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Storia

La vera storia dei Fratelli Musulmani, il gruppo islamista che ha generato Hamas

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Renovatio 21 pubblica su gentile concessione dell’autore William F. Engdahl il VI capitolo del suo libro The Lost Hegemon — Whom the Gods Would Destroy… («L’egemone perduto: chi gli dei vorrebbero distruggere»). La comprensione delle origini della Fratellanza Musulmana – il movimento prototipo di tutto l’islamismo contemporaneo, terrorista o meno – è più che mai necessaria: Hamas, l’organizzazione che controlla la striscia di Gaza, è nata durante la prima Intifada come ramo operativo palestinese dei Fratelli Musulmani nei campi profughi. La Fratellanza era già presente nella Striscia di Gaza a fine anni Sessanta, e dopo vari passaggi attraverso associazioni islamiche nel 1987 creò un braccio combattente chiamato Hamas. Nel 2017 Hamas ha preso le distanze dai Fratelli Musulmani. Non sappiamo, tuttavia, quanti dei legami tra islamismo e occidente discussi in questo testo siano ancora attivi. 

 

Da Monaco alle steppe sovietiche: la CIA scova i Fratelli Musulmani

«La fusione dell’Islam ultra-conservatore saudita wahhabita con il fanatico attivismo politico dei Fratelli Musulmani è stata una combinazione mortale e altamente astuta che non ha mai perso di vista il suo obiettivo di costruire un nuovo Califfato islamico globale che sarebbe diventato la religione mondiale. L’alleanza della Fratellanza con il wahhabismo saudita sarebbe rimasta dall’inizio degli anni ’50 per più di settant’anni».

F. William Engdahl

 


 

Un fatidico raggruppamento a Monaco

La fine della Seconda Guerra Mondiale e la sconfitta della Germania nazista non segnarono affatto la fine dell’influente circolo di nazisti che avevano trascorso la guerra collaborando con il Gran Mufti Al-Husseini e la Fratellanza Musulmana di Al-Banna. Per ironia della sorte, Monaco, profondamente cattolica, divenne il centro del raggruppamento dei quadri della Jihad islamica riuniti da Gerhard von Mende, che in tempo di guerra aveva guidato l’Ostministerium, il ministero per i territori orientali occupati.

 

Nel caos e nel crollo dell’ordine degli ultimi giorni di guerra, von Mende riuscì a far sì che molti dei suoi stimati quadri islamici che avevano combattuto a fianco della Wehrmacht contro i loro governanti sovietici durante la guerra fossero catturati nelle zone americane, britanniche o francesi di quella che, nel 1948, divenne la Repubblica Federale della Germania (Ovest). Sapeva che la cattura sovietica significava morte certa. I suoi jihadisti erano la sua merce di scambio per iniziare una nuova carriera lavorando per l’ex nemico, l’Occidente.

 

Gli esuli sovietici si erano concentrati a Monaco, nel sud della Germania, provenienti dalle regioni di etnia turca del Tatarstan, dell’Uzbekistan, della Cecenia e di altri territori musulmani dell’Unione Sovietica. Era una confraternita di acerrimi veterani di guerra anticomunisti, ma di un tipo molto strano. (1)

 

Mentre von Mende lavorava per riunire i suoi amici musulmani nella zona bavarese, dove l’esercito americano aveva il controllo, la neonata Central Intelligence Agency stava cercando di costruire una nuova capacità di propaganda per trasmettere la propaganda americana nell’Unione Sovietica. Alla fine fu chiamata Radio Liberty, e il suo braccio di propaganda gemello si chiamava Radio Free Europe.

 

I musulmani di Von Mende erano destinati a svolgere un ruolo chiave nelle operazioni di propaganda della CIA da Monaco.

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I Rockefeller si uniscono alla crociata di Billy Graham

All’inizio degli anni ’50, la Guerra Fredda tra Stati Uniti e Unione Sovietica era in pieno vigore. Entrambe le parti usarono la propaganda per cercare di convincere i paesi terzi neutrali a schierarsi dalla parte della libera impresa capitalista americana o dal comunismo sovietico.

 

Ben presto, la famiglia Rockefeller, la famiglia più influente dell’establishment americano emersa dalla seconda guerra mondiale, insieme alla neonata CIA, decisero che il fondamentalismo cristiano poteva essere usato come strumento per aiutare a demonizzare il comunismo sovietico agli occhi dei comuni americani praticanti.

 

Abraham Vereide, un ministro evangelico norvegese-americano, tra le altre imprese, rivendicò la responsabilità di convertire a Cristo un ex ufficiale delle SS naziste, il principe Bernhard dei Paesi Bassi, all’inizio degli anni ’50. Fu più o meno nello stesso periodo in cui Bernhard divenne il capo fondatore nominale degli incontri dell’anglo-americano Gruppo Bilderberg. Vereide avrebbe giocato un ruolo chiave nella politicizzazione dei gruppi cristiani per la Guerra Fredda.

 

Insieme, Vereide e Frank Buchman, fondatore del Movimento di Oxford, che fu influente nella «rieducazione» della Germania dopo il 1945, si assicurarono la sponsorizzazione di qualcosa che chiamarono il movimento Prayer Breakfast. Erano molto politiche, le loro preghiere e colazioni. I due uomini fondarono presto una Fellowship House a Washington, DC, come «centro di servizio spirituale» per i membri del Congresso.

 

Alla fine degli anni Quaranta, Vereide aveva circa un terzo dell’intero Congresso degli Stati Uniti che partecipava ai suoi incontri di preghiera settimanali. All’inizio degli anni ’50, ottenne il sostegno del presidente Eisenhower quando Vereide arrivò a svolgere un ruolo importante nelle attività anticomuniste del governo degli Stati Uniti. (2)

 

Il Los Angeles Times descritto il processo:

 

«Funzionari del Pentagono si incontrarono segretamente alla Washington Fellowship House del gruppo nel 1955 per pianificare una campagna mondiale di propaganda anticomunista approvata dalla CIA, come dimostrano i documenti degli archivi della Fellowship e la Eisenhower Presidential Library. Conosciuto allora come International Christian Leadership, il gruppo finanziò un film intitolato “Militant Liberty” utilizzato dal Pentagono all’estero». (3)

 

Il cristianesimo, almeno nella versione del governo statunitense, era sul punto di diventare un’arma nella Guerra Fredda.

 

Nel 1953, la Fellowship Foundation tenne la prima colazione di preghiera presidenziale alla Casa Bianca.

 

Il reverendo Billy Graham era un oratore regolare alle «Prayer Breakfasts» di Washington. Graham predicava una sorta di anticomunismo di fuoco e zolfo che era stato fortemente promosso dal governo degli Stati Uniti e dall’establishment mainstream americano. Graham chiamò le sue grandi manifestazioni all’aperto «le Crociate di Billy Graham».

 

Le immagini di una nuova «santa crociata contro il comunismo sovietico senza Dio» furono trasmesse dalla televisione e dalla radio americane a milioni di case americane (4). All’inizio degli anni ’50, le maratone di risveglio di Billy Graham attraverso gli Stati Uniti stavano convertendo decine di migliaia di americani comuni ad «accettare Gesù Cristo come loro salvatore personale».

 

Nel 1957, i fratelli Rockefeller donarono discretamente 50.000 dollari, una somma enorme per quei tempi, per lanciare la Crociata di Graham a New York. Fu un successo in forte espansione, spinto dall’uso allora innovativo della televisione e dal sostegno nascosto e dai legami aziendali dei Rockefeller. Il risultato fu che, per la prima volta dal famigerato Scopes Monkey Trial del 1925 [famoso caso legale che costituisce una pietra miliare nell’avanzata del laicismo in USA a danno del cristianesimo, che consentì l’insegnamento della teoria dell’evoluzione nelle scuole americane, ndt], il fondamentalismo cristiano poté rialzare la testa in pubblico, rivestito con l’ardente abito anticomunista di Madison Avenue. (5) 

 

I titani del business americano, tra cui Phelps Dodge, ereditiere dell’industria del rame, Cleveland Dodge, Jeremiah Milbank e George Champion della Chase Manhattan Bank dei Rockefeller, Henry Luce di Time e Life (l’autore del famoso editoriale del 1941 della rivista Life che proclamava l’alba del «secolo americano»), Thomas Watson dell’IBM e il partner di Laurance Rockefeller presso la Eastern Airlines, Eddie Rickenbacker, erano tutti tra i sostenitori selezionati del nuovo movimento evangelico di Graham. (6)

 

Evidentemente avevano motivazioni diverse dalla promozione della fede cristiana o dal sostegno dell’amore fraterno.

 

L’establishment americano, almeno la fazione vicina alla famiglia Rockefeller, aveva deciso nel 1957 che un «risveglio» mondiale della religione era necessario per «affermare la leadership morale degli Stati Uniti nel mondo libero». La ripresa doveva, tuttavia, essere attentamente coltivata e, quando necessario, finanziata, per promuovere i potenti interessi bancari e aziendali statunitensi.

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La CIA trova i musulmani di Mende

Anche la neonata Central Intelligence Agency degli Stati Uniti, diretta da Allen Dulles sotto la presidenza conservatrice di Dwight D. Eisenhower, era ansiosa di trovare altri modi oltre alle aggressive invettive anticomuniste cristiane di Billy Graham per indebolire l’Unione Sovietica.

 

La religione doveva essere ancora una volta la chiave, ma questa volta sarebbe stato l’Islam politico.

 

La CIA aveva scoperto un gruppo di islamisti politici che von Mende era riuscito a radunare a Monaco e dintorni come rifugiati dopo la guerra. Migliaia di ex musulmani sovietici, che avevano combattuto con i nazisti contro l’Armata Rossa sovietica, avevano cercato rifugio nella Germania occidentale, costruendo una delle più grandi comunità musulmane nell’Europa degli anni ’50.

 

Nell’aprile del 1951, la CIA apprese per la prima volta che von Mende aveva raccolto i musulmani chiave nell’area di Monaco e stava creando un think tank nel tentativo di ricostruire il suo Ostministerium nazista, questa volta per conto di Konrad Adenauer e del governo cristiano-democratico tedesco piuttosto che per Adolf Hitler (7). La CIA era interessata a cooptare il gruppo di von Mende per i propri scopi.

 

La CIA scoprì che questi esperti «guerrieri di Allah» musulmani, che erano stati coltivati ​​e schierati da von Mende, avevano competenze linguistiche inestimabili, nonché preziosi contatti in Unione Sovietica. Iniziarono un progetto per reclutarli come guerrieri per la crociata anticomunista americana.

 

Durante la guerra, von Mende e il suo Ostministerium aveva organizzato un progetto con un piano approvato da Hitler per liberare i prigionieri che avrebbero preso le armi contro i sovietici. Allestirono le «Ostlegionen» – Legioni Orientali – composte principalmente da minoranze non russe, principalmente musulmane, disposte a combattere la Jihad contro la leadership comunista sovietica come vendetta per decenni di oppressione sovietica.

 

Fino a un milione di musulmani sovietici si erano uniti alle Ostlegionen di Hitler, e un gruppo selezionato era sbarcato a Monaco, sede del nuovo progetto Radio Liberty della CIA. La CIA li reclutò presto per lavorare contro i comunisti sovietici in varie forme di attività della Guerra Fredda.

 

Il nuovo servizio di intelligence americano stava imparando per la prima volta a lavorare con l’Islam politico. (8)

 

La Fratellanza si unisce alla CIA

Quando gli ex combattenti nazisti musulmani iniziarono a lavorare per la CIA a Monaco, anche i Fratelli Musulmani in Egitto trovarono una nuova «casa» presso la CIA. Nel 1957 fu annunciata la Dottrina Eisenhower, che prometteva l’intervento armato degli Stati Uniti e della NATO contro qualsiasi minaccia di aggressione in Medio Oriente, trasformando di fatto la regione in una sfera di interesse degli Stati Uniti.

 

La dottrina Eisenhower mirava alla crescente incursione dei sovietici, soprattutto in Egitto, dove un colpo di stato militare riformista guidato dal colonnello Gamal Abdel Nasser aveva detronizzato il fantoccio britannico, re Farouk, nel 1952.

 

Nel 1948, come istruttore presso l’Accademia militare reale egiziana, Nasser aveva inviato emissari per cercare di negoziare un’alleanza del suo gruppo di Ufficiali Liberi, un gruppo anti-britannico e anti-monarchia di giovani colonnelli e ufficiali, con i Fratelli Musulmani di Hassan Al-Banna.

 

Ben presto si rese conto che la rigida agenda teocratica della Fratellanza era antitetica alla sua agenda di riforme laiche nazionaliste. Nasser ha quindi deciso di adottare misure per limitare l’influenza dei Fratelli Musulmani all’interno delle forze armate. Fu l’inizio di un’aspra ostilità tra Nasser e la Fratellanza di Al-Banna. (9)

 

Nasser era stato l’architetto della rivolta degli ufficiali dell’esercito egiziano del 1952 che rovesciò la monarchia. Durante gli anni ’40, il re egiziano Farouk, molto filo-britannico, aveva sovvenzionato finanziariamente i Fratelli Musulmani per contrastare il potere dei nazionalisti e dei comunisti. Ciò li rese un diretto oppositore ideologico del nazionalismo riformista di Nasser.

 

Nel 1949, tuttavia, anche il re iniziò ad avere dubbi sulla collaborazione con l’organizzazione di Al-Banna poiché l’influenza dei Fratelli crebbe notevolmente. Il suo primo ministro, Mahmud al-Nuqrashi, è stato assassinato da un membro dell’«apparato segreto» dei Fratelli Musulmani. Il re rispose con una massiccia repressione, arrestando oltre cento membri di spicco.

 

Nel febbraio 1949, lo stesso fondatore della Fratellanza Hassan al-Banna fu assassinato. L’assassino non fu mai trovato, ma era opinione diffusa che l’omicidio fosse stato compiuto da membri della polizia politica egiziana su ordine del re. Un rapporto dell’MI6 era inequivocabile e affermava: «l’omicidio è stato ispirato dal governo, con l’approvazione del Palazzo». (10)

 

Nel 1953, con la monarchia egiziana formalmente abolita e la Fratellanza Musulmana in fuga, gli Ufficiali Liberi di Nasser furono in grado di governare come Consiglio del Comando Rivoluzionario (RCC), con Nasser come vicepresidente. Ben presto prese il potere guida come presidente e procedette a bandire tutti i partiti politici. Non essendo comunista, Nasser divenne uno dei principali portavoce del nazionalismo arabo e si unì all’emergente Movimento dei Non Allineati, con la Jugoslavia di Tito e Nehru dell’India. Il gruppo di Nazioni non allineate cercò di definire una «via di mezzo» tra il comunismo sovietico e il libero mercato capitalista americano. (11)

 

Nel 1953, Nasser introdusse riforme agrarie di vasta portata e stava adottando misure per rinazionalizzare la Compagnia del Canale di Suez controllata dagli inglesi. Londra non era contenta dell’emergere di Nasser. In effetti, l’Intelligence segreta britannica dell’MI6 tentò ripetutamente di assassinarlo. (12)

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L’assassinio fallito della Fratellanza

Il 26 ottobre 1954, anche Mohammed Abdel Latif, un membro dei Fratelli Musulmani, tentò di assassinare Nasser mentre Nasser teneva un discorso ad Alessandria per celebrare il ritiro militare britannico dall’Egitto. Il forte sospetto era che dietro l’attentato della Fratellanza contro Nasser ci fosse l’Intelligence britannica.

 

Il discorso di Nasser veniva trasmesso via radio a tutto il mondo arabo. L’uomo armato ha mancato il bersaglio dopo aver sparato otto colpi. In risposta, Nasser ordinò una massiccia repressione della Società dei Fratelli Musulmani di Al-Banna, nonché dei principali comunisti. Otto leader della Fratellanza furono condannati a morte. Migliaia andarono in clandestinità. (13)

 

Nel 1956, Nasser aveva ottenuto un sostegno popolare sufficiente da sentirsi in grado di nazionalizzare il Canale di Suez come rappresaglia per il taglio degli aiuti finanziari promessi da parte di Stati Uniti e Gran Bretagna per la costruzione della diga di Assuan. Riconobbe anche la Cina comunista e stipulò accordi sugli armamenti con i paesi comunisti del blocco orientale.

 

Nasser, mai comunista ma piuttosto un volitivo anticolonialista e nazionalista arabo, stava diventando un grosso problema per l’agenda americana della Guerra Fredda in Medio Oriente.

 

I sauditi incontrano i Fratelli: un matrimonio infernale

L’amministrazione Eisenhower iniziò a considerare la monarchia arciconservatrice del re Ibn Saud in Arabia Saudita come una risposta all’interno del mondo arabo alla crescente influenza del nasserismo. Ciò avrebbe portato a un fatidico matrimonio tra l’Islam politico sotto forma di membri della Fratellanza egiziana in esilio e la monarchia saudita.

 

Il capo della stazione della CIA del Cairo, Miles Copeland, officiò la cerimonia del matrimonio, organizzando la fuga dei membri della Fratellanza egiziana in Arabia Saudita in quella che avrebbe trasformato nei decenni successivi la mappa politica del mondo.

 

L’Arabia Saudita è forse il Paese musulmano più conservatore e severo del mondo. La terra deserta, solo decenni prima una terra sottosviluppata governata da beduini nomadi, praticava una forma unica di Islam chiamata Wahhabismo. Prende il nome da Muhammad ibn Abd al-Wahhab, morto nel 1792, il primo estremista fondamentalista islamico moderno.

 

Abd al-Wahhab stabilì il principio secondo cui assolutamente ogni idea aggiunta all’Islam dopo il terzo secolo dell’era musulmana, intorno al 950 d.C., era falsa e doveva essere eliminata. Questo era il punto centrale del suo movimento. I musulmani, per essere veri musulmani, insisteva al-Wahhab, devono aderire esclusivamente e rigorosamente alle credenze originali stabilite da Maometto.

 

E, naturalmente, solo coloro che seguivano i rigorosi insegnamenti di al-Wahhab erano veri musulmani perché solo loro seguivano ancora il percorso tracciato da Allah. Accusare qualcuno di non essere un vero musulmano era significativo perché era proibito a un musulmano ucciderne un altro; ma se qualcuno non era un «vero musulmano» come definito dal wahhabismo, allora ucciderlo in guerra o in un atto di terrorismo diventa legale. (14)

 

Lì, secondo le parole di John Loftus, un ex funzionario del Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti incaricato di perseguire e deportare i criminali di guerra nazisti, con l’unione dei Fratelli Musulmani egiziani e dell’Islam rigoroso saudita, «hanno combinato le dottrine del nazismo con questo strano culto islamico, il wahhabismo». (15)

 

La CIA di Allen Dulles persuase segretamente la monarchia saudita ad aiutare a ricostruire la Fratellanza Musulmana bandita, creando così una fusione con l’Islam wahhabita fondamentalista saudita e le vaste ricchezze petrolifere saudite per brandire un’arma in tutto il mondo musulmano contro le temute incursioni sovietiche. Da questo matrimonio infernale tra la Fratellanza e l’Islam saudita wahhabita sarebbe poi nato un giovane di nome Osama bin Laden. (16)

 

In un incontro del 1957 con il direttore delle operazioni segrete della CIA, Frank Wisner, Eisenhower dichiarò che gli Stati Uniti avrebbero dovuto impegnarsi nell’aspetto della «Guerra Santa» dei musulmani arabi per convincerli a combattere il comunismo. I Fratelli Musulmani furono disposti ad obbedire, e così ebbe inizio l’empia alleanza dell’Intelligence americana con il culto della morte chiamato Fratellanza Musulmana. (17)

 

Nel 1954, l’Arabia Saudita era diventata il centro dell’attività mondiale dei Fratelli Musulmani. La monarchia saudita aveva stretto un grande patto con la Fratellanza: in cambio di un sostegno finanziario inaudito proveniente dai proventi del petrolio saudita, la Fratellanza avrebbe concentrato la propria attività politica all’estero, al di fuori del Regno saudita, diffondendo la propria influenza in Paesi come Egitto, Afghanistan, Pakistan, Sudan e Siria. Non si sarebbero organizzati politicamente all’interno dell’Arabia Saudita, dove la Monarchia aveva bandito tutti i partiti politici. (18)

 

Figure di spicco dei Fratelli Musulmani, come il dottor Abdullah Azzam, sono diventati insegnanti nelle madrasse saudite, le scuole religiose. I Fratelli mantennero la loro struttura organizzativa segreta «familiare» all’interno dell’Arabia Saudita e avviarono attività di successo, diventando anche redattori di influenti giornali sauditi, come El Medina.

 

Nel 1961, i Fratelli Musulmani riuscirono a persuadere il re saudita a creare l’Università Islamica di Medina, dove si stabilirono dozzine di studiosi egiziani che erano segretamente Fratelli Musulmani.

 

Significativamente, l’università, centro degli ideologi islamici estremisti conservatori del wahhabismo saudita, combinato con la militanza politica della Fratellanza egiziana, è diventata la piastra di Petri per la formazione della prossima generazione di jihadisti islamici e salafiti.

 

In particolare, circa l’85% degli studenti dell’università di Medina provenivano dall’esterno del Regno Saudita. Questo internazionalismo ha permesso ai Fratelli Musulmani di diffondere i quadri della Fratellanza in tutto il mondo islamico. (19)

 

Il veicolo per la loro missione mondiale utilizzato dai Fratelli Musulmani in esilio saudita era la Lega Mondiale Musulmana (MWL). Nel 1962, un anno dopo il successo della Fratellanza nella fondazione dell’Università Islamica di Medina, convinsero la famiglia reale saudita a finanziare e sostenere anche la loro lega.

 

La Lega Mondiale Musulmana aveva sede alla Mecca, in Arabia Saudita, con il governo saudita come sponsor ufficiale. Si descrive come un’organizzazione islamica e non governativa coinvolta nella «propagazione dell’Islam e nella confutazione di dichiarazioni dubbie e false accuse contro la religione».

 

Il loro obiettivo dichiarato era «aiutare a realizzare progetti che coinvolgono la diffusione della religione, dell’educazione e della cultura e sostenere l’applicazione delle regole della shari’a da parte di individui, gruppi o stati» (20). In realtà la Lega Mondiale Musulmana rappresentava la fusione dell’interpretazione rigorosa wahhabita degli insegnamenti del Profeta Maometto con la Jihad politica attivista della Fratellanza: una combinazione molto pericolosa.

 

La Lega Mondiale Musulmana ha creato uffici in tutto il mondo musulmano, così come nelle regioni a maggioranza non musulmana dell’Occidente con uffici a Washington, New York e Londra. Secondo quanto riferito, l’organizzazione ha utilizzato la sua rete e il denaro saudita per finanziare centri e moschee islamici e per distribuire materiali che promuovevano la sua interpretazione fondamentalista dell’Islam. Il suo segretario generale è sempre stato un cittadino saudita.

 

La fusione saudita tra l’Islam ultraconservatore wahhabita e il fanatico attivismo politico dei Fratelli Musulmani è stata una combinazione mortale ed estremamente astuta, che non ha mai perso di vista il suo obiettivo a lungo termine di costruire un nuovo Califfato islamico globale che sarebbe diventato la religione mondiale.

 

L’alleanza della Fratellanza con il wahhabismo saudita sarebbe rimasta dall’inizio degli anni ’50 fino al 2010 circa, quando la monarchia saudita, nel mezzo degli sconvolgimenti della Primavera Araba, cominciò a temere sempre più che la Fratellanza, ad un certo punto, si sarebbe rivoltata contro la monarchia che aveva li ha nutriti così a lungo.

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Princeton celebra Ramadan

Mentre molti importanti Fratelli Musulmani in esilio furono portati con l’aiuto della CIA in Arabia Saudita, il genero ed erede ideologico di Hassan Al-Banna, Said Ramadan, fu invitato a Princeton all’inizio degli anni ’50 per incontrare i servizi segreti americani, stringere la mano in un incontro personale con il presidente Eisenhower e discutere quella che sarebbe diventata una collaborazione fatale e mortale.

 

Said Ramadan era stato a Damasco, in Siria, per una conferenza il giorno dell’attentato contro Nasser e, in tal modo, era sfuggito alla retata della polizia egiziana contro i membri della Fratellanza. Alla fine finì in esilio a Ginevra, in Svizzera, sotto la protezione del governo svizzero, che vide utile il suo anticomunismo durante la Guerra Fredda. Documenti declassificati degli Archivi svizzeri rivelarono che gli svizzeri consideravano Ramadan un «agente dei servizi segreti degli inglesi e degli americani». (21)

 

Dal suo Centro islamico a Ginevra, Ramadan mantenne la sua influenza in tutto il mondo insieme ai suoi confratelli dopo l’omicidio di suo suocero, Al-Banna. Ha viaggiato spesso in Pakistan, dove ha contribuito a organizzare una fanatica società studentesca islamica jihadista, IJT, che combatteva gli studenti di sinistra nelle università. Il suo IJT è stato organizzato da Ramadan sul modello della Fratellanza egiziana. (22)

 

 Il gruppo studentesco IJT è stato il precursore del classico jihadismo islamico radicale che in seguito avrebbe addestrato il progetto talebano dei Fratelli Musulmani in Afghanistan con l’aiuto dell’agenzia di intelligence segreta pakistana ISI.

 

Nel settembre del 1953, Said Ramadan fu invitato a partecipare a un «colloquio islamico» che si sarebbe tenuto con i principali intellettuali islamici di tutto il mondo presso la prestigiosa Università di Princeton nel New Jersey. L’invito e l’idea di organizzare un incontro tra Said Ramadan e il presidente Eisenhower sono venuti dal cofondatore e vicedirettore dell’Agenzia di informazione statunitense (USIA) collegata alla CIA, Abbott Washburn. Washburn era il collegamento tra l’USIA e la Casa Bianca. (23)

 

Washburn aveva convinto C.D. Jackson, esperto di guerra psicologica di Eisenhower, dell’importanza dell’idea. Jackson era un alto ufficiale della CIA seduto alla Casa Bianca come collegamento tra il Presidente, la CIA e il Pentagono. (24)

 

La conferenza di Princeton è stata co-sponsorizzata dall’USIA di Washburn, dal Dipartimento di Stato, dall’Università di Princeton e dalla Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti. Washburn scrisse a Jackson che il suo obiettivo nella conferenza e nell’incontro presidenziale con Ramadan e altri era «che i musulmani rimanessero impressionati dalla forza morale e spirituale dell’America». Washburn e la CIA avevano in mente altri obiettivi inespressi oltre a cercare di impressionare Ramadan sulla forza morale e spirituale dell’America. (25)

 

John Foster Dulles, un fanatico repubblicano conservatore della Guerra Fredda ed ex avvocato di Wall Street per gli interessi dei Rockefeller, che era stato un aperto simpatizzante nazista all’inizio della Seconda Guerra Mondiale, era Segretario di Stato. Suo fratello, Allen Dulles, un altro avvocato della famiglia Rockefeller, era direttore della CIA. Erano entrambi pronti a mettere alla prova i Fratelli Musulmani come forza in grado di danneggiare l’influenza sovietica.

 

I fascicoli della CIA su questa parte della storia della Guerra Fredda sono ancora chiusi per ragioni di «sicurezza nazionale», ma ciò che è noto è che il dirigente di Radio Liberty Robert Dreher, un agente militante della CIA che credeva non nel contenimento, ma in un attivo «ritiro» dell’influenza sovietica nell’Europa orientale durante la Guerra Fredda, invitò Said Ramadan a Monaco nel 1957 per entrare a far parte del consiglio del Centro islamico di Monaco. Lì Ramadan sarebbe diventato l’architetto chiave della moschea di Monaco come futuro centro per la diffusione dell’Islam in Europa e nel mondo.

 

Ramadan era carismatico, molto intelligente e cortese, un perfetto portavoce delle operazioni della CIA contro l’Unione Sovietica. Nello stesso anno, il Consiglio di coordinamento delle operazioni della CIA creò un gruppo di lavoro ad hoc sull’Islam che comprendeva alti funzionari dell’Agenzia governativa statunitense per l’informazione, del Dipartimento di Stato e della CIA. (26)

 

Le relazioni tra i Fratelli Musulmani e la CIA nel decennio successivo e negli anni ’70 si concentrarono principalmente sul contrasto all’influenza sovietica nel Medio Oriente arabo, dove il socialismo arabo di Nasser aveva acquisito una grande influenza in Iraq, Siria e in tutto il mondo arabo. minacciando l’agenda islamista della Fratellanza.

 

La nazionalizzazione del Canale di Suez da parte di Nasser e la sua presenza carismatica lo resero una personalità magnetica in tutto il mondo arabo. Il fatto che si fosse rivolto a Mosca per chiedere aiuto, pur rimanendo non allineato, gli conferiva ulteriore attrattiva.

 

L’alleanza dell’Arabia Saudita con i Fratelli Musulmani è diventata il principale veicolo – a parte i consueti colpi di stato orchestrati dalla CIA, come quello contro Mossadegh in Iran, o gli omicidi – attraverso cui Washington ha indirettamente e segretamente contrastato il fascino del nasserismo e del nazionalismo nel mondo arabo del Anni ’50 e ’60.

 

L’Islam politico jihadista era ormai saldamente nel radar della CIA. Il connubio tra i due – le agenzie di Intelligence segrete statunitensi, i fanatici Fratelli Musulmani e l’Islam jihadista – avrebbe formato un pilastro principale dell’intelligence segreta e della politica estera segreta degli Stati Uniti per più di settant’anni.

 

Fino agli sconvolgenti eventi dell’11 settembre 2001 e alla rivelazione che Osama bin Laden era stato addestrato in Afghanistan dalla CIA negli anni ’80, pochi avevano la minima idea di questa sinistra alleanza.

 

Nel 1979, la CIA si rivolse più attivamente a quella che ora era la Fratellanza Musulmana di Said Ramadan quando l’Unione Sovietica invase l’Afghanistan. Il loro progetto è stato chiamato Mujaheddin, o persone che compiono la Jihad, e una delle loro giovani reclute era un saudita che era stato educato in Arabia Saudita dalla Fratellanza.

 

Il suo nome era Osama bin Laden.

 

William F. Engdahl 

 

NOTE

1) Ian Johnson, The Beachhead: How a Mosque for Ex-Nazis Became Center of Radical Islam, The Wall Street Journal, 12 luglio 2005, consultato in http://www.moralgroup.com/NewsItems/Islam/p20.htm.

2) Lisa Getter, Showing Faith in Discretion, The Los Angeles Times, 27 settembre 2002.

3) Ibid.

4) William Martin, The Riptide of Revival, Christian History and Biography (2006), NUMERO 92, pp. 24–29.

5) Gerard Colby, Charlotte Dennett, Thy Will Be Done: The Conquest of the Amazon : Nelson Rockefeller and Evangelism in the Age of Oil, Harper Collins, 1996, pp. 292–295.

6) Ibid.

7) Ian Johnson, A Mosque in Munich: Nazis, the CIA and the Rise of the Muslilm Brotherhood in the West, Houghton, Mifflin Harcourt, Boston, 2010, p. 69.

8) Ibid., p. 129.

9) Said K. Aburish, Nasser, the Last Arab, 2004, New York, St. Martin’s Press, p. 26.

10) Mark Curtis, Britain and the Muslim Brotherhood Collaboration during the 1940s and 1950s, 18 dicembre 2010, consultato in, http://markcurtis.wordpress.com/2010/12/18/britain-and-the-muslim-brotherhood-collaboration-during-the-1940s-and-1950s/.

11) Steven A. Cook, The Struggle for Egypt: From Nasser to Tahrir Square, 2011, New York, Oxford University Press, p. 66.

12) Robert Dreyfuss, Devil’s Game, 2005, New York, Metropolitan Books, p. 104.

13) Richard P. Mitchell, The Society of the Muslim Brothers, 1969, New York, Oxford University Press, pp. 151–155.

14) Austin Cline, Wahhabism and Wahhabi Islam: How Wahhabi Islam Differs from Sunni, Shia Islam, consultato in http://atheism.about.com/od/islamicsects/a/wahhabi.htm.

15) John Loftus, The Muslim Brotherhood, Nazis and Al-Qaeda, 10 aprile 2006, Jewish Community News.

16) Robert Dreyfuss, op. cit., pp. 121–126.

17) Ian Johnson, A Mosque in Munich…, p. 127.

18)Robert Dreyfuss, op. cit., pp. 126–127.

19) Ibid.

20) Pew Center, Muslim World League and World Assembly of Muslim Youth, 15 settembre 2010, consultato in http://www.pewforum.org/2010/09/15/muslim-networks-and-movements-in-western-europe-muslim-world-league-and-world-assembly-of-muslim-youth/.

21) Citato in Dreyfuss, op. cit., p. 79.

22) Ibid., p. 75.

23) Ian Johnson, A Mosque in Munich…, pp. 116–117.

25) Ibid., pp. 116–117.

26) Ibid., pp. 127–136.

 

F. William Engdahl è consulente e docente di rischio strategico, ha conseguito una laurea in politica presso la Princeton University ed è un autore di best seller sulle tematiche del petrolio e della geopolitica. È autore, fra gli altri titoli, di Seeds of Destruction: The Hidden Agenda of Genetic Manipulation («Semi della distruzione, l’agenda nascosta della manipolazione genetica»), consultabile anche sul sito globalresearch.ca.

 

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Pensiero

I biofascisti contro il fascismo 1.0: ecco la patetica commedia dell’antifascismo

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Ho sempre provato un certo disagio di fronte agli eroi di cartapesta creati dalla filiera economica della «cultura» nazionale. È l’apparato industrial-intellettuale che passa dai grandi editori (una volta soprattutto Feltrinelli, ma in realtà un po’ tutti, specie in era marinaberlusconiana), si innerva sui giornali (Repubblica, a seguire, come sempre il Corriere, e giù gli altri), corre per le librerie di tutta Italia (con incontri dove vanno, magari, trenta persone pensionate in tutto) e si riversa, oltre che nei teatri, nella TV pubblica a tutte le ore, soprattutto quelle notturne.   Avete presente: gli «intellettuali», gli «scrittori», quelli che hanno pubblicato un libro, a volte, tragicamente, un «romanzo». I giornalisti, i librai, gli enti teatrali, i dirigenti televisivi ve li indicano come persone da ascoltare, da seguire. Sono dei contenuti importanti, cui dovete dare la vostra attenzione.   Basta leggere qualche pagina delle loro opere per capire di trovarsi davanti al vuoto pneumatico, e quindi tornare con la mente all’ineludibile legge di Marshall McLuhan: il medium è il messaggio.   Cioè, qualsiasi «scrittore» vi propongano – in libreria, in televisione, al teatro comunale, sul giornale – non è che vogliano davvero portarvi un suo messaggio, una sua riflessione, un suo pensiero (di solito, anzi, non ce n’è traccia), ma vogliono semplicemente tenervi incollati al medium, cioè al sistema. Consuma questo importante autore di libri, ti dicono, ma in verità quello che stanno davvero chiedendo è che non cambi canale: resta con noi, non staccarti dal continuum dell’industria culturale nazionale.

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È una questione di rinforzo della dipendenza sistemica, camuffata da nobile impulso illuminista all’educazione: leggi qui, sarai migliore. O con più sincerità: fatti intrattenere da noi, è l’unica via.   Una questione di identità, di classe sociale. Ecco perché ci ritroviamo, tra i tanti scrittori che ci infliggono, un discreto numero di professori. Essi divengono la proiezione del famigerato «ceto medio riflessivo», cioè di quantità di insegnanti di elementari, medie e superiori (e università: vertice della sottocasta dell’istruzione statale) che si sentono migliori perché leggono i libri, e che sperano che, un giorno, leggendo Repubblica e collane Feltrinelli magari anche a loro un giorno daranno 15 minuti di gloria letteraria.   La cultura di sinistra – cioè la cultura italiana – vive di fatto su un grande ricatto identitario: se non consumi il prodotto culturale nazionale, se quindi non credi a tutti gli assiomi che vi sono inseriti (civili, storici, politici, religiosi, «laici»), se fuori dalla storia. Impresentabile, invisibile. Questa cesura, come in ogni altro campo della vita, si è rivelata in tutta la sua oscenità durante il COVID.   Ricordate, infatti, dove stavano gli intellettuali, durante il biennio di lockdown e sieri genici? Ricordate gli editoriali sui giornali? Gli inni al generale vaccinaro, e magari pure l’occhiolino fatto ad un possibile «golpe» pro-siero? Ricordate gli articoli in cui lo scrittore diceva, sconsolato, di aver trovato tra i suoi amici dei no-vax? Ricordate le preghiere dei saggi affinché nel Paese fosse realizzata l’apartheid biotica, che poi di fatto è stata concretata?   Per questo sul «caso Scurati», che tiene banco sui giornali ancora adesso, ho delle idee un po’ diverse da quelle che avrete letto in giro.   Diciamo intanto, che la figura dello Scurati ce la ho in qualche modo presente, perché rammento quando fu inserita nel circuito culturale ancora anni fa. Nel 2005, ad un premio letterario – il gateway per far entrare nel sistema-Paese nuovi personaggi cartonati con le loro idee sincero-democratiche – attaccò Bruno Vespa: di suo una cosa per cui, visti gli ultimi anni di mRNA e Zelens’kyj, sarebbe da stringergli la mano, ma il tono sarebbe stato un po’ pesante: «se dovessi uccidere qualcuno, questo sarebbe lei», avrebbe detto criticando il conduttore di Porta a Porta.   Il personaggio del resto pare essere focoso: nei giorni scorsi ha accusato, in un’intervista su un giornale straniero, il TG1, per poi scusarsi, e dare la colpa a tutta questa situazione che lo turba molto.   La simpatia a pelle che mi sale subito: le foto che lo ritraggono, alto e severo, mostrano questo sguardo duro e non centratissimo, e profili dove pare mancare il mento – cosa che potrebbe essere, in realtà, un preciso messaggio politico, ma è un pensiero che butto lì, come altro, per satira.   Perché l’uomo ha pubblicato una serie di libri sul mento più pronunciato del secolo – quello del Duce Benito Mussolini. Migliaia e migliaia di libri intitolati tutti grottescamente M., come se fosse M il Mostro di Duesseldorf, in realtà è uno dei babau assiomatici che servono al sistema culturale italiano per tenersi in piedi.   Eccerto: Roberto Saviano, uno dei principi del sistema culturale nazionale, scrive libri contro la Camorra, anche se gli effetti – visibili soprattutto in TV – hanno fatto esclamare a qualcuno che alla fine, eterogenesi dei fini, quello che si ottiene è la sua apologia.   Quindi: addosso – ancora – al cadavere appeso a Piazzale Loreto (che Renovatio 21 un anno fa ha modestamente chiesto di ribattezzare come «Piazzale Angleton»). Scriviamoci sopra un romanzo, anzi dei romanzi, una saga che Il Trono di Spade deve spostarsi. Ma quale banalità del male: fatecelo scrivere, fatecelo vendere, ‘sto male!   Mi viene in mente l’articolo di ferocia assoluta che gli riservò, sul Corriere, Ernesto Galli della Loggia, che descrisse il suo senso di sgomento di fronte ad errori storici incredibili – perché provenienti da uno scrittore, un intellettuale, un editore, e la ridda di correttori di bozze, consulenti, editor del caso – contenuti nel testo.   Il Gallo della Loggia non fu tenero: «Voglio sperare che ancora oggi se a un esame di licenza liceale uno studente attribuisse a Carducci l’espressione «la grande proletaria» (invece che a Giovanni Pascoli, che la coniò per l’Italia che si accingeva a occupare la Libia ), e definisse Benedetto Croce un «professore» (lui che per tutta la vita gratificò di tutto il disprezzo immaginabile l’Università e i suoi professori, che fu l’antiaccademismo vivente), voglio sperare, dicevo, che lo sciagurato correrebbe seri rischi di essere bocciato».   Giù duro: «Non si tratta di due errori qualunque, infatti. Sommati significano in pratica non essere in grado di orientarsi nella storia culturale italiana della prima metà del Novecento. Non possedere alcuni punti di riferimento essenziali. Se poi il medesimo studente avesse pure sbagliato la data di Caporetto, avesse detto che Antonio Salandra, presidente del Consiglio che decise l’ingresso dell’Italia nella Prima guerra mondiale, “porta sulla coscienza sei milioni di morti” (un antesignano pugliese di Hitler insomma), avesse poi definito Antonio Gramsci “un politologo”, avesse scritto che alla Scala nel 1846 lavoravano degli «elettricisti» e che nel 1922 al Viminale ticchettavano «le telescriventi», e poi ancora, come se non bastasse, a commento della marcia su Roma avesse riportato alcune righe attribuendole a “Monsignor Borgongini Duca, ambasciatore inglese presso la Santa Sede” (!!) , e a commento della seduta della Camera sulla fiducia al governo Mussolini avesse citato una lettera di Francesco De Sanctis datandola 17 novembre 1922 (quando l’autore avrebbe avuto 105 anni!), beh: spero proprio che a questo punto il suddetto studente sarebbe sicuro di prendersi una solenne bocciatura».

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Tanta roba. Tuttavia soprattutto uno di questi inguardabili errori ci sembra interessante: nel suo romanzone mussoliniano, lo Scurati scrive che gli italiani morti durante la Prima Guerra Mondiale erano sei milioni. Secondo i calcoli storici, i morti sono stati – compresi quelli della pandemia della Spagnola (chiamata così anche se può darsi che venga, come tante altre epidemie, dai vaccini) – un milione. Tuttavia, come resistere alla coazione a ripetere la cifra fatale dei sei milioni? Difficile: l’industria culturale, i sei milioni te li ripete ogni cinque minuti.   Ma che importa, alla fine. Rileva – ribadiamolo bene – solo che il canale resti saldo. Qualche refrain, qualche tormentone piazzato magari anche in modo errato, fa giuoco alla tenuta dell’impianto di trasmissione. Tenetelo sempre a mente: il medium è il messaggio.   Ecco perché quando è scoppiato lo scandalo della RAI melonica che «censura» il tizio, non è che ci siamo scomposti più di tanto.   In primis, perché sappiamo da dove arriva, che cosa rappresenta, qual è il messaggio – cioè il medium. Il mezzo dell’industria cultura italiana deve ripetere i suoi triti dogmi (perché agli intellettuali non è richiesta la fantasia, né l’estro, né il genio: anzi) con cui è stata imbastita da quando, durante il famoso patto racconto da Ettore Bernabei nel libro L’uomo di fiducia, De Gasperi cedette la cultura a Togliatti e al PCI – e le banche a Mattioli e alla massoneria.   Che ci volete fare: mica la mela può cadere lontano dall’albero. Piante cresciute con decadi di letame «laico» e sincero-democratico, che frutti possono dare?   Il problema, quindi, è più profondo di un’eventuale museruola ad un intellettuale sistemico: è l’esistenza del sistema, e la sua persistenza nonostante qualsiasi governo di destra sperimentato dal 1994 ad oggi.   Non è questo, il punto che ci interessa sviluppare qui, purtuttavia.   La cosa che ci sconvolge, e vedere, a quattro anni dalla catastrofe di Wuhan, quanti anni luce il sistema politico-culturale sia distante dalla nostra visione – cioè dalla realtà. La politica, la storia, la letteratura dei normaloidi è a tal punto divorziata dalla sostanza dalle cose, che lo spettacolino delle sue beghe interne ci crea imbarazzo, malessere, se non ci fa vomitare punto e basta.   È stato ricordato che Scurati, quello della lettera «antifascista» da leggere alla TV pubblica, aveva scritto sul Corriere un editoriale in cui osannava il premier Draghi, lo implorava di tornare al suo posto: massì, il tecnocrate che nessuno aveva votato, calato per motivi imperscrutabili in luoghi fondamentali – il panfilo Britannia, dove salutò con affetto gli «Invisibili Britannici»; l’Eurotorre di Francoforte, luogo dove i tedeschi mai dovrebbero volere un italiano, e invece – piace tanto all’intellettuale antifascista.   Scommettiamo che, se lo sapesse, godrebbe anche al pensiero del ruolo primario del Draghi nel primo vero atto di guerra economica della storia umana, ovvero il congelamento dei beni della Banca di Russia detenuti all’Estero. Contro ogni legge internazionale, contro ogni decoro diplomatico (nemmeno durante la Seconda Guerra Mondiale…), contro ogni prospettiva a medio termine (l’effetto subitaneo: l’accelerazione della de-dollarizzazione): ma che importa, al cervello antifascistico? Bisogna applaudire i Draghi della palude, sempre, e spellarsi le mani.   Non solo. In una clip del novembre 2020 proveniente da La7 – lo sfogo televisivo del gruppo di via Solferino – lo Scurati affrontava di petto l’altra grande questione democratica degli ultimi anni. «Il 25% degli italiani, che secondo un sondaggio SVG sono complottisti o negazionisti» incalzava Lili Gruber. «Un dato assolutamente inquietante» replicava Scurati (mentre, a lato, l’idolo grillino Andrea Scanzi scuoteva la testa con vigore). Dice che il dato deve far riflettere «su cosa è stata l’Italia negli ultimo 10, 20 anni (…) su quale piccolo e significativo arretramento di civiltà abbiamo patito in questi decenni».  

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L’esitazione davanti al siero genico sperimentale è un segno della decadenza della civiltà italiana – quella, di cui parlava imperialmente Mussolini, o quella della Costituzione, calpestata in ogni sua parte dall’obbligo vaccinale? Un attimo, questi ultimi sono pensieri nostri.   «Il discorso ha a che fare con l’educazione, con l’istruzione, con la cultura», dice ancora lo scrittore. Insomma, sei no-vax, perché sei ignorante – non hai studiato a scuola, né letto i libri propostiti dalla libreria, compresi magari quelli fondamentali dello stesso Scurati.   «Il fatto che un italiano su quattro stia arretrando su posizioni oscurantiste premoderne di ignoranza arrogante e professa, non nascosta, nella diffidenza dei riguardi dei vaccini, che sono una delle grandi invenzioni dell’umanità, nella diffidenza nei riguardi della scienza, ci deve far ricordare che la scuola, l’istruzione e l’educazione sono fondamentali per il Paese, non solo durante l’emergenza» continua lo Scurato.   Sì davvero: sta parlando della scuola, dove abbiamo visto ogni sorta di discriminazione biologica (il green pass anche per entrare nel sito dell’Università!), dove è penetrato il proselitismo omotransessualista più agghiacciante, dove ai bambini di otto anni vengono lette lettere anti-femminicidio sull’onda di casi di cronaca ancora tecnicamente irrisolti, dove sono in corso programmi rivoltanti di digitalizzazione tecnocratica della vita dei ragazzi?   Sta parlando sul serio di arretramento della civiltà, per poi tirare fuori, come esempio, la scuola, distruttrice della civiltà?   È così. Parlano per ritornelli sempreverdi («vaccini grande conquista»… «la scuola è importante»… «sei milioni di morti»), discorsi che non aggiungono nulla, non hanno un pensiero alcuno da offrire. Non dati, non riflessioni, né profondità di alcun tipo – niente.   È chiaro, soprattutto, che la nostra idea di civiltà è oramai incompatibile con quella che loro chiamano «civiltà», che per noi è invece dissoluzione, è anti-civiltà, è Cultura della Morte. E non è questione solo di idee – si tratta della nostra stessa esistenza quotidiana, della vita nostra, e di quella dei nostri figli.   Perché quelli che si dicono «democratici», quelli che ci vendono i loro discorsi «antifascisti», sono gli stessi che hanno inflitto alle nostre vite gli orrori più atroci, perfino a livello biomolecolare.   Gli «antifascisti», hanno spinto affinché la nostra esistenza personale e famigliare fosse devastata. Vi ritorna in mente? C’è chi ha perso il lavoro, c’è chi ha perso i parenti, c’è chi ha perso tutto – mentre tutti quanti perdevamo la libertà.   Però scusate: ma se la parola «fascista» è semanticamente riferibile a ciò che è autoritario, soverchiante, incapace di discutere, irriguardoso della dignità della persona, altamente discriminante (fino al razzismo), violento… allora, che cos’è, quella che abbiamo vissuto in pandemia, se non una piccola era fascista?   È meglio chiamarli con un termine più appropriato: essendo alla base dell’immane processo di sottomissione subìto un fattore biologico – la malattia, il siero genico sperimentale – è il caso di definirli, più che fascisti, «biofascisti». Gli antifascisti – come esattamente i fascisti ipoteticamente ancora in circolazione ed i postfascisti al governo – sono, esattamente, biofascisti.   Dal ventennio fascista, al biennio biofascista: che non è finito, perché nessuno, né al governo né all’opposizione, ha accettato di rivedere lo stupro della supposta democrazia popolare visto col COVID. Anzi: rilanciano, la Meloni firma a Bali per i passaporti vaccinali elettronici transnazionali, mentre masnade di operatori sanitari e trafficanti politici lavorano alacremente – pagati da voi – per l’approvazione sottotraccia del Trattato Pandemico OMS, che sarà un bel capitolo della fine certificata delle democrazie costituzionali.

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E già, la Costituzione. Gli intellettuali credono sia un testo importantissimo, ce lo hanno ripetuto ad nauseam, e il motivo è semplicissimo: avendo cacciato per ordine massonico il sacro dalla politica, non resta che basare lo Stato su un libro.   Abbiamo visto quanto ci credono: la Costituzione è stata tradita perfino nel suo primo, ridicolmente sovietico, articolo, quello della Repubblica fondata sul lavoro – se hai il green pass, ovvio, e i sindacati sono d’accordo con Draghi, gli scrivono lettere d’amore in concerto con i padroni di Confindustria, mentre dal palco, circondati da mascherine, i lider maximos sindacalisti parlano veramente di Nuovo Ordine Mondiale.   Diventa a questo punto definitivamente insopportabile guardare la pantomima «democratica» dei personaggi TV.   Palano di popolo, e sono quelli che una parte consistente del popolo italiano – qualcuno dice, dal 1978, sei milioni, sul serio – lo ha sterminato per legge, con l’aborto di Stato.   Parlano di democrazia, ma il popolo lo hanno chiuso in casa, sottomesso, capovolgendo lo Stato di Diritto: non più il cittadino latore di diritti, ma obbligato a coercizioni che riguardano la sua stessa biologia.   Parlano di Costituzione, e hanno tradito l’articolo 1, l’articolo 16, l’articolo 21, l’articolo 32 e tutti gli altri che il lettore vorrà aggiungere.   Parlano di antifascismo, dopo aver inflitto alla popolazione anni di terrore biofascista, dove se non accettavi di modificare la tua genetica cellulare non potevi entrare nei negozi – sì, come gli ebrei dopo le leggi razziali, come mostrano tutti quei filmetti strappalacrime come La vita è bella, che certamente in parte avete pagato sempre voi.   Parlano di antifascismo, e sono gli stessi che finanziano ed armano un regime dove i collaborazionisti del Terzo Reich sono celebrati pubblicamente come eroi (anche fuori dai confini: ricorderete il caso di Trudeau che porta l’ex SS al Parlamento canadese per farlo applaudire) e dove armi e danari finiscono a Reggimenti provenienti da gruppi dove la svastica e le lettere runiche sono la norma, come simbolo, come tatuaggio, come ideologia.   Gli antifascisti, oggi, sostengono i neonazisti. Lo spettacolo lugubre degli ultimi cortei 25 aprile con tripudi di bandiere ucraine e della NATO rimarrà negli annali per i posteri che giustamente si gratteranno la testa cercando di capire.   I biofascisti, del resto, non è che si tirano indietro nei confronti dei paradossi. Prendiamo, ad esempio, il grande tema «antifascista» della provetta. Un idolo, per la sinistra: libertà riproduttiva, che vuol dire che anche gli LGBT si possono produrre la prole che la natura non consentirebbe loro di avere – si chiama progresso, bellezza.   Arrivano, tuttavia, tante storie aneddotiche interessanti. Per esempio: coppie lesbiche che spesse volte si rivolgono a banche del seme… in Danimarca. Essì: il bimbo lo vogliono biondo dolicocefalo occhioceruleo, esattamente come prescritto da Zio Adolf, che, poverino, lui la biotecnologia per farlo non ce l’aveva, limitandosi nel fallito programma Lebensborn a fare montare ragazzotte di paese ben disposte a giovinotti dai chiari capelli scelti tra le SS, per poi ucciderli subito dopo gettandoli nella fornace della guerra. È così: infatti quello si chiamava, appunto, «nazismo», e non «bionazismo», come invece dobbiamo chiamarlo oggi.

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E chiedetevi pure anche, cari antifascisti biofascisti: quanti dei politici gay, magari con figlio prodotto via utero in affitto all’estero fatto entrare in Italia in spregio alla legge 40/2004 (i giudici, dove sono?), secondo voi hanno sfogliato un bel catalogo delle «donatrici» di ovulo, scegliendo magari una bella ragazza bionda e atletica, come ad esempio l’Ucraina – capitale mondiale della surrogata anche sotto le bombe – offre a bizzeffe?   È difficile rendersi conto di cosa si tratta? La parola è conosciuta, in verità: eugenetica.   È più arduo capire che l’eugenetica biofascista opera ogni giorno anche al di fuori dei casi arcobalenati: la selezione degli embrioni, compiuta dagli «esperti della fertilità» che ora sono pagati dal contribuente (la FIVET è nei LEA) è, molto semplicemente un’altra forma di eugenetica, solo che invece dei cataloghi delle «biobanche» qui si usa il microscopio.   La sostanza non cambia, ed è quello che andiamo da sempre ripetendo su Renovatio 21. La continuità tra il nazismo e la moderna società riprogenetica è assoluta. Hitler ha perso la guerra cinetica, ha vinto quella bioetica. O meglio: i padroni di Hitler – quelli che ne hanno finanziato l’ascesa – sono esattamente gli stessi che hanno, da più di un secolo, elargito danari affinché si instaurasse l’eugenetica in America, in Europa, perfino in Cina.   E sono gli stessi – un nome lo vogliamo fare: la famiglia Rockefeller – che hanno suscitato e foraggiato quantità di movimenti fondamentali per la sinistra antifascista, cioè biofascista: il femminismo, ad esempio, o il movimento globale per l’aborto.   Capite, cari lettori, che questa è una visione della Storia abissalmente distante da quella che possono avere Scurati o la Meloni e chiunque altro vi propongano TV e giornali.   Perché quello che possono fare, loro, è farvi rimasticare quello che è stato dato loro da masticare, ricordando che a nessuno di loro è stata chiesta originalità e profondità di pensiero. La Storia, vi dicono, è fatta così… i fascisti, gli antifascisti, etc.   Qui abbiamo una visione radicalmente diversa. L’unico modo possibile per vedere il mondo, l’universo stesso, è quello che ha al suo centro il fenomeno più fondamentale del cosmo tutto: la vita.   Non comprendere che la Storia si sta rivelando semplicemente come una danza, fisica e metafisica, tra la Vita e la Morte – con lo Stato moderno e le sue schiere a combattere per quest’ultima – significa non aver compreso nulla. E quindi, accettare ogni possibile angheria che l’Impero della Morte prepara: l’aborto, la provetta, il vaccino… tutte realtà che qui abbiamo dimostrato essere intimamente interrelate, tutte questioni che toccano direttamente, carnalmente, le vostre esistenze, e soprattutto quelle dei vostri figli.   Così, in questa ignoranza invincibile, quella per lo stesso dono più alto che si è ricevuti dal creatore, l’antifascismo può trasformarsi tranquillamente in biofascismo, e continuare la sua patetica sceneggiata di lamento contro il fascismo 1.0.   In un articolo per il 25 aprile di diversi anni fa («Quello che Mussolini non ha capito: il dominio della Cultura della Morte»), scrivevamo parole che ci va qui di ripetere.   «Non è il capitale, non è il danaro ad essere in gioco. Non è nemmeno la terra, lo spazio, la geopolitica che interessa ai potenti dell’universo, oggi come allora. Ai principi di questo mondo interessa la distruzione dell’uomo. La sua umiliazione, il suo controllo, la sua riduzione».   «Non è visibile, per chi pensa ancora con le categorie ideologiche pubbliche dell’Ottocento o del Novecento, il cambio del paradigma già avvenuto. Non siamo più in una fase espansiva dell’essere (la produzione dell’acciaio dei sovietici, il Lebensraum dei nazisti, il natalismo dei fascismi, il consumismo delle democrazie liberali) ma in una fase di contrazione programmata, forzata. Meno figli, meno lavoro, meno esseri umani: decrescita».

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«Mussolini non poteva capire che è l’ascesa del biopotere il vero verso della Storia; i suoi oppositori nemmeno: anzi, ora sono divenuti kapò di qualcosa di molto peggiore del fascismo, il biofascismo: tutti i tuoi diritti sono sospesi, perfino il lavoro, la censura è operata su tutti i livelli, ogni libertà, perfino quella di spostamento, perfino quella di vedere i famigliari, è distrutta».   Già, Mussolini non aveva capito che il fascismo non serviva più al programma: il signore del mondo non voleva controllare più solo gli imperi e le nazioni, ma il corpo umano stesso, perfino nel codice più sacro contenuto dentro le sue cellule. Il Duce non poteva capire che il fascismo andava sostituito con il biofascismo. Lo hanno fatto, tra bandiere arcobaleno e ghigni pannelliani, facendo pure continuare l’oscena commedia dell’antifascismo militante, televisivo, autistico – perché altre sceneggiature, con evidenza, non ne hanno, né ne saprebbero scrivere.   Il programma è più vasto, ad ogni modo, di quello visibile tra Mussolini e gli intellettuali prodotti dal sistema culturale nazionale. Il programma è contenuto in un grande bestseller, nell’ultimo testo che lo compone. Si chiama Sacra Bibbia, da leggersi soprattutto quello che è definito Il libro della Rivelazione. Ci rendiamo conto che pochi scrittori e professori lo hanno fatto, ancora meno ci hanno creduto, o anche lo hanno preso sul serio per un secondo.   Qui noi lo facciamo, eccome. Il programma finale non riguarda la politica partigiana, riguarda l’umanità, la vita e la morte, il mistero dell’iniquità, la catastrofe globale, la fine dei tempi – insomma la vostra anima, e il vostro corpo.   Non è che chiediamo a chicchessia di accettarne i segni – i nostri lettori già lo fanno, a giudicare dalle lettere che ci arrivano.   Quello che domandiamo, è: non prestate attenzione a nessuna polemica, né alla voce degli intellettuali di cartapesta, né a quella dei politici.   Pensate, piuttosto, quanto è lontana da loro, oramai, la vostra concezione del mondo, la vostra visione della Storia, la vostra percezione della realtà, la vostra fede nella Verità.   È così: scrittori, deputati, giornalisti, professori, ministri, editori, fascisti, antifascisti, non hanno capito un cazzo.   Evitate, cari lettori, di perderci tempo, e concentratevi su ciò che è importante: onorate il Vero, e, soprattutto, cercate la pace interiore – perché a breve, quando sarà la tribolazione, servirà davvero.   Roberto Dal Bosco

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Arte

La Russia di Alessandro I e la disfatta di Napoleone, una lezione attuale

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Renovatio 21 ripubblica questo articolo comparso su Ricognizioni.

 

Ideatore della società filosofico-religiosa nella città di San Pietroburgo e della rivista «Novyj Put» (che tradotto significa «La via nuova»), padre riconosciuto del Simbolismo russo, Dmitrij Sergeevic Merežkovskij è stato uno dei più interessanti scrittori russi della prima metà del ‘900. Esule a Parigi dopo la Rivoluzione d’Ottobre, dove visse e morì nel 1941, spirito profondamente religioso passato anche per la massoneria durante il periodo zarista, viene finalmente tradotto e pubblicato in Italia dall’editore Iduna.

 

Lo Zar Alessandro I (pagine 450, euro 25) è un’avvincente biografia in forma di romanzo dello Zar che sfidò Napoleone, una figura leggendaria e romantica, uno dei più affascinanti personaggi della dinastia dei Romanov.

 

Il libro è stato curato da Paolo Mathlouthi, studioso di cultura identitaria, che per le case editrici Oaks, Iduna, Bietti ha curato già diversi volumi in cui ha indagato il complesso rapporto tra letteratura e ideologia lungo gli accidentati percorsi del Novecento, attraverso una serie di caustici ritratti dedicati alle intelligenze scomode del Secolo Breve. Ricognizioni lo ha intervistato.

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Paolo Mathlouthi, lei ha definito questo romanzo un’opera germogliata dalla fantasia titanica ed immaginifica di Merežkovskij. Cosa significa?

In una celeberrima intervista rilasciata nel 1977 ad Alberto Arbasino che, per spirito di contraddizione, lo incalzava sul tema del realismo, ipnotico mantra di quella che allora si chiamava cultura militante, Jorge Luis Borges rispondeva lapidario che la letteratura o è fantastica oppure, semplicemente, non è. «Il realismo – precisava – è solo un episodio. Nessuno scrittore ha mai sognato di essere un proprio contemporaneo. La letteratura ha avuto origine con la cosmogonia, con la mitologia, con i racconti di Dèi e di mostri».

 

La scellerata idea, oggi tanto in voga, che la scrittura serva a monitorare la realtà, con le sue contraddizioni e i suoi rivolgimenti effimeri è una stortura, una demonia connaturata al mondo moderno. Merezkovskij si muove nello stesso orizzonte culturale e simbolico tracciato da Borges. Sa che è la Musa a dischiudere il terzo occhio del Poeta e ad alimentare il sacro fuoco dell’ispirazione. Scrivere è per lui una pratica umana che ha una strettissima correlazione con il divino, è il riverbero dell’infinito sul finito come avrebbe detto Kant, il solo modo concesso ai mortali per intravedere Dio.

 

Erigere cattedrali di luce per illuminare l’oscurità, spargere dei draghi il seme, «gettare le proprie arcate oltre il mondo dei sogni» secondo l’ammonimento di Ernst Junger: questo sembra essere il compito gravido di presagi che lo scrittore russo intende assegnare al periglioso esercizio della scrittura. Opporre alle umbratili illusioni del divenire la granitica perennità dell’archetipo, attingere alle radici del Mito per far sì che l’Eterno Ritorno possa compiersi di nuovo, a dispetto del tempo e delle sue forme cangianti.

 

Merezkovskij si è formato nell’ambito della religiosità ascetica e manichea propria della setta ortodossa dei cosiddetti Vecchi Credenti, la stessa alla quale appartiene Aleksandr Dugin. Una spiritualità, la sua, fortemente condizionata dal tema dell’atavico scontro tra la Luce e le Tenebre. Quello descritto da Merezkovskij nei suoi romanzi è un universo organico, un mosaico vivente alimentato da una legge deterministica che, come un respiro, tende alla circolarità. Un anelito alla perfezione, riletto in chiave millenaristica, destinato tuttavia a rimanere inappagato poiché la vita, nella sua componente biologica calata nel divenire, è schiava di un rigido dualismo manicheo non passibile di risoluzione.

 

L’esistenza, per Merezkovskij, è dominata dalla polarità, dal conflitto inestinguibile tra due verità sempre equivalenti e tuttavia contrarie: quella celeste e quella terrena, ovvero la verità dello spirito e quella della carne, Cristo e l’Anticristo. La prima si manifesta come eterno slancio a elevarsi verso Dio rinunciando a se stessi, la seconda, al contrario, è un impulso irrefrenabile in senso inverso teso all’affermazione parossistica del propria volontà individuale.

 

Queste due forze cosmiche, dalla cui costante interazione scaturisce il corretto ordine delle cose, sono in lotta tra loro senza che mai l’una possa prevalere sull’altra.

 

Cielo e terra, vita e morte, libertà e ordine, Dio e Lucifero, l’uomo e le antinomie della Storia, l’Apocalisse e la funzione salvifica della Russia: come in uno scrigno, ecco racchiusi tutti i motivi fondanti del Simbolismo russo, gli stessi che il lettore non avrà difficoltà a rintracciare nella vita dell’illustre protagonista di questa biografia.

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Chi era veramente Alessandro I?

La formazione liberale ricevuta in gioventù dal precettore ginevrino Frédéric Cesar Laharpe, messogli accanto dalla nonna Caterina II perché lo istruisca sull’uso di mondo, diffonde tra i membri della corte, sempre propensi alla cospiratoria maldicenza, la convinzione che Alessandro sia un debole, troppo innamorato di Voltaire e Rousseau per potersi occupare dell’Impero con il necessario pugno di ferro.

 

Mai giudizio è stato più malriposto. Se la Russia non è crollata sotto l’urto della Grande Armée lo si deve innanzitutto alle insospettabili attitudini al comando rivelate dallo Zar di fronte al pericolo incombente. I suoi dignitari hanno in tutta evidenza sottovaluto la lezione di cui Alessandro I ha fatto tesoro durante gli anni trascorsi nella tenuta di Gatcina dove il padre Paolo I, inviso alla Zarina che lo tiene lontano dagli affari di governo, impone al figlio una rigida educazione di tipo prussiano: la vita di caserma con i suoi rigori e le sue privazioni, le marce forzate e la pratica delle armi fortificano il principe nel corpo e gli offrono l’opportunità di riflettere sulla reale natura del ruolo che la Provvidenza lo ha chiamato a ricoprire.

 

Matura in lui, lentamente ma inesorabilmente, la consapevolezza che le funamboliche astrazioni dei filosofi illuministi sono argomenti da salotto, utilissimi per intrattenere con arguzia le dame ma assai poco attinenti all’esercizio del potere e alle prerogative della maestà. La Svizzera e l’Inghilterra sono lontanissime da Carskoe Selo e per fronteggiare la minaccia rappresentata da Napoleone e impedire che l’Impero si frantumi in mille pezzi, allora come oggi alla Russia non serve un Marco Aurelio, ma un Diocleziano.

 

Dopo la vittoria a Bordino contro le truppe di Napoleone, non ebbe indugi nel dare alle fiamme Mosca, la città sacra dell’Ortodossia sede del Patriarcato, la Terza Roma erede diretta di Bisanzio dove gli Zar ricevono da tempo immemorabile la loro solenne investitura, pur di tagliare i rifornimenti all’ odiato avversario e consegnarlo così all’ inesorabile stretta del generale inverno. Un gesto impressionante…

 

Senza dubbio. Merezkovsij fa propria una visione della vita degli uomini e dei loro modi (Spengler avrebbe parlato più propriamente di «morfologia della Civiltà») segnata in maniera indelebile dall’idea della predestinazione. Un amor fati che si traduce giocoforza in un titanismo eroico tale per cui spetta solo alle grandi individualità il compito di «portare la croce» testimoniando, con il proprio operato, il compimento nel tempo del disegno escatologico in cui si estrinseca la Teodicea.

 

Per lo scrittore russo lo Zar è il Demiurgo, appartiene, come l’Imperatore Giuliano protagonista di un’altra sua biografia, alla stirpe degli Dèi terreni, che operano nel mondo avendo l’Eternità come orizzonte. Nella weltanschauung elaborata da Merezkovskij solo ai santi e agli eroi è concesso il gravoso privilegio di essere l’essenza di memorie future: aut Caesar, aut nihil, come avrebbe detto il Borgia. Ai giganti si confanno gesti impressionanti.

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Lei ha visto una similitudine tra l’aggressione napoleonica alla Russia di Alessandro a quanto sta avvenendo oggi…

Lo scrittore francese Sylvain Tesson, in quel bellissimo diario sulle orme del còrso in ritirata che è Beresina. In sidecar con Napoleone (edito in Italia da Sellerio) ha scritto che «davanti ai palazzi in fiamme e al cielo color sangue Napoleone comprese di aver sottovalutato la furia sacrificale dei Russi, l’irriducibile oltranzismo degli slavi». Questa frase lapidaria suona oggi alle nostre orecchie quasi come una profezia.

 

Quando l’urgenza del momento lo richiede, il loro fatalismo arcaico, l’innato senso del tragico, la capacità di immolare tutte le proprie forze nel rogo dell’istante, senza alcuna preoccupazione per ciò che accadrà, rendono i Russi impermeabili a qualunque privazione, una muraglia umana anonima e invalicabile, la stessa contro la quale, un secolo e mezzo più tardi, anche Adolf Hitler, giunto alle porte di Stalingrado, avrebbe visto infrangersi le proprie mire espansionistiche. Identico tipo umano, stesso nemico, medesimo risultato. Una duplice lezione della quale, come testimoniano le cronache belliche di questi mesi, i moderni epigoni di Napoleone, ormai ridotti sulla difensiva e prossimi alla disfatta nonostante l’impressionante mole di uomini e mezzi impiegata, non sembrano aver fatto tesoro.

 

«Ogni passo che il nemico compie verso la Russia lo avvicina maggiormente all’Abisso. Mosca rinascerà dalle sue ceneri e il sentimento della vendetta sarà la fonte della nostra gloria e della nostra grandezza». Sono parole impressionanti quelle di Merežkovskij.

 

A voler essere pignoli questa frase non è stata pronunciata da Merezkovskij, ma da Alessandro I in persona, a colloquio con il Generale Kutuzov poco prima del rogo fatale. Dostoevskij ci ricorda che «il cuore dell’anima russa è intessuto di tenebra». Quanto più intensa è la luce, tanto più lugubri sono le ombre che essa proietta sul muro. Ai nemici della Russia consiglio caldamente di rileggere queste parole ogni sera prima di coricarsi…

 

A quali scrittori si sentirebbe di accostare Merežkovskij?

L’editoria di casa nostra, non perdonando allo scrittore russo il fatto di aver salutato con favore, negli anni del suo esilio parigino, il passaggio delle divisioni della Wehrmacht lungo gli Champs Elysées, ha riservato alle sue opere una posizione marginale, ma in Russia Merezkovskij è considerato un nume tutelare, che campeggia nel pantheon del genio nazionale accanto a Tolstoj e al mai sufficientemente citato Dostoevskij che a lui sono legati, come i lettori avranno modo di scoprire, da profonda, intima consanguineità.

 

Paolo Gulisano

 

Articolo previamente apparso su Ricognizioni.

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Immagine: Adolph Northen, La ritirata di Napoleone da Mosca (1851)

Immagine di pubblico dominio CCo via Wikimedia

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Mosca bataclanizzata: qual è il messaggio?

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Al momento in cui scrivo la conta dei morti del massacro di Mosca è di 60 morti e 140 feriti.   Abbiamo raccolto e mostrato qualche immagine agghiacciante: sì, un commando è entrato in un centro commerciale (su qualche canale ebete di Telegram avete letto che era un municipio: il traduttore automatico dei geni ha tradotto «Crocus City Hall» in «Municipio di Crocus», come se Crocus fosse un quartiere della capitale russa; gli ignoranti che seguite sui social fanno anche questo) con fucili automatici e hanno iniziato a sparare all’impazzata. Sono stati colpiti anche dei bambini, e due dodicenni sarebbero gravi.   È interessante notare quanto siano restii i nostri media a pronunziare, davanti allo schema perfettamente ripetuto, la parola che aveva inondato il discorso pubblico sul terrorismo quasi dieci anni fa: Bataclan.   Il disegno tecnico è il medesimo: colpire la popolazione comune, falciandola con armi a ripetizione e magari qualche bomba suicida o meno, nel momento di massimo svago e massima vulnerabilità – quando va a vedere un concerto. Sparare sulla gente quando è concentrata in un unico punto ed indifesa. Massacrare in maniera massiva per compiere il lavoro del terrorismo, e portare il suo messaggio.

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Mosca è stata bataclanizzata. I grandi media non vogliono dirvelo – perché significherebbe elevare il popolo russo a vittima, dopo due anni di campagna martellante per convincerci che la Russia è carnefice. E poi, soprattutto, nessuno ha voglia davvero di guardarci dentro: se il disegno è lo stesso del Bataclan, gli autori sono gli stessi? I mandanti pure?   Alla rivendicazione dell’ISIS, buttata subito in stampa da tante testate internazionali, non possiamo credere. Curioso, tuttavia, che l’ISIS possa voler colpire la Russia proprio ora, quando l’intervento in Siria è finito da anni…   L’Ucraina, per bocca di un ciarliero e molto visibile tizio consigliere di Zelens’kyj, Mikhailo Podolyak (quello che aveva insultato il papa e il cristianesimo) ha detto non siamo stati noi, mentre altri ucraini hanno ovviamente tirato fuori l’hastatoputin. Chiaramente, ci vogliono far credere, è un false-flag del Cremlino per scatenarsi, anzi, guarda, è la festa personale di Putin per aver vinto l’elezione con quasi il 90% dei voti. Come no. (in rete circolano meme divertenti con il passaporto di un terrorista miracolosamente, come al solito, ritrovato sul luogo del delitto: la foto è quella di un Putin barbuto)   Si tratta della più grande strage terrorista dai primi anni 2000. Qualcuno ricorderà i 130 morti (più quaranta terroristi) e i 700 meriti della crisi del Teatro Dubrovka, quando vennero sequestrati 850 civili da un gruppo di islamisti separatisti ceceni.   Dobbiamo capire che la vittoria sulla questione cecena – e sul terrorismo correlato – è stata la scala d’ingresso di Putin verso il Cremlino. La Cecenia era un disastro che poteva trascinare giù tutta la Russia: un alveare terrorista nel cuore del Paese, e allo stesso tempo un fattore di demoralizzazione devastante per la popolazione. Erano i primissimi tempi di internet, ma già circolavano i video, poi perfezionati da ISIS e compagni, di sgozzamenti di soldati e civili russi.   Putin fu colui che mise fine al pericolo. Da primo ministro ha vinto la Seconda Guerra Cecena, di fatto sottomettendo una fazione in lotta, quella di Kadyrov, il cui figlio ora al potere a Grozny manda i suoi soldati a combattere in Ucraina con adunate oceaniche negli stadi dove si grida «Allahu Akbar» e subito dopo «viva il presidente Putin».   La strage di Dubrovka non è stata la sola. Poco dopo, ci fu il massacro di Beslan, ancora più intollerabile nella volontà terrorista di colpire gli indifesi: il 1 settembre 2004 un gruppo di 32 fondamentalisti separatisti ceceni entrò in una scuola elementare e sequestrò 1200 persone, per maggior parte bimbi. Ricordate quell’immagine: una bomba pronta ad esplodere piazzata dentro il canestro della palestra, e i bambini sotto. Il conto, dopo che gli Spetsnats (le forze speciali russe) liberarono la scuola, fu di oltre trecento morti, di cui 186 bambini, e 700 feriti. Quasi tutta la scuola è stata ferita dal terrorismo.   Si tratta di traumi che i russi pensavano passati. Sono seguiti gli anni putiniani dove stipendi e pensioni sono saliti di 7, 15 volte. Dove il popolo russo, che dopo il 1991 aveva cominciato a perdere un milione di persone l’anno (alcol, disperazione) ha ritrovato la dignità, e, parola chiave per capire Putin e la Russia odierno, rispetto.   Il terrorismo, essenzialmente, è un linguaggio. Ogni atto terroristico ha un messaggio da portare al mondo – questo è quello che ci dicono, almeno. Sappiamo che il messaggio è, in genere, più di uno. C’è un messaggio di superficie, quello dei perpetratori: vogliamo l’indipendenza, vogliamo vendetta, vogliamo la shar’ia, vogliamo la fine dell’occupazione, cose così.   Poi c’è il messaggio profondo, quello dei veri mandanti, di cui non si può discutere, perché non si può saperne nulla.

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Le stragi dei primi 2000 avevano, come messaggio di superficie, la Cecenia: la terra dove Putin aveva riportato l’ordine, promettendo di inseguire i terroristi anche al cesso ed ucciderli lì, disse in una famosa dichiarazione.   Il messaggio profondo possiamo immaginare fosse un altro: lasciaci continuare a depredare la Russia. Il desiderio, profondo ed irrevocabile, dei veri mandanti, che non necessariamente stavano in russo.   I terroristi takfiri ceceni, si è detto, potevano aver legami con oligarchi nemici di Putin riparati all’estero. Era chiaro cosa volevano gli oligarchi ribelli: proseguire, anche per conto dei loro soci occidentali, la razzia resasi possibile con il crollo dell’Unione Sovietica nel decennio di Eltsin, come visibile, ad esempio, nel caso magnate del petrolio Mikhail Khodorkovskij, quello che Pierferdi Casini difendeva al Parlamento italiano, prima di essere imprigionato da Putin si diceva avesse trasferito le sue quote a Lord Nathaniel Jacob Rothschild, quello dei quadri satanici con Marina Abramovic spirato pochi giorni fa. Liberato dalla clemenza di Putin prima delle Olimpiadi 2014 (l’Occidente ringraziò organizzando poco dopo i Giochi di Sochi Piazza Maidan a Kiev), il Khodorkhovskijj ora è tornato a galla per la questione ucraine, i giornali lo definiscono «oppositore di Putin».   Vi sono tuttavia casi più evidenti. Rapporti tra terroristi ed oligarchi furono discussi per uno dei nemici più acerrimi di Putin, l’oligarca riparato a Londra Boris Berezovskij. Una trascrizione di una conversazione telefonica tra Berezovsky e il fondamentalista Movladi Udugov – attualmente uno degli ideologi e il principale propagandista del cosiddetto Emirato del Caucaso, un movimento militante panislamico che rifiuta l’idea di uno stato ceceno meramente indipendente a favore di uno stato islamico che comprenda la maggior parte del Caucaso settentrionale russo e si basi su principi islamici e sulla legge della shar’ia – fu trapelata su uno dei tabloid di Mosca il 10 settembre 1999. Udugov propose di iniziare la guerra del Daghestan per provocare la risposta russa, rovesciare il presidente ceceno Aslan Maskhadov e fondare la nuova repubblica islamica di che sarebbe stata amica della Russia pre-putiniana.   Dopo la Seconda Guerra Cecena, Berezovskij aveva mantenuto i rapporti con i signori della guerra islamisti. Nel 1997, nell’ambito di supposte attività di ricostruzione della Cecenia, fece una donazione di 1 milione di dollari (alcune fonti menzionano 2 milioni di dollari) per una fabbrica di cemento a Grozny. Per tale pagamento fu negli anni accusato di finanziare i terroristi ceceni.   Il 23 marzo 2013 Berezovskij, che bazzicava il World Economic Forum di Davos e aveva avuto un ruolo attivo nella rielezione di Eltsin nel 1996, fu trovato morto nel bagno nella sua villa nel Berkshire, vicino ad Ascot, luogo caro alla nobiltà britannica. Dissero dapprima che era depresso, perché aveva perso una causa con Roman Abramovic (ex patron del Chelsea, anche lui oligarca ebreo ultramiliardario che però si era sottomesso a Putin) e quindi aveva debiti; la polizia inglese invece disse che era una morte senza spiegazioni e volle lanciare un’inchiesta, ma non arrivò a nulla. Si dice prendesse farmaci antidepressivi, e un giorno prima di morire avrebbe detto ad un giornalista londinese che non aveva più niente per cui vivere.   Parlo della morte di Berezovskij perché all’epoca notai come potesse essere correlata ad una strage terrorista dall’altra parte del mondo: il 15 aprile dello stesso anno due bombe esplodono alla Maratona di Boston ammazzando tre persone e ferendone 250. Vengono accusati due fratelli ceceni, Dzhokar e Tamerlan Tsarnaev. Emerse che loro zio, che i giornali dissero subito si era dissociato dalla deriva islamista dei nipoti, era stato sposato con la figlia di un agente CIA, con cui avrebbe pure convissuto.   Difficile capirci qualcosa: tuttavia, la domanda che mi feci, all’epoca, era: il messaggio profondo della strage bostoniana è che, morto Berezovskij, qualcuno stava chiedendo il riequilibrio di questa rete antirussa occulta che attraversa il mondo.   La mia era solo una supposizione. Di certezze sulle connessioni tra gli americani e gli islamisti ceceni, invece, ne ha Vladimir Putin.   In una sequenza di tensione rivelatrice del documentario che Oliver Stone ha dedicato a Putin – un’intervista di ore e ore tra il 2015 e il 2016 – il presidente russo dà una notizia piuttosto gigantesca: racconta che gli USA, trovati ad aver contatti con i terroristi ceceni, hanno risposto alle rimostranze del Cremlino dicendo che essi erano autorizzati diplomaticamente a parlare con chi volevano.   Putin era visibilmente scosso: la Cecenia, per lui che l’aveva vinta come prima missione della sua carriera ai vertici, significava tanto: il dolore di tanti morti, il rischio di far finire la Russia, ancora una volta, in una spirale di razzia e violenza, in pratica di farla sparire dalla storia.   Discorsi simili sono stati fatti poche settimane fa nell’intervista che Putin ha concesso a Tucker Carlson. Il presidente russo lo aveva ripetuto ai giornalisti anche l’anno scorso: «nel Caucaso l’Occidente sosteneva Al-Qaeda». Washington appoggia il terrorismo antirusso, in sintesi. Per gli italiani che si ricordano quando – al tempo non c’era la parola «complottista» – si parlava della Strategia della Tensione, non è una storia tanto campata in aria.

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E quindi, qual è il messaggio della strage terrorista al Crocus di ieri sera?   È lo stesso, crediamo, di quello di quando l’anno scorso hanno bombardato a Mosca Darja Dugina o a San Pietroburgo il blogger Vladen Tatarskij: vogliono ri-cecenizzare la Russia.   Vogliono riportare le lancette indietro a quegli anni, quando Mosca era debole, il popolo incerto ed impaurito, e le risorse del bicontinente libere per i rapaci internazionali. Quando c’era il terrorismo islamico, usato come solvente da un potere superiore per distruggere definitivamente ogni potere indipendente per la Russia e piegare nella paura la psiche del popolo russo.   Tutto questo è durato fino a Putin. I mandanti non hanno mai accettato di aver perso. E quindi, nell’ora del trionfo politico e popolare di Putin, ripetono il messaggio. Puoi anche vincere le elezioni, puoi anche avere l’affetto del tuo popolo: noi te lo possiamo portar via a suon di mitragliate terrorista. Puoi vincere la guerra ucraina, noi massacreremo le famiglie ai concerti a Mosca. Lo faremo con i ceceni, con gli ucraini, con i daghestani, con i nazisti russi, con chiunque potremo manovrare.   Ora, da temere, più che il messaggio, che è chiaro, è la risposta che darà Putin.   Perché, come è evidente, potrebbe essere l’innesco della Terza Guerra, che di fatto l’élite occidentale, brama affannosamente.   Roberto Dal Bosco

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