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Necrocultura

Macron e il computo di Satana

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Abbiamo voglia scrivere di qualcosa di davvero metafisico, qualcosa di oscuro, di folle. Quel tipo di discorsi che potete leggere solo su Renovatio 21 – ogni tanto.

 

Negli ultimi giorni tutti si stanno grattando la testa guardando a quello che sta succedendo con il presidente francese Emmanuel Macron.

 

Abbiamo visto la spedita Costituzionalizzazione dell’aborto in Francia, che diventa il primo Paese al mondo a mettere il figlicidio nella sua carta fondamentale. Il Senato ha votato in blocco, uomini della Le Pen inclusi. Si tratta di un passo giuridicamente, filosoficamente umanamente enorme, che nessuno Stato – nemmeno in era di ateismo sovietico – aveva mai osato.

 

Lo Stato eleva l’uccisione dei propri cittadini indifesi come diritto fondamentale: è un pensiero davvero da capogiro, ma non è che qui ci stupiamo.

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Su Renovatio 21, trattando del primo discorso del primo ministro Giorgia Meloni al Parlamento italiano, abbiamo scritto dell’«inchino a Moloch». La premier, come alcuni presidenti democratici americani prima di lei, come prima cosa ci tiene a far sapere che il feticidio rimarrà libero. L’ecatombe, destra o sinistra, deve continuare.

 

Un inchino a Moloch lo ha eseguito la settimana scorsa anche Joe Biden nel SOTU, il discorso annuale del presidente sullo «Stato dell’Unione». Nel più tetro dei SOTU che si ricordi, vegliardo della Casa Bianca ha esaltato l’aborto, senza nominarlo (ha usato espressioni di neolingua orwelliana: «libertà riproduttiva» e «libertà di scegliere»), arrivando a sfidare direttamente – inaudito, davvero – la Corte Suprema USA.

 

Poco dopo, Macron mantiene la promessa fatta tante volte, e piazza nella Costituzione i bambini uccisi nel grembo materno. È un inchino profondo, vero, a colui al quale si sacrificano i figli, un atto materiale che supera parole e discorsi. Emmanuel, ci ha fatto capire, fa sul serio. E mica si è fermato.

 

In alcuni protocolli delle monarchie del passato (ho negli occhi quello visto in una stupenda serie americana in cui il padre fondatore degli Stati Uniti John Adams incontra Re Giorgio III) erano previsti, al cospetto del re, anche tre inchini.

 

Ecco che il presidente francese si produce in un altro segno di deferenza verso la Cultura della Morte: ha lanciato la corsa alla libera eutanasia in Francia. Non abbiamo dubbi che il suicidio di Stato – ovvero, lo Stato che, anche qui, uccide i suoi cittadini – diverrà presto realtà. Si dice che tanti francesi già fanno il viaggetto per il vicino, francofono Belgio per farsi ammazzare in maniera istituzionale.

 

Ma perché tutta questa fretta, Emmanuel? Se lo sono chiesti in tanti, visto che l’uno-due è arrivato, in pratica, a poche ore di distanza: inizio-vita, fine-vita… il vertice dello Stato francese pone il segno della Morte sui due confini dell’esistenza umana. Interessante.

 

La questione è che, se ha il coraggio di uscire dal settore – la Bioetica, le cose di «politica interna», le cose «religiose» – e si guarda al quadro più ampio, troviamo subito anche il terzo inchino di Macron: con una inquietante insistenza, ha ripetuto l’opzione di avere in Ucraina truppe NATO pronte a combattere con la Russia.

 

Quest’ultima uscita del presidente è particolarmente scioccante. La Francia, lo sappiamo bene, ha qualche problema con la Russia, che le ha soffiato una buona porzione di quell’Africa francofona che non ne può più di Parigi al punto da accusarla di essere dietro al terrorismo islamico che insanguina la regione. Tuttavia, in superficie, almeno a inizio conflitto ucraino nel 2022, i rapporti non sembravano tesi fino all’interruzione: anzi, ricorderete come anche Macron, come Scholz e altri, fece un giro a Mosca per ritrovarsi a parlare con Putin dall’altra parte di quel lungo tavolone del Cremlino…

 

La chiamata di Macron per la presenza militare atlantica in Ucraina ha spiazzato perfino i tedeschi, zeloti antirussi, che si sono smarcati, anche con toni bruschi, così come ha fatto il ministro della Difesa italiano Guido Crosetto. Nonostante la discordia degli alleati europei, Emmanuel è andato avanti, sottolineando che lui intendeva davvero quello che aveva detto.

 

È una prospettiva davvero paurosa. Macron sa che stiamo parlando di una linea rossa che porta verso l’escalation nucleare? La Russia, secondo la sua dottrina atomica, può utilizzare i suoi ordigni apocalittici nel caso sia minacciata l’esistenza del suo Stato; la presenza occidentale in Ucraina, con l’installazione di missili NATO che possono colpire con facilità le città le russe (di fatto, già lo fanno) potrebbe rientrare in questo tipo di pericolo, anzi a pensarci bene è esattamente il motivo per cui Putin ha avviato l’Operazione Militare Speciale. E che dire del fatto che in Russia qualche analista ha proposto, apertis verbis, la nuclearizzazione di città europee come soluzione al conflitto in corso?

 

Macron, certamente, lo sa: perché egli, ricordiamolo sempre, dispone di armi atomiche.

 

Aborto, eutanasia, guerra nucleare… tutto evocato nel giro di poche ore. Non ho sentito nessuno dare una spiegazione credibile di questa mostruosa, repentina deriva. Per cui, ci provo io – avvisando che per alcuni lettori si può trattare di una lettura di fantascienza; altri invece, possono cercare di guardare con la luce della Fede.

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Chi scrive crede che vi sia un’unica economia dell’universo, basata sulla sua sostanza più importante: la vita umana. Non è il danaro, non è la materia, non è l’energia che sta al centro del Creato. È la continuazione del Creatore, la sua riproduzione in creature fatte a sua immagine e somiglianza: l’Imago Dei.

 

Per un cristiano, si tratta di un discorso di logica stringente. Cosa l’autore dell’Universo ha di più prezioso dei suoi figli? Cosa può essere più importante per un Padre?

 

Ne risulta che chi il Padre lo vuole combattere, lo fa cercando di diminuire, eliminare quanto Egli ha di più caro. Il nemico di Dio deve ridurre sul pianeta l’Imago Dei, e con qualsiasi mezzo a sua disposizione. È la sua missione, la sua vocazione, è una sua necessità.

 

È l’inversione totale del Cristianesimo, e nello specifico della Santa Messa, se volete. Invece che il sacrificio di Dio per l’uomo, egli per negare il Padre deve far sì che l’umanità venga sacrificata.

 

L’economia del Male è sempre in movimento. Qualcuno vi avrà detto che dopo la Seconda Guerra Mondiale la Terra, in fin dei conti, ha vissuto un periodo di pace, almeno in Europa. Questa è la storia ufficiale, la storia visibile, fatta con numeri e statistiche fallaci, non basate sull’unica cosa che conta davvero, cioè sul primato della vita umana.

 

In realtà, il calcolo da fare è un altro. I milioni di sacrifici delle guerre globale non sono spariti, hanno semplicemente mutato forma, moltiplicando il numero delle morti, diffondendosi ovunque, ottenendo perfino la schermatura della legge. La Seconda Guerra Mondiale ha fatto forse 68 milioni di morti. Aborto e fecondazione in vitro, secondo un numero che circolava già lustri fa, ne hanno prodotti almeno un miliardo. Un miliardo.

 

Semplicemente, il sacrificio umano massivo si è spostato dalla trincea al grembo materno, dal campo di battaglia al reparto di ospedale, dalla città bombardata alla clinica dei bambini in provetta.

 

Pensateci, cristiani e non: abbiamo, quindi, avuto davvero decenni di pace? I nemici di Dio, quale situazione preferiscono? Quanto per loro è importante che il mondo moderno, che hanno certamente contribuito a progettare, continui ad avanzare secondo la linea delle democrazie «laiche»?

 

È a questo punto che bisogna considerare che essi da qualche parte si mettono pure a fare i conti. Esiste, cioè, un computo di Satana.

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Secondo un naturale principio economico, il numero delle vite umane sacrificate non può diminuire, deve imperativamente aumentare, come ogni azienda che si rispetti. E se c’è un calo, allora bisogna correre ai ripari. E un calo, visti i recenti sviluppi, potrebbe esserci stato.

 

Sappiamo che negli Stati Uniti nel 2021 vi sono stati 625.978 aborti registrati in 46 Stati più il distretto della capitale Washington. Rispetto al 2020, un incremento dello 0,6%. Più o meno, un bambino americano ogni cinque viene ucciso. Anche in Italia la ratio è più o meno quella: mediamente mezzo milione di nascite all’anno (numero, come sappiamo, in caduta libera), e un centinaio di migliaia di aborti.

 

Tale cifra è ora da mettere in discussione: con la sentenza della Corte Suprema Dobbs v. Jackson, che de-federalizza l’aborto, negandone di fatto lo status di diritto (l’esatto contrario di quanto appena fatto da Macron…) quantità di Stati americani a maggioranza conservatrice hanno iniziato a porre restrizioni sulle interruzioni di gravidanza.

 

Secondo alcune stime, nei primi due mesi dopo la sentenza vi sarebbero stati 10.670 aborti in meno rispetto al periodo precedente a Dobbs. Non abbiamo, al momento, un dato di questi due anni. Certo, i numeri dell’aborto non sono crollati: molte donne vanno ad abortire in un altro Stato, altre assumono le RU486 che ora si fanno arrivare comodamente a casa, con enti che hanno giurato di offrire, magari con la benedizione di Big Pharma, il servizio di pillola della morte spedita via posta nel nome del «diritto delle donne» (donne adulte: le bambine nel ventre della loro madre vengono invece uccise ed espulse nel water per finire poi a farsi divorare nelle fogne da topi, rane, pesci, insetti). Tuttavia, un calo è piuttosto prevedibile.

 

C’è di più: come aveva lasciato trasparire l’anziano giudice della Corte Suprema Clarence Thomas – il nero, cresciuto cattolico, fautore della legge naturale – la sentenza Dobbs avrebbe riaperto i giochi anche per altre questioni, come la fecondazione in vitro. Detto, fatto: poche settimane fa è arrivata la sentenza dell’Alabama che considera gli embrioni crioconservati come «bambini». Alcune cliniche di riproduzione artificiale, come abbiamo riportato su Renovatio 21, hanno già chiuso i battenti temendo la catastrofe legale: se gli embrioni che fanno in provetta sono persone, quanti omicidi commettono ogni singolo giorno? Tale logica fa di ogni medico esperto di FIVET un Pol Pot, o peggio.

 

Ci stiamo ancora stropicciando gli occhi per questa cosa: dopo anni in cui abbiamo combattuto in solitaria – perché il mondo pro-life italiano è in massima parte ebete, o venduto, come lo sono i padroni con lo zucchetto – la battaglia contro la strage dell’in vitro (che, in Italia, è già maggiore di quella della 194), assistere a quello che sta accadendo richiede il darsi dei pizzicotti. Sta cascando giù, senza che nemmeno vi sia stata fatta un’opposizione popolare seria, anche la provetta?

 

Forse sì. E quindi, immaginate che l’ulteriore picchiata del computo che potrebbe includere anche le vite prodotte e scartate in massa nei laboratori per le coppiette borghesi.

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Il conto infernale potrebbe cominciare a non tornare. Urge quindi una manovra manageriale decisa. Se si perde un cliente, si cerca di fare quadrare i conti aumentando il prezzo dei clienti rimasti; se si smarriscono dei canali di vendita, si aumenta l’afflusso di scambi in quelli esistenti (magari in mercati di altri Paesi, tipo la Francia, per esempio), oppure se ne aprono di nuovi.

 

La guerra Ucraina è un nuovo canale di morte che hanno voluto aprire più o meno in concomitanza con il calo degli embrioni sacrificati in America. Qualcuno racconta che i ragazzi ucraini massacrati sarebbero 400 mila, magari 500 mila, quelli russi forse sono 100, forse 200, forse di più. Lo vedete da voi: non ci allontaniamo da quella cifra scritta più sopra, il numero totale di bambini uccisi, numero che è ora in discussione. In queste cose, abbiamo notato negli anni, c’è spesso una paurosa simmetria: si raccontava, ancora lustri fa, che in Italia dal 1978 c’erano stati 6 milioni di bambini abortiti, e al contempo si diceva che gli immigrati giunti nel nostro Paese erano… 6 milioni.

 

(In realtà crediamo che i bimbi sacrificati, specie con la provetta ora a carico dello Stato grazie alla Lorenzin, siano molti di più – al contempo pensiamo che anche gli stranieri che hanno invaso le nostre città siano in totale molto più di sei milioni: alla fine, la simmetria in qualche modo rimane)

 

Il lettore può aver capito dove sto andando a parare.

 

Un qualche «manager» ha detto al francese che deve eseguire il programma, perché i conti devono tornare? Qualcuno sta spingendo per una frettolosa legalizzazione della Necrocultura temendo che l’azienda del sacrificio umano possa andare in perdita?

 

La multinazionale del Male pare non essersi accontenta di aver ribaltato, in Francia, quanto pare stia accadendo in America. Accecata dalla paura di un crollo, perde la testa, e si lancia in un investimento all-in, prendere o lasciare: la guerra termonucleare… Il loro uomo ripete a pappagallo, mischia gli ingredienti esplosivi: NATO, Ucraina, Russia… E che significato possono avere simili dichiarazioni se non lo spalancarsi di uno scenario di distruzione atomica, cioè di sacrificio umano totale e finale?

 

Potete pensarla come volete: io dell’ora presente, del concentrato di Cultura della Morte che stanno producendo, mi son fatto questa idea. E adesso, con la Francia che ribolle per la storia di Brigitte Macron presunta transessuale (!), mi vengono ancora più le vertigini. Ma cosa stanno dicendo, veramente, quelli che sostengono la tesi per cui la moglie di Macron – quella che, 24 anni in più, si innamorò di lui quando questi aveva 14, 15, 16, 17 anni, a seconda dell’articolo che leggete – sia in realtà un uomo?

 

Vogliono suggerire che in cima ad uno Stato con potenza nucleare hanno messo una vittima, con a suo fianco il carnefice, di uno degli ultimi tabù rimasti?

 

Cosa vogliono insinuare, che quella relazione tra vittima e carnefice può essere intronizzata?

 

E quelli che mostrano le foto (sono ritoccate? Diteci di sì) con il figlio di lei che somiglierebbe al presidente, quale quadro stanno suscitando?

 

Anche questa storia, allucinante e letteralmente incredibile (lo ammetto, quando emerse due anni fa la querela della première dame, ridacchiai: ma chi può dare retta ad una panzana cospirazionista simile!) capita nella grande accelerazione della Necrocultura in Francia in questi giorni.

 

Aborto, eutanasia, provetta, transessualismo, pedofilia, guerra atomica. Il disegno che dobbiamo imparare a vedere non è più di uno.

 

C’è un’economia precisa che informa tanta parte della nostra dimensione, che è quella della lotta all’Imago Dei. Sapete perfettamente chi, sin dal principio, la sta operando.

 

Realizziamo una volta per tutte che cosa essi vogliono: manipolare, umiliare, sprecare, cancellare la vita umana. Tutto ciò che stiamo vivendo ce ne dà prova quotidiana, e lo Stato moderno stesso pare essere mutato in una pura macchina di morte, in un sistema che deve garantire la nostra sofferenza e la nostra eliminazione.

 

La Vita: non c’è altro che conta davvero nell’Universo. Preghiamo affinché presso le nazioni terrestri sorga una forza che faccia di questa meraviglia miracolosa il suo fine ultimo, che faccia della difesa e moltiplicazione dell’esistenza umana la sua ragione di esistere – e di combattere.

 

Tutto il resto, davvero, non entra nel computo.

 

Roberto Dal Bosco

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Essere genitori

Giurare per Ippocrate, o giurare per il CUP. La macchina sanitaria disumana e tuo figlio

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Una minimale, micrologica avventura sanitaria di questo pater familias, e del suo figliolo, per cercare di significare il grande disegno di distruzione in cui, ticket dopo ticket, ci troviamo tutti.   Venerdì mattina il bambino, mentre lo porto verso uno dei suoi ultimi giorni di quarta elementare, mi dice che ha qualcosa all’orecchio. Non ci vuole molto a capire che, semplicemente, gli si è formato un tappo. Di fatto, quando gli parlo, sembra sentire poco. Un breve consulto con la madre conferma: «ma sì, è come quello dell’anno scorso. Non ti ricordi?» No, sono il padre, non la mamma, la mia tendenza è svuotare, in automatico, in tempi brevissimi, la cache cerebrale dei problemi.   Un’altra cosa mi spinge a mettere più attenzione del dovuto su quel tappo: lo ha, con estrema probabilità, ereditato direttamente da me. Nel senso: l’orecchio è stato a lungo per me quello che definiscono un «organo-bersaglio», come si alza lo stress ecco che arrivano occlusioni, otiti esterne dolorosissime, o perfino (immagino che la cosa sia collegata) problemi ai denti del giudizio.

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Non prendo la cosa sottogamba, perché so che non passa da solo: puoi provare tutto, gli spray, le goccette che ti sfrigolano dentro, i candelotti fumanti piantati verso il timpano. Un tappo è un tappo: si leva solo con una certa pressione. In passato, me lo hanno tolto otorinolaringoiatri, dottori generici, persino qualche infermiera di ambulatorio. Non bevo, quindi posso dire che nella vita ho stappato più orecchi che bottiglie di alcolico.   Non è una grande operazione: serve solo il siringone e quella bacinella metallica a forma di rene (o di fagiuolo) che devi tenere a lato, dove ad una certa apparirà, in tutto il suo orrore, il tappo, mentre nell’orecchio risuona la libertà, per la gioia dell’organismo tutto. La durata totale è, chiunque lo sa, qualche minuto appena.   Tornato a casa la sera, lo trovo nella stessa condizione. Il bambino sente poco, è ancora avvolto in quella sensazione di fastidio e rassegnazione che ricordo benissimo.   Decido di fare la mossa: è venerdì sera, il pediatra non c’è (e non devo essere sicuro che faccia queste cose, mi dicono), posso solo pensare ad una mossa radicale, portarlo in ospedale, al Pronto Soccorso pediatrico. Un luogo che, da passate esperienze, ricordo non troppo affollato, dove si può incontrare un medico abbastanza speditamente. Vuoi non trovare lì un dottore che gli lavi l’orecchio in un minuto, con pure alle spalle una laurea per farlo e un giuramento, quello di Ippocrate, per cui vive nell’imperativo di guarire il prossimo (specie quando il prossimo è un bimbo)?   Caricato in macchina il bambino, e ivi portatolo, mi trovo innanzi a diversi capannelli di infermiere del reparto emergenze dei bambini che chiacchierano: il lavoro non deve essere tantissimo, bene. Arrivati dietro il vetro dell’ufficietto che reca la scritta «accettazione» (il posto giusto, no?) una ragazza con la mascherina, con attorno altre colleghe con cui stava amabilmente conversando nel silenzio del reparto vuoto, mi dà l’informazione che avevo tentato scacciare dalla testa: per accedere al Pronto Soccorso Pediatrico devo prima passare da quello degli adulti.   Il che vuol dire ore e ore di attesa se devi vedere un medico, in un’atmosfera di estenuazione che richiede le guardie giurate in sala d’attesa (novità degli ultimi anni: cos’è cambiato? È peggiorato il servizio? Sono arrivati «ospiti» stranieri che tendono alle escandescenze? Il combinato disposto dei due fenomeni). La fila più drammatica, illogica, disperante è in realtà prima ancora, quella del cosiddetto «triage» – no, la parola italiana non la vogliono: è già questo dice tanto sulla macchina della sanità, cioè sul fatto che la sanità è una macchina.   C’est-à-dire: fai la fila, lungamente, solo per dire cos’hai e farti aprire la pratica da una tizia dietro ad un doppiovetro. Una fila disorganizzata, senza biglietti e con la costante di masse immigrate prima di te (la condizione comune della cittadinanza nella Repubblica Italiana nel secolo XXI), nessuna attenzione per la tua situazione – sei grave? Hai bisogno solo di una carta? etc. – cioè, nessun triage di nessun tipo.   Qui scatta la prima realizzazione: la tua situazione medica, la tua vita, è in realtà sottomessa ad un sistema di prenotazione. Un macchinario più grande di te, che non ti considera davvero se non come numero, e di fatto ti danno un braccialetto con un codice a barre, una cosa che era nei film di fantascienza distopica non troppo anni fa.

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Lo dico perché lo so per esperienza: l’anno scorso, in una storia che non ho ancora raccontato su Renovatio 21, ma che qualche lettore conosce perché coincise con la rarità assoluta del sito fermo per una settimana, andai in pronto soccorso per un malanno piuttosto intenso. Flashback.   Fu proprio durante la fila del triage, in cui arrivai bianco e barcollante, che ad un certo punto cedetti in modo talmente spettacoloso che ancora oggi ne vado fiero: al culmine della capacità di resistere al problema che avevo, mi sentii mancare completamente il respiro (sensazione mai avuta, neanche facendo una vasca di piscina in apnea), non avevo nemmeno la forza di chiedere aiuto… quindi, forse per la terza o quarta volta in tutta l’intera mia esistenza, vomitai – ad abundantiam, scatenando il fuggi fuggi generale, neanche fosse apparso nel nosocomio Godzilla, o un altro mostro gigante sputatore a caso.   Era l’immagine di un uomo piegato dal problema biologico, e nessuno, nessun medico, nessun infermiere, nel limbo-triage della coda burocratica multietnica, lo volle aiutare: furono proprio le guardie giurate, quelli che non hanno giurato ipocritamente per Ippocrate, e forse proprio per questo hanno conservato una qualche umanità. Quando tornai a respirare, messo dal personale in una sedia a rotelle, immaginavo che mi avrebbero fatto saltare la coda, vista la gravità – quelli prima di me stavano tutti in piedi e non avevano appena rimesso un ettolitro di anima, vitrea e gialla, sul pavimento davanti alla porta automatica proibita (si apre solo da dentro) che dà al reparto dove attendere senza speranza per altre ore ed ore.   Maddeché: feci un’altra ora di fila seduto, sconvolto e dolorante, sulla sedia a rotelle ospedaliera, e arrivato al bancone con il supervetro, l’infermiere pure mi redarguì per quello che avevo fatto. A quel punto, raccolta un po’ di adrenalina e di rabbia, mi alzai dalla sedia e alzai la voce flebile: «eccerto, la prossima volta che sto per morire improvvisamente soffocato avverto prima voi, però guardi, c’era la sua fila». L’infermiere rimase zitto.   Il proseguo di questa storia dell’anno scorso, il cui racconto rimando da tempo perché tocca il tema delicato delle trasfusioni e del loro rifiuto, lo racconto un’altra volta – anticipo tuttavia che di lì a qualche giorno di ospedalizzazione il primario con codazzo di una diecina di dottori si presentò al mio letto e, poco prima che fossi operato, usò parole che dipinsero con chiarezza nella mia mente l’immagine della mia morte per dissanguamento sul tavolo operatorio. «Lei rifiuta le trasfusioni … e tante altre cose… quindi, se succede qualcosa, che facciamo, la lasciamo morire dissanguato?»   Devo dire che nessuno, nemmeno nelle risse più belluine, mi aveva mai fatto sentire una violenza simile, la violenza della morte, con tutto ciò che adesso essa comporta per la mia discendenza. La risposta mi venne immediata: «visto che si è portato un po’ di testimoni, dichiaro pure pubblicamente che rifiuto anche l’espianto di organi». Il barone chirurgico, e tutti i suoi vassalli, valvassori, valvassini in camice bianco uscirono in silenzio, senza salutare.   Quindi, mentre venerdì sera aspettavo in quella stessa fila con mio figlio, non potevo non pensare a quei momenti dell’estate scorso. Non potevo permettermi di far passare un bambino, sangue del mio sangue, attraverso il processo di disumanizzazione che conosco e ho testimoniato – anche solo quello dell’attesa ridicola del triage, che è solo il primo grado della cancellazione della dignità umana con la sanità moderna può tranquillamente portarti alla morte. (Renovatio 21, lo sapete, non parla d’altro, su tutti i fronti declinabili).
  Fine flashback. Quindi, dopo aver resistito mezzora in fila solo per avere un pezzo di carta con cui far curare un bimbo in un reparto vuoto, non gliela ho più fatta.   Il padre, stringendo la mano del figlio, lo porta via. «Papà… ma tutti gli ospedali sono così?» chiede lui, intuendo che il silenzio prolungato del genitore nasconde l’incontenibile disprezzo per il sistema. C’è di peggio, gli dico. Ma la questione è la Sanità, lo Stato moderno, in generale, cioè lo Stato impersonale e immorale che giocoforza fa male agli uomini sino ad eliminarli, gli spiego borbottando come il vecchio che sto diventando, incurante del fatto che questi sono discorsi per i miei lettori e non per un bambino di nove anni.   Piano B: mancano pochi minuti alle 20, la grande farmacia sulla strada è aperta. Lì, avevo visto in precedenza, eseguono visite otoscopiche e lavaggi auricolari. Sessanta euro: un salasso. Sono disposto a sobbarcarmelo, pur di liberare mio figlio dal suo problemino all’orecchio, che è il mio. (Sangue del mio sangue… cerume del mio cerume?)   Facciamo la fila anche qui, ma in questo caso c’è il numero, stile salumiere al supermercato. Quindi, la sorpresa: no, in realtà i lavaggi non li fanno, cioè li fanno, sì, ma non sono i farmacisti (anche loro laureati, anche loro con giuramento), ma delle infermiere apposite, che vengono solo ogni tanto, bisogna prenotare, etc. Usciamo dal negozio con il materiale per il Piano C: spruzzo di acqua di mare da 15 euro a bomboletta, flaconcino di dimetilbenzene per ammorbidire il tappo da non so quanto.   Arrivati a casa il Piano C si rivela esattamente quello a cui cercavo di non pensare: un fallimento totale. Lo spruzzetto è insignificante, le goccette sono inefficaci al punto che pensiamo di aver fatto peggio.

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È a questo punto che si fa largo nella mia mente – che mai si deve rassegnare, se si tratta di un bambino – il Piano D: chiamare la guardia medica, quella bizzarra istituzione parallela all’ospedale, l’ambulatorietto dove, diciamoci le cose come stanno, vai quando hai troppa paura della fila in pronto soccorso. Apre la sera, a significare che loro ci sono quando i dottori non ci sono, come se prima essere curato, o anche solo ascoltato, avviene senza problema. Ad ogni modo, una volta andavi, entravi, aspettavi, parlavi col dottore, che ti dava la prescrizione, e via. Non più: dopo il COVID devi chiamare al telefono, dove puoi trovare a volte una persona che ti scoraggia dal presentarti, e prenotare. La pandemia è stata essenzialmente una buropandemia, con la burocrazia che ha infettato qualsiasi istituzione, dalle scuole, alle banche, ai bar… lo sappiamo.   Faccio il numero della guardia medica, ma è troppo presto. Rispondono solo dopo le 20. Attendo, chiamo. Dopo un po’ rispondono. Racconto. Mi dicono che la guardia medica non si occupa dei bambini, che un tappo all’orecchio non è un’emergenza, e di certo loro non fanno lavaggi all’orecchio… io faccio silenzio, perché nell’intimo comincio a capire che la tattica vincente è quella di fare in modo che ascoltino se stessi. Funziona: la ragazza – la dottoressa – mi dice che vabbè, posso portarlo, ma solo per farlo vedere.   Fatta, penso io: ambiente ambulatoriale, niente masse afroasiatiche che premono alle porte, solo un medico e un bambino che sta male, che può essere aiutato con una manovra che dura un minuto, migliorandogli di netto la vita.   Macché. Arriviamo in ambulatorio, una casa cubica grigia praticamente senza finestre e un portone blindato modernissimo. Suoni il campanello, confermi di aver un appuntamento. Entrati, nessuno ci riceve, stiamo 15 minuti ad aspettare da soli al buio. Di sopra senti degli schiamazzi: il personale sta facendo bisbocce, suona come una pausa prolungata, visto che l’orario dell’appuntamento, e dell’inizio delle attività dell’ambulatorio, è quello delle 20:30.   Finalmente scende una ragazzina in camice, è una dottoressa, è quella con cui ho parlato al telefono. Se ha avuto l’umanità di visitare il piccolo, vuoi che non abbia quella di aiutarlo con la più semplice delle procedure, fatta letteralmente di acqua fresca? Guardo nell’armadio: la bacinella-fagiuola c’è, il siringone pure. Fatta. Fatta. Dai.   Invece, la dott.ssa Tizia ci dice che non può fare nulla, loro non guardano i bambini, tantomeno possono fare lavaggi, per quelli devo andare dal pediatra, e visto che non ci sarà per giorni, al Pronto Soccorso pediatrico, cioè il luogo da cui sono fuggito in preda alla rabbia contro il mostro sanitario applicato su tutti, soprattutto sul mio bimbo.   Epperò, per gentilezza, la Tizia dottoressa si offre di «guardarlo», come promesso, e lo fa: fuori l’otoscopio, e in meno di cinque secondi scatta la difficile diagnosi: «sì c’è un bel tappo». Grazie, non avevamo capito. Poi si mette a scrivere a verbale, e qui ci mette un quarto d’ora. La proporzione, mentre aspetto, mi è già chiarissima: cinque secondi per guardare il bambino, e non risolvere nulla perché non è sua mansione, e un quarto d’ora per riempire un modulo burocratico: cosa è importante, per i medici odierni, è chiarissimo. Prima della persona, viene la macchina, il sistema sanitario di cui sono ingranaggi salariati. Prima di Ippocrate, viene il Centro Unico di Prenotazione, il CUP.   La dottoressa ci dà pure una prescrizione per un altro tipo di gocce. Tornando a casa, sconfitti, ci saranno anche quelle da comprare. Così, dirigo verso la farmacia di turno (a quel punto la sola aperta) di un quartiere non semplicissimo (cioè, vinto dall’invasione immigrata), una farmacia non nota per la gentilezza: nemmeno parli attraverso lo spioncino, ma tramite il cassettone con cui devi scambiare la tessera sanitaria, i soldi, il bancomat, contro i farmaci – il farmacista non lo vedi in faccia mai, e neppure, in verità, ne odi la voce. È una transazione impersonale e difficile, cui già mi ero proprio lì sottoposto settimane prima sempre fuori orario, facendo anche allora una fila colossale.   Arriviamo, tra la serqua di immigrati che spuntano ovunque tra il bar e il parchetto circostante, notiamo davanti a noi un africano: ha la testa praticamente dentro il cassettone serale della farmacia, è piegato in avanti e parla a voce altissima, del resto la struttura, come ho detto, non sembra essere fatta per ascoltare il paziente. «Io devo prendere quel farmaco» spiega l’africano al farmacista invisibile. «Io devo… io prendo sempre… non ho ricetta perché non posso andare dal dottor, perché lavoro, faccio autista tutto giorno», garantisce. A fianco a lui, un altro africano a caso, in ciabatte e cappello da baseball, fissa nel vuoto il tramonto sui condomini del quartiere popolare.   Davanti alla persistenza dell’immigrato che cerca di farsi dare un farmaco senza ricetta, e alla blindatura del farmacista ignoto che la rimbalza, perdo, per l’ennesima vola la pazienza: non posso perdere altro tempo qui, con il bambino per mano, e neppure posso rischiare quando l’africano, probabilisticamente, andrà in escandescenze, non capendo, o fingendo di non capire, che per la medicina che vuole ci vuole un documento medico, la prescrizione. Quando ciò accadrà, penso, il pericolo ce lo beccheremo tutto io e mio figlio, che siamo in partibus infidelium, mentre il farmacista invisibile tornerà tranquillo a guardarsi Netflix, protetto da schermature di metallo e vetro antisfondamento.

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Fuggiamo anche da lì, mentre il risentimento per il mondialismo e la Necrocultura sanitaria traspirano dalla mia pelle – il piccolo, sembra comprendere telepaticamente. Del resto è mio figlio, e lo sto crescendo io… Il problema all’orecchio tuttavia rimane, e il papà non sa davvero risolverlo.   Ripieghiamo: altra farmacia di turno, fuori città. Ci metteremo un po’, ma almeno non permetterò che mio figlio possa essere messo in pericolo da colui che senz’altro ci pagherà le pensioni. Qui c’è uno spioncino dci venti centimetri per venti, una finestrella che ti fa vedere una stanza vuota e, quando entra, parte della faccia del farmacista di turno. Qui mi azzardo: «scusi… non è che fate lavaggi auricolari? Se non può aprirmi le passo la testa di mio figlio attraverso la finestrella». Sorride. Non ha idea dello sforzo, e dell’umiliazione, che sto vivendo per trovare qualcuno che aiuti mio figlio. È notte inoltrata.   A casa, è tardi. Preghiere, libro, a letto. Quando gli spengo la luce spero tanto che si svegli con il problema risolto automaticamente. Non è così. Discussioni mattutine con la madre. Forse va via da solo, ma bisogna aspettare. Era successo quando eravamo andati alle terme (altro evento svuotato via dalla memoria cache paterna). Va bene.   Sabato mattinata, lavoro, faccio la spesa, commissioni varie, ma il pensiero mi tarantola. Cosa sto facendo? Lo lascio lì, mio figlio, con un malanno addosso? Ma che roba è?   Il giorno dopo avrebbe avuto il capitolo finale di una delle cose più fondamentali dell’universo, il minibasket. Cosa fa, va in campo e non sente le indicazioni dell’allenatrice? Poco dopo, ci sarebbe un ulteriore evento determinante: esame di passaggio di cintura a judo. Il lettore di Renovatio 21 sa che, nel mondo moderno che ha programmaticamente cancellato ogni forma di iniziazione maschile (con il risultato di generazioni di drogati ed omosessuali), il genitore deve attaccarsi allo sport, surrogato della caccia e della guerra, per ogni briciola iniziatica di sviluppo spirituale possibile.   È così che prendo la decisione più dura: vado a Canossa. Cioè, torno in ospedale. Piano E. Va bene, farò la fila al triage del Pronto Soccorso adulto, quella dove rischiavo di morire soffocato l’anno passato, è per il bene di mio figlio. E poi magari a quest’ora non c’è nessuno, ci mandano subito al pediatrico, e zac, problema risolto, assieme alla mia dissonanza cognitiva di padre che non riesce a trovare, in tutto il sistema, una persona in grado di mettere un po’ di acqua nell’orecchio di un bambino.   Muniti di una Nintendo Switch strategica – per cui la noia me la ciuccio via io, mentre lui seduto gioca a Zelda o Capitan Tsubasa – ci ripresentiamo al Pronto Soccorso, e – colpo di fortuna! Alè! – non v’è nessuno. Subito al bancone, dove però l’infermiera ci mette un po’ a guardarci in faccia. Quando lo fa, dobbiamo rispiegare tutto, ma va bene, siamo vicini alla meta, l’orecchio stappato è dietro l’angolo. Scatta il braccialetto con codice a barre distopico. Evvai. Ampie falcate verso il Pronto Soccorso pediatrico, cioè verso la tanto attesa liberazione auricolare.   Eccoci: le infermiere pediatriche sono appollaiate nei consueti capannelli a reparto praticamente vuoto. Ripeti tutta la storia. Poi le domande importanti. Salute? Sì, sempre in salute. Allergie? No, nessuna. Vaccini?   «No».   «Dico, i vaccini pediatrici normali…», precisa lei. No, nemmeno uno.   L’infermiera esita, si irrigidisce un pochino, vedo. Poi chiede di possibili allergie di farmaci. No. Io ribadisco che vorrei solo, compatibilmente con i loro tempi e le emergenze, che lavassero l’orecchio di mio figlio. Lei chiama una collega più giovane, che, mascherata, mi dice perentoria: ma no, qui non facciamo lavaggi d’orecchio, ci mancherebbe, e poi sono lì per le emergenze… Non c’è nessuno, dico io. «Non possiamo fare questa cosa», dice. Va bene, dico, ma c’è un dottore, in questo momento? Ne hanno disponibili addirittura due, mi informa, e io penso il silenzio del reparto vuoto è tale che probabilmente stanno pure ascoltando direttamente la conversazione.   Le dottoresse, continua l’infermiera mascherinata, al massimo possono vedere il bambino.   A quel punto mi indurisco io: scusi, siamo già stati in guardia medica, abbiamo il referto, cinque secondi di otoscopio hanno confermato che il bambino ha solo un tappo, nient’altro. A questo punto, se non è possibile fare altro, noi andiamo, stiamo perdendo tempo noi, facendone perdere anche a voi.   «È libero di farlo. Metteremo “non risponde alla chiamata”». Chiamata de che? Praticamente ci siamo solo noi. E quindi, pagherò il ticket anche senza ottenere nulla? «Sì certo, arriverà a casa». Nella mia testa, mentre il fastidio tocca vette stratosferiche, si fa largo anche la prospettiva che poi, da qualche parte resterà il fatto che porto mio figlio all’ospedale e poi però spariamo. Sapete: quel tipo di cosa che poi può essere usato contro di te quando magari le istituzioni cercano materia per darti addosso – chi conosce la storia dell’antivaccinismo in Italia sa di cosa parlo.

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Per cui, eccoci con le mani legate (da un braccialetto con codice a barre). La chiamata però è, come intuibile, immediata. Nell’ambulatorio c’è una dottoressa semi-meridionale, anche gentile, con uno stuolo di infermiere che vanno e vengono dalle porte. C’è la possibilità che si consumi l’atto di umanità, e la dottoressa levi il tappo di cerume a mio figlio? No. «Non sono cose che facciamo. Le fa l’otorinolaringoiatra». Quindi, ci mandate di sopra, in otorinolaringoiatria, chiedo. «No, non si può. L’otorino il sabato e la domenica c’è solo al mattino fino a mezzogiorno. È andato via poche ore fa. Non è che possiamo richiamarlo per un orecchio tappato».   Io non replico nulla, continuo semplicemente a concentrare il mio sentimento guardandola dritta negli occhi. Ad un certo punto, per un istante brevissimo, sento che anche lei capisce quanto la situazione sia grottesca, e toglie lo sguardo. Forse solo per un attimo, nella sua mente può essersi fatto largo il pensiero che il suo lavoro, anzi il suo compito, la sua missione, è diverso dal passare le carte, dal fare solo ciò che è demandato burocraticamente?   Forse. Io però ad un certo punto obietto, sia pure con una certa calma: «dottoressa, quindi, mi vuole dire che, tra le migliaia di dottori e infermieri che lavorano in questo ospedale, non c’è nessuno che può fare un lavaggio all’orecchio di mio figlio?». No, mi dice, bisogna sentire l’otorino, che non c’è. Ecco, potete venire domani mattina, se e quando avrà tempo, vi seguirà lui. Queste sono le carte.   Usciamo anche da questo ennesimo capitolo di tritacarne buro-sanitario sconfitti. Nessuno, nell’universo provinciale di dottori, infermieri, farmacisti, vuole aiutarci, nemmeno con un’inezia come un lavaggio d’orecchio – non è (più) suo compito, punto.   SMS alla madre, che era già disillusa. «Tornate a casa… lo sapevamo». Io però non ho intenzione di mollare, e quindi ragiono: quello che ci serve non è un medico, né un sanitario, uno specialista, nulla. No: dobbiamo solo trovare, qui dentro, una persona rimasta umana. Dobbiamo trovare qualcuno che si ricorda che ha giurato per Ippocrate, e non per il CUP. Qualcuno che vede un bambino mogio e, invece, di compilare scartoffie per mandarlo via, lo aiuta.   Piano F, Mission Impossibile: trovare umanità residua, in ospedale? È l’ultima cosa da fare, l’extrema ratio a cui giungere: la ricerca della persona umana. Saltare i canali istituzionali, l’imbuto della burocrazia sanitaria, e parlare faccia a faccia con un essere umano non divorato dalla macchina.   Quindi, ascensore. Reparto Otorinolaringoiatria, dritti – e pazienza se mi hanno detto che il dottore non c’è: una laurea non è la sostanza che stiamo cercando in questo momento. Arriviamo, ho il bambino per mano: c’è silenzio, ma capisco che sono tutti impegnati. In una saletta-ambulatorio c’è un tizio seduto ad una scrivania che parla con uno in piedi, immagino siano dottore ed infermiere, non so, faccio sempre fatica a distinguerli, forse è un effetto voluto, come la sparizione delle suore dagli ospedali.   Mi guardano, ma non si curano, non stanno chiacchierando, ma discutendo operativamente. Io, per cortesia, non li interrompo. So che per la cosa che devo chiedere non devo sembrare scortese, perché ho capito quanto questa quisquilia sia contra legem, quanto l’elasticità della medicina sia totalmente perduta. Non insisto, ma persisto, aspetto fuori dalla porta.   Arriva una vecchia infermiera: «scusi… ha bisogno?» Le spiego tutto. Vorrei solo un lavaggio d’orecchio per questo bambino. «Ma è stato in Pronto Soccorso pediatrico?»… «Veniamo da lì. Ci hanno dato appuntamento qui per domani. In realtà io mi chiedevo se non ci fosse qualcuno in grado di farlo ora… Signora, sono due giorni che giro come una palla da flipper» Mentre mi esce questa similitudine mai venutami prima, sento che, in questo contesto, le mie parole, anche nella volontà di non lasciar trasparire nessun fastidio, possono suonare come pura sfacciataggine. Ma come, senza prenotazione? Ma come, fuori orario così?   «Senta, in realtà il dottore è ancora qui… è molto impegnato però… doveva andare via ore fa. Io non le assicuro nulla, se posso glielo chiedo, vediamo cosa dice. Lei aspetti qui». Mi si apre il cuore: «signora, quello che sta facendo per noi è già ora molto di più quello che ha fatto una dozzina di suoi colleghi nelle ultime ore».

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Il ragionamento era giusto: un essere umano in ospedale ancora esisteva. Ora bisognava vedere se questa sua umanità era condivisa con il suo superiore: cosa non impossibile, perché bonun sui diffusivum, diceva San Tommaso, il bene si espande, la carità è contagiosa. Aspetto in piedi sulla porta, il bambino lo metto seduto con i videogiochi. In reparto lavoro ne avevano: torme di pazienti con il naso fasciato escono dalle camere durante l’orario di visita, ad un certo punto vedo una ragazza che crolla al suolo, non so se per scherzo, mentre famigliari e infermieri turbinano attorno a lei. Un sabato pomeriggio intenso, e io sono lì sono per uno stupido tappo all’orecchio, in effetti.   Arriva, infine, la tanto agognata notizia: vedo l’infermiera buona che parla in fondo al corridoio con il dottore, che è proprio quello che prima stava alla scrivania. Vengono verso di me, lui mi dice che va bene, è tardi, ma facciamolo. Piazzano il bambino su una sedia accanto ad una macchina complicata, che in realtà è uno spruzzo per le orecchie professionale, montato però in modo che il tubicino non arriva benissimo (quanto lo usano…?).   Entrano in sala, dal nulla, altre quattro infermiere, ognuna tiene qualcosa. Il dottore va di otoscopio e conferma: tappone sul destro, tappino, pure, sul sinistro. Zum, acqua nell’orecchio, gli occhietti chiusi in una smorfia di dolore. Salta fuori una roba nera gigantesca, tra inni esultanti delle infermiere.  
  Per il sinistro è più difficile, il dottore chiede uno strumento con un cognome francese – pinza di Villot? Boh! – che nessuna delle astanti sa cosa sia. Se lo trova lui, un ferretto ansato. Due colpetti dentro al padiglione auricolare, tra smorfie di estemporaneo dolore vero del bambino. Acqua: salta un altro tappo, più chiaro, che nuota sconfitto nella bacinella metallica. Altri versi esultanti delle infermiere.   Fatto. Durata del tutto: meno, molto meno di cinque minuti. Difficoltà dell’operazione: inesistente – ma riconosco il bonus ricevuto dall’estrema professionalità dello specialista. Il quale giunge infine alla tremenda realizzazione… non ci sono le carte adeguate… «quindi non posso scrivere niente?» No, però ha aiutato il bambino. E suo padre. Grazie. Grazie infinite.   Il piccolo, come nuovo. Quel senso di liberazione lo conosco bene: sono io, del resto, che probabilmente gli ho trasmesso geneticamente, o chissà in che altro modo, quel problema. Il sabato pomeriggio è andato totalmente (con tutta la sera del venerdì), e lui rifiuta pure di suggellare la vittoria con il gelato: è un bambino tanto bravo, i dolci li mangia solo raramente, e solo quando ne ha davvero voglia.   Io ho modo di elaborare sull’accaduto: sì, come sapevo, la classe medica è cambiata, in nessun modo sente la necessità di aiutare il prossimo, come prevedeva il giuramento di Ippocrate. Non è avvenuto tutto di colpo: giurare di «non somministrare farmaci mortali o suggerire consigli tali, né fornire medicinali abortivi» e poi lavorare tra 194, RU486, vaccini, psicofarmaci, eutanasia, predazione degli organi, non è conciliabile.   Tuttavia, capiamo come la pandemia abbia completato la trasformazione: il dottore è esecutore, lo si può vedere solo tramite interfaccia informatica (quando lo si vede: basta una mail, e ti trovi il farmaco prescritto in farmacia, senza neanche risposta), e una sua eventuale dissidenza, in scienza e coscienza, rispetto alla vulgata dominante è punita draconianamente: radiazione, penale, pubblico ludibrio.   Se la professione medica si automatizza, non possiamo aspettarci che essa tratti i pazienti anzitutto come esseri umani. Giocoforza, la sanità odierna, con i suoi dogmi e i suoi computer, i codici a barre e l’ultra-specialismo, i farmaci non testati e la fine del consenso informato, non può che essere un processo disumanizzante.   Non sono concetti astratti, analisi bioetiche da accademia: è la vostra realtà presente, è ciò che c’è dietro ad un’odissea sfiancante per trovare qualcuno che, semplicemente, faccia un lavaggio auricolare ad un bambino.   Ora, tremiamo davanti all’imbuto che la Sanità dell’impero della Necrocultura mette davanti a chiunque ha un problema ben più grave. E vibriamo di rabbia quando pensiamo che tale problema può essere stato causato dal problema stesso. Che il danno iatrogeno sia in realtà diffuso al punto da rendere insostenibile la società nel suo insieme.   Non si tratta di una questione di poco conto. La ridefinizione totale del sistema sanitario ridotto ad apparato di dolore e morte, pena l’implosione sua e della civiltà, è la sfida più grande che ogni partito politico raziocinante, ogni essere umano rimasto tale, deve intraprendere.   Perché, ne ho dimostrazione materiale, questa macchina disumana è qualcosa che non possiamo permetterci vedere inflitta sui nostri figli.   Roberto Dal Bosco

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Necrocultura

La terapia antirigetto sta finendo. Il tempo dei mostri e delle vacche sacre arcobaleno pure

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Nella vita è capitato a tutti, magari giocando da bambini, di infilarsi una scheggia sotto pelle. A quel punto interveniva la saggezza della mamma o della nonna: non ti preoccupare, il corpo espellerà il pezzettino di legno, è una reazione naturale.

 

Il corpo non tollera qualcosa di altro da sé, qualcosa di contrario al suo programma.

 

Che poi è la grande questione – rimossa, censurata nel palcoscenico pubblico – dei trapianti: ti dicono che hanno trovato un donatore «compatibile», poi però il trapiantato finché campa deve pigliare farmaci che impediscano il rigetto dell’organo alieno inserito nel suo corpo (uccidendo un’altra persona, ma questo è un altro discorso…fino ad un certo punto). Un modo come un altro – ce ne sono vari altri, tutti di gran moda – di diventare ad vitam cliente di Big Pharma.

 

In pratica l’immenso business dei trapianti non si reggerebbe senza le droghe che reprimono la natura e i suoi processi fisiologici. In mancanza di farmaci antirigetto, la realtà dei trapianti si manifesterebbe per quello che è: una discendenza del mostro gotico di Frankenstein.

 

Ora, lo stesso fenomeno si può dire lo abbiamo subìto per la mente. Non solo la nostra, ma quella di tutta la società mondiale.

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Per decadi (in ispecie l’ultima), hanno trapiantato nel cervello dei singoli e dei popoli ogni sorta di aberrazione: ecco i matrimoni gay, ecco il feticidio come diritto assoluto, ecco la morte di Stato per deboli ed ammalati, ecco gli immigrati importati e privilegiati, ecco il fanatismo climatico appaltato alla ragazzina Asperger, ecco i sieri genici obbligatori, ecco i bambini castrati e imbottiti di ormoni sintetici (prodotti forse biochimicamente nemmeno troppo lontani dai quelli usati per evitare il rigetto di organi altrui).

 

Non è la prima volta che nella società umana sono innestati tessuti mostruosi – la decadenza è simile per ogni civiltà – e nel tempo, emersa la loro incompatibilità con la vita, sono stati combattuti e infine esplusi. Essi, per potersi mantenere e replicare all’interno del corpo sociale, richiedono dosi potenti di immunosoppressori e di cocktail antirigetto.

 

Adesso sappiamo come ciò avveniva: dalla nuova amministrazione americana apprendiamo che serque infinite di enti, conventicole e movimenti venivano pagati da USAID (che, con un budget di 50 miliardi, poteva distribuire 1 miliardo di dollari a settimana) per megafonare l’aberrazione, la riforma antinaturale della società.

 

L’orda di effeminati infervorati, di obese con la chioma viola, di psicosessuologhe oltranziste, di avvocaticchi d’assalto, e di comizi, corsi di aggiornamento, conferenze e concerti di riporto, non erano un fatto organico, spontaneo. No. Erano innaturali come i capelli pittati o il davanzale al silicone di un trans disperato: erano tutti lì, a suonare lo stesso spartito, solo perché pagati per diffonderlo urbi et orbi, sulla pelle dei più vulnerabili.

 

Siccome ogni società umana rimasta sana tende alla propria sopravvivenza e non tollera inclusioni ad essa incompatibili, era indispensabile una propaganda senza requie, ed era necessario pure abbinarla alla censura, per spegnere i globuli bianchi ancora in circolazione.

 

Per decenni siamo stati drogati per accettare il gender, l’Ucraina democratica, ogni sorta di diktat della cultura della morte. Ci hanno iniettato oceani di sostanze antirigetto. La scuola, le serie TV, lo sport, i film, Sanremo… la terapia è stata ubiqua e persistente. Eppure – ci viene da sorridere – siamo ancora qui. E stiamo per assistere alla fine di questa cura fallita.

 

Possiamo sperare che la chiusura dei rubinetti da parte dello Stato profondo americano produrrà esiti da non credere: muri di opposizione si sbricioleranno, agenti della necrocultura cambieranno mestiere, armate di attivisti agguerriti svaniranno lasciando il nulla dietro di sé. Vacche sacre arcobaleno si dissolveranno.

 

Niente di tutto questo esisteva davvero: si trattava di una presenza disorganica nelle nostre vite, che pensavamo di non poter scacciare mai, ma che stava lì solo perché qualcuno pagava un esercito di piccoli mostri mercenari per tenerla in piedi.

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Qualche esempio concreto lo abbiamo appena veduto.

 

Nello studio ovale, il presidente ha investito del massimo potere sanitario il re dell’antivaccinismo mondiale. E nel discorso di investitura, ha citato l’autismo, e il numero tragico di cui è (era…) proibito parlare in pubblico: pochi anni fa i bambini autistici erano uno su 10.000, ora nello spettro se ne conta uno ogni 38.

 

A Monaco, davanti ai papaveri europei e mondiali, il vicepresidente americano ha parlato, chiamandolo per nome e cognome, di Adam Smith-Connor, il veterano britannico arrestato e condannato per aver pregato in silenzio dinanzi a una clinica abortista.

 

Ora, capiamoci: questa storia di Connor era circolata solo sui siti pro-life, e in Italia probabilmente gli unici a conoscerla erano i lettori di questa testata. Ora invece ne parla il numero 2 della superpotenza egemone, e in faccia ai burocrati parassiti che vegetano ai vertici della geopolitica planetaria.

 

È come se il nostro piccolo mondo antico fosse ora il mondo intero.

 

Quelle che sembravano energie sprecate, storie dimenticate, battaglie perdute, sono ora al centro di tutto, nella stanza dei bottoni. O almeno, pare proprio che sia così. Stropicciamoci gli occhi: era solo l’incubo di una lunga notte.

 

Il tempo dei mostri sembra che stia per finire, la natura si riapproprierà dei suoi spazi come un elastico di ritorno, e presenterà i suoi conti. Mai avremmo pensato di vedere il momento in cui d’improvviso diventa possibile dirlo.

 

Dopo la disintossicazione della società dal trattamento di immunosoppressione massiva forse si prepara una nuova vittoria della realtà e della vita.

 

Roberto Dal Bosco

Elisabetta Frezza

 

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Necrocultura

Il piano inclinato della morte cerebrale

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La civiltà occidentale nel corso dei secoli ha uniformato il suo diritto e la sua morale alla tradizione filosofica secondo cui l’essere umano è composto di anima e corpo e ha nell’anima razionale il principio vitale che lo caratterizza.   Questo principio vitale di natura spirituale, pur essendo nel corpo, non si trova nel cuore, nel cervello né in qualsiasi altro organo, tessuto o funzione. Sulla base di tale assunto, ciò che sostanzia l’uomo non è l’intelletto, né l’autocoscienza e neppure l’interazione sociale, bensì l’anima razionale che contiene in potenza l’uso di tutte queste funzioni.   La vita umana inizia con l’infusione dell’anima nel corpo e termina con la separazione da esso, nel momento in cui l’organismo si dissolve nei suoi elementi.

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I momenti iniziale e finale della vita sono avvolti dal mistero ed è compito della filosofia indagare e speculare su di essi; la morale invece ha il dovere di trattare l’essere umano più innocente e indifeso, l’embrione, come una persona, perché non si può escludere che l’anima venga infusa nell’uomo fin dal momento del concepimento (questa tesi è oggi prevalente tra i teologi e i filosofi) e perché qualsiasi atto aggressivo nei suoi confronti rappresenta, in ogni caso, un attentato alla vita umana.   Per le medesime ragioni, il principio di precauzione deve essere applicato anche all’individuo di cui non è stata accertata la morte al di là di ogni ragionevole dubbio.   I casi di morte apparente, ossia di ritorno alla vita dopo diverse ore in cui erano scomparse tutte le manifestazioni vitali, stanno a dimostrare che fra il momento della morte accertata e quella reale esiste sempre e comunque un periodo più o meno esteso di vita latente. Pertanto, fintantoché non è possibile avere l’oggettiva certezza dell’avvenuto decesso di un essere umano (l’inizio del processo di decomposizione del corpo) sussiste l’obbligo morale di evitare ogni azione lesiva della sua persona.   Questa impostazione è stata prevalente nel mondo occidentale fino agli anni sessanta per poi essere soppiantata da una visione utilitaristica e materialistica dell’esistenza.   È evidente come il criterio neurologico di morte venne introdotto al fine di stabilire chi conveniva dichiarare morto, non chi era effettivamente deceduto. Nella nuova definizione di morte, commissionata agli esperti di Harvard, al cervello viene arbitrariamente attribuito il ruolo che compete all’anima razionale, ossia dirigere e governare tutti gli organi e funzioni che compongono l’organismo umano.   Quindi, coerentemente con tale impostazione, una lesione cerebrale ritenuta irreparabile comporterebbe la fine dell’essere umano considerato come un tutt’uno integrato, e i segni vitali ancora presenti nell’individuo dichiarato cerebralmente morto costituirebbero dei meri riflessi e/o delle funzioni mantenute in maniera artificiale mediante il supporto farmacologico o l’ausilio di macchinari.   Una volta dichiarata la morte cerebrale, «viene interrotto qualsiasi supporto vitale. I familiari possono voler essere accanto alla persona in quel momento. Hanno bisogno che venga spiegato loro che uno o più arti possono muoversi quando viene interrotta l’assistenza respiratoria o che la persona può addirittura sedersi (talvolta chiamato segno di Lazzaro). Questi movimenti sono causati dalle contrazioni muscolari di riflesso della colonna vertebrale e non significa che la persona non sia in stato di morte cerebrale». (Manuale MSD, diagnosi della morte cerebrale).   Da notare come gli estensori del Manuale, probabilmente per non cadere in dissonanza cognitiva, non se la siano sentita di definire cadaveri per l’appunto le persone che dimenano gli arti perché non riescono a respirare …   La stessa legge 194/1978 sull’aborto volontario, che fissa il limite dell’omicidio dell’innocente entro i primi 90 giorni dal concepimento, poggia le sue basi ideologiche sulla tesi del cervello come sede dell’essere, senza di cui non è possibile considerare il bambino ai primi stadi dello sviluppo come una persona, bensì come un semplice agglomerato di cellule e tessuti.   Non solo, il fatto che per i novatori il cervello costituisca il principio vitale dell’individuo pone in ogni caso il bambino non ancora nato, o comunque non ancora in grado di avere una vita autonoma al di fuori del grembo materno, in una posizione di «inferiorità ontologica»: non è affatto chiaro, infatti, quando un feto o un bambino molto piccolo possa aver sviluppato la quantità richiesta di autocoscienza per poter essere considerato una persona.   Sono note le teorie del filosofo australiano Peter Singer secondo il quale uccidere un neonato non equivale moralmente a uccidere un essere umano razionale e autocosciente e che un malato può essere eliminato se ciò può tornare utile alla società. È quindi interessante notare come Singer sia stato molto critico nei confronti del nuovo criterio di morte cerebrale. Egli riteneva infatti che non ci fosse bisogno di contrabbandare una scelta etica con una indimostrata presunta verità scientifica.   Il recente fatto di cronaca accaduto a Traversetolo in provincia di Parma, in cui due bambini appena nati sarebbero stati uccisi dalla madre e sepolti nel giardino della villetta in cui abitava insieme ai genitori, è emblematico dell’insopportabile ipocrisia di una società che condanna l’eliminazione di un innocente appena nato e al contempo considera un diritto l’uccisione del medesimo bambino innocente poco prima, quando si trova ancora nel grembo materno.   Con l’introduzione del rivoluzionario criterio della morte cerebrale, il cogito ergo sum di cartesiana memoria entra prepotentemente nel diritto e nella prassi medica, finendo per relegare l’essere umano nell’angusto ambito dell’autocoscienza.   I casi relativamente recenti di Vincent Lambert in Francia e dei piccoli Charlie Gard e Alfie Evans in Inghilterra, così come altri tragici casi italiani, possono rappresentare casi di persone uccise tramite eutanasia di Stato semplicemente perché bisognosi di cure e assistenza, stanno a dimostrare che una volta ridefinito il criterio di accertamento della morte si è passati consequenzialmente a ridefinire il significato stesso di essere umano, attraverso l’arbitraria distinzione tra vite degne e indegne di essere vissute.

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In altri termini, a prescindere dalla condizione clinica e dallo stato di coscienza in cui si viene a trovare un determinato soggetto, il suo diritto alla vita è subordinato alla «qualità» della sua esistenza, che si fonda essenzialmente sulle capacità intellettive del soggetto.   Pertanto, il vero obiettivo della rivoluzione non era quello di modificare il criterio di accertamento della morte bensì, attraverso di esso, di arrivare a trattare gli esseri umani, nessuno escluso, come corpi senz’anima, ammassi di organi tenuti insieme da principi meramente meccanicistici.   Non stupisce allora come nella società contemporanea l’uomo venga considerato un prodotto, un insieme di «pezzi di ricambio».   Cos’è la fecondazione in vitro (e tutte le pratiche da essa discendenti come l’utero in affitto e l’utilizzo di cellule embrionali per la produzione di farmaci e vaccini) se non la produzione in laboratorio dell’essere umano ridotto a bene di consumo?   Cos’è la cosiddetta «donazione» (meglio dire: predazione) degli organi se non la logica conseguenza della riduzione dell’uomo a merce di scambio?   Cos’è l’eutanasia se non l’omicidio di una persona le cui facoltà intellettive risultano ridotte o latenti?   Cos’è l’infanticidio se non l’inevitabile approdo della Necrocultura imperante il cui fondamento pseudo scientifico è la cosiddetta morte cerebrale?   Alfredo De Matteo

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    Immagine di JasonRobertYoungMD via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International;immagine modificata.
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