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Renovatio 21 recensisce Squid Game

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Spinti da lettere di lettori che si interrogano sulla simbologia del calamaro – testé dichiarato da Renovatio 21 personaggio dell’anno – pubblichiamo, con colpevole ritardo una recensione di Squid Game, la serie più seguita del 2021. Di certo, Squid Game (tradotto, il «giuoco della seppia») non ha molto a che fare con il calamaro sanguigno e il suo attuale dominio occulto sul mondo, tuttavia nella serie sono enunciate molte cose interessanti, sempre riguardo al dominio del mondo, allo sterminio degli uomini, alle élite crudeli e mascherate, alla fine della dignità umana. 

 

 

Squid game, la serie Netflix coreana dove un manipolo di persone indebitate e irrisolte competono in gare mortali per un premio in denaro, è senza dubbio la serie dell’anno. Più di 110 milioni di visualizzazioni solo il primo mese di programmazione sono una cifra piuttosto importante, che indica che l’opera può aver toccato qualche corda sensibile negli spettatori di ogni Nazione terrestre.

 

La serie è riuscita a diventare un fenomeno planetario nonostante degli handicap specifici come la lingua – ancora più ostica all’orecchio dello spettatore globale di quella giapponese – e soprattutto la recitazione coreana, dove i personaggi sono sempre sopra o sotto le righe, o troppo verbosi e (apparentemente) monodimensionali, o troppo silenziosi e opachi.

 

Squid Game è già assurta allo status di fenomeno iconico. I «soldati» incappucciati vestiti di rosa con maschere minimali (sul volto solo un triangolo, o un quadrato, o un cerchio: un segno gerarchico e al contempo uno dei segni che i bambini di Corea tracciano a terra quando fanno il «gioco della seppia») sono diventati i più gettonati di questo secondo Halloween pandemico. Si sprecano in tutto il mondo le preoccupazioni di scuole e genitori per l’identificazione dei ragazzi con un mondo di violenza gratuita ed estrema.

 

 

Da Arancia Meccanica a Parasite a Squid Game, via Carlo Marx

Niente di nuovo sotto il sole: anche per Arancia Meccanica fu così: la crudeltà «ultraviolenta» dei drughi – anche lì, individui mascherati – era uno shock per lo spettatore appena emerso dagli anni Sessanta, il quale aveva addosso magari gli ancora più rassicuranti anni Cinquanta.

 

Tuttavia, nel capolavoro di Kubrick tratto dal romanzo di Anthony Burgess la violenza usciva dai figli nichilisti della piccola borghesia paraproletaria. In Squid Game, invece, la violenza è sì perpetrata (o anche: autoperpetrata) dalla classe inferiore della società, ma anche organizzata – con voluttà terrificante – dalla classe dominante.

 

A mascherarsi non sono i poveri teppisti. Sono i membri di un’élite transnazionale miliardaria, le cui origini (a parte i coreani, ci sono americani? C’è un britannico? Un russo? Un cinese?) e le cui perversioni possiamo solo cercare di inferire.

 

In molti, come l’opinionista conservatore americano Ben Shapiro, hanno tentato di dare una spiegazione marxista di Squid Game, che sarebbe quindi poco più che un granguignolesco promemoria della lotta di classe nel XXI secolo.

 

Molti saranno d’accordo: del resto, è stato detto da varie parti, si tratta di una mistura assai riuscita di due possibili ingredienti, il film di culto giapponese (con Takeshi Kitano) Battle Royale – dove si immaginava una società dove una classe di studenti si doveva combattere su di un’isola (Hunger Games ha, di fatto, copiato, sì) – e il film rivelazione del 2019, il coreano Parasite, premiato con vari Oscar più o meno meritati.

 

Parasite, venne notato, era una sorta di acidissima commedia horror sul concetto caro al nuovo politicamente corretto vigente in USA: l’equality. Cioè la parità, le eque opportunità tra le persone che sembrano essere scomparse tra gruppi e classi sociali.

 

Tuttavia, vorremmo qui parlare di tutt’altro. Fare un discorso più oscuro, meno intellettuale. Squid Game può possedere significati che vanno al di là di quelli che si hanno con la mera analisi sociologica.

 

E se ci fosse qualcosa di più reale, e di più spaventoso, di Carlo Marx e dei suoi epigoni dietro a questo successo mondiale?

 

I significati generali che si traggono dalla serie vanno ben oltre le questioni di classe. La popolazione è numerata, sottomessa, e ha rinunciato alla democrazia una volta per tutte.

 

In Squid Game, il popolo è infantilizzato, anche contro la sua volontà: i giuochi di morte sono giuochi per bambini, e l’oggetto agognato è questo enorme maialino salvadanaio che vale il ritiro per sempre dalla classe lavoratrice.

 

Il popolo è ingannato da una élite superiore con la promessa dell’arricchimento materiale.

 

Tutto il resto è sangue e barbarie. Potere, comando, sacrificio umano.

 

 

L’élite rivelata dai simboli di Squid Game

Lo schema di costruzione della società moderna è illustrato già nei primi secondi, quando vediamo dall’alto il campo del gioco della seppia. Il quadrato può rappresentare la massa della popolazione generica, il triangolo che lo sovrasta è l’élite.

 

I due cerchi segnano in alto il vertice della classe dirigente che si ritrova ad organizzare e a consumare lo spettacolo genocida e, chiralmente, la parte più bassa della società, quella dei disperati e degli indebitati oltre ogni possibilità di riscatto.

 

Notate come gli stessi segni, che sembrano pulsanti della Playstation, siano riprodotti nelle maschere dei guardiani armati. E ognuna di queste forme rappresenta, pare di capire, un segno nella gerarchia del piccolo esercito fucsia.

 

 

Sacrificio umano, per sport

Il fatto che l’élite sia coinvolta in sacrifici umani organizzati non è una novità per la storia umana: potete pensare alle civiltà precolombiane, magari ripassando Apocalypto, per capire come ciò fosse in realtà la norma, prima della fine delle uccisioni rituali sancita dal Cristianesimo (che in Squid Game è puntualmente sbeffeggiato).

 

Negli anni ‘20 vi fu un racconto, e un film, dal titolo Most Dangerous Game che narrava di un nobile russo che cacciava esseri umani per sport. Il tema è stato ripreso numerose volte nella cinematografia americana, sia in alto che in basso. Dal grande classicone zona Italia 1 American Ninja (1985) al John Woo di Senza Tregua (1993). Per finire con il capolavoro disgraziato (linciato a scatola chiusa, rilasciato in ritardo e fatto sparire subito), politicamente ultra-divisivo ma a modo suo perfetto, The Hunt (2020). Satira superba della polarizzazione sociopolitica cristallizzata ora in USA, dove un gruppo di liberali ultra politicamente corretti rapisce una dozzina di americani medi, tendenzialmente conservatori ed elettori di Trump – in una parola, anche usata nel film, «deplorables» – per cacciarli nel modo più belluino. Essi avevano osato far commenti inappropriati sui social media.

 

Solo finzione? No.

 

Austriaci e tedeschi ricordano sommessamente il cosiddetto Massacro di Rechnitz. Nella notte tra il 24 e il 25 marzo 1945, una domenica delle Palme, a Rechnitz, in Austria, si tenne una festa al castello di Margit von Batthyány, figlia di Heinrich Thyssen-Bornemisza, della famiglia delle acciaierie e delle crapulose megacollezioni d’arte. L’Armata Rossa era vicina, in dieci giorni avrebbe raggiunto il luogo, tutti lo sapevano. Così, al festone dove erano invitati vari dirigenti delle SS e della Gioventù hitleriana, verso la mezzanotte fu offerta una speciale iniziativa: l’uccisione di lavoratori forzati ebrei ungheresi, portati al castello per la bisogna.

 

Ne uccisero quasi due centinaia. Si distinsero un capo nazista e il direttore del castello, che forse era amante della contessa.

 

Squid Game non è fantascienza. Proprio no.

 

 

Squid Game e l’illusione della democrazia

I partecipanti del gioco sono deumanizzati, numerati, disorientati, tribalizzati. Tuttavia, un colpo di scena di non poco conto è quando si apprende che hanno una concreta possibilità di fuga: il voto democratico.

 

È una delle regole fondamentali che vengono declamate immediatamente, prima che si proceda al primo, sorprendente massacro. Se la maggioranza decide di smettere di giocare, tutti a casa. Bisogna aspettare l’ultimo episodio per capire che anche questa regola è, in fondo, truccata.

 

Così come è forte l’impatto della rivelazione del coinvolgimento nel gioco di forze di polizia, e quindi non solo dell’establishment finanziario internazionale.

 

Qui sta il pensiero più crudele inferto dalle élite al popolo: essi sulla carta hanno scelta, sono liberi. In realtà, tutto è preparato al fine di ottenere qualcosa di silenzioso e preziosissimo: la sottomissione, l’accettazione di qualsiasi privazione, qualsiasi comando, qualsiasi aberrazione, orrore, peccato, delitto.

 

L’illusione della democrazia è lo strumento con cui l’élite ottiene la piena adesione del cittadino alle sue architetture ingiuste e disfunzionali. La democrazia è la conditio sine qua non per il Teatro delle Crudeltà dell’élite perversa e inarrivabile. Senza democrazia, pare dire la serie, essi non avrebbero il potere di cui godono. Democrazia e oligarchia sono interrelate: la prima è solo la maschera, la crosta della seconda. Di mezzo, gente in divisa armata.

 

 

Infantilizzare e corrompere

Alcuni hanno notato che l’infantilizzazione dei partecipanti allo Squid Game, costretti a giocare ai giochi popolari tra i bambini coreani, rappresenta la volontà, più che di infantilizzare la popolazione, di corrompere l’idea stessa di infanzia.

 

Particolarmente disturbanti sono le bare a forma di regalo. Da una parte, esse portano verso l’idea orrenda della morte violenta come gioco d’infanzia.

 

Tale idea è anticipata nel primo episodio, quando il protagonista dà a sua figlia un regalo che contiene, per isbaglio, una pistola-accendino.

 

Dall’altra le bare-regalo sottolineano la dimensione dell’offerta religiosa – il sacrificio umano per compiacere gli dèi, che in questo caso sono i ricconi mascherati che si godono lo spettacolo tra champagne e gozzoviglie omoerotiche.

 

Non è priva di significato la menzione del traffico di organi di cadaveri operato di nascosto dagli stessi «secondini» del gioco. Con lo squartamento e il commercio di parti di essere umano ancora vivente si toccano abissi di corruzione della dignità umana che non sono sconosciuti dal mondo reale, dove il traffico di organi esiste eccome – ne è stato accusato il presidente di un Paese limitrofo, il kosovaro Hashim Thaci.

 

È lapidario, nella serie, il disprezzo delle élite per i morti: fatene quello che volete di quegli organi, dice ad un certo punto Front Man, il gestore del sistema di gioco. Potete anche mangiarveli per quanto mi riguarda… ma non turbate il disegno sottostante alla competizione. Non alterate il gioco dei potenti.

 

 

Il simbolismo massonico in Squid Game

Discutere di élite occulta e non parlare di massoneria sarebbe come parlare del caviale senza spendere una parola sul Beluga. I figli della vedova (li chiamano anche così), la «setta verde» (la chiamano anche così), nella serie coreana? Ebbene sì.

 

Nel penultimo episodio il riferimento è assai preciso: i sopravvissuti mangiano su un enorme tavolo triangolare (la piramide cara ai «liberi muratori» – si chiamano anche così) adagiato su un pavimento a scacchi (immancabile nelle logge dei grembiulisti – li chiamiamo noi così) con piazzate ben visibili due colonne: sono possibilmente Boaz e Yakin, le due colonne ricorrenti nell’architettura dei templi massonici, riconducibili alle colonne del Tempio di Salomone costruito dalla figura immaginaria Hiram Abif, un personaggio centrale del mito massonico.

 

Il lettore dirà: la massoneria in Corea? Machedaverodavero? Ebbene sì, anzi, diremo di più: la massoneria in Nord Corea pure. Si inseguono da anni dicerie sull’appartenenza del caro leader Kim Il-Sung al club squadra e compasso. Lo si accusò su giornali locali liguri, addirittura, di aver il simbolo della P2 inciso sul suo «trono» – per quanto vi possa sembrare allucinante, questa polemica è esistita veramente, perché le voci, nei circoli del PCI, giravano veloci.

 

Di certo, Kim e suo figlio vedevano con simpatia certi nostri connazionali molto chiacchierati, uniche figure al mondo che potevano dire di avere un pied-à-terre a Pyongyang. Non facciamo nomi.

 

 

Maschera e potere

Tuttavia, vi sono altri riferimenti visivi che connettono a cose già viste, o intraviste, dal pubblico occidentale. Su tutto, le maschere.

 

Maschere animali apparvero ad un party entrato nella leggenda, quello dato dalla famiglia Rothschild a Parigi nel dicembre 1972. Molti degli invitati sono ancora riconoscibili. Per esempio l’immancabile Salvador Dalì, per esempio la baronessa anglo-olandese Audrey Kathleen Ruston Hepburn – massì, quella di Colazione da Tiffany.

 

Questa cosa delle immagini dorate che si vedono in Squid Game, di fatto, ci ricordava qualcosa.

 

Tuttavia, è la questione delle maschere animali che può aver fatto fare clic nella mente di qualcuno che conosce l’episodio .In particolare, la più evidente, la maschera del cervo.

 

 

Il sito Vigilant Citizen ci piazza anche questa foto della vecchia Chiesa di Satana di Anton LaVey.

 

Come non ricordare, a questo punto, la profusione di maschere dell’élite ritualista di Eyes Wide Shut.

 

La maschera, anche nel capolavoro finale di Kubrick, rappresentava il potere definitivo dell’élite sul popolino. Il personaggio del dottor Harford (Tom Cruise), imbucato non iniziato, in una delle scene più disturbanti della pellicola viene obbligato a togliersi la maschera davanti a tutti gli iniziati mascherati.

 

La disuguaglianza tra chi può coprirsi il volto – magari con un’opera d’arte – e chi deve offrire alla luce il proprio volto è percepibile come la struttura stessa della società: chi comanda porta la maschera, perché chi comanda è invisibile.

 

Chi porta la maschera può umiliarti e perseguitarti, finanche ucciderti, o esigere comunque un tributo di sangue.

 

Perché il potere, ci dicono i potenti in maschera, è il potere di dare la morte – anche per giuoco, anche gratuitamente. E ancora più sommo, questo il pensiero più oscuro di Squid Game, è il potere di indurre nella vittima la scelta del suo stesso sacrifizio.

 

 

C’è un salto di qualità: l’élite mascherata di Kubrick non godeva, almeno durante le sue riunioni, della morte dei popolani, che anzi erano esclusi.

 

Il loro era, paradossalmente, la riformulazione di un arcano rito di fertilità – un’orgia da paganesimo antico (come quella descritta magnificamente da Andrej Tarkovksij nell’Andrej Rublev) dove però i volti noti della buona società possono conservare la propria reputazione; un’ammucchiata esoterica come quelle dei templi crowleyani visti in Strange Angel, serie di cui abbiamo parlato qui. Insomma, il Kubrick è un rito dell’Eros – mentre in Squid Game il rito è puro Thanatos, l’esercizio di una morte inferta anche solo per capriccio.

 

«Cumannari è megghiu ca futtiri» dice un famoso proverbio siciliano. L’élite mascherata di Kubrick fotteva, mentre il rito di Squid Game è un rito di morte come controllo assoluto. E di qui la questione dell’illusione democratica e dell’accettazione dell’orrore discussa sopra.

 

In realtà, Eyes Wide Shut doveva venirci in mente anche prima, perché la villa del rito orgiastico altro non è se non una casa di campagna del Barone Mayer de Rothschild. E mica vogliamo tirare in ballo questa povera famiglia come dei complottisti ossessi: non è colpa loro se finiscono ancora sui giornali per il Trattato del Quirinale appena firmato dal loro ex impiegato Emmanuel Macron e per la consulenza di loro advisor in dossier industriali e finanziari delicati tra Italia e Francia.

 

Vabbè, stiamo divagando.

 

 

«Ogni riferimento a cose o persone è puramente casuale»

Abbiamo perso di vista gli arredi del privé, dove ci sono tavolini e seggiole a forma di esseri umani. Anzi forse sono proprio esseri umani… donne piegate in modo innaturale… dove avevamo già visto questa cosa? Ah, sì, a casa dei Podesta, luogotenenti del potere clintoniano, appassionati di UFO e massimi lobbisti a Washington, dove curano, fra gli altri, gli interessi della famiglia reale saudita. I Podesta sono quelli che nelle mail trapelate nel 2016 venivano invitati alle riservatissime serate di «Spirit Cooking» dell’artista serba Marina Abramovic. Di cui ricordiamo ancora l’odoroso ammasso di ossa e di sangue nei sotterranei del Padiglione Italia della Biennale di Venezia 1997. L’opera si chiamava «Balcan Baroque», ma sul sangue e il suo aspetto «magico» la Abramovic ha lavorato anche nelle decadi successive. Coinvolgendo un grande numero di estimatori VIP.

 

Come dire, il materiale per dipingere un’élite oscura e perversa c’è tutto.

 

Come noto, i Podesta e la Abramovic giocarono un ruolo nella discreditata storia andata virale nel post-elezioni 2016, la leggenda metropolitana chiamata Pizzagate, dove si sospettava che una élite di potenti – quelli che alla fine pubblicano queste fotografie – compisse sacrifici di bambini nel seminterrato di una pizzeria della capitale USA. La storia accese gli animi ma dopo qualche mese perse quota. Emerse, di lì a poco, un’altra «serie» sull’élite assassina e cannibale, QAnon.

 

Un’idea, un movimento, una nuova religione «oracolare», una forma di intrattenimento seriale live di innovazione assoluta. Che ha mosso, per lo meno fino al gennaio 2021, decine di milioni di persone in tutto il mondo. (Di QAnon Mondoserie vi parlerà a breve per tramite di una irresistibile serie documentaria HBO uscita quest’anno, QAnon into the Labyrinth)

 

Non c’è da stupirsi se una serie come Squid Game finisca per valere, dati Netflix, qualcosa come 900 milioni di dollari.

 

È una storia che in tanti vogliamo sentirci raccontare. È una storia che, da qualche parte dentro di noi, possiamo perfino pensare che sia vera.

 

Avete presente la frase: «ogni riferimento a cose o persone è puramente casuale».

 

Vale anche per questo articolo.

 

 

 

 

Articolo previamente apparso su Mondoserie.it

 

 

 

Immagine screenshot da YouTube

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La Russia di Alessandro I e la disfatta di Napoleone, una lezione attuale

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Renovatio 21 ripubblica questo articolo comparso su Ricognizioni.

 

Ideatore della società filosofico-religiosa nella città di San Pietroburgo e della rivista «Novyj Put» (che tradotto significa «La via nuova»), padre riconosciuto del Simbolismo russo, Dmitrij Sergeevic Merežkovskij è stato uno dei più interessanti scrittori russi della prima metà del ‘900. Esule a Parigi dopo la Rivoluzione d’Ottobre, dove visse e morì nel 1941, spirito profondamente religioso passato anche per la massoneria durante il periodo zarista, viene finalmente tradotto e pubblicato in Italia dall’editore Iduna.

 

Lo Zar Alessandro I (pagine 450, euro 25) è un’avvincente biografia in forma di romanzo dello Zar che sfidò Napoleone, una figura leggendaria e romantica, uno dei più affascinanti personaggi della dinastia dei Romanov.

 

Il libro è stato curato da Paolo Mathlouthi, studioso di cultura identitaria, che per le case editrici Oaks, Iduna, Bietti ha curato già diversi volumi in cui ha indagato il complesso rapporto tra letteratura e ideologia lungo gli accidentati percorsi del Novecento, attraverso una serie di caustici ritratti dedicati alle intelligenze scomode del Secolo Breve. Ricognizioni lo ha intervistato.

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Paolo Mathlouthi, lei ha definito questo romanzo un’opera germogliata dalla fantasia titanica ed immaginifica di Merežkovskij. Cosa significa?

In una celeberrima intervista rilasciata nel 1977 ad Alberto Arbasino che, per spirito di contraddizione, lo incalzava sul tema del realismo, ipnotico mantra di quella che allora si chiamava cultura militante, Jorge Luis Borges rispondeva lapidario che la letteratura o è fantastica oppure, semplicemente, non è. «Il realismo – precisava – è solo un episodio. Nessuno scrittore ha mai sognato di essere un proprio contemporaneo. La letteratura ha avuto origine con la cosmogonia, con la mitologia, con i racconti di Dèi e di mostri».

 

La scellerata idea, oggi tanto in voga, che la scrittura serva a monitorare la realtà, con le sue contraddizioni e i suoi rivolgimenti effimeri è una stortura, una demonia connaturata al mondo moderno. Merezkovskij si muove nello stesso orizzonte culturale e simbolico tracciato da Borges. Sa che è la Musa a dischiudere il terzo occhio del Poeta e ad alimentare il sacro fuoco dell’ispirazione. Scrivere è per lui una pratica umana che ha una strettissima correlazione con il divino, è il riverbero dell’infinito sul finito come avrebbe detto Kant, il solo modo concesso ai mortali per intravedere Dio.

 

Erigere cattedrali di luce per illuminare l’oscurità, spargere dei draghi il seme, «gettare le proprie arcate oltre il mondo dei sogni» secondo l’ammonimento di Ernst Junger: questo sembra essere il compito gravido di presagi che lo scrittore russo intende assegnare al periglioso esercizio della scrittura. Opporre alle umbratili illusioni del divenire la granitica perennità dell’archetipo, attingere alle radici del Mito per far sì che l’Eterno Ritorno possa compiersi di nuovo, a dispetto del tempo e delle sue forme cangianti.

 

Merezkovskij si è formato nell’ambito della religiosità ascetica e manichea propria della setta ortodossa dei cosiddetti Vecchi Credenti, la stessa alla quale appartiene Aleksandr Dugin. Una spiritualità, la sua, fortemente condizionata dal tema dell’atavico scontro tra la Luce e le Tenebre. Quello descritto da Merezkovskij nei suoi romanzi è un universo organico, un mosaico vivente alimentato da una legge deterministica che, come un respiro, tende alla circolarità. Un anelito alla perfezione, riletto in chiave millenaristica, destinato tuttavia a rimanere inappagato poiché la vita, nella sua componente biologica calata nel divenire, è schiava di un rigido dualismo manicheo non passibile di risoluzione.

 

L’esistenza, per Merezkovskij, è dominata dalla polarità, dal conflitto inestinguibile tra due verità sempre equivalenti e tuttavia contrarie: quella celeste e quella terrena, ovvero la verità dello spirito e quella della carne, Cristo e l’Anticristo. La prima si manifesta come eterno slancio a elevarsi verso Dio rinunciando a se stessi, la seconda, al contrario, è un impulso irrefrenabile in senso inverso teso all’affermazione parossistica del propria volontà individuale.

 

Queste due forze cosmiche, dalla cui costante interazione scaturisce il corretto ordine delle cose, sono in lotta tra loro senza che mai l’una possa prevalere sull’altra.

 

Cielo e terra, vita e morte, libertà e ordine, Dio e Lucifero, l’uomo e le antinomie della Storia, l’Apocalisse e la funzione salvifica della Russia: come in uno scrigno, ecco racchiusi tutti i motivi fondanti del Simbolismo russo, gli stessi che il lettore non avrà difficoltà a rintracciare nella vita dell’illustre protagonista di questa biografia.

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Chi era veramente Alessandro I?

La formazione liberale ricevuta in gioventù dal precettore ginevrino Frédéric Cesar Laharpe, messogli accanto dalla nonna Caterina II perché lo istruisca sull’uso di mondo, diffonde tra i membri della corte, sempre propensi alla cospiratoria maldicenza, la convinzione che Alessandro sia un debole, troppo innamorato di Voltaire e Rousseau per potersi occupare dell’Impero con il necessario pugno di ferro.

 

Mai giudizio è stato più malriposto. Se la Russia non è crollata sotto l’urto della Grande Armée lo si deve innanzitutto alle insospettabili attitudini al comando rivelate dallo Zar di fronte al pericolo incombente. I suoi dignitari hanno in tutta evidenza sottovaluto la lezione di cui Alessandro I ha fatto tesoro durante gli anni trascorsi nella tenuta di Gatcina dove il padre Paolo I, inviso alla Zarina che lo tiene lontano dagli affari di governo, impone al figlio una rigida educazione di tipo prussiano: la vita di caserma con i suoi rigori e le sue privazioni, le marce forzate e la pratica delle armi fortificano il principe nel corpo e gli offrono l’opportunità di riflettere sulla reale natura del ruolo che la Provvidenza lo ha chiamato a ricoprire.

 

Matura in lui, lentamente ma inesorabilmente, la consapevolezza che le funamboliche astrazioni dei filosofi illuministi sono argomenti da salotto, utilissimi per intrattenere con arguzia le dame ma assai poco attinenti all’esercizio del potere e alle prerogative della maestà. La Svizzera e l’Inghilterra sono lontanissime da Carskoe Selo e per fronteggiare la minaccia rappresentata da Napoleone e impedire che l’Impero si frantumi in mille pezzi, allora come oggi alla Russia non serve un Marco Aurelio, ma un Diocleziano.

 

Dopo la vittoria a Bordino contro le truppe di Napoleone, non ebbe indugi nel dare alle fiamme Mosca, la città sacra dell’Ortodossia sede del Patriarcato, la Terza Roma erede diretta di Bisanzio dove gli Zar ricevono da tempo immemorabile la loro solenne investitura, pur di tagliare i rifornimenti all’ odiato avversario e consegnarlo così all’ inesorabile stretta del generale inverno. Un gesto impressionante…

 

Senza dubbio. Merezkovsij fa propria una visione della vita degli uomini e dei loro modi (Spengler avrebbe parlato più propriamente di «morfologia della Civiltà») segnata in maniera indelebile dall’idea della predestinazione. Un amor fati che si traduce giocoforza in un titanismo eroico tale per cui spetta solo alle grandi individualità il compito di «portare la croce» testimoniando, con il proprio operato, il compimento nel tempo del disegno escatologico in cui si estrinseca la Teodicea.

 

Per lo scrittore russo lo Zar è il Demiurgo, appartiene, come l’Imperatore Giuliano protagonista di un’altra sua biografia, alla stirpe degli Dèi terreni, che operano nel mondo avendo l’Eternità come orizzonte. Nella weltanschauung elaborata da Merezkovskij solo ai santi e agli eroi è concesso il gravoso privilegio di essere l’essenza di memorie future: aut Caesar, aut nihil, come avrebbe detto il Borgia. Ai giganti si confanno gesti impressionanti.

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Lei ha visto una similitudine tra l’aggressione napoleonica alla Russia di Alessandro a quanto sta avvenendo oggi…

Lo scrittore francese Sylvain Tesson, in quel bellissimo diario sulle orme del còrso in ritirata che è Beresina. In sidecar con Napoleone (edito in Italia da Sellerio) ha scritto che «davanti ai palazzi in fiamme e al cielo color sangue Napoleone comprese di aver sottovalutato la furia sacrificale dei Russi, l’irriducibile oltranzismo degli slavi». Questa frase lapidaria suona oggi alle nostre orecchie quasi come una profezia.

 

Quando l’urgenza del momento lo richiede, il loro fatalismo arcaico, l’innato senso del tragico, la capacità di immolare tutte le proprie forze nel rogo dell’istante, senza alcuna preoccupazione per ciò che accadrà, rendono i Russi impermeabili a qualunque privazione, una muraglia umana anonima e invalicabile, la stessa contro la quale, un secolo e mezzo più tardi, anche Adolf Hitler, giunto alle porte di Stalingrado, avrebbe visto infrangersi le proprie mire espansionistiche. Identico tipo umano, stesso nemico, medesimo risultato. Una duplice lezione della quale, come testimoniano le cronache belliche di questi mesi, i moderni epigoni di Napoleone, ormai ridotti sulla difensiva e prossimi alla disfatta nonostante l’impressionante mole di uomini e mezzi impiegata, non sembrano aver fatto tesoro.

 

«Ogni passo che il nemico compie verso la Russia lo avvicina maggiormente all’Abisso. Mosca rinascerà dalle sue ceneri e il sentimento della vendetta sarà la fonte della nostra gloria e della nostra grandezza». Sono parole impressionanti quelle di Merežkovskij.

 

A voler essere pignoli questa frase non è stata pronunciata da Merezkovskij, ma da Alessandro I in persona, a colloquio con il Generale Kutuzov poco prima del rogo fatale. Dostoevskij ci ricorda che «il cuore dell’anima russa è intessuto di tenebra». Quanto più intensa è la luce, tanto più lugubri sono le ombre che essa proietta sul muro. Ai nemici della Russia consiglio caldamente di rileggere queste parole ogni sera prima di coricarsi…

 

A quali scrittori si sentirebbe di accostare Merežkovskij?

L’editoria di casa nostra, non perdonando allo scrittore russo il fatto di aver salutato con favore, negli anni del suo esilio parigino, il passaggio delle divisioni della Wehrmacht lungo gli Champs Elysées, ha riservato alle sue opere una posizione marginale, ma in Russia Merezkovskij è considerato un nume tutelare, che campeggia nel pantheon del genio nazionale accanto a Tolstoj e al mai sufficientemente citato Dostoevskij che a lui sono legati, come i lettori avranno modo di scoprire, da profonda, intima consanguineità.

 

Paolo Gulisano

 

Articolo previamente apparso su Ricognizioni.

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Immagine: Adolph Northen, La ritirata di Napoleone da Mosca (1851)

Immagine di pubblico dominio CCo via Wikimedia

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Microsoft vuole bandire le donne formose dai videogiuochi?

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Il colosso tecnologico statunitense Microsoft scoraggia l’utilizzo di figure  femminili eccessivamente formose nei videogiochi, secondo le linee guida aggiornate pubblicate martedì dalla società.   Nell’ambito della sua iniziativa di inclusività, Microsoft ha offerto agli sviluppatori un elenco di domande da considerare mentre lavorano sui loro prodotti per verificare se stanno rafforzando eventuali stereotipi di genere negativi.   La guida, denominata «Azione per l’inclusione del prodotto: aiutare i clienti a sentirsi visti», include vari stereotipi che il gigante dei giochi ritiene sia meglio tralasciare.   Secondo la guida, i progettisti di giochi dovrebbero verificare se non stanno introducendo inutilmente barriere di genere e dovrebbero assicurarsi di creare personaggi femminili giocabili che siano uguali in abilità e capacità ai loro coetanei maschi, e dotarli di abiti e armature adatti ai compiti.   «Hanno proporzioni corporee esagerate?» chiede la linea guida.

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I personaggi femminili svolgono un ruolo significativo nell’industria dei giochi e sono diventati i preferiti dai fan nel corso degli anni. Il capostipite della genìa è sicuramente Lara Croft, protagonista della fortunata serie Tomb Raider, che iniziò a spopolare negli anni Novanta sulla piattaforma della Playstation 1.   Il personaggio aveva come caratteristica fisica incontrovertibile seni straripanti, che la grafica dell’epoca rendeva grottescamente attraverso poligoni piramidali. Secondo un meme che circola su internet, tale grafica potrebbe essere alla base dell’enigmatico, estremista design della nuova automobile di Tesla, il Cybertruckko.       Di recente è emerso che esistono società di consulenza che portano le case produttrici di videogiochi a inserire elementi politicamente corretti nelle loro storie: più personaggi non-bianchi, gay, trans, più lotta agli stereotipi maschili – un vasto programma nel mondo dell’intrattenimento giovanile.   In un recente videogioco sono arrivati a dipingere una criminale parafemminista uccidere Batman.     L’incredibile sviluppo, lesivo non solo delle passioni dei fan ma propriamente del valore dell’IP (la proprietà intellettuale; i personaggi di film, fumetti e videogiochi questo sono, in termini legali ed economici) è stato letto come una dichiarazione di guerra del sentire comune, con l’esecuzione del Batmanno come chiaro emblema del patriarcato e della concezione del crimine come qualcosa da punire.   Sorveglia e punire: non l’agenda portata avanti negli USA dai procuratori distrettuali eletti con finanziamenti di George Soros, nelle cui città, oramai zombificate, ora governa il caos sanguinario e il disordine più tossico.

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Arte

No al Jazz. Sì al Dark Jazz

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In un mattino qualsiasi dello scorso anno scoprii l’esistenza della musica Dark Jazz, e mi piacque.

 

Intendiamoci: ritengo di per sé il jazz una musica incomprensibile, a tratti censurabile. Sono pronto già ora a scrivere un disegno di legge per impedire la nerditudine jazzistica qualora espressa in pubblico: avete presente, quei tizi che si mettono a tamburellare sillabando a parole ritmi indefinibili «da-pu-dapudada-puda-da-pu-da-pu», e non capisci se stanno mimando il piano, il sassofono, la chitarra, la batteria, il contrabbasso. A loro interessa solo fare «da-be-du-pu-dapudadeda-pudade-da-pu-da-pu-de», percuotendo qualsiasi superficie a portata, anche e soprattutto in assenza di musica di sottofondo.

 

A costoro non deve essere portato nessun rispetto, a costoro va usato il pugno di ferro di una legge con pene severissime per ogni «da-pu-dadepudada-depudade-dade-pude-da-pu-de-pu-dada» emesso in pubblico, e un pensiero andrebbe fatto anche per un divieto nelle case private.

 

I jazzomani sono un problema sociale che la Repubblica Italiana ha ignorato per troppo tempo. Sappiamo, anzi, che essi dilagavano anche sotto il fascismo, e uno degli untori della jazzomania italica fu il filosofo destroide Giulio Evola (1898-1974), che oggi non vogliam chiamare Julius, e ci chiediamo perché per tutti questi anni lo abbiano fatto gli altri.

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A questo punto un disclaimer, ché non salti fuori qualcuno che accusi di incoerenza: tanti anni fa partecipai, producendo videoproiezioni, ad uno dei grandi festival di Jazz siti in Italia, il cui direttore è l’amico compagno di giovanili scorribande eurasiatiche, in ispecie in Ucraina e Crimea, quando ancora era ucraina (ma le scritte NO NATO già v’erano). Proiettai immagini durante un omaggio a Piero Piccioni in un prestigiosissimo teatro del Nord; l’anno successivo invece lavorai alle proiezioni per un omaggio a Roman Polanski suonato dal polacco Marcin Wasilewski – è fu un concerto estivo stupendo, struggente, emozionante.

 

Ciò detto, basta col jazz. Basta soprattutto con i suoi appassionati e la loro aria di superiorità morale stile lettore di Repubblica in era berlusconiana.

 

Basta con quelli capaci di parlarti per ore di Carlo Parker, Duca Ellington, Miles Davis, Dizzy Gillespy – senza darti nemmeno il tempo di intervenire per protestare che di tutto l’esercito di geni afroamericani a te non te ne frega niente.

 

A costoro vorremmo poter ricordare l’immortale scena di Collateral (2004), dove al tizio saputo che racconta con boria flemmatica un retroscena della storia del Jazz, il brizzolato killer interpretato da Tom Cruise pianta una serie di pallottole in fronte.

 

 

Vabbè, così è un po’ esagerato. Però ebbasta. Eddai. No Jazz. No «da-pu-dabe-dedu-pude-dapudadeda-dapude-da-pu-da-pu-dadeda».

 

Purtuttavia, siamo pronti a riconoscere che va ammessa l’attenuante per chi il jazz lo suona: il musicista jazzo, va riconosciuto, sa suonare, anzi, ha di solito pure studiato, e non poco. Anzi a questo punto osanniamo anche il capolavoro cinematografico Whiplash (2024) per aver raccontato in modo magistrale i dolori che questi artisti devono affrontare.

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È quindi con estrema sorpresa che, quel giorno dello scorso anno, abbiamo ricevuto dall’algoritmo di YouTube (lo stesso che censura i video di Renovatio 21, pure quelli privati) il suggerimento di ascoltare questa misteriosa compilation di Dark Jazz.

 

Potete farlo anche voi. Noi ne siamo rimasti affascinati parecchio.

 

 

Sentite le atmosfere? Sì, sembrano antiche, ti pare di essere in un film noir del primo Novecento, o forse no – i noir hollywoodiani non mettevano il jazz – sei nella percezione del Noir che si aveva negli anni Novanta, come in un film di Davide Lynch, ma più definito, anche se sempre altamente inquietante, ambiguo, agrodolce. Il fantasma di Badalamenti, il compositore non il capo-mafia, aleggia su tutto.

 

O forse, si tratta solo di un riflesso presente, un riflesso di noi? Si tratta degli anni 2020, che guardano agli anni Novanta, che andavano indietro di mezzo secolo?

 

Non lo sappiam, ma ci gusta, e anche molto.

 

Abbiamo così compreso che si tratta di un genere, anche se non ancora catalogato ufficialmente. Altri nomi possono essere usati per la categoria, come «Doom Jazz», «Jazz Noir», persino «Horror Jazz»…

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Per orientarsi, bisogna compulsare i forum, dove altri come me hanno notato l’esistenza del genere, e cercano suggerimenti.

 

Consigliano, ad esempio, il Zombies Never Die Blues dei Bohren & der Club of Gore, un gruppo tedesco della Ruhr fondato nel 1988 che, partito dal Metal e dall’Hardcore, è considerato il capostipite del genere.

 

 

Salta fuori in gruppo che si chiama Free Nelson Mandoomjazz.

 

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Da segnalare assolutamente il Lovecraft Sextet, con la loro musica dedicata all’«orrore cosmico» di cui scriveva il solitario autore di Providence che inventò Chtulhu.

 

 

 

Kilimanjaro Dark Jazz Ensamble, Non Violent Communication, Asunta e Hal Willner sono gli altri grandi nomi citati per il genere. E ancora, i russi Povarovo, i neoeboraceni Tartar Lamb, i tedeschi Radare e Taumel, gli italiani Senketsu No Night Club, Macelleria Mobile di Mezzanotte e Detour Doom Project, i progetti che raccolgono australiani, italiani e messicani come Last Call at Nightowls.

 

Insomma tanta roba da ascoltare, specie quando si sta facendo dell’altro.

 

C’è sempre tempo per ricredersi su una cosa. Tuttavia, sul jazz in generale, resto sulle mie posizioni: subito una legge per proibire il jazzomanismo, ma con un emendamento per salvare il Dark Jazzo.

 

No?

 

Roberto Dal Bosco

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