Pensiero
Ma quale amnistia: Norimberga 2.0 per i gerarchi pandemici

Un professore della New York University, tale Scott Galloway è stato ospitato la scorsa settimana dal comico di sinistra Bill Maher nel suo popolare talk show Real Time, una trasmissione molto seguita del canale televisivo via cavo statunitense HBO.
Il Galloway si era fatto notare, durante la pandemia, per le sue proposte di lockdown duro. Su Business Insider, nel luglio 2020, aveva scritto un articolato intitolato «Le Università devono pensare come le aziende per sopravvivere al COVID-19». In un altro articolo pubblicato dalla USS University, aveva predetto che centinaia di università americane sarebbero perite o avrebbero avuto difficoltà ad andare avanti a causa del fattore coronavirus. A novembre del primo anno pandemico il professore di marketing aveva già mandato in stampa un libro, Post-corona. Dalla crisi all’opportunità.
Con ogni evidenza, il professore neoeboraceno era uno di quelli che nella pandemia, come si usa dire, ci aveva «preso dentro».
Tuttavia eccotelo qui, a fine 2023, a fare un tardivo mea culpa. Durante una tavola rotonda con Maher e l’ex governatore dello Stato di New York Andrew Cuomo (quello accusato di aver piazzato malati COVID negli ospizi, con strage annessa), il Galloway ha ammesso di aver «sbagliato» nel sostenere politiche di lockdown prolungato.
Si tratta di una vera domanda di amnistia, non dissimile da altre emerse negli ultimi mesi, ma qui molto accorata.
«Ero nel consiglio della scuola dei miei figli durante il COVID. Volevo una politica di blocco più dura. In retrospettiva, mi sbagliavo. Il danno causato ai ragazzi nel tenerli lontani dalla scuola più a lungo è stato maggiore dei rischi», ha confessato il professore, maglioncino, occhiale a montatura spessa e pelata à la Michel Foucault.
"I was on the board of my kids' school during COVID. I wanted a harsher lockdown policy. In retrospect: I was wrong. The damage to kids of keeping them out of school longer was greater than the risk. But here's the bottom line: We were doing our best. But let's give a little… pic.twitter.com/8Vt2NujNKl
— Eric Abbenante (@EricAbbenante) October 28, 2023
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«Ma il punto è questo: io, le nostre grandi persone, il CDC, vorrei ringraziare il governatore. Operavamo tutti con informazioni imperfette e stavamo facendo del nostro meglio», ha insistito, con gli occhi bassi. «Ma impariamo da questo. Riteniamoci reciprocamente responsabili, ma portiamo un po’ di grazia e perdono nello spettacolo di merda che è stato il COVID».
Non è chiaro cosa abbia fatto abbassare la cresta al professore. Forse in lockdown una figlia gli è diventata anoressica a 8 anni? O forse si è depressa a morte? Forse un figlio gli si è trasformato in una belva che fa risse pubbliche di violenza estrema? Forse un figlio si è suicidato?
In fondo non importa. Perché «stavamo facendo del nostro meglio». Sì. Certo.
La rete è, ovviamente, impazzita. Su Twitter gli utenti hanno avuto reazioni di ironia e di rabbia. Alcuni hanno ricordato come «la squadra della realtà» abbia gridato dai tetti da subito, mentre vedeva il mondo affogare in un diluvio di paura e corruzione. In tanti ricordano come chi provava ad opporsi fosse ridicolizzato, emarginato, gettato fuori dai social e dalla società. Moltissimi dicono: nessuna pietà. Dopo essere stati zittiti dagli «esperti», incompetenti nel migliore dei casi e forse pure corrotti, chi ha voglia di perdonare?
Io, per primo, non ho attualmente nessuna intenzione di dare il perdono a chicchessia. Si tratta, ovviamente, di una questione politica – biopolitica, se volte – che riguarda un quadro più grande della mia vita offesa dalla tirannide pandemica.
Lasciare correre i crimini subiti, dimenticarci dei mostri che li hanno perpetrati, significherebbe cedere rispetto al grande piano di sottomissione planetaria di cui il COVID è stato il prodromo: su queste pagine lo abbiamo ripetuto ad nauseam, il fine del COVID è un sistema di controllo bioelettronico onnipervasivo iniziato con il green pass e pronto a continuare con l’euro digitale, per poi arriva, inevitabilmente, al chippaggio della popolazione, se va bene sotto la pelle, se va male direttamente nel cervello (destinazione ultima dell’apparato di sorveglianza, che vuole l’anima e in quanto materialista crede stia nel cervello).
Perdonare oggi significa lasciare il campo libero alla tecnocrazia in fase di caricamento. Significa, soprattutto, credere che la questione sia finita. Non lo è. Anzi, è facile dire che non abbiamo visto ancora niente.
Tuttavia, ci sono altri motivi per cui non intendo dimenticare quanto ci è stato fatto. Motivi personali, più intimi del fatturato disintegrato e dei negozi che hanno cacciato fuori me e mio figlio, più profondi della pena economica e dell’apartheid biotica.
Qualche settimana fa chi scrive, all’ultimo piano dell’ospedale di una città dell’Alta Italia, ha sentito che dentro gli stava montando qualcosa di raro nella sua vita adulta: una spremuta d’occhi. Ero andato a trovare un caro amico ricoverato in oncologia. Fino a poche settimane prima, eravamo insieme a bere birra e limonata guardando i nostri figli giocare in giardino. Cene in terrazzino, passeggiate nella natura – perché lui è un tizio sportivo, dedito ad una vita sana.
Poi di colpo, i dolori. Ecografie. TAC. La diagnosi che ha fatto cadere tutti dalla sedia, con qualche amica che ha pianto. Cancro. In più luoghi del corpo.
Devo dire che lo shock è stato tale che, a differenza di altri, non ho pensato subito alla questione. Poi amici in comune me lo hanno suggerito: «turbocancro». Ognuno, salta fuori, ha una storia di un parente, un collega, un conoscente che ci è passato: signora guarita dal cancro decenni fa se lo vede tornare; diciottenne sviluppa un tumore poco dopo l’iniezione (perfino nel punto stesso della puntura, mi hanno raccontato); madre di famiglia diventa terminale nel giro di pochi mesi, diciottenne sviluppa immediatamente; bambino trattato per leucemia ritorna malato subito dopo che avevano detto che molto raramente sarebbe tornato.
Tutti aneddoti, storie che aspettano di diventare letteratura scientifica, quindi non spendibili per gli «esperti», che pontificano mentre la gente, davvero, muore. Tutte storie che sentiamo oramai da due anni.
Chi segue Renovatio 21 sa che qualcuno, tuttavia, sta alzando la testa, e vari dottori stanno segnalando questo possibile effetto collaterale ulteriore: il vaccino del secolo potrebbe causare il male del secolo…? Con il vaccino polio, credendo agli studi sugli effetti cancerogeni dell’SV40, potrebbe essere andata così, e ribadiamo di essere allibiti dall’esserci ritrovati davanti al virus delle scimmie anche qui, pure dentro a sieri in teoria privi di cellule.
Alcuni estremisti ritengono che potrebbe essere tutto programmato, e tra poco, dicono, tireranno fuori dal cilindro un vaccino mRNA contro il cancro. Ipotesi davvero estrema: tuttavia abbiamo visto che Moderna, il cui vaccino è accusato di produrre la miocardite, sta sviluppando un vaccino contro gli infarti…
Torniamo all’ospedale, a quando sono stato a trovare il mio amico la prima volta. Ricordo il senso di quiete della domenica sera, la città buia sotto di me, il ronzio dei neon, il sentimento di soggezione che mette sempre l’inoltrarsi in un nosocomio. Ricordo di essermi perso tra ascensori e corridoi, e di aver chiesto informazioni ad un’infermiera che mi ha subito redarguito perché sprovvisto di mascherina.
Ricordo soprattutto il momento in cui l’ho visto, lì sdraiato sul letto. Come se il mio essere, per un istante, si fosse bloccato, come se dovessi fermarmi e resettare, perché non venivano né parole né pensieri. C’era solo questo colpo, questa commozione. E la spremuta d’occhi, che sentivo salire subito, incontrollata.
È in quel momento che capisci che la questione è molto, molto più grande di te. Tu non ne hai il controllo. Esserti informato, esserti protetto e preparato per anni, non ti salva, in realtà. Non puoi evitarlo, oramai il danno è troppo grande, è immenso, è ramificato.
Nessuno può dirsi al riparo dal COVID, anche se non lo ha mai preso, anche se non ha mai fatto un vaccino, né un tampone: perché la pandemia ha comunque distrutto una parte della sua vita. Ci sono collaboratori di Renovatio 21 che hanno tagliato i ponti con le famiglie di origine, altri che hanno visto il rapporto coniugale esplodere. Nel mio piccolo, posso dire che ramificazioni delle «morti improvvise» hanno mandato fuori equilibrio anche la famiglia da cui provengo, mandandola ad un passo dalla distruzione.
Il dolore di tutto questo è immenso. Più importante: non è finito.
E ora, volete chiedermi di perdonare? Volete chiedermi di dimenticare? Volete che abbuoni la catastrofe mentre ancora questa sta distruggendo le nostre vite?
Sì, loro vorrebbero. I gerarchi pandemici lo domandano perché forse hanno capito che hanno calcato la mano, ma vogliono salvare il metodo: lo devono riutilizzare presto, magari per «l’ambiente», dove non si può dire che agiscano senza dati, ci garantiscono che il consenso scientifico sul Cambiamento Climatico è del 100%, eccerto. Se non è per la sparizione delle mezze stagioni, sarà per qualcos’altro: per l’economia, per la guerra, per l’energia, per il terrorismo, per l’atomica. Magari per un’altra pandemia: un altro virus che «scappa» da un laboratorio di bioingegneria Gain of Function a caso, stavolta magari ancora più mortale, un Ebola wuhanizzato. E via.
Ci stanno dicendo: perdonateci, perché continueremo a farlo. Di fatto, non stanno chiedendo scusa.
E invece noi non scorderemo nulla. E anzi, non molleremo mai l’idea di una nuova Norimberga, dove, a differenza che con il nazismo, non saranno giudicati pochi medici sadici, ma migliaia e migliaia di gerarchi pandemici, sanitari e non.
È un desiderio che in tanti mi hanno confessato. La Norimberga 2.0 ce la hanno nel cuore in moltissimi, e credo che sia un meccanismo completamente naturale: la mente umana fantastica, programma un momento in cui la dissonanza cognitiva generata dall’ingiustizia planetaria trova la sua soluzione, anche epica, anche spettacolare.
Perché continuare a vivere in questa assenza di giustizia, ad un certo punto, diverrà insopportabile.
Dimenticare quanto ci hanno fatto, e non sognare Norimberga, serve solo a chi vuole ripetere il piano, e sottometterci, e farci soffrire, e ucciderci sempre di più.
Io non posso farlo. Io, mentre sto combattendo con le lacrime agli occhi, non posso perdonare nulla.
Roberto Dal Bosco
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Pensiero
Il ritorno della diplomazia vaticana. A papa morto

President Trump sat down to meet privately with Ukrainian President Volodymyr Zelenskyy in St. Peter’s Basilica in Vatican City this morning. pic.twitter.com/QChPiZRKzM
— The White House (@WhiteHouse) April 26, 2025
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Qualcuno dirà: la solita trovata, perfetta, di Trump. Optics. Look. PR – è comunicazione visuale, lui è un maestro, a partire dall’insistenza diacronica per il ciuffo sintetico, inconfondibile, immediato. Non saprei dire: l’ultima volta che aveva saputo ingenerare un’immagine di tale potenza forse Dio stesso gli aveva dato una mano: quando gli spararono e lui alzò il pugno al cielo col volto rigato di sangue e la bandiera USA che garriva sopra di lui. Il Vaticano quindi pare essere tornato, brevemente, estemporaneamente, involontariamente, il vero luogo della diplomazia, e della pace globale. Dio, la tradizione cattolica – quella per cui questa micrologica monarchia teocratica, per quanto acciaccata, è ancora nella mente e nel cuore di tutta l’umanità e dei suoi leader – lo hanno permesso. Una preghiera acciocché torni quel tempo dove il centro del mondo coincideva con il centro del suo spirito. Solo da lì si può ricostruire l’equilibro. Solo ricostruendo la Chiesa si potrà avere la vera pace. Make Vatican Great Again. Ma sul serio. Roberto Dal BoscoBehind Scenes, Vatican City—President Trump sat down to meet privately with Volodymyr Zelenskyy of Ukraine this morning in St. Peter’s Basilica… pic.twitter.com/zzC78AgbNh
— Dan Scavino (@Scavino47) April 26, 2025
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Pensiero
Buon San Marco: il leone per i nostri lettori, l’asino della favola di Angleton per tutti gli altri

Oggi, 25 aprile, auguriamo Buon San Marco a tutti i lettori. Come ogni anno.
I non veneti potrebbero non saperlo: la cosiddetta «Festa della liberazione» ha di fatto occupato l’antica festa dell’Evangelista del Leone. A dire il vero, anche molti veneti dell’entroterra oggi lo ignorano.
Meteo permettendo, auguriamo a chi ci legge di passare una splendida giornata con chi amano (la festa di San Marco, a Venezia, ha una tradizione romantica fatta di bócołi di rosa scambiata tra innamorati, una storia che tra origine dalla tragica leggenda di Tancredi che per sposare Maria partì a combattere i mori in Ispagna con Orlando: una tragedia che Romeo e Giulietta, levàteve) e con i famigliari e gli amici tutti. Vai di grigliate, vai di passeggiate, scampagnate, zainetto e picnicco – e pomiciate sotto l’albero per tanta giovenù dal cuor leggero.
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Sappiamo tuttavia che tanti nel nostro Paese ignorano la bellezza della Festa del Leone di San Marco perché ancora sotto l’incantesimo comu-repubblicano: festeggiano la «liberazione» dal male di tutti i mali, quel totalitarismo che spingeva il Paese ad una guerra per cui non era pronto, impediva la libertà di parola, obbligava alla vaccinazione causando morti, etc. (Se non vi fischiano le orecchie, non le avete, ma nemmeno gli occhi, la bocca, il naso).
L’inno alla partigianeria prosegue nonostante i partigiani siano oramai quasi tutti morti: come un tulku tibetano, un residuo spirituale vagante, o come un’accisa sulla benzina per il terremoto dell’Irpinia.
Ebbene, ci toccherà anche quest’anno il frusto rito del 25 aprile con la sua marcetta milanese dal luogo del sacrifizio regicida, che epperò nelle ultime edizioni è stato di grande intrattenimento: vedere sfilare falce e martello a fianco della Rosa dei Venti NATO, i sedicenti discendenti partigiani tra le bandiere ucronaziste (qualcuno non c’è stato – risuona ancora l’urlo del comunista rimasto tale: «Azovdimmerda!»).
A costoro vogliamo raccontare, tuttavia, di un altro leone, e dell’asino
È una favola da Fedro, I secolo d.C. Si intitola «Leo senex, Aper, Taurus et Asinus», ma per tutti è, semplicemente, la storia del «calcio dell’asino».
Defectus annis et desertus viribus
leo cum iaceret spiritum extremum trahens,
aper fulmineis spumans venit dentibus,
et vindicavit ictu veterem iniuriam.
infestis taurus mox confodit cornibus
hostile corpus. asinus, ut vidit ferum
inpune laedi, calcibus frontem extudit.
at ille exspirans «Fortis indigne tuli
mihi insultare: te. Naturae dedecus,
quod ferre certe cogor bis videor mori».
La nostra traduzione:
Avanti con gli anni e abbandonato dalle forze
il leone giaceva lì, esalando l’ultimo respiro,
Il cinghiale arrivò schiumando con denti fulminei,
e vendicò con un colpo una vecchia offesa.
Il toro feroce trafisse subito il corpo del nemico con le sue corna.
L’asino, quando vide la bestia selvaggia
ferita impunemente, tirò un calcio sulla fronte.
Il leone mortì. Ma prima disse: «Amaro fu l’assalto di quei forti.
Ma dopo il tuo, viltà della natura,
mi sembra di morire anche due volte»
La notissima favola, poi ripresa da La Fontaine, talvolta invece che il discorso del leone che muore amareggiato e umiliato, riporta il vanto dell’asino, che, essendo stato l’ultimo a colpire – un calcetto, e basta – rivendica di aver ucciso lui il re della foresta.
È una favola pure quella dei partigiani che vincono da soli il fascismo – quasi che gli angloamericani, con il loro saturation bombing che ha devastato le nostre città (case, chiese, basiliche, tutto), con le loro truppe sbarcate in massa sulle nostre coste, con le loro basi di occupazione militare che tutt’ora sono presenti nel territorio, non fossero mai esistiti.
La possiamo chiamare la favola di Angleton, da James Jesus Angleton (1917-1987), la «madre» della CIA, l’uomo che – cresciuto a Milano – organizzò la trama non solo dello sbarco alleato in Sicilia, per il quale, come noto, fece un patto con la mafia, finito – è la nostra ipotesi – con i fatti di Castelvetrano, dove nel 1944 ci era Roosevelt con tutto lo Stato maggiore USA e anni dopo Matteo Messina Denaro come tranquilissimo superlatitante.
No: Angleton gestì la guerra e il dopoguerra, creò la Repubblica (con il referendum) e la Democrazia Cristiana, con l’immissione del pensiero cattodemocratico (cioè è, anglo-sintetico) di Maritain, pensatore nutrito dalle università americane da cui Angleton proveniva all’interno di una panchina di uomini tenuti a bagnomaria dalla Chiesa, come De Gasperi, ma anche Andreotti etc.

James Jesus Angleton. Immmagine CC0 via Wikimedia
Angleton, detto anche Kingfisher («il martin pescatore», o, più in linea con i suoi interessi letterari, «il re pescatore»), è il vero «liberatore» dell’Italia e fondatore della Repubblica italiana: e nessuno, oggi, gli rende omaggio, nemmeno una parola per il suo animo sensibile di laureato in poesia, che scriveva lettera di ammirazione a Ezra Pound (mentre lo teneva in prigione…), che definiva la sua condizione di uomo a capo delle percezioni più importante del suo Paese (il controspionaggio) con un’espressione toccante e magnifica presa da T.S. Eliot: «il deserto degli specchi».
Il «deserto degli specchi», infine, lo fece impazzire: i russi, che avevano piantato talpe clamorose nei servizi occidentali, lavorarono per farlo diventare paranoide oltre ogni limite. Non una storia a lieto fine, a differenza della favola della guerra.
Più che al partigiano Johnny, noi italiani moderni dobbiamo tutto a James Jesus. Renovatio 21 lo ricorderà sempre. Anche quando l’Italia come la conosciamo potrebbe non esserci più.
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Dalla storia che stiamo raccontando, ad un certo punto, qualcuno potrebbe trarre conclusioni abissali: una repubblica fondata su un calcio dell’asino, è una repubblica asinina? Una società che gode nell’uccidere i leoni, a cosa somiglia? Uno Stato creato da asini calciatori, ha prodotto e continua a produrre asini e calciatori, fino a quale limite di sostenibilità?
Non rispondiamo: le fiabe sono per i bambini, gli adulti invece, proprio come la superspia che conosceva La terra desolata, dovrebbero leggere poesie e pensieri profondi.
Quindi: buon Angleton Day agli asini delle favole.
E le ali del Leone di San Marco per tutti i nostri lettori!
Roberto Dal Bosco
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