero Sarkozy a iniziare in tal modo l’attacco alla Libia di Gheddafi» disse Napolitano intervistato da Repubblica, facendo capire che la storia dei fondi di Gheddafi  alla campagna del presidente francese può essere tralasciata. «Quella iniziativa intempestiva e anomala fu superata da altri sviluppi». Come si dice in questi casi, fait accompli.

 

«La consultazione informale di emergenza si tenne in coincidenza con la celebrazione al Teatro dell’Opera dei 150 anni dell’Unità d’Italia» prosegue il ricordo di Napolitano. «ma quella sera la discussione fu aperta dall’allora consigliere diplomatico di Palazzo Chigi, Bruno Archi, che era in contatto diretto con New York mentre veniva varata la seconda risoluzione delle Nazioni Unite che autorizzò e sollecitò un intervento armato ai sensi del capitolo settimo della Carta dell’ONU».

 

Insomma, c’era un contatto con gli USA, con Nuova York, ma non è quello che pensate voi: non è il giro di Kissinger, è l’ONU.

 

«In quella sede informale potemmo tutti renderci conto della riluttanza del Presidente Berlusconi a partecipare all’intervento ONU in Libia» continua Napolitano. Pochi mesi dopo, il riluttante Berlusconi sarebbe stato sostituito da Monti nel primo vero esperimento di tecnocrazia del Paese.

 

La storia del Re va avanti. A ridosso delle elezioni 2013, per la prima volta nella Repubblica, viene rieletto presidente: tuttavia, è una manovra di lunghi coltelli nel suo partito, e pure una manovra astutissima di Berlusconi contro Prodi e contro i democratici in panne: al termine della votazione, dopo gli applausi di rito, si ode alla Camera un coro: «Sil-vio-Sil-vio…»

 

Nel 2015 Napolitano si dimette, sale al potere Mattarella. Anche lui dal PD, anche lui bissato dalla palude parlamentare. A Palazzo Chigi un nuovo tecnocrate, anche lui passato per Bruxelles (e per la Goldman Sachs), Mario Draghi.

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Ci dobbiamo fermare qua: dovevamo solo, in fondo, mettere insieme dei puntini, e magari indicare qualche mistero atlantico come abbiamo promesso dal titolo.

 

Abbiamo lasciato fuori qualcosa? Ah sì, Matteo Messina Denaro, l’immagine opposta di un capo dello Stato repubblicano, un capo dell’anti-Stato mafioso, per coincidenza finito in coma mentre il 98enne Napolitano lasciava la spirale mortale.

 

Cosa c’entra Messina Denaro con questa storia? Niente. In comune con Napolitano, oggi può avere solo il mistero sincronico della Vita e della Morte.

 

Tuttavia, uno pensa ai misteri atlantici e all’Italia, alle storie di presidenti e poteri fortissimi, e non è che può dimenticarsi quell’incontro, l’8 dicembre 1943, del presidente Roosevelt con Patton, Eisenhower (un altro futuro presidente) e vari altissimi comandanti dell’esercito USA… a Castelvetrano.

 

Sì, Roosevelt a Castelvetrano. Lo stesso luogo dove ha passato decenni in tranquillissima latitanza Matteo Messina Denaro, pure avvistato pubblicamente qui e là in un contorno, hanno improvvisamente ricostruito i giornali, pieno di massoni.

 

Il mistero si infittisce: lo prendono, gli anarchici immediatamente cominciano a protestare contro il 41 bis. Lui tuttavia non sembra molto interessato.

 

L’arresto è tranquillissimo, l’uscita dalla clinica è una sfilata geometrica. Ci dicono subito che ha il cancro.

 

In queste ore, scrivono i giornali, al suo capezzale ci sarebbe la figlia, cresciuta con un altro cognome, ma che in questi giorni ha chiesto e ottenuto di chiamarsi come il padre.

 

È un’immagine di paternità e destino che siamo qui ad osservare, e con cui ci sentiamo di chiudere questo articolo.

 

 Roberto Dal Bosco

 

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 Immagine di pubblico dominio CC0 via Flickr

 

 

 

 

 

 

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Pensiero

Elon Musk ha fatto figli con l’utero in affitto e evitato la guerra atomica. Potrebbe essere l’anticristo, ma va bene così

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La notizia finita sui giornali è che Elon Musk avrebbe avuto un altro figlio, l’11°, nel giugno del 2022. Lo si apprende dalla biografia dedicata al magnate sudafro-statunitense a opera dello storico Walter Isaacson in uscita, la stessa che ha rivelato che Musk avrebbe spento i satelliti Starlink quando l’Ucraina stava colpendo la Crimea – come ha fatto ieri notte distruggendo un sottomarino e una nave da sbarco russi.   Quotidiani e TV la prendono come grande succulento pezzo di gossip da lanciare ai lettori che oramai hanno imparato a conoscere Musk, che è un personaggio che riesce a far notizia ogni giorno, più volte al giorno. Ci informano che la madre sarebbe la ex fidanzata canadese, la musicista Claire Bouchier, in arte Grimes.   Il succo della notizia è: guarda qui, pettegolezzo sulle celebrità, miliardario e cantante. Guarda quanti figlio ‘sto Musk.   Bisogna capire che la storia dietro è un po’ più complicata, e difficilmente pubblicabile, specie se si vuole fare solo gossip.   Innanzitutto, l’ultimogenito (?) Techno Mechanicus Musk, detto Tau, sarebbe nato, come la precedente figlia avuta da Grimes – la bambina si chiama Exa Dark Sierael Musk – via maternità surrogata.   Il che significa che il bimbo è stato prodotto in laboratorio e poi impiantato in una donna che ha affittato il suo utero all’ultramiliardario e la cantante.   Potrebbe non essere nemmeno l’unica donna con cui ha fatto figli affittando uteri altrui: in rete si sprecano le speculazioni su chi sia il vero padre di Oonagh Paige Heard, la figlia dell’attrice Amber Heard – divenuta nota ai più per lo scatologico processo intentatole dall’ex marito Johnny Depp – apparsa nel 2021. La Heard e Musk si erano frequentati nel 2016. Nel 2020 il giornale britannico Mirror aveva scritto che la Heard «era impegnata in una battaglia legale con Elon Musk per gli embrioni congelati». Della eventuale paternità di Musk non vi è alcuna conferma, e la Heard non ha rivelato chi sia il padre avuto via surrogata.   Techno «Tau» Mechanicus è il terzo figlio avuto con Grimes, che, ricordiamolo, è con probabilità la più grande cantautrice vivente, una musicista che per creare la sua musica eterea e sottile è capace di miscelare e superare generi che non hai mai sentito nominare e che magari nemmeno esistono ancora.

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Il primo figlio, X AE A-XII Musk, era nato nel 2020. Il bimbo compare spesso nel prezioso feed Twitter di Musk, che sembra portarlo in giro spesso, ed è genuinamente entusiasta del fatto che gli somigli terribilmente: pubblica foto comparative di lui da bambino e del piccolo X che in effetti gli danno ragione.     In un’intervista l’anno scorso, era saltato fuori che Musk e Grimes avevano avuto una figlia, però con la surrogata. Con il primogenito Grimes aveva avuto, a quanto dice, una gravidanza travagliata, e non voleva più avere quei problemi.   L’esperienza dell’essere incinta era stata in qualche modo messa in musica in una canzone, ipnotica e bellissima, di fine 2019, «So Heavy I Fell Through the Earth» («Così pesante che sono caduta attraverso la Terra»).     La settimana scorsa, in un post su Twitter,  la cantante pareva alludere al fatto che Elon non le stesse facendo vedere il figlio (forse l’unico concepito naturalmente?) e che rispondesse più né a lei né al suo avvocato. Il tweet è stato poi cancellato   Tuttavia il ragazzo-padre mica si è fermato lì. Durante l’estate dello scorso anno emerse che Shivon Zilis, una dirigente di Neuralink, la società di Musk che vuole impiantare chip nel cervello degli esseri umani, nel novembre 2021 aveva segretamente partorito due gemelli. Non si sa niente, in questo caso, dei pargoli, nemmeno il nome, anche se il cognome ora è stato stabilito, via tribunale, è Musk. Il fatto che siano gemelli potrebbe far pensare alla fecondazione in vitro, ma non esistono informazioni pubbliche in merito.   Il fatto è che la passione della riproduzione in provetta da parte di Musk è risaputa.   Sospettiamo che dietro possa esservi una filosofia gestionale, quella de «first principles thinking»: invece che ascoltare l’opinione di chiunque – della massa di esperti, soprattutto – su una cosa, è meglio pensare scomponendo il problema nei suoi principi, e ricomporre la soluzione. In pratica, mettere in discussione ogni presupposto che pensi di conoscere su un determinato problema, per poi creare nuove soluzioni da zero.   Secondo alcuni, è questa filosofia che ha reso Musk l’uomo più ricco del mondo: quando i colossi dell’auto snobbavano l’auto elettrica, lui calcolò i costi dei materiali e l’avanzamento tecnologico, creando Tesla, ora l’azienda automobilistica più capitalizzata del pianeta.   Quando la NASA e la Roscosmos (l’agenzia spaziale russa) e chiunque altro giudicava impossibile la produzione di un razzo riutilizzabile – in grado quindi, di abbattere immensamente i costi di lancio di materiale oltre la stratosfera – lui creava SpaceX proprio con quell’assunto, e oggi l’azienda è il vero soggetto dominante della cosiddetta Space Economy, e lo sarà per i decenni, forse per i secoli a venire. Anche lì, c’erano dei principi economici e fisici da ritrovare per cercare la soluzione: proprio quello che deve fare uno che ha studiato fisica (non esattamente la materia in cui è più facile laurearsi, anche in Italia) e marketing, come ha fatto Musk.   Anche nella produzione dei figli deve essere scattato un ragionamento del tipo «first principles». E il motivo potrebbe essere tragico: il primo figlio, Nevada Alexander Musk, avuto dalla prima moglie Justine Wilson che era con lui dai tempi del College, è morto d’improvviso quando aveva 10 settimane. Un caso di SIDS, la morte improvvisa dell’infante. Non sappiamo se Musk, che si è detto redpillato riguardo ai danni da vaccino mRNA (lui stesso e suo cugino ne avrebbero subiti) abbia visto che c’è una quantità di letteratura sulla possibile correlazione tra SIDS e vaccini pediatrici.

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La morte del primogenito potrebbe forse aver aperto in Musk la necessità di considerare la questione figli in termini di qualità e di processo.   I figli successivi con la prima moglie furono prodotti con la fecondazione artificiale. Nel 2004 vennero alla luce i gemelli Griffin e Xavier, quest’ultimo noto perché divenuto transgender con il nome di Vivian, fenomeno di cui il padre, con cui il ragazzo trans non vuole avere più nulla a che fare, incolpa la costosa istruzione impartitagli nelle scuole prestigiose, che avrebbero reso il bambino comunista e poi pure trans.   Seguì nel 2006 un’altra infornata via provetta: stavolta il parto fu trigemellare con Kai, Saxon e Damian. Potrebbe esserci una logica informatica: un figlio avuto naturalmente è un single point of failure, mentre con la provetta butti dentro quantità di embrioni, sperando che qualcuno attecchisca, di qui il parto di gemelli, sempre considerando che il resto degli embrioni li puoi conservare in azoto liquido.   In pratica, la maggior parte dei figli di Musk è stato ottenuto sinteticamente.   Come sa il lettore di Renovatio 21, riveste particolare importanza che il miliardario con la prole, l’anno passato sia stato ricevuto dal papa, che non può non essere stato informato che stava per ricevere in udienza, ed immortalato fotograficamente, con una «famiglia» prodotta in laboratorio, quindi (sempre più teoricamente) lontano dalla dottrina cattolica, che di per sé insegnerebbe che la riproduzione artificiale non è accettabile, perché in concreto uccide più embrioni che l’aborto, e sottrae la vita al lavoro naturale di Dio. Come sa il lettore, crediamo che l’incontro Bergoglio-Musk sia servito per sottolineare che la chiesa cattolica sta per aprire alla produzione di esseri umani in laboratorio.     Abbiamo un’ipotesi precisa sulla questione della provetta. Gli uomini sintetici che ne escono potrebbero essere quei personaggi di cui parla l’Apocalisse di San Giovanni.   «La bestia che hai visto era ma non è più, salirà dall’Abisso, ma per andare in perdizione. E gli abitanti della terra, il cui nome non è scritto nel libro della vita fin dalla fondazione del mondo, stupiranno al vedere che la bestia era e non è più, ma riapparirà» (Ap 17, 8)   Niente ci fa pensare che Musk, che pure ha confessato al Saturday Night Live di soffrire di Asperger, si fermerà nel suo uso della provetta. «Bambino maximus!» disse al TG1 quando è tornato qualche mese fa a Roma, a far cosa non si sa, ma ha abbracciato la Meloni, cosa che ci ha ricordato che lui è piuttosto alto e lei no. Guardando la telecamera, diceva che bisognava fare tanti figli, e lui stava facendo la sua parte.     Non siamo rimasti indifferenti quando Musk ha cominciato a sfidare il mainstream sul tema della sovrappopolazione – uno dei grandi dogmi della Necrocultura – parlando di implosione demografica, e arrivando a definire il massimo teorizzatore pubblico della «bomba demografica», Paul Ehrlich, come un uomo da disprezzare che ha cagionato immane danno all’umanità (il Vaticano bergogliano, di contro, invita Ehrlich alle conferenze).     E quindi, Musk ha stabilito per «first principle thinking» che il crollo della popolazione vada combattuto con l’uso indiscriminato di provetta e surrogata? Cosa dobbiamo pensare che dirà, quando sarà ultimata la tecnologia dell’utero artificiale?   Lui, intanto, avanza, anche con discrezione, come uno super-spreader – quei personaggi che disseminano provette del proprio sperma per generare una prole sempre più vasta. Abbiamo visto, su questo sito il caso dei donatori spermatici via Facebook, ma vi sono anche casi più profondi, come quel miliardario giapponese che si sta creando un esercito di figli in Tailandia, o il caso antico, non ancora riprotecnologico, di Genghis Khan e la sua discendenza infinita: uno studio del 2003 ha stabilito che almeno 16 milioni di persone che vivono oggi hanno una linea diretta con il condottiero mongolo comprovabile geneticamente.     A pensarci, la questione della riprogenetica spinta su mogli e concubine, non è l’unico tratto che sa di apocalisse che esce dal personaggio.   Ciò che sta riuscendo a fare in fatto di business – e di geopolitica – è immenso.

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Con Tesla ha creato un polmone economico gigantesco, per giunta inattaccabile dal punto di vista ecologico, visto che sono le uniche vere auto che non vanno a combustibili fossili (tutti gli altri marchi ci stanno provando, ma la più funzionale delle auto elettriche è la Tesla, punto).   Con SpaceX è divenuto il principale soggetto spaziale privato del mondo, e finanche uno dei principali soggetti spaziali tout court. Possiamo dire che la Space Economy è qualcosa che dipende dallo stimolo dato al settore di Musk, abbattendo i costi di messa in orbita, e divenendo partner strategico della NASA – e cioè dello Stato americano, che non potrà fare a meno di lui nella nuova corsa allo spazio – contro Cina, Russia, India… – appena partita.   Con la costellazione di satelliti Starlink ha silenziosamente disintermediato un settore ancora più difficile di quello delle auto e dei lanci spaziali: quello delle telecomunicazioni. D’un colpo, Musk può rendere obsoleti i grandi vettori telefonici, gli internet provider, l’intero fragile sistema di cavi sottomarini spesso pagati, oltre che dagli Stati-nazione, da Google e Facebook.   Ciò vuol dire che un domani se Musk si inventasse il «Teslaphone», non solo potrebbe distruggere Apple e Samsung e la ridda di cinesi al seguito, ma anche Vodafone, TIM, AT&T, T-Mobile, ogni possibile carrier telefonico della terra. Il guadagno che potrebbe derivarne è incalcolabile.   Di più: l’acquisto di Twitter, ora divenuto X, parla dello stesso progetto di egemonia dell’economia mondiale. X.com era il nome della sua società che divenne in seguito, fondendosi con una società rivale capeggiata da Peter Thiel, PayPal – sì, lo stesso sistema di pagamento tramite cui Renovatio 21 da qualche giorno vi chiede donazioni (ma se ci scrivete vi diciamo per l’IBAN).   Musk riebbe da PayPal il dominio X.com da PayPal qualche anno fa, adducendo che vi era legato sentimentalmente (il nome dei figli prova come l’uomo sia ossessionato dalla lettera X). Ora Twitter, divenuta la sua piattaforma social, si chiama X, e gira sul sito X.com. Il suo valore informativo è stato confermato dalle interviste di Tucker Carlson, ora migrato sul social, viste centinaia di milioni di volte, invece dell’audience di massimo 15 milioni raggiunti con la TV via cavo. Qualcuno parla di morte definitiva della TV.   L’acquisto di Twitter per una cifra da molti considerata esagerata servirebbe, per sua stessa ammissione, non solo a rinstaurare la libertà di espressione uccisa da Biden e dalla pandemia, ma a creare un equivalente americano del social cinese Weibo, attraverso cui i cittadini della Repubblica Popolare non solo scrivono e messaggiano, ma pure pagano nei negozi e online.   Twitter/X sarebbe quindi il ritorno di Musk al tentativo fatto con PayPal di disintermediare gli istituti bancari, creando sistemi di pagamento più rapidi e intuitivi, adatti alla vita digitale.

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Il lettore può cominciare a vedere avvicinarsi i pezzi di questo puzzle pazzesco. È un titanico progetto di disruption totale: disintermediata l’industria dell’auto, disintermediato l’industria spaziale, disintermediati la TV e i media, un domani disintermediate le telefoniche e le banche.   A questo aggiungeteci la possibilità più paurosa di tutte: non vi sarà nemmeno bisogno di telefonini Tesla e forse nemmeno di app, perché i satelliti Starlink potranno interfacciarsi direttamente con i microchip Neuralink che vi avranno impiantato nel cervello.   Senza il segno di Musk – il segno X – non potrai né comprare né vendere…? Non potrai più vivere?   Tutte queste che stiamo qui descrivendo sono, sì, componenti della politica dell’anticristo – dal segno della Bestia all’esercito di umanoidi il cui nome, come scrive la Rivelazione, non è scritto nel libro della vita.   Lui lo sa, qualcuno deve averglielo detto. Ecco che ad una festa dell’anno scorso si è vestito con un’armatura col segno del Satana-Bafometto, un costume da «devils’ champion», diceva lui, «il campione del diavolo». Le foto che gli hanno fatto gli sono piaciute al punto che per mesi ha usato un primo piano in costume satanico come foto di profilo.   Videocollegato con un evento mondialista a Dubai sette mesi fa, forse ha messo le mani avanti, quando ha dichiarato che l’idea di un «governo mondiale unico» rappresenta un «rischio di civiltà».   Nel mondo, tuttavia, lui già conta moltissimo. Hanno detto che, spegnendo i satelliti Starlink mentre l’Ucraina l’anno scorso stava per attaccare la Crimea, potrebbe aver evitato al mondo una reazione nucleare russa e una controreazione altrettanto nucleare da parte della NATO.   Elon ha un piano di pace per la Crimea che, lo ha detto pure il portavoce del Cremlino Peskov, è sensato. C’è tra Musk e il più atomico degli alti funzionari russi, una strana relazioni di tacita simpatia: Medvedev arrivò a scrivere, come previsione del 2023, che gli USA sarebbero andati incontro ad una guerra civile, e gli Stati repubblicani al termine di essa avrebbero eletto Elon Musk come presidente.   Come dire: con la guerra russo-ucraina, il peso geopolitico di Musk è evidente a chiunque. Anche se fuori dal potere costituito – odia Biden e lo insulta (la Casa Bianca ha fatto due eventi sull’auto elettrica senza mai invitare il più grande produttore!) – è in qualche modo in una altissima stanza dei bottoni: se l’è costruita lui, tra satelliti e social network.   E quindi, è lui il figlio dell’iniquità che stiamo aspettando? Sappiamo che l’anticristo sarà fascinoso, riuscirà ad attrarre tante persone per bene, perché sarà presentato come uomo di pace – e il processo della sua accettazione da parte dell’umanità come opzione «giusta» è descritto bene nei lavori letterari di Robert Hugh Benson e Vladimir Solovev.   Ovviamente non abbiamo la risposta, non possiamo averla, e anzi confidiamo che un po’ ci dispiacerebbe, perché ci sta tanto simpatico, e pure abbiamo ammirazione di lui e dei suoi prodotti (qui eccelle come un genio assoluto: nel product design).   Cosa dobbiamo dire? Preferiremmo che l’anticristo fosse uno come Bill Gates, che già ci sta sulle palle, e che Elon ha già perculato a dovere, vendicandoci un pochino per quello che abbiamo subito nel biennio pandemico.   Se toccasse di capire che è lui, pazienza, ce ne faremo una ragione. Anzi ci potrebbe andare pure bene, almeno sappiamo che faccia ha, e non è nemmeno antipatico. Sempre considerando che sappiamo perfettamente come la storia andrà a finire.   «E chi non era scritto nel libro della vita fu gettato nello stagno di fuoco» (Ap 20,15)     Roberto Dal Bosco SOSTIENI RENOVATIO 21
       
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L’Europa e il Nuovo Ordine Mondiale secondo il cardinale Ratzinger

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Renovatio 21 pubblica il testo del discorso che Joseph Ratzinger, allora cardinale prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, pronunziò a Cernobbio l’8 settembre 2001, tre giorni prima della distruzione delle Torri Gemelle.

 

Questo scritto – destinato al noto evento dell’élite italiana e mondiale sul Lago di Como – circola da anni in rete, e mostra con evidenza le differenze ravvisabili tra il Ratzinger cardinale e il Ratinger papa, per non parlare del Ratzinger «papa emerito», condizione inflitta dal tedesco alla cristianità con la sua rinuncia nel 2013, forse a seguito di complotti indicibili che, pure usciti come scoop, il mondo pare essersi dimenticato.

 

Nel testo è chiaro come il cardinale Ratzinger avesse presente la questione dei programmi mondialisti di riduzione della popolazione (qui accennata con l’espressione «numerus clausus») e l’ascesa del gender, di cui già allora le menti cattoliche rimaste lucide potevano vedere la portata.

 

Tuttavia, è necessario sottolineare come le conferenze ONU del Cairo e di Pechino, che del gender furono trampolini di lancio (nonché, come raccontava monsignor Schooyans ne Il complotto ONU contro la vita, ripetuto esercizio di tiro al piccione contro il cattolicesimo, lo Stato Vaticano e i suoi rappresentanti) non siano perentoriamente condannate dal cardinale bavarese, che pare anche piuttosto benigno nei confronti dell’UE – c’è da capire che erano gli anni in cui il papato woytyliano, di cui il Ratzinger era grande stakeholder teologico-filosofico, brigava per ottenere da Bruxelles  la famosa inserzione del cristianesimo come radice dell’Europa in documenti e dichiarazioni. Ratzinger, da cardinale, aveva espresso determinate posizioni definite dalla stampa come «intransigenti» – sulla Turchia in Europa, sul rapporto con le chiese scismatiche – sulle quali poi ha fatto 180° da papa. Divenuto Benedetto XVI, Ratzinger avrebbe in altre occasioni accennato al Nuovo Ordine Mondiale – cosa che inquieta anche chi ricorda le parole di estrema lucidità che negli anni aveva pronunciato sull’Apocalisse e la possibile manifestazione «numerica» moderna.

 

L’idea esposta al seminario degli abbienti di Cernobbio secondo cui la dignità umana – concetto che è possibile ritenere politicamente fondamentale per un cristiano – costituisca un «assoluto» – quando assoluto, per logica, è solo Iddio – costituisce uno scivolamento verso l’antropocentrismo tipico del pensiero post-conciliare, che avvicinò la chiesa sempre più al «dirittoumanismo» tipico dell’ONU, una tendenza che ci ha portati dritti all’era Bergoglio con la chiesa trasformata in una mega-ONG che si occupa, più che della dignità data all’uomo da Dio, di immigrazione e «diritti» vari, sempre più spesso quelli genderisti.

 

Realtà che costituivano grandi avversari del papato, come l’ONU, ora sono entrati in sovrapposizione totale con la Santa Sede. Si tratta del senso finale di una cospirazione che va avanti da secoli: uccidere Dio, innalzare l’uomo. Per poi, ovviamente, uccidere anche l’uomo – perché esso, invariabilmente, è Imago Dei, immagine del Signore.

 

RDB

 

 

Cosa è l’Europa? Cosa può e deve essere nel quadro complessivo della situazione storica, nella quale ci troviamo all’inizio del terzo millennio cristiano? Dopo la Seconda Guerra Mondiale la ricerca di una identità comune e di una meta comune per l’Europa è entrata in una nuova fase.

 

Dopo le due guerre suicide, che nella prima metà del ventesimo secolo avevano devastato l’Europa e coinvolto il mondo intero, era divenuto chiaro, che tutti gli Stati europei erano perdenti in questo terribile dramma e che si doveva fare qualunque cosa per evitare la sua ulteriore ripetizione.

 

L’Europa era sempre stata in passato un continente di contrasti, sconvolto da molteplici conflitti. Il secolo diciannovesimo aveva poi portato con sé la formazione degli Stati nazionali, i cui interessi contrastanti avevano dato una dimensione nuova alla contrapposizione distruttiva.

 

L’opera di unificazione europea era determinata essenzialmente da due motivazioni.

 

Di fronte ai nazionalismi che dividevano e di fronte alle ideologie egemoniche, che avevano radicalizzato la contrapposizione nella Seconda Guerra Mondiale, la comune eredità culturale, morale e religiosa dell’Europa doveva plasmare la coscienza delle sue nazioni e dischiudere come identità comune di tutti i suoi popoli la via della pace, una via comune verso il futuro.

 

Si cercava una identità europea, che non doveva dissolvere o negare le identità nazionali, ma unirle invece a un livello di unità più alto in una unica comunità di popoli.

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La storia comune doveva essere valorizzata come forza creatrice di pace. Non vi è alcun dubbio che presso i padri fondatori dell’unificazione europea l’eredità cristiana era considerata come il nucleo di questa identità storica, naturalmente non nelle forme confessionali; ciò che è comune a tutti i cristiani sembrava comunque riconoscibile al di là dei confini confessionali come forza unificante dell’agire nel mondo.

 

Non sembrava neppure incompatibile con i grandi ideali morali dell’illuminismo, che avevano per così dire messo in risalto la dimensione razionale della realtà cristiana e al di là di tutte le contrapposizioni storiche sembrava senz’altro compatibile con gli ideali fondamentali della storia cristiana dell’Europa.

 

Nei singoli particolari questa intuizione generale non è mai stata ben chiarita del tutto con evidenza; in questo senso sono rimasti qui dei problemi, che esigono di essere approfonditi. Nel momento degli inizi tuttavia la convinzione della compatibilità fra le grandi componenti dell’eredità europea era più forte dei problemi, che esistevano al riguardo.

 

A questa dimensione storica e morale, che stava all’inizio della unificazione europea, si univa però anche una seconda motivazione.

 

Il dominio europeo sul mondo, che si era espresso soprattutto nel sistema coloniale e nelle conseguenti connessioni economiche e politiche, con la fine della Seconda guerra mondiale era definitivamente concluso: in questo senso l’Europa come insieme aveva perduto la guerra.

 

Gli Stati Uniti d’America campeggiavano ora sulla scena della storia mondiale come potenza dominatrice, ma anche il Giappone sconfitto divenne una potenza economica di pari livello, e finalmente l’Unione Sovietica rappresentava con i suoi Stati satelliti un impero, sul quale soprattutto gli Stati del Terzo Mondo cercavano di appoggiarsi in contrapposizione all’America e all’Europa occidentale.

 

In questa nuova situazione i singoli Stati europei non potevano più presentarsi come interlocutori di pari livello. L’unificazione dei loro interessi in una struttura europea comune era necessaria, se l’Europa voleva continuare ad avere un peso nella politica mondiale.

 

Gli interessi nazionali dovevano unirsi insieme in un comune interesse europeo. Accanto alla ricerca di un’identità comune derivante dalla storia e creatrice di pace, si poneva l’autoaffermazione di interessi comuni, vi era quindi la volontà di divenire una potenza economica, ciò che rappresenta il presupposto della potenza politica.

 

Nel corso dello sviluppo degli ultimi cinquant’anni questo secondo aspetto dell’unificazione europea è divenuto sempre più dominante, anzi, quasi esclusivamente determinante. La moneta comune europea è l’espressione più chiara di questo orientamento dell’opera di unificazione europea: l’Europa si presenta come un’unità economica e monetaria, che come tale partecipa alla formazione della storia e reclama un suo proprio spazio.

 

Karl Marx ha proposto la tesi secondo cui le religioni e le filosofie sarebbero solo sovrastrutture ideologiche di rapporti economici. Ciò non corrisponde totalmente alla verità, si dovrebbe piuttosto parlare di un’influenza reciproca: atteggiamenti spirituali determinano comportamenti economici, situazioni economiche influenzano poi e loro volta retroattivamente modi di vedere religiosi e morali.

 

Nell’edificazione della potenza economica Europa – dopo gli inizi di orientamento più etico e religioso – era determinante in modo sempre più esclusivo l’interesse economico. Ma ora si rivela nondimeno in modo sempre più chiaro che all’edificazione di strutture e di imprese economiche si accompagnano anche decisioni culturali, che all’inizio sono presenti in modo quasi irriflesso, ma poi esigono con forza di essere chiarificate in modo esplicito.

 

Le grandi conferenze internazionali come quelle del Cairo e di Pechino sono espressione di una tale ricerca di criteri comuni dell’agire, sono qualcosa di più che una manifestazione di problemi. Le si potrebbero definire come una sorta di concili della cultura mondiale, nel corso delle quali dovrebbero venire formulate certezze comuni ed essere elevate a norme per l’esistenza dell’umanità.

 

La politica della negazione o della concessione di aiuti economici è una forma di imposizione di tali norme, al riguardo delle quali ci si preoccupa soprattutto del controllo della crescita della popolazione mondiale e dell’obbligatorietà universale dei mezzi previsti per questo scopo.

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Le antiche norme etiche della relazione fra i sessi, come vigevano in Africa nella forma delle tradizioni tribali, nelle grandi culture asiatiche come derivate dalle regole dell’ordine cosmico e nelle religioni monoteistiche a partire dal criterio dei dieci comandamenti, vengono dissolte attraverso un sistema di norme, che da una parte si fonda sulla piena libertà sessuale, dall’altra però ha come contenuto fondamentale il «numerus clausus» della popolazione mondiale e i mezzi tecnici predisposti allo scopo. Una tendenza analoga si riscontra nelle grandi conferenze sul clima.

 

In entrambi i casi l’elemento che spinge a ricercare norme è il timore di fronte al carattere limitato delle riserve dell’universo. In entrambi i casi si tratta da una parte di difendere la libertà del rapporto umano con la realtà, ma dall’altra di arginare la conseguenza di una libertà illimitata.

 

Il terzo tipo di grandi conferenze internazionali, l’incontro delle potenze economiche dominanti per la regolazione dell’economia divenuta globale è diventato il campo di battaglia ideologico dell’era postcomunista. Mentre da una parte tecnica ed economia sono intese come veicolo della libertà radicale degli uomini, la loro onnipresenza con le norme ad essa inerenti viene ora avvertita come dittatura globale e combattuta con una furia anarchica, nella quale la libertà della distruzione si presenta come un elemento essenziale della libertà umana.

 

Che cosa significa tutto questo per il problema dell’Europa? Significa che il progetto orientato unilateralmente alla costruzione di una potenza economica ora di fatto produce da se stesso una specie di nuovo sistema di valori, che deve essere collaudato per saggiarne la sue capacità di durata e di creare futuro.

 

La Charta europea recentemente approvata potrebbe essere caratterizzata come un tentativo di trovare una via di mezzo fra questo nuovo canone di valori e i valori classici della tradizione europea.

 

Come una prima indicazione sarà certamente di aiuto. Ambiguità in punti importanti mostrano nondimeno in modo evidente la problematicità di un tale tentativo di mediazione. Una discussione di fondo sulle questioni soggiacenti non potrà essere evitata. Ciò non è possibile naturalmente nel quadro di questa relazione. Vorrei soltanto cercare di precisare un po’ meglio i problemi che si tratterà di affrontare.

 

I padri dell’unificazione europea dopo la Seconda guerra mondiale – come abbiamo visto – erano partiti da una fondamentale compatibilità dell’eredità morale del cristianesimo e dell’eredità morale dell’illuminismo europeo. Nell’illuminismo la concezione biblica di Dio era stata mutata in una duplice direzione sotto l’influsso della ragione autonoma: il Dio creatore e sostentatore, che continuamente sostiene e guida il mondo, era divenuto colui che semplicemente aveva dato inizio all’universo. Il concetto di rivelazione era stato abbandonato.

 

La formula di Spinoza «Deus sive natura» potrebbe essere considerata per molti aspetti come caratteristica della visione dell’illuminismo. Ciò significa però pur sempre che si credeva ad una specie di natura divinamente plasmata e alla capacità dell’uomo di comprendere questa natura e anche di valutarla come istanza razionale.

 

Il marxismo aveva invece introdotto una rottura radicale: l’attuale mondo è un prodotto dell’evoluzione senza una sua razionalità; il mondo ragionevole l’uomo deve solo farlo emergere dal materiale grezzo irragionevole della realtà.

 

Questa visione – unita alla filosofia della storia di Hegel, al dogma liberale del progresso e alla sua interpretazione socio-economica – condusse all’attesa della società senza classi, che doveva apparire nel progresso storico come prodotto finale della lotta delle classi e così divenne l’idea morale normativa ultimamente unica: è buono ciò che serve all’avvento di questa condizione di felicità, è cattivo ciò che vi si oppone.

 

Oggi ci troviamo in un secondo illuminismo, che non solo ha lasciato dietro di sé il «Deus sive natura», ma ha anche smascherato come irrazionale l’ideologia marxista della speranza e al suo posto ha postulato una meta razionale del futuro, che porta il titolo di nuovo ordine mondiale e ora deve divenire a sua volta la norma etica essenziale. Resta in comune con il marxismo l’idea evoluzionistica di un mondo nato da un caso irrazionale e dalle sue regole interne, che pertanto – diversamente da quanto prevedeva l’antica idea di natura – non può contenere in sé nessuna indicazione etica.

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Il tentativo di far derivare dalle regole del gioco dell’evoluzione anche regole del gioco per l’esistenza umana, quindi una specie di nuova etica, è in verità assai diffuso, ma poco convincente.

 

Crescono le voci di filosofi come Singer, Rorty, Sloterdijk, che ci dicono che l’uomo avrebbe ora il diritto e il dovere di costruire un mondo nuovo su base razionale. Il Nuovo Ordine Mondiale, della cui necessità non si potrebbe dubitare, dovrebbe essere un ordine mondiale della razionalità. Fin qui tutti sono d’accordo.

 

Ma cosa è razionale? Il criterio di razionalità viene assunto esclusivamente dalle esperienze della produzione tecnica su basi scientifiche. La razionalità è nella direzione della funzionalità, dell’efficacia, dell’accrescimento della qualità della vita.

 

Lo sfruttamento della natura, che vi è connesso, diviene sempre più un problema a motivo dei disagi ambientali che stanno divenendo drammatici. Con molta maggiore disinvoltura avanza frattanto la manipolazione dell’uomo su di se stesso.

 

Le visioni di Huxley divengono decisamente realtà: l’essere umano non deve più essere generato irrazionalmente, ma prodotto razionalmente. Ma dell’uomo come prodotto dispone l’uomo. Gli esemplari imperfetti vanno scartati, per tendere all’uomo perfetto, sulla via della pianificazione e della produzione.

 

La sofferenza deve scomparire, la vita essere solo piacevole. Tali visioni radicali sono ancora isolate, per lo più in molte maniere attenuate, ma il principio di comportamento, secondo cui è lecito all’uomo fare tutto ciò che è in grado di fare, si afferma sempre di più. La possibilità come tale diviene un criterio per sé sufficiente. In un mondo pensato in modo evoluzionistico è anche di per sé evidente che non possano esistere valori assoluti, ciò che è sempre cattivo e ciò che è sempre buono, ma la ponderazione dei beni rappresenta l’unica via per il discernimento di norme morali. Ciò però allora significa che scopi più elevati, presunti risultati ad esempio per la guarigione di malattie, giustificano anche lo sfruttamento dell’uomo, se solo il bene sperato appare abbastanza grande.

 

Ma così nascono nuove oppressioni, e nasce una nuova classe dominante. Ultimamente, del destino degli altri uomini, decidono coloro che dispongono del potere scientifico e coloro che amministrano i mezzi. Non restare indietro nella ricerca diviene un obbligo cui non ci si può sottrarre, che decide esso stesso la sua direzione.

 

Quale consiglio si può dare all’Europa e al mondo in questa situazione? Come specificamente europea in questa situazione appare oggi proprio la separazione da ogni tradizione etica e il puntare solo sulla razionalità tecnica e le sue possibilità.

 

Ma non diverrà in realtà un ordine mondiale con questi fondamenti un’utopia dell’orrore?

 

Non ha forse bisogno l’Europa, non ha forse bisogno il mondo proprio di elementi correttivi e partire dalla sua grande tradizione e dalle grandi tradizioni etiche dell’umanità?

 

L’intangibilità della dignità umana dovrebbe diventare il pilastro fondamentale degli ordinamenti etici, che non dovrebbe essere toccato.

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Solo se l’uomo si riconosce come scopo finale e solo se l’uomo è sacro e intangibile per l’uomo, possiamo avere fiducia l’uno nell’altro e vivere insieme nella pace. Non esiste nessuna ponderazione di beni che giustifichi di trattare l’uomo come materiale di esperimento per fini più alti.

 

Solo se noi vediamo qui un assoluto, che si colloca al di sopra di tutte le ponderazioni di beni, noi agiamo in modo veramente etico e non per mezzo di calcoli.

 

Intangibilità della dignità umana – ciò significa allora anche che questa dignità vale per ogni essere umano, che questa dignità vale per ciascuno che abbia un volto umano e appartenga biologicamente alla specie umana. Criteri di funzionalità non possono qui avere alcun valore. Anche l’essere umano sofferente, disabile, non ancora nato è un essere umano.

 

Vorrei aggiungere che a questo deve essere unito anche il rispetto per l’origine dell’uomo dalla comunione di un uomo e di una donna. L’essere umano non può divenire un prodotto. Egli non può essere prodotto, può solo essere generato. E perciò la protezione della particolare dignità della comunione fra uomo e donna, sulla quale si fonda il futuro dell’umanità, deve essere annoverata fra le costanti etiche di ogni società umana.

 

Ma tutto questo è possibile solo, se acquisiamo anche un senso nuovo per la dignità della sofferenza. Imparare a vivere significa anche imparare a soffrire. Perciò è richiesto anche rispetto per il sacro. La fedeltà nel Dio creatore è la più sicura garanzia della dignità dell’uomo. Non può essere imposta a nessuno, ma poiché è un grande bene per la comunità, può avanzare la pretesa del rispetto da parte dei non credenti.

 

È vero: la razionalità è un contrassegno essenziale della cultura europea. Con questa, da un certo punto di vista, essa ha conquistato il mondo, perché la forma di razionalità sviluppatasi innanzitutto in Europa informa oggi la vita di tutti i continenti. Ma questa razionalità può divenire devastante, se essa si separa dalle sue radici e innalza a unico criterio la possibilità tecnica di poter fare. Il legame con le due grandi fonti del sapere – la natura e la storia – è necessario.

 

Ambedue gli ambiti non parlano semplicemente di per sé, ma da entrambi può derivare un’indicazione di cammino. Lo sfruttamento della natura, che si ribella a un utilizzo indiscriminato, ha messo in movimento nuove riflessioni circa le indicazioni di cammino, che derivano dalla natura stessa.

 

Dominio sulla natura nel senso del racconto biblico della creazione non significa utilizzazione violenta della natura, ma la comprensione delle sue possibilità interiori ed esige così quella forma accurata di utilizzazione, nella quale l’uomo si mette al servizio della natura e la natura a servizio dell’uomo. L’origine stessa dell’uomo è un processo insieme naturale ed umano: nella relazione fra un uomo e una donna l’elemento naturale e quello spirituale si uniscono nello specificamente umano, che non si può disprezzare senza danno.

 

Così anche le esperienze storiche dell’uomo, che si sono riflesse nelle grandi religioni, sono fonti permanenti di conoscenza, di indicazioni per la ragione, che interessano anche colui che non può identificarsi con nessuna di queste tradizioni. Riflettere prescindendo da esse e vivere senza prenderle in considerazione, sarebbe una presunzione, che alla fine lascerebbe l’uomo disorientato e vuoto.

 

Con tutto questo non si è data nessuna risposta conclusiva all’interrogativo circa i fondamenti dell’Europa. Si è voluto semplicemente tracciare le linee del compito, che ci sta davanti. Lavorarci è urgente.

 

 

Joseph Ratzinger

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Immagine screenshot da YouTube

 

 

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