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Pensiero

Attacco terroristico jihadista in Niger. Coincidenza o «rivelazione del metodo»?

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La notizia è passata in sordina, ma a suo modo è clamorosa: il terrorismo islamico è tornato a colpire in Africa, e guarda caso proprio in Niger, Paese al centro dell’attenzione mondiale in questo momento, forse più ancora dell’Ucraina.

 

Almeno 17 soldati del Niger sono stati uccisi in un attacco di gruppi armati vicino al confine con il Mali, ha detto il ministero della Difesa nigerino. Secondo una dichiarazione rilasciata martedì scorso, «un distaccamento delle forze armate nigerine (FAN) che si muoveva tra Boni e Torodi è stato vittima di un’imboscata terroristica vicino alla città di Koutougou [52 km a sud-ovest di Torodi]».

 

Il ministro della giunta golpista afferma che altri 20 soldati sono rimasti feriti, tutti evacuati a Niamey, la capitale. Più di 100 assalitori sarebbero quindi stati «neutralizzati» durante la ritirata, continua il comunicato.

 

Insomma: terrorismo, stragi, fiumi di sangue. Proprio ora. Ma guarda.

 

C’è da capire che il terreno è fertile da anni: nell’ultima decade, l’area di confine dove convergono il Mali centrale, il Burkina Faso settentrionale e il Niger occidentale è diventata l’epicentro della violenza dei gruppi armati legati ad al-Qaeda e all’ISIL (ISIS) nella regione del Sahel. Il sud-est del Niger è anche l’obiettivo di gruppi armati che attraversano il Nord-Est della Nigeria, culla di una campagna avviata da Boko Haram nel 2010.

 

Sappiamo bene a cosa ha portato questo decennio di terrore africano: alla presenza militare francese – la famosa Operazione Barkhane messa in piedi da Parigi nelle sue ex colonie Ciad, Burkina Faso, Mali, Mauritania, Niger. Negli anni alla missione militare antiterroristica vengono tirate dentro anche Estonia, Svezia e Italia. Ci sono anche prede importanti: viene fatto fuori con un drone francese un leader ISIS nel Sahara, Kamel Abderrahmal.

 

C’è un piccolo problema: gli stessi governi africani, ad un certo punto, cominciano ad accusare Parigi di sostenere gli stessi terroristi che i francesi dicono di voler combattere. L’atroce pensiero è diffuso anche in altri Paesi dell’Africa francofona. In pratica, gli africani dicono: la Francia crea il problema per venderci la soluzione. È un classico. Tuttavia è da qui che è partita l’irresistibile ascesa della Russia in Africa. È da qui che nel Continente nero è entrata la Wagner, e, per la disperazione di George Clooney, da diversi anni.

 

Ora, più che alla decadenza post-coloniale della Francia – che manda i militari in Africa per poi trovarsi le proprie città devastate dagli africani – preme qui notare altro.

 

La coincidenza di questa improvvisa fiammata di sanguinario jihadismo con i fatti di Niamey è davvero singolare. I takfiri, vai a capirli, attaccano il Niger proprio quando è in mano ai militari, teso come una corda di violino per una possibile invasione dei vicini dell’ECOWAS, o peggio, snervato dall’idea che potrebbe perfino arrivare un intervento francese.

 

No, non il momento migliore per un’offensiva, un attentato, una strage simbolica – tanto più se è non è una panzana africana quella per cui nell’attacco hanno ammazzato 17 soldati per poi vedersi eliminati 100 miliziani.

 

La coincidenza, più che con l’accusa di fomentare se non controllare il terrorismo che gli africani rivolgono ai francesi, è con la visita a sorpresa in Niger del vicesegretario di Stato USA Victoria Nuland, la grande pupara neocon di vari scenari di guerra e distruzione del pianeta.

 

«Nei miei incontri di oggi ho avuto la sensazione che le persone che hanno intrapreso questa azione qui capiscano molto bene i rischi per la loro sovranità quando Wagner viene invitato» aveva detto ai giornalista la «Toria» tornata in patria, riferendosi al fatto che elementi del governo militare nigerino avrebbero contattato la Wagner, che già è presente in Mali e Burkina Faso, e cioè i due Paesi che hanno giurato di difendere il Niger dei generali qualora venisse attaccato dall’ECOWAS o da altri.

 

Fa specie sentire la regina occulta (neanche tanto) di Maidan, quella che sceglieva il vertice dello Stato ucraino con una telefonata in cui esclamava pure «si fotta la UE», parlare di sovranità. Ma al di là del wording, è innegabile che la stessa presenza della Nuland a Niamey suoni come una minaccia.

 

O fate come diciamo noi, o tenete fuori Mosca, o ne pagherete le conseguenze.

 

Pochi giorni dopo, taac, arriva l’attacco terroristico.

 

Ecco i soliti complottisti. Chiaro. Magari adesso parte pure il discorso per cui Al Qaeda (che qualche testata ha tirato in ballo, anche se al momento in cui scrivo sui pochi giornali che ne scrivono non pare essersi stabilizzata una sigla a cui attribuire l’attacco: c’è un mazzetto da cui scegliere, anche là) in realtà significa «la base», ed era di fatto il database dei mujaheddin reclutati in tutto il mondo dalla CIA tramite i sauditi e i pakistani per combattere i sovietici in Afghanistan, un database di cui uno dei gestori era il giovane, educatissimo figlio di miliardario Osama Bin Laden, che a cavallo  tra la fine degli anni Settanta e gli anni Ottanta stava a Peshawar a preparare i terroristi, pardon, i guerriglieri da infiltrare fra i monti afghani armati con armi racimolate dagli americani, prima in Egitto e forse in Israele, poi fornite direttamente dagli USA – come i famosi missili stinger, che cominciarono a decimare gli elicotteri dell’Armata Rossa.

 

No, vabbè, il discorsetto sull’origine CIA di Al Qaeda e pure dell’ISIS ve lo risparmiamo – perché davanti all’improvviso terrore nigerino dovremmo lasciare tutto al caro immaginar del lettore.

 

Tuttavia, vogliamo approfittare solo per ricordare altre curiose coincidenze di terrorismo africano delle ultime settimane.

 

Come riportato da Renovatio 21, poche settimane fa l’Uganda ha approvato una legge anti-gay. Il presidente ugandese Museveni non si è lasciato intimidire dalle pressioni internazionali – persino della Chiesa cattolica e anglicana – e dalle minacce di revoca degli aiuti (quel che sta facendo ora la banca mondiale), facendo appello anche all’orgoglio delle altre Nazioni africane affinché rifiutassero di dover ribaltare la loro morale, la loro società in cambio dell’assistenza occidentale.

 

La Casa Bianca risposto all’Uganda dicendo, per bocca del portavoce ammiraglio Kirby: «i diritti LGBT sono parte fondamentale della politica estera USA» è stato dichiarato pubblicamente.

 

Passano pochi giorni, e succede qualcosa di completamente inaspettato: 54 soldati ugandesi di stanza in Somalia per una missione di pace vengono trucidati dai terroristi islamici al-Shabaab – letteralmente la «gioventù», il gruppo stragista somalo legata ad Al Qaeda, quelli pagati milioni di euro dal governo Conte-Di Maio per riavere la cooperante poi convertitasi all’Islam (se ci tenete a sapere come è andata a finire, la procura di Roma a febbraio ha chiesto l’archiviazione dell’indagine).

 

È una coincidenza che notiamo solo noi, qui su Renovatio 21 – siamo qui a pensare male, come sempre, e quello che facciamo e vedere cospirazioni dappertutto, permettendoci perfino di ricordare che con gli Shabaab operava la «vedova bianca» Samantha Lewthwaite, britannica convertita all’Islam radicale irreperibile dopo la strage di Londra del luglio 2007, nonostante la caccia che, teoricamente, apparati di sicurezza britannici e africani le stanno dando da anni. Avvistata – chissà se vero – in Ucraina nel 2014, a quel tempo partirono stuoli di commenti di filorussi e non solo che accusavano la vedova bianca di essere un asset dell’MI6, il servizio segreto esterno britannico, quello che secondo i russi starebbe spostando commando di miliziani ucraini in Africa per guastare le cose alla Wagner.

 

Passa un’altra manciata di giorni. Ecco che l’Uganda subisce un’altra strage efferata, stavolta nel suo territorio: miliziani di un gruppo noto come Allied Democratic Forces (ADF) attaccano una scuola a Mpondwe, una città vicino al confine con la Repubblica Democratica del Congo e ammazzano almeno 37 persone. Il gruppo, che si oppone a Museveni, non colpiva in modo così feroce dal 2021. Uno dei due spezzoni che lo compongono è considerato una setta islamica.

 

Non vi sono solo l’Uganda e il Niger a vivere un’improvvisa recrudescenza del terrore in questi giorni. A giugno una sigla terrorista che non si sentiva dagli anni Novanta, il CODECO massacra con lame e armi da fuoco almeno 46 persone in un campo profughi nella provincia di Ituri, in Repubblica Democratica del Congo. Il CODECO, che starebbe per Cooperativa per lo Sviluppo del Congo, è considerato da molti una setta para-animista, con un guru che si fa chiamare «il sacrificatore».

 

E cosa c’entra ora il Congo?

 

Non c’è solo la questione dell’Africa LGBT, il Terzo Mondo da omosessualizzare con ricatti e propaganda. O meglio, la questione si innesta in un disegno geopolitico ancora più chiaro: la grande scommessa che la Russia sta facendo nel Continente nero, uno shift storicamente unico, tra immensi forum africanisti a San Pietroburgo – dove i leader africani incontrano direttamente Putin – ed un lavoro diplomatico del ministro Lavrov che negli ultimi mesi ha fatto un tour de force in Africa senza precedenti.

 

Il cambiamento rischia di essere epocale, e devastante per i poteri costituiti della geopolitica globale.

 

È possibile pensare che, quindi, qualcuno stia muovendo certe leve – le solite – per cercare di far sterzare gli africani, prima che finiscano, dopo essere entrati anche alla corte di Pechino, ad amare troppo il Cremlino?

 

È possibile se consideriamo le schiette confessioni di un personaggio come Miles Copeland (1914-1991), un personaggio che vale sempre la pena di riscoprire. Copeland è innanzitutto il padre dello Stewart Copeland batterista dei Police (e autore di tante colonne sonore di film)  e pure di Miles Copeland III, manager dei Police, di Sting e produttore dei R.E.M., delle Bangles, dei Cramps, dei Dead Kennedys.

 

Secondariamente, Copeland era uno dei più potenti agenti CIA piazzati nello scacchiere internazionale. Copeland aveva partecipato a operazioni coperte come il colpo di Stato del marzo 1949 in Siria, il golpe in Iran nel 1953, e rimane conosciuto per la sua relazione diretta come il presidente egiziano Gamal Nasser.

 

Divenuto in pensione noto le sue pubblicazioni di analisi sulla storia dell’Intelligence, al personaggio non può non essere riconosciuta una bella franchezza: in un’intervista a Rolling Stone del 1986, dichiarò che «a differenza del New York Times, di Victor Marchetti e di Philip Agee [due ferventi critici della CIA, ndr], la mia lamentela è stata che la CIA non sta rovesciando abbastanza governi antiamericani o assassinando abbastanza leader antiamericani, ma immagino che sto invecchiando».

 

Si tratta della stessa onestà con cui ha scritto il libro The Game of Nations: The Amorality of Power Politics («Il gioco delle nazioni: l’amoralità della politica di potere»), un volume del 1969 mai tradotto in Italia e ormai introvabile.

 

«Agli americani non piace il terrorismo. Sebbene a volte svolga un ruolo essenziale nelle stesse operazioni dell’Occidente contro i leader afroasiatici recalcitranti, nascondiamo questo fatto» ammetteva nel capitolo intitolato «Nasserismo e Terrorismo».

 

Copeland sostiene che il terrorista, il «fanatico», altro non è che un «perdente per definizione, ma è un’importante arma nelle mani del non fanatico che vuole vivere per la causa». Se lasciati a loro stessi, i fanatici diventano «disturbi» e la «maggioranza arriva a bloccarli, pagando qualsiasi prezzo». Tuttavia, «nelle mani di leadership non fanatiche possono diventare armi di grande flessibilità e finezza».

 

«Le sciocchezza che dicono possono essere pulite così non solo da avere un minimo di senso, ma sembrare pure come appartenenti ad un alto piano morale» continua l’agente CIA. «Talvolta hanno lo stesso valore sia da morti che da vivi. Sono stupendamente spendibili. Hanno anche il vantaggio della grande disponibilità».

 

La sincerità di Copeland è tale da insospettire – perché sappiamo che quando un ex agente della CIA vuole pubblicare un libro prima deve essere vagliato dall’agenzia stessa.

 

Ciò detto, la prospettiva qui enunciata con tanta chiarezza aiuta a capire molte cose: il terrorismo per la CIA non è il male assoluto, non è l’uomo nero a cui dare la caccia, come raccontato dai giornali, dai politici, dai film e dai telefilm. No, il terrorismo, per la CIA, è uno strumento, «un’arma» pure versatile ed elegante – quasi un linguaggio, una lingua straniera con cui non puoi comunicare in patria ma quando sei all’estero usi con voluttà.

 

Il lettore adesso può unire i puntini da solo, per le stragi africane di questi giorni e non solo.

 

C’è da comprendere anche il contesto: in Africa è possibile esercitarsi, sperimentare a volontà. Come per i vaccini imposti dagli oscuri potentati transnazionali o dagli oligarchi globali come Bill Gates: ecco il siero anti-tetano che in realtà sterilizza le kenyote, ecco i disastri dell’iniezione papillomavirus, le morti per il vaccino DPT, il ritorno della polio via vaccino ammesso dall’OMS tra casi di bambini paralizzati, ecco i cerotti vaccinali, i piccoli africani usati come cavie per il marchio dei quantum dots.

 

Per non parlare di un’altra questione, forse la più inquietante, che riguarda sempre Gates e il Pentagono stesso (e pure uno scienziato ora deputato del PD): quella delle zanzare OGM, preparate per invadere l’Africa e sterilizzare la loro specie, di modo, dicono, da far finire la malaria.

 

L’Africa è un laboratorio – e ciò che testano lì è per poi implementarlo qui, in Europa, dove la resistenza della popolazione è, per il momento, maggiore. Vale per i vaccini come vale con probabilità per il nuovo terrorismo (armato, come ci ripetono gli stessi leader africani, dal mercato nero ucraino creato dagli occidentali).

 

Ma allora, perché lo fanno in modo sempre più spudorato? Perché non coprono più nemmeno le loro tracce?

 

Qui si entra nella speculazione, in quella che alcuni osservatori chiamano «revelation of the method», la rivelazione del metodo. Si tratta dell’idea per cui vi sarebbe una tecnica di guerra psicologica per cui alla popolazione si fa sapere esattamente cosa si sta per fare. Il risultato è duplice: preparare le persone ai cambiamenti, e nel frattempo confonderle – perché se le cospirazioni più fantasiose si realizzano, la linea tra realtà e finzione sparisce, e la psiche dell’individuo diviene più malleabile.

 

La rivelazione del metodo era tornata alla ribalta con il disastro chimico di Palestine, Ohio, a inizio anno, quando si apprese che il medesimo evento era predetto in un film di due anni prima, White Noise, tratto da un romanzo di Don DeLillo: tutto collimava, l’incidente del treno, la fuoriuscita di sostanze tossiche, il paesino sotto shock… alcuni cittadini di Palestine avevano fatto le comparse per il film.

 

Altri vedono anche nel successo planetario di Squid Game, la serie più vista degli ultimi tempi in tutto il mondo, i segni di rivelazione del metodo: un gruppo di miliardari crudeli e perversi si divertono a mettere i popolani l’uno contro l’altro, utilizzando il danaro come motore della disintegrazione sociale, e godendo nel vedere che i poveri si ammazzano e riducono il loro numero tra laghi di sangue.

 

Chi sa mai cosa ci stanno cercando di dire… Altro che significati occulti.

 

E quindi, l’arma terrorista sta per essere ri-applicata ancora una volta in Europa? È possibile, sappiamo che i loro padroni amano i fiumi di sangue, sappiamo che vogliono instaurare qui un’anarco-tirannia, dove una certa dose di terrorismo, anche quotidiana, aiuterà la popolazione a rimanere divisa e sottomessa, e al padrone di proseguire con i suoi piani.

 

E altre cascate di sangue.

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

Pensiero

Sacerdote tradizionalista «interdetto» dalla diocesi di Reggio: dove sta la Fede cattolica?

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Ci risiamo.

 

A Reggio Emilia, ancora una volta, la Diocesi torna ad esprimersi su due sacerdoti che da qualche anno hanno preso residenza sulle colline di Casalgrande Alto, in un’altura che sormonta e si affaccia su tutto il panorama padano della provincia.

 

Il settimanale cattolico reggiano La Libertà, nella sua versione online, vero e proprio megafono della Diocesi, rende nota la vicenda riuscendo a sbagliare subito il bersaglio, ovvero pubblicando la foto di un castello presente a Casalgrande Alto e identificandolo, nella didascalia, come «sede della Città della divina misericordia». Peccato che quel castello non sia affatto la sede dei due sacerdoti. 

 

Ma tornando ai due preti, trattasi di don Claudio Crescimanno e don Andrea Maccabiani, già da tempo saliti agli onori della cronaca locale e nazionale a motivo di quella che la stessa Curia ritiene essere una presenza, ma soprattutto un ministero, illecito e non autorizzato dalle gerarchie. 

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Cosa fanno di così strano questi due sacerdoti? In sintesi: si limitano a fare i preti, celebrano la Santa Messa, amministrano i sacramenti e assicurano una buona formazione cattolica a ragazzi ed adulti. Insieme a loro, in quella che potremmo tranquillamente definire un’umile dimora, ci sono alcuni animali facenti parte di quella che è un’azienda agricola gestita dagli stessi sacerdoti con l’aiuto di qualche laico.

 

Nessun clamore. Nessun profilo appariscente o volutamente polemico, sulle colline di Casalgrande si respira piuttosto un certo silenzio e uno stile di vita molto tranquillo, sia per i sacerdoti che per i laici che frequentano la piccola comunità sorta per un semplice e quanto mai pratico motivo – cercare ciò che nelle istituzioni ordinarie ecclesiali ora sembra mancare: la Fede cattolica. 

 

Ebbene si sa che oggi, la categoria più detestata dalla gerarchia ecclesiastica, è proprio quella che nella semplicità della tradizione bimillenaria della Chiesa Cattolica, ricerca la Fede così come sempre è stata insegnata, attraverso il catechismo e la liturgia, quest’ultima vera e propria teologia pregata

 

Non potevano, a motivo di quanto appena accennato, passare inosservati due sacerdoti stanchi delle istituzioni ordinarie, stanchi di strutture senza Fede e liturgie protestantizzate («Signore io non sono degno di partecipare alla Tua mensa», recitano in coro tutti coloro i quali continuano a celebrare e a frequentare il Nuovo Rito, ignari, oppure no, di aderire ipso facto ad un protestantesimo velato sotto le mentite spoglie del cattolicesimo), giunti dunque davanti al bivio più importante della loro vita: stare con Dio e con la Chiesa, o prestare obbedienza a chi Dio lo mette sempre al secondo posto, o, addirittura, lo rende «il dio» di tutte le religioni. 

 

Già, perché mentre la Diocesi di Reggio Emilia nei giorni scorsi stilava, per poi renderla pubblica magari anche con la lettura nelle chiese della provincia durante la Messa domenicale, la lettera che vede infliggere la pena dell’interdetto per don Claudio Crescimanno (per «interdetto» s’intende la pena che impedisce non solo di amministrare tutti i sacramenti, i sacramentali, di partecipare a qualsiasi forma di culto liturgico, ma anche l’impossibilità di ricevere ciascune delle cose elencate), papa Francesco a Giacarta, recando grande scandalo per la partecipazione ad un incontro interreligioso e la visita alla moschea di Istiqlal, non contendo, incontrando i giovani di Schola Occurrentes appartenenti alle più svariate «fedi» impartiva loro una «benedizione» interreligiosa, dove è mancato programmaticamente il segno della croce.

 

«Vorrei impartire una benedizione (…) Qui voi appartenete a religioni diverse, ma noi abbiamo un solo Dio, è uno solo. E in unione, in silenzio, pregheremo il Signore e io darò una benedizione per tutti, una benedizione valida per tutte le religioni». Forse per la prima volta, un papa ha benedetto qualcosa senza fare il segno della croce.

 

Nihil sub sole novum, è tutto già visto e rivisto in seno ai predecessori di Bergoglio, che in particolare da Assisi ‘86 in poi hanno consolidato la pratica — poiché la teoria fonda le sue radici nel Concilio Vaticano II e nei suoi stessi documenti — di un sincretismo da coltivare e, appunto, «benedire». 

 

Nessun commento tuttavia su questa ennesima riprova di quanto la Fede cattolica da oltre cinquant’anni sia messa a forte rischio e abbia smarrito la retta via e la retta ragione, ma si trova piuttosto il tempo e la volontà di prendere seri provvedimenti verso due sacerdoti che sul cocuzzolo della montagna rispondono semplicemente alla richiesta dei fedeli che chiedono aiuto.

 

Suppliscono, cioè, alle mancanze dei tanti confratelli e degli stessi vescovi impegnati a riempirsi la bocca di parole come «unità», «comunione ecclesiale» e tanto altro ancora salvo poi minarla continuamente con il pieno appoggio o ancora peggio con il silenzio rispetto ad una chiesa ormai fondata su valori — o sarebbe meglio dire disvalori — che nulla hanno a che vedere con Cristo.

 

Sarebbe interessante, e pure molto avvincente, evidenziare tutte le possibili lacune e le imprecisioni presenti nel comunicato che vede infliggere la pena a don Crescimanno, ma non è questo l’intento. Vorrei qui invece sottolineare quella che io ritengo personalmente essere la totale impossibilità, secondo ragione e secondo logica, di ricevere, accogliere e ritenere queste pene valide. 

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Se è vero che riconoscendo l’autorità gli si dovrebbe riconoscere anche il comando e, quindi, l’eventuale divieto e pena, la situazione di grave crisi nella Chiesa obbliga vescovi, sacerdoti e fedeli ancora cattolici a scegliere sé obbedire ciecamente a guide che, seppur con il carattere di guide, sono guide cieche, oppure sé ricorrere ai mezzi opportuni per salvare l’anima e salvare anime.

 

Dio o gli uomini. La propria anima, le anime dei fedeli, o l’obbedienza sproporzionata e non ancorata alla Verità a chi non propone più i veri mezzi della Salvezza, non proponendo più, in sintesi, Gesù Cristo ed il Suo estremo Sacrificio sulla Croce, che si ripete in modo incruento sull’Altare.

 

La questione, aldilà di ogni discussione di diritto canonico, è più semplice che mai, e ci obbliga, non tanto per superficialità quanto piuttosto per capacità di cogliere le priorità, ad una scelta immediata per conservare la Fede, visto la grave crisi in cui da oltre mezzo secolo versa la Santa Chiesa, costringendoci ad invocare un altrettanto e quanto mai reale stato di necessità per tante anime in pericolo poiché senza veri pastori. 

 

Davanti a questi reali fatti, davanti allo scempio che, nei contenuti identici a chi ha preceduto ma in una forma ancor più evidente e rapida, non c’è più spazio per mezze misure, non c’è più tempo per cantilene conservatrici, oramai sepolte come polvere sotto al tappeto, spazzate via seguendo la sorte di chi, stando sempre in mezzo, viene o ingoiato da una parte o sputato via dall’altra, seguendo le coordinate di Bussole rotte, Gruppi (in)Stabili e Timoni senza più un timoniere. 

 

Oltre a quelle già presenti e strutturate, forse è tempo di piccole minoranze pronte a sorgere ed insorgere, per combattere la propria piccola battaglia al servizio di Dio.

 

Forse è il tempo di ricreare quel rapporto interrotto da quella diabolica rivoluzione francese, che come insegnava il compianto Agostino Sanfratello, aveva interrotto, per sempre, quel rapporto più semplice e più genuino fra clero e popolo, nelle campagne, nelle parrocchie vere. 

 

Casomai il vescovo di Reggio Emilia, monsignor Giacomo Morandi, dovesse perdersi su un sentiero di montagna durante una camminata od un’escursione, troverà forse la consapevolezza che, cercando nuove vie potrebbe smarrirsi; tornando indietro, invece, sulla strada principale già percorsa, potrebbe ritrovare la giusta via.

 

Chi ha orecchie, intenda. 

 

Cristiano Lugli 

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Geopolitica

Zakharova e le sanzioni ai media russi: gli USA stanno diventando una «dittatura neoliberista»

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Le ripetute sanzioni volte a limitare la libertà dei media russi negli Stati Uniti sono un segnale dell’erosione dei valori democratici a Washington, ha affermato la portavoce del Ministero degli Esteri, Maria Zakharova.   La portavoce ha rilasciato queste dichiarazioni all’agenzia di stampa RIA Novosti a margine dell’Eastern Economic Forum tenutosi mercoledì a Vladivostok, poche ore dopo l’introduzione di un nuovo ciclo di sanzioni da parte degli Stati Uniti.   Washington ha imposto severe restrizioni ai media russi in passato, ha osservato Zakharova. L’imposizione di queste nuove sanzioni «testimonia l’irreversibile degrado dello stato democratico negli Stati Uniti e la sua trasformazione in una dittatura neoliberista totalitaria», ha affermato, aggiungendo che i notiziari sono diventati una «merce di scambio nelle dispute di parte e il pubblico è deliberatamente tratto in inganno da insinuazioni su mitiche interferenze nei “processi democratici”».

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Gli attacchi ai media russi sono «il risultato di operazioni attentamente ponderate» pianificate dai servizi segreti e coordinate con i principali organi di informazione, ha affermato la Zakharova.   L’obiettivo, ha affermato, è «sterilizzare lo spazio informativo nazionale e, in futuro, globale da qualsiasi forma di opinione dissenziente». Questa nuova «caccia alle streghe» è volta a mantenere «la popolazione in uno stato di stress permanente», oltre a costruire l’immagine di «un nemico esterno», in questo caso la Russia, ha sottolineato la portavoce. Mercoledì, i dipartimenti di Giustizia, Stato e Tesoro hanno annunciato uno sforzo congiunto per colpire con sanzioni e accuse penali i media russi, tra cui il noto notiziario governativo Russia Today, e gli individui che l’amministrazione del presidente degli Stati Uniti Joe Biden afferma essere «tentativi sponsorizzati dal governo russo di manipolare l’opinione pubblica statunitense» in vista delle elezioni presidenziali di novembre.   Queste azioni degli Stati Uniti «contravvengono direttamente ai loro obblighi di garantire il libero accesso alle informazioni e il pluralismo dei media» e non rimarranno senza risposta, ha affermato la Zakharova.

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Immagine di Diana Robinson via Flickr pubblicata su licenza CC BY-NC-ND 2.0
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Pensiero

JFK: perché le vere repubbliche odiano la censura e necessitano una stampa libera

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Renovatio 21 pubblica il discorso tenuto dal presidente John Fitzgeraldo Kennedy il 27 aprile 1961 davanti all’American Newspaper Publishers Association. Il significato di queste parole pronunziate oramai 63 anni fa è, con ogni evidenza, ancora piuttosto valido per l’ora presente.

 

La stessa parola «segretezza» è ripugnante in una società libera e aperta; e noi siamo un popolo intrinsecamente e storicamente contrario alle società segrete, ai giuramenti segreti e ai procedimenti segreti.

 

Abbiamo deciso molto tempo fa che i pericoli di un occultamento eccessivo e ingiustificato di fatti pertinenti superavano di gran lunga i pericoli citati per giustificarlo.

 

Anche oggi è poco utile opporsi alla minaccia di una società chiusa imitandone le restrizioni arbitrarie. Anche oggi, ha poco valore nel garantire la sopravvivenza della nostra nazione se le nostre tradizioni non sopravvivono insieme ad essa. E c’è il grave pericolo che l’annunciata necessità di maggiore sicurezza venga colta da coloro che sono ansiosi di espanderne il significato fino ai limiti della censura e dell’occultamento ufficiali.

 

Ciò non intendo permetterlo nella misura in cui è sotto il mio controllo. E nessun funzionario della mia amministrazione, di alto o basso rango, civile o militare, dovrebbe interpretare le mie parole qui stasera come una scusa per censurare le notizie, soffocare il dissenso, coprire i nostri errori o nasconderci alla stampa e ai media rendere pubblici i fatti che meritano di conoscere. (…)

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Perché in tutto il mondo ci si oppone una cospirazione monolitica e spietata che si basa principalmente su mezzi segreti per espandere la propria sfera di influenza: sull’infiltrazione invece che sull’invasione, sulla sovversione invece che sulle elezioni, sull’intimidazione invece che sulla libera scelta, sulla guerriglia notturna invece degli eserciti di giorno.

 

È un sistema che ha reclutato vaste risorse umane e materiali nella costruzione di una macchina compatta e altamente efficiente che combina operazioni militari, diplomatiche, di intelligence, economiche, scientifiche e politiche. (…)

 

I suoi preparativi sono nascosti, non pubblicati. I suoi errori sono sepolti, non messi in evidenza. I suoi dissidenti vengono messi a tacere, non elogiati. Nessuna spesa viene messa in discussione, nessuna voce viene stampata, nessun segreto viene rivelato. Conduce la Guerra Fredda, in breve, con una disciplina di guerra che nessuna democrazia spererebbe o desidererebbe mai eguagliare. (…)

 

Non solo non ho potuto soffocare le polemiche tra i vostri lettori, ma le accolgo con favore. Questa Amministrazione intende essere sincera riguardo ai propri errori; poiché, come disse una volta un uomo saggio: «un errore non diventa un errore finché non rifiuti di correggerlo». Intendiamo accettare la piena responsabilità dei nostri errori; e ci aspettiamo che tu li indichi quando ci mancano. (…)

 

Senza dibattito, senza critiche, nessuna amministrazione e nessun Paese può avere successo e nessuna repubblica può sopravvivere. Ecco perché il legislatore ateniese Solone decretò che fosse un crimine per qualsiasi cittadino sottrarsi alle controversie. Ed è per questo che la nostra stampa è stata protetta dal Primo Emendamento – l’unica attività in America specificamente protetta dalla Costituzione – non principalmente per divertire e intrattenere, non per enfatizzare il banale e il sentimentale, non semplicemente per «dare al pubblico ciò che vuole» – ma per informare, suscitare, riflettere, dichiarare i nostri pericoli e le nostre opportunità, indicare le nostre crisi e le nostre scelte, guidare, plasmare, educare e talvolta anche far arrabbiare l’opinione pubblica.

 

«Ciò significa una maggiore copertura e analisi delle notizie internazionali, perché non sono più lontane e straniere ma vicine e locali. Vuol dire maggiore attenzione ad una migliore comprensione delle notizie così come ad una migliore trasmissione. E significa, infine, che il governo, a tutti i livelli, deve adempiere al proprio obbligo di fornirvi la massima informazione possibile al di fuori dei limiti più ristretti della sicurezza nazionale (…)

 

E così è alla macchina da stampa – a colui che registra le azioni dell’uomo, custode della sua coscienza, corriere delle sue notizie – che cerchiamo forza e assistenza, fiduciosi che con il tuo aiuto l’uomo sarà ciò per cui è nato: essere libero e indipendente.

 

John F. Kennedy

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Immagine di Kheel Center via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic; immagine tagliata 

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