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Pensiero

L’era dei normaloidi

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«Normalista» secondo il dizionario oggi sta a significare uno studente o un ex studente della prestigiosa Scuola Normale Superiore di Pisa, che epperò ha sedi anche sedi, tutte nella laicissima Toscana. Ammetto che la prima volta che sentii parlare dell’esclusivo istituto, da bambino, pensavo che si chiamasse «Anormale».

 

Nel senso: negli anni prima di Internet, ero riuscito a carpire se vi fosse una scuola per geni così come la vediamo nei film americani. In una delle prime puntate dei Simpsons trasmesse in Italia, Bart riesce a farsi ammettere con l’inganno in un istituto per bimbi intellettualmente superdotati. In Italia ci sarà pure qualcosa del genere, no? Una scuola che si chiama «Anormale», perché i suoi studenti sono anormalmente intelligenti, sembrava rispondere alla domanda.

 

Negli anni, imparai non solo che mi sbagliavo, ma che l’essere normalista non era in sé qualcosa che guadagnava automaticamente la mia ammirazione. Se guardate alla lista degli alumni, sarete colpiti dal fatto che si tratta di un’infornata qualsiasi di personaggi più o meno organici allo Stato-partito piddino, più qualche scienziato premiato da qualche parte. Tutti, va da sé laici, laicissimi. Diciamo così.

 

L’unico nome che mi veniva in mente, pensando ad un ex-allievo della Normale, era quello di Carlo Azeglio Ciampi: il direttore della Banca d’Italia durante l’attacco alla lira da parte di George Soros nel 1992, che con l’allora premier Amato imbastì una difesa della valuta nazionale totalmente fallita, con crollo rispetto a dollaro e marco, e uscita dallo SME. Il normalista Ciampi fece comunque scatti di carriera: divenne presidente del Consiglio e presidente della Repubblica, mentre a Soros nel 1997 avrebbero conferito una laurea ad honorem all’Università di Bologna. Tutto normale, normalissimo, normalista.

 

Una diecina di anni fa ricominciai a sentire il termine «normalista» durante i primi fervori per il papato impazzito: c’erano due papi, e uno dei due aveva cominciato a sparare cose allucinanti sin dal primo secondo in cui Bergoglio aveva infilato l’anello piscatorio (già il nome, Francesco come il Santo di Assisi, era oggetto di critiche: nessuno aveva osato prima dell’argentino).

 

Credo di averlo letto forse in una lettera, un’email di gruppo – non ricordo – del compianto scrittore e bioeticista Mario Palmaro. Il termine fu poi pubblicato ripetutamente in un articolo per Il Foglio scritto in coppia con l’inseparabile Alessandro Gnocchi, «Questo papa non ci piace» (9 ottobre 2013).

 

Nel pezzo, andato in stampa pochi mesi prima che Palmaro venisse a mancare, i «normalisti» erano definiti «quei cattolici intenti pateticamente a convincere il prossimo, e ancor più pateticamente a convincere se stessi, che nulla è cambiato».

 

Poi sono arrivati gli americani, che hanno tirato fuori un termine vezzeggiativo-dispregiativo per coloro che galleggiano beati nel normalismo del mainstream: normie. Il normie è letteralmente una persona nella norma, un normale, un normotipico, ma più specificatamente qualcuno che non si è mai posto domande sul mondo in cui vive, facendosi infilare pacificamente il cucchiaio della narrazione dominante in bocca da media e politici. Se qualcuno volesse tentare una traduzione, direi che si potrebbe provare con «normalotto».

 

Per usare il gergo statunitense, il normie è ciò che si oppone al redpilled, il redpillato, ossia quello che ha parto gli occhi sulla realtà delle cose dietro le apparenze pilotate dalla versione dominante.

 

Su YouTube, su Twitter, sui Forum, ovunque la parola viene abbinata ad altri sostantivi, al punto da diventare, grazie alla cifra glottologicamente isolante della lingua anglica, un aggettivo. C’è la normie-version, la versione delle cose per i normalotti. C’è una normie-History, cioè la Storia secondo i normalotti. La normie-Politics, la politica fatta ad usum normalottorum. Ci sono i normie-media, la normie-Economy, i normie-books.

 

I normie sono oggetto di scherno da parte dei sedicenti redpillati (che hanno mutuato l’espressione red pill, «pillola rossa» dal pensatore monarchico Curtis Yarvin, che a sua volta ovviamente l’ha tratta ovviamente dal primo film della serie Matrix) ma anche della loro disperazione. I normie si danno non solo come la maggioranza, ma come un blocco granitico che è difficile da scalfire, e talvolta perfino da prevedere.

 

Ieri sera parlavo con un amico. Mi ha raccontato di aver fatto un viaggio in auto con uno sconosciuto organizzato da una comune conoscenza che faceva una festa in un’altra città. Mi diceva che, dopo qualche convenevole, lo sconosciuto si era un po’ sbottonato: arrivati a parlare dei vaccini lui, vaccinato, sosteneva che in effetti qualcosa non tornava, arrivando quasi ad esprimere rammarico per essersi sierato.

 

Il mio amico, a questo punto in fase di rilassamento, è passato a parlare anche del quadro politico, apprendendo, con sommo, incomprensibile orrore, che il compagno di viaggio era un fan di Mario Draghi. «È bravo… è uno che dà sicurezza, un profilo istituzionale»: il tizio deve aver detto cose così, mentre il nostro amico aveva probabilmente abbassato il finestrino dell’auto per buttarvisi fuori come nemmeno in un film di John Woo.

 

Ma come? Ti sei fatto due domande sui vaccini, ma non riesci a fartele su Draghi? Draghi che con i vaccini ha fatto il macello istituzionale che ricordiamo (green pass, super green pass, accuse ai no-vax untori che ammazzano il prossimo e se stessi)? Non serve che uno si chieda da dove venga, dove è stato, che conosca la storia del panfilo Britannia con sopra i «British Invisibles» salutati nel 1992 da Draghi, proprio nei tempi in cui Ciampi, il suo maestro normalista, lisciava enigmaticamente la manovra anti-Soros devastando la lira.

 

Basta che uno ci pensi un secondo: Draghi…? Ma davvero? Vedete: il normie è talvolta davvero difficile da calcolare, anche quando mostra segni di conversione.

 

L’episodio mi ha riportato alla mente situazioni similari vissuti in prima persona. Nei primi mesi del 2013, ricordo una festa a Milano – a pensarci oggi mi sembra una vita precedente – in cui un personaggio noto per l’aspetto comune (per somatismi e vestiario, un vero medioman), la mente matematica e le frasi inopportune (tipico di chi è bravo coi numeri…) mi disse che alle politiche che si sarebbero tenute a brevissimo, lui avrebbe votato… Monti. Subito dopo, bicchiere di gin tonic alla mano, tentava di spiegarmi che se Hitler avesse vinto la guerra lui si sarebbe iscritto immediatamente alle SS (ci si iscrive alle SS, come Magnotta con i terroristi), di modo da «sottomettere subito il maggior numero di donne», aggiunse oscuramente, ma io non mi curavo dei non sequitur, perché sconvolto totalmente: Monti? Monti?

 

Il lettore deve sapere che forse il più grande shock politico subito nella mia vita lo ebbi quando l’ex preside della Bocconi apparve dal nulla e prese il potere in Italia. Ricordate? I ministri tecnici, i professori totalmente apolitici, alcuni magari (si diceva) in odore di grembiule, alcuni pazzeschi pure fisicamente. Il tutto mentre il governo legittimamente eletto veniva defenestrato, ma arrivava – sul serio – a votare la compagine aliena che lo aveva spodestato (Giorgia Meloni è inclusa).

 

Crebbe in me, alla visione dell’ascesa dei Monti, un senso di sgomento, di angoscia, di paura vera che, mi rendo conto, neanche ora riesco a descrivere bene. Posso dire che un corollario di quella sensazione fu il bisogno, immediato e disordinato, informe, di «far qualcosa per difendere la mia famiglia». Cosa, in realtà, non sapevo bene.

 

Fu ancora più sconvolgente per me (il lettore scusi l’ingenuità del me-ragazzo) vedere che non solo il governo precedente, ma anche il popolo sembrava accettare l’operazione Monti, lo stravolgimento dell’ordine politico italiano, l’inveramento di decenni di teorie per cui ti tacciavano di complottismo spinto.

 

Sì, il golpe dello spread andava bene a tutti – il golpe era normale. I «normali», i «normalotti», anzi, applaudivano, bevendosi tutto. Un potere che parla di crollo dei consumi, di crisi come strumento per le riforme… andava bene, andava benissimo, anzi è quello che ci voleva. Al tacchino dicono che è Natale, e quello festeggia alla grandissima. Perché il tizio che prepara la pentola, «è uno bravo, uno competente, un profilo istituzionale».

 

Quello dell’iscritto alle SS ucroniche che votava il preside della Bocconi non è stato l’unico mio incontro ravvicinato con la specie. Ricordo un altro amico, un ragazzo a cui voglio bene, che morta la possibilità di votare per il partito ultra-biodegradabile di Oscar Giannino (ucciso da dentro parrebbe da un turbine di isteria fighetta che mandò alle ortiche tutto il consenso vinto con i remix di «Taci, miserabile!») mi aveva confidato che avrebbe votato o Grillo o Monti. Le due opzioni vi possono sembrare antitetiche, non lo sono minimamente (al punto che il Monti vero, cioè Draghi, fu definito dal comico ligure come «un grillino», con conseguenti voti del partito stellato), tuttavia il problema per il conoscente non si poneva: ve lo abbiamo detto, i normies sono imprevedibili. E disperanti.

 

È inutile nascondere che è stato durante il biennio pandemico che i normies hanno dimostrato globalmente di che pasta sono fatti.

 

Hanno accettato, senza tanti problemi, i lockdown, con devastazione economica per la loro attività o, in quasi tutti i casi, per il settore della loro azienda: non hanno detto una parola, anzi.

 

Hanno obbedito al diktat delle mascherine, anche per i bambini piccoli, e anormale chi, in qualsiasi situazione, si trovava smascherato. Chi scrive ricorda l’esperienza di una coppia di normo-anziani che, nel mezzo di un boschetto, urlarono al nostro gruppo di amici, ad una distanza di 20 metri buoni, «tirate su le mascherine».

 

Soprattutto, i normo-cittadini hanno accettato di divenire cavie di un esperimento con la somministrazione una pozione sperimentale, certo fatta anche coi feti come gli intrugli delle streghe di una volta, di cui non sapevano nulla, se non che la TV, con quelli «bravi» e «competenti» con «profilo istituzionale», diceva che sono «sicuri ed efficaci».

 

Anche quando divenne chiaro, con le reinfezioni dei bi-tri-quadridosati, e con le possibili miocarditi segnalate perfino dagli enti pubblici del farmaco, che non era «sicuro ed efficace» la massa normalotta ha tirato dritto, mai questionando le balle che si era ingollata, e neppure quanti gliele avevano vendute.

 

I normalotti hanno continuato per la loro strada, che è quella dove la dissonanza cognitiva non può esistere, e quindi nemmeno la volontà di mettersi in discussione, e la quindi la cerca della Verità.

 

Ritengo che dopo l’inoculo con siero genico, non sia nemmeno più giusto chiamarli normali, normalisti, normies, normalotti. Se l’iniezione di mRNA sintetico è, come ripetiamo su Renovatio 21, un grande progetto di transumanizzazione della massa mondiale, con la trasformazione sempre più accelerata degli umani in umanoidi, allora sarebbe giusto, credo, usare un nuovo termine: normaloidi.

 

I normaloidi sono lo scalino evolutivo successivo dei normalotti: questi ultimi si limitavano a bersi le menzogne dei padroni del vapore, e a pagar loro il pizzo. Il normaloide non solo crede ciecamente al potere e ai suoi inganni, ma ha accettato di modificarsi genicamente – pagando pure lui il processo. La sua obbedienza, la sua normalanza, è di livello subcellulare – una lealtà più grande, viene da pensare, i signori del mondo non potevano chiederla.

 

«Ti butteresti in un fosso per me?», potevano domandare, con la formula classica. Invece sono andati molto oltre: «ti modificheresti a livello biomolecolare per me?». In massa, hanno risposto «siiiiì!», rinunziando, al contempo, a quantità di diritti costituzionali.

Ecco una seconda qualità intrinseca del normaloide: non solo è biologicamente diverso – un avvocato americano è arrivato a teorizzare, giuridicamente, il fatto che si tratterebbe di una nuova specie – ma anche capace di un’inedita esistenza extracostituzionale: delle Carte che regolano lo Stato in cui vivono (in Italia, in Germania, in USA…) non sanno che farsene, possono fare a meno.

 

Il normaloide accetta, in piena tranquillità, che lo Stato moderno calpesti le sue stesse leggi fondamentali, con visibile nocumento per i cittadini. Ma che importa? Anche il virus, e il capovolgimento universale che ha prodotto, è in fondo una cosa normale, finché guidano «quelli bravi, gli esperti». È normale se il virus che esce dalla zuppa di pipistrello accoppiato con pangolino, è normale se lo stesso virus invece è uscito da un laboratorio di bioingegneria magari militare – anzi, in questo caso possiamo proprio parlare di virus normaloide.

 

Come il lettore immagina, la razza normaloide non ha esaurito la sua missione storica con il COVID.

 

Dobbiamo dire che i normaloidi stanno facendoci vivere emozioni anche con la guerra ucraina.

 

Per il normaloide, l’attore comico creato politicamente in provetta dagli oligarchi diventa un eroe, «il Churchill del XX secolo».

 

Per il normaloide – e i suoi partiti al potere e non – i nostri soldi e le nostre armi vanno consegnate all’agnello di Kiev, e non importa se restiamo poveri e indifesi.

 

Per il normaloide le rune del Battaglione Azov sono «antichi simboli indoeuropei», i suoi miliziani con le svastiche tatuate sono romantici lettori di Kant, il neonazismo ucraino non esiste, come nemmeno gli articoli che ne parlavano fino a pochi mesi prima.

 

Per il normaloide, Kiev è stata aggredita, e degli accordi di Minsk violati (con tanto di ammissione della Merkel e di Hollande e pure di Poroshenko) e la strage dei russofoni in Donbass perpetrata dalle milizie ucronaziste mai ha sentito parlare.

 

Ancora più significativo il fatto che per il normaloide va benissimo che per difendere la «democrazia in Ucraina» – Paese di cui, fino a poco fa, conosceva qualche badante – il mondo rischi la catastrofe termonucleare. Cioè: anche la casetta del normaloide può venire spazzata via, così come i suoi figli, e ogni generazione a venire. Non sappiamo dire quanti ci abbiamo veramente pensato: tuttavia qualcuno che ha il coraggio di dire che è per il futuro della «democrazia» si trova, cosa doppiamente disperante, perché gli stessi con la sottomissione pandemica hanno di fatto svuotato di ogni residuo senso che poteva rimanere alla parola: forse qui possiamo parlare di «democrazia normaloide», ma di democratico non c’è davvero più niente, ci sono le materie fumanti della sovranità del popolo, ancora prima che giungano i missili balistici intercontinentali.

 

Non è finita. Il normaloide può fare ancora di più. Essendo che gli è stato detto che la Storia è una magnifica linea progressiva, accetta pienamente il fatto che oggi si sposano i gay, domani – come mostrava una vecchia vignetta con coppie che lanciavano dietro di sé bouquet a coppie sempre più devianti – ti potrai sposare un famigliare, un bambino, un animale, un morto, un robot. (E guardate che praticamente tutti questi casi sono, in qualche forma, già realizzati)

 

Il normaloide accetta che un bambino possa credere di essere una bambina, e ottenere come premio la castrazione, più la somministrazione di farmaci che in genere si danno per castrare gli stupratori pedofili.

 

Il normaloide accetta che l’ONU e l’OMS comincino a svolazzare intorno al tema della libera pedofilia.

 

Il normaloide accetta che le competizioni sportive femminile siano stravinte da maschi muscolosissimi.

 

Il normaloide accetta che il suo Paese, e l’intero continente, sia inondato di stranieri in un’operazione che ha come fine – visibile a occhio nudo – l’istituzione di un’anarco-tirannia, cioè una vita d’inferno per il suo quartiere e per i tempi in cui cresceranno i suoi figli. Anche qui, come per il siero: il normaloide paga la cosa, per quanto nociva, di tasca sua.

 

Il normaloide accetta che, se fa un incidente stradale stasera tornando a casa, l’ospedale possa espiantargli tutti gli organi quando ancora il cuore gli batte, in pratica squartarlo vivo (letteralmente).

 

Il normaloide accetta di prendere droghe legalizzate per la felicità anche quando queste, scrivono i bugiardini, potrebbero portarli all’effetto opposto, alla tragedia dei pensieri suicidi.

 

Il normaloide accetta che gli ospedali, teoricamente luoghi di cura, uccidano grandi e piccini, magari pure con un pratico soffocamento via cuscino.

 

Il normaloide accetta che i bambini siano fatti non più in quel modo tanto bello (forse le sensazioni forti non fanno per lui?), ma con le provette, con uno (magari a caso) che si masturba e una (magari a caso) che si fa estrarre, con un processo doloroso quanto pericoloso, le cellule uovo. L’utero può essere di un’altra donna ancora, oppure di una donna ma trapiantato in un’altra donna, oppure trapiantato in un uomo, oppure un utero artificiale: tutto normale, normalissimo, normaloide.

 

Quanto potremmo andare avanti, quanti esempi possiamo fare: del resto, e ciò che su Renovatio 21 annotiamo quotidianamente come Necrocultura, che è inscindibile dal concetto di un’umanità che progredisce al di là del bene e del male. Destra e sinistra, nel mondo normaloide, sono completamente fuse con l’idea del Progresso, del processo spontaneo, inarrestabile, per cui l’umanità si spinge oltre ogni limite, perdendo ogni senso morale.

 

La storia va in quella direzione, no? «Ce lo chiede il mondo moderno», verrebbe da dire. E sappiamo bene cosa diceva il poeta Rimbaud (che di pedofili e drogati sapeva qualcosa): «Il faut être absolument moderne». Bisogna assolutamente essere moderni.

 

Ed è chiaro che se resisti, prima o poi verrai punito, piegato, normalizzato, normaloidizzato. Perché, come abbiamo ripetuto, se non vi siete sottomessi negli ultimi anni, e continuate a farlo, fate parte di un segmento della società che lo Stato e il Capitale non vogliono più mantenere, che hanno calcolato come sacrificabile: non hanno bisogno dei vostri soldi, del vostro voto, del vostro lavoro. Per questo vi censurano e vi squalificano, vi tolgono la libertà di parola e il lavoro – in attesa dei campi di concentramento, che, a pensarci bene, hanno anche loro fatto capolino di recente tra le «democrazie» moderne.

 

E quindi, cosa volete fare? Volete davvero vivere questa separazione sempre più evidente con l’umanità normaloide?

 

«Il faut absolument être normaloïde», sussurra il poeta decadente che è in tutti noi. Il richiamo normaloide è fortissimo, siamo tanti piccoli Zanna Bianca in difficoltà.

 

Saprete resistervi?

 

In realtà, se state leggendo questo sito, la risposta la sapete già.

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Pensiero

Renovatio 21 saluta Giorgio Armani. Dopo di lui, il vuoto che inghiottirà Milano e l’Italia

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È morto quello che si può definire il più grande stilista vivente, e al contempo un gigante, imprenditoriale e finanche morale, dell’Italia moderna e della sua immagine. È il caso di dire pure, cercando di dimostrarlo nelle prossime righe, che la sua morte apre gli occhi su un vuoto pericoloso che potrà inghiottirsi la moda, Milano, l’Italia.

 

Quindi non scriviamo il solito coccodrillo, per quello ci sono gli altri giornali, anche internazionali. Vogliamo salutare Giorgio Armani con alcuni flash personali che testimoniano come la sua semplice grandezza era tale che, anche senza conoscerlo di persona, ha attraversato giocoforza le nostre vite.

 

Le testimonianze che posso raccogliere sono tante: ho un amico di ottant’anni, praticamente spesi tutti nella moda, che mi racconta che sì, vero, faceva il vetrinista alla Rinascente, lo aveva conosciuto così, fino a che non era arrivato a scoprirlo il biellese Nino Cerruti (1930-2022). Ho in testa altre storie che mi arrivavano da amici di famiglia che lo avevano conosciuto, sempre lavorando nel tessile, agli albori, quando passava per Valdagno. Impossibile verificare: sono tutti morti, e quelle storie sono andate via con loro…

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Un primo flash: ho diciannove anni, e ho messo via i soldi per comprare un completo Armani (di brand minore dell’impero, certo, non «Le Collezioni»), con il quale, non solo nelle occasioni importanti, rifiutare il conformismo coetaneo di t-shirt e scarpe da ginnastica. Ricordo la sensazione di appagamento che dava quel vestito, come cascava bene sulle spalle, sui fianchi, ricordo come mi piaceva indossarlo anche con una maglia a maniche corte sotto, con le braccia accarezzate dal fodero in seta.

 

L’eleganza era possibile. Era diffusa, distribuita. Un’eleganza che non era ostentosa. Era decisa, precisa. Era reale.

 

Un secondo flash: decido di prendere un altro vestito Armani per appagare il mio desiderio di arrivare al matrimonio di mia sorella, in centro all’Africa, con un completo bianco, come Klaus Kinski nella giungla amazzonica di Fitzcarraldo. Il piano ebbe un effetto collaterale: l’aereo da Londra tardò enormemente su Johanessburg, facendomi perdere la coincidenza per Livingstone, e inserendo uno stop imprevisto in un hotel della città più violenta del mondo. Quando uscii dalla porta del ritiro bagagli dell’aeroporto sudafricano mi ritrovai di fronte ad una muraglia umana di autoctoni nerissimi (più un albino, epperò geneticamente nero anche lui) che aspettano un turista straniero a caso per spennarlo portandogli la valigia: si videro innanzi l’icona di un colonizzatore in abiti firmati, non ci credettero, e mi inseguirono per tutta l’aviosuperficie per un’oretta buona. (Storia da raccontare un’altra volta)

 

Vi fu poi la festa notturna delle nozze di mia sorella, dove partecipava una varietà impressionante di personaggi, tra cui uno zoccolo durissimo di allevatori di crocodilus niloticus, una delle attività della zona. Uno in particolare, che si era presentato non esattamente elegantissimo e a cui certo inizialmente non stavo simpatico, cominciò a chiamarmi «Armani», come fosse un insulto. Bizzarro: avevo, sì, un ulteriore abito armaniano, quindi aveva indovinato, al contempo nella sua zoticheria esibita stava di fatto ammettendo che il vertice della monda mondiale era anche per lui, farmer di coccodrilli dello Zambia, Giorgio Armani. (Se non credete che esista, ho una foto di quest’uomo paonazzo a tavola con quella che sarebbe divenuta la moglie di un sindaco di una grande città del Nord Italia, purtroppo mancata mesi fa. Ciao, A.)

 

Ricordo antico: ho si è no sei anni, i miei genitori mi porta in vacanza a Pantelleria, allora non ancora luogo di jet-set euroamericano ed architetti omosessuali, ma isola selvaggia tra mare blu, segni di attività vulcanica e tombe fenicie che spuntavano in mezzo ai boschi. C’era un posto, chiamato arco dell’elefante, dove una colata lavica copiosa e antichissima si era solidificata gettandosi in mare e creando, appunto, l’immagine di una proboscide. Lì vicino, una nave affondata a pochi metri dalla riva, dalla quale giovani facevano tuffi acrobatici. Per arrivarci si scendeva un pendìo scoseso, tra le terre brulle tipiche dell’isola.

 

È lì che appariva, d’un tratto, una casetta stupenda. Non era enorme, non era una reggia, eppure sprigionava un tale buon gusto – che mai cadeva nello sforzo – che era leggibile persino a me, bambino piccolo: vedevo che aveva il giardino a prato inglese, cioè aveva l’erba verde a differenza del resto del giallo pantesco, in un’isola dove l’acqua, mi raccontavano, arrivava in nave – e non si poteva bere dal rubinetto. Lui probabilmente, mi diceva mio padre, utilizzava quella del mare, fatta risalire sulla scogliera e ripulita con l’osmosi… un esempio, anche qui, più che di lusso, di gusto e ingegnosità, di organizzazione.

 

Anni dopo ricordo un’apparizione dell’uomo a pochi metri da me: oramai due decadi fa, erano gli ultimi anni della fabbrica di famiglia, e amici che erano già fornitori del gruppo ci avevano combinato un breve appuntamento con qualcuno delle vendite… avevamo escogitato dei braccialetti eccezionali oro e schiena di coccodrillo (fornito da mia sorella, che allora viveva presso il più grande allevamento di niloticus al mondo, in Zambia).

 

Dall’incontro con la gentile signora che ci accolse non cavammo nulla, tuttavia ricordo con nitore quando appena fuori dalla sede del gruppo in via Borgonuovo comparve una manipolo di persone (bodyguard? Collaboratori? Troppo veloci per capire) con al centro lui, piccolino, ma con il passo rapidissimo, e questa chioma canuta luminescente da aristocratico ricchissimo… Non trasmetteva, tuttavia, le vibrazioni che davano gli aristocratici e i ricchissimi, anzi: era, in chiarezza, uno che stava facendo delle cose.

 

A dire il vero, Armani di persona lo aveva già veduto: quando ancora esisteva il cinema in centro a Milano, c’era in corso Vittorio Emanuele, nella galleria dove era anche Palazzo Colla, una sala chiamata Pasquirolo. Lì si poteva intravedere in tranquillità Armani il mercoledì, nel giorno del cinema a prezzo scontato. Più avanti, lo avrei rivisto, sempre senza gorilli e bodyguardie varie, in un cinema sopravvissuto all’olocausto delle sale attorno al Duomo, l’Eliseo: si accompagnava con una donna tra i quaranta e i cinquanta chissà da che Paese, bellissima, elegantissima, che sorrideva come lui.

 

Al cinema, alla storia del cinema, lui aveva partecipato attivamente, vestendo i personaggi indimenticabili dei maestri cineasti di Nuova York (American Gigolo di Paul Schrader, poi tanto Scorsese, che gli dedicò un documentario introvabile, Made in Milan), eppure eccotelo lì, che andava ritualmente al cinematografo il mercoledì, come tanti, come tutti.

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Tutto questo per dire: non solo era una persona concreta, umana, ma era un milanese. E qui si innesta un discorso meno personale, e più serio, se non terrificante.

 

Armani, piacentino, era in realtà il milanese quintessenziale, l’uomo che amava Milano, la conosceva, la aiutava, non vi fuggiva, mai.

 

Lo proposero brevemente come sindaco, ma lui – che di fatto andava d’accordo con tutti – non accettò. Il suo senso civico si espresse, se posso dire, con la sponsorizzazione della squadra basket di Milano, dove lo vedevi tifare in prima fila tutte le domeniche di campionato. Capito: non scappava, nel weekend, ma stava con il popolo urlante a tifare per la squadra della città. Facciamo i conti – in diciassette anni come proprietario dell’Olimpia, Armani ha conquistato quindici trofei: sei campionati, quattro Coppe Italia e quattro Supercoppe italiane. Un vincente. Con la città che vince con lui.

 

Mi rammento poi di quando riaprirono, dopo tanti lavori, il Piccolo Teatro di Milano. Il suo dominus, il celebratissimo Giorgio Strehler, era morto da poco, era probabilmente attorno al 1997. Tra i VIP convenuti al vernissage, la TV intervistò Armani, che disse che gli pareva che ci fosse solo una persona che mancava… comprendevo quindi che Armani conosceva, frequentava pure Strehler – elementi della scena milanese che hanno attraversato tante ere, gli anni di piombo, i socialisti craxiani, la «Milano da bere» tangentopoli, lavorando e sopravvivendovi, e prosperandovi.

 

La milanesità vissuta integralmente. La comparazione con il presente è terrificante: qualche tempo fa emerse che, durante un podcast, Fedez – personaggio forse egemone della scena «culturale» milanese attuale – non sapeva chi fosse Strehler, quasi non avesse mai preso la metrò, dove il nome del regista è stampigliato sempre vicino alla fermata Lanza (Piccolo Teatro).

 

Il vuoto per Milano è anche di altro tipo. La moda dopo Armani, cosa sarà? Beh, lo sappiamo. Negli anni, quando la città ha finito per identificarsi sempre più con la fashion week, gli «stilisti» hanno portato, con le loro perversioni di ogni livello, un mondo di degrado e di disperazione – se non di Necrocultura vera e propria – sotto la Madonnina. Si tratta di un argomento su cui ho dovuto ragionare, specie guardando la quantità di amiche che sono state di fatto sterilizzate dal sistema della moda, degenerato in modo invincibile negli ultimi 25 anni. (Ne scriverò più avanti)

 

Armani, al contrario dei «colleghi» che ora calcano le scene, non ha mai imposto le sue inclinazioni agli altri, non ne ha fatto spettacolo, notizia, rivendicazioni estetica o politica. Viveva con l0understatement di chi lavora davvero, e non perde tempo come i traffici.

 

Come quando, sempre negli anni Novanta, le forze dell’ordine di Parigi bloccarono una sua sfilata a Saint-Germanin-des-Pres, cuore della capitale francese che aveva perso concretamente lo scettro di regina del modismo: «Armani go home» gridavano frotte di sciovinisti francesi mentre davanti a loro si consumava lo spettacolo di modelle in ghingheri fermate da gendarmi. Non fece un plissé, si rifiutò di dare la colpa alla polizia, che eseguiva ordini dall’alto della Prefettura di Parigi (dove, immaginiamo, abbia la tessera della massoneria anche quello che pulisce i pavimenti).

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La cifra dell’italianità nell’impresa: ecco, gestire tutto in famiglia, circondato da nipoti, è già un capolavoro, e se aggiungiamo la resistenza alla lusinga dei megagruppi transalpini (Arnault-Pinault) capiamo che siamo oltre, siamo davanti ad un esempio da scolpire nel marmo milanese, quello non occupato dalle bombolette dei graffitari leoncavallari o dalle orine dei maranza, se ne è rimasto.

 

La morte di Giorgio Armani non solo priva il mondo del suo equilibrio, ma va letto come ennesimo episodio dell’imbarbarimento di Milano: che siano ragazzini criminali marocchini o stilisti gay, il vuoto che stiamo vedendo crearsi, in mancanza di esempi e di virtù, minaccia di inghiottirsi tutta la metropoli, e poi, come sempre, il resto d’Italia, ridotta a bolo dell’anarco-tirannia.

 

La soluzione, abbiamo cercato di dirlo tante volte su Renovatio 21, non può essere che il ritorno ad Ambrogio, il santo che scacciò gli eretici e unì la città – il santo che probabilmente ancora oggi la protegge dalla sua distruzione definitiva, mentre anche gli ultimi pezzi della Milano per bene, la Milano bella, elegante, benevola se ne vanno senza poter essere sostituiti.

 

Roberto Dal Bosco

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Immagine di Bruno Cordioli via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic

 

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Bizzarria

Ecco la catena alberghiera dell’ultranazionalismo revisionista giapponese

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Per chi è stato in viaggio in Giappone il nome APA hotels potrebbe risultare familiare. La catena di alberghi dalla caratteristica insegna arancione è onnipresente nel Paese del Sol Levante, possiede circa 900 strutture alberghiere e in alcune zone urbane la loro densità è incredibile: così a memoria direi che ce ne sono almeno 5 nella zona tra Asakusa e Asakusabashi (due fermate di metro o mezz’ora scarsa a piedi).   La catena ha anche già iniziato la sua espansione nell’America settentrionale, con 40 strutture tra Stati Uniti e Canada.   Di recente ho avuto l’occasione di provare per la prima volta un hotel APA a Kanazawa, dove la catena è nata nei primi anni ottanta. Il giudizio complessivo è positivo: pulito, molto pratico da usare, al netto di stanze piuttosto anguste (ma nella norma nipponica) non posso dire che mi sia mancata alcuna comodità.         Anzi, le stanze dispongono del «bottone buonanotte» (oyasumi botan) cioè un pulsante vicino al comodino che spegne tutte le luci in un colpo solo. Di questo sono particolarmente grato perché mi ha risparmiato la classica caccia agli interruttori che contraddistingue le serate passate negli alberghi meno recenti qui in Giappone – in alcuni ryokan ci sono persone che si rassegnano a dormire con le luci accese per la disperazione, spossati dalla caccia all’interruttore nascosto.      

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Un’altra caratteristica degli hotel APA è l’onnipresenza dell’effigie della presidentessa dell’azienda, la buffa Fumiko Motoya, sempre accompagnata da uno dei suoi vistosissimi cappelli (la sua collezione ne conta circa 240).  

Fumiko Motoya, di hirune5656 via Wikimedia CC BY 3.0

  Insegne, pubblicità, bottiglie di acqua minerale, confezioni di curry liofilizzato: non c’è posto da cui non spunti il sorriso della nostra Fumiko, il tutto ha una lieve sfumatura di culto della personalità da regime totalitario.     Ma quello che porta ripetutamente questa azienda al centro di aspre polemiche non sono i vistosi copricapo del suo presidente, né tanto meno la folle varietà di ristoranti ospitati dagli alberghi APA (a seconda della località mi è capitato di vedere ristoranti italiani, indiani, singaporiani, coreani, caffè in stile europeo, letteralmente la qualsiasi). Si tratta, invece, della cifra politica della catena alberghiera.   Ogni stanza d’albergo ha in dotazione almeno un paio di copie degli scritti del fondatore dell’azienda, Toshio Motoya, storico e ideologo di orientamento decisamente patriottico.   Gli scritti in questione innescano periodicamente polemiche furibonde: il picco era stato raggiunto tra 2016 e 2017, quando il volume che si trovava nelle stanze degli alberghi conteneva una revisione storica del massacro di Nanchino (1937). Apriti cielo: il clima allora era meno liberticida di adesso, si era agli albori dei social media totalitari come li conosciamo oggidì, ma le polemiche in Asia e occidente furono furibonde.   Il bello è che l’autore e l’azienda hanno fatto quello che oggi nessuno fa: nessun passo indietro, nessuna scusa, soltanto ribadire le proprie ragioni in maniera più articolata. In un mondo come quello in cui viviamo, in cui la gogna internettiana ha reso tutti ominicchi, quaquaraquà e, d’altronde love is love, un po’ invertiti, un atteggiamento del genere si può forse definire eroico.   Cotale attitudine mi ha ricordato l’epoca d’oro del movimento ultrà italiano, quando ancora dalle curve, allora libere da qualsiasi controllo da parte di partiti politici, malavita e istituzioni, si alzava il coro liberatorio: «Noi facciamo il cazzo che vogliamo!».   La pagina in inglese dell’azienda usa uno stile revisionistico che in Europa sarebbe ragione sufficiente per arresto, condanna e detenzione. Ve la ricordate la libertà, voi europei? Pensate che brivido trovare in albergo letteratura che rivede il dogma riguardo agli eventi accaduti nei primi anni quaranta tra Polonia, Germania e Austria…   Di fronte alle furiose contestazioni, l’azienda continua imperterrita a fare trovare in ogni camera delle copie di Theoretical modern history (理論近現代文学), i volumi che raccolgono gli scritti del fondatore della catena Motoya. Durante il mio soggiorno a Kanazawa ho avuto modo di leggere alcuni articoli che mi hanno dato una prospettiva diversa della storia giapponese.      

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L’insegnamento della storia nel Giappone post bellico ha frequentemente preso l’aspetto di una forma di autoflagellazione (sotto la guida dell’occupante statunitense). Questa colpevolizzazione del paese a scapito di tutte le altre forze coinvolte nel conflitto mondiale raggiunge picchi disturbanti nelle prefetture più sinistrorse del Paese, le così dette H2O (Hiroshima, Hokkaido, Oita).   Ci sono stati casi di genitori che hanno protestato dopo avere sentito che ai figli veniva insegnato che «le bombe atomiche ce le siamo meritate». Dopo decenni di scuse a capo chino, non c’è da stupirsi che parte del Paese inizi a manifestare insofferenza verso questo clima culturale e a volersi riconciliare con la propria storia, senza intenti necessariamente autoassolutori.   L’articolo che riporto nella foto riguardo al pilota suicida (quelli che l’occidente chiama kamikaze, ma che in Giappone sono tokkoutai, 特攻隊、le squadre speciali d’assalto), mi ha ricordato il manifesto elettorale del partito Sanseito, in cui due piloti «kamikaze» sono raffigurati abbracciati e con le lacrime agli occhi, un’immagine dei cosiddetti kamikaze diversa da quella che solitamente ci viene mostrata.     Passare una notte all’APA hotel è stata l’occasione per capire una volta di più che al popolo del Giappone, come a quelli d’Europa, è stato messo sulle spalle il giogo di un senso di colpa che impedisce loro di esistere in quanto tali, costringendoli ad abiurare sé stessi quotidianamente.   Adesso basta, noi facciamo il katsu che vogliamo.   Taro Negishi Corrispondete di Renovatio 21 da Tokyo

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Geopolitica

«L’era dell’egemonia occidentale è finita»: parla un accademico russo

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Farhad Ibragimov, docente presso la Facoltà di Economia dell’Università RUDN e docente ospite presso l’Istituto di Scienze Sociali dell’Accademia Presidenziale Russa di Economia Nazionale e Pubblica Amministrazione, ha pubblicato il 1° settembre sulla testata governativa russa in lingua inglese Russia Today un interessante editoriale sulla recente riunione dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), intitolato «L’Occidente ha avuto il suo secolo. Il futuro appartiene ora a questi leader».

 

Lo scritto tratta il tema della decadenza del potere planetario occidentale.

 

«Il vertice della Shanghai Cooperation Organization in Cina si è già affermato come uno degli eventi politici più significativi del 2025» ha scritto l’Ibragimov. «Ha sottolineato il ruolo crescente della SCO come pietra angolare di un mondo multipolare e ha evidenziato il consolidamento del Sud del mondo attorno ai principi di sviluppo sovrano, non interferenza e rifiuto del modello occidentale di globalizzazione. Ciò che ha conferito all’incontro un ulteriore livello di simbolismo è stato il suo collegamento con la prossima parata militare del 3 settembre a Pechino, che celebra l’80° anniversario della vittoria nella guerra sino-giapponese e la fine della Seconda Guerra Mondiale».

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«Parate di questo tipo sono una rarità in Cina – l’ultima si è tenuta nel 2015 – a sottolineare quanto questo momento sia eccezionale per l’identità politica di Pechino e il suo tentativo di proiettare sia la continuità storica che l’ambizione globale. L’ospite principale sia al vertice che alla prossima parata è stato il presidente russo Vladimir Putin» continua il professore. «La sua presenza ha avuto non solo un peso simbolico, ma anche un significato strategico. Mosca continua a fungere da ponte tra i principali attori dell’Asia e del Medio Oriente, un ruolo che conta ancora di più sullo sfondo di un ordine di sicurezza internazionale frammentato».

 

Il Programma di Sviluppo della SCO, adottato al vertice, è una «roadmap volta a definire il percorso strategico dell’organizzazione per il prossimo decennio e a trasformarla in una piattaforma a tutti gli effetti per il coordinamento di iniziative economiche, umanitarie e infrastrutturali», continua l’articolo. «Altrettanto significativo è stato il sostegno di Mosca alla proposta cinese di istituire una Banca di Sviluppo della SCO. Un’istituzione del genere potrebbe fare di più che finanziare progetti congiunti di investimento e infrastrutture; aiuterebbe anche gli Stati membri a ridurre la loro dipendenza dai meccanismi finanziari occidentali e ad attenuare l’impatto delle sanzioni, pressioni che Russia, Cina, Iran, India e altri paesi affrontano a vari livelli».

 

L’evento, ha affermato il professor Ibragimov, «ha confermato l’esistenza di un ordine mondiale multipolare, un concetto che Putin promuove da anni. La multipolarità non è più una teoria. Ha assunto una forma istituzionale nella SCO, che si sta espandendo costantemente e sta acquisendo autorevolezza in tutto il Sud del mondo».

 

L’ampia partecipazione delle nazioni arabe, aggiunge l’accademico, «sottolinea che un nuovo asse geoeconomico che collega l’Eurasia e il Medio Oriente sta diventando realtà e che la SCO sta emergendo come un’alternativa interessante ai modelli di integrazione incentrati sull’Occidente».

 

La SCO «non è più una struttura regionale, ma un centro di gravità strategico nella politica globale. Unisce paesi con sistemi politici diversi, ma con una determinazione condivisa a difendere la sovranità, promuovere i propri modelli di sviluppo e rivendicare un ordine mondiale più equo».

 

«L’era dell’egemonia occidentale è finita» conclude lo studioso. «Il multipolarismo non è più una teoria: è la realtà della politica globale, e la SCO è il motore che la spinge avanti».

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L’idea della fine della primazia dell’Occidente sul mondo circola da diverso tempo in ambienti accademici e diplomatici. Essa è stata ripetuta più volte, negli scorsi mesi, dal premier ungherese Vittorio Orban. Il ministro degli esteri russo Sergio Lavrov due anni fa ha parlato del termine del «dominio di 500 anni» da parte dell’Ovest.

 

Putin in questi anni ha ribadito, in discorsi che puntavano il dito contro le élite occidentali», che «il mondo unipolare è finito».

 

Come riportato da Renovatio 21, all’incontro SCO di Tianjin della settimana passata lo stesso presidente Xi Jinpingo ha parlato di resistenza «all’egemonismo e alla politica di potenza», cioè di sfida vera e propria al predominio occidentale. Subito dopo, a Pechino, ha mostrato armi di nuovo tipo (come i razzi ipersonici) nella colossale parata in Piazza Tian’anmen, nonché ha esibito gli apparati della triade nucleare (aerei, missili balistici, sommergibili) a disposizione della Repubblica Popolare Cinese.

 

Discorsi sul declino occidentale da parte di studiosi russi erano scivolati, come nel caso del politologo Sergej Karaganov, in ipotesi di lanci nucleari contro le città europee.

 

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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)

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