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Il governo Meloni sarà il governo della repressione?

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Leggiamo con estremo interesse quello che scrive l’ex ministro Rino Formica, uomo che è appartenuto all’ultimo gruppo di politici di intelligenza unita all’ambizione che il Paese possa ricordare: i socialisti di Craxi.

 

Citiamo spesso la definizione, lucida e abissale, che Formica dà dell’ora presente: l’ascesa dello Stato-partito – la condizione del Paese, con lo Stato stesso che si presenta come forza politica, che puoi votare o avversare in toto, perché la fusione tra cosa politica e cosa amministrativa è oramai assoluta.

 

Il 92enne uomo della Prima Repubblica qualche giorno ha vergato un editoriale in cui porta ancora più avanti questo tipo di pensiero. Formica dice che il discorso di Draghi a Rimini, al Meeting ciellino, è di enorme importanza.

 

«Draghi quel giorno, al Meeting di Comunione e liberazione, ha aperto e chiuso la campagna elettorale (…) Draghi ha liquidato il partito degli amici di Draghi. Al Terzo polo ha detto in pratica “siete irrilevanti” (…) Al PD ha detto di non sbracciarsi “tanto non governerete”».

 

Ma l’uomo BCE avrebbe in realtà parlato direttamente alle destre date per vincitrici, in particolare a Giorgia Meloni.

 

«Alle destre ha detto “otterrete la maggioranza ma non illudetevi che questa sia una condizione di stabilità politica, anche voi dovrete fare i conti non con l’agenda Draghi, ma con il metodo Draghi”, cioè la capacità di mettere insieme la maggioranza con l’opposizione, cioè creare condizioni di basso conflitto perché solo così è gestibile un paese che ha una politica economica e sociale condizionata dall’Europa. “Nessuno stato potrà fare da solo”, ha detto Draghi».

 

Seguendo l’intuizione di Formica, Draghi si sarebbe offerto alla Meloni come «nuova figura giuridica-istituzionale che supera l’assetto costituzionale del Paese»: il Lord protettore.

 

«Il lord protettore è chi usa la legge perché egli stesso è la legge, dispone della forza perché egli è la forza, manipola le istituzioni perché è egli stesso le istituzioni, gode della fiducia del potere esteri perché è punto di riferimenti del potere sovranazionale».

 

«Questo è il lord protettore moderno, non un dittatore ma uno che dà l’orientamento, il consiglio. Per il lord protettore il Paese deve essere sereno, unito, deve superare le difficoltà economiche e sociali perché restare nella cabina di regia dell’impero».

 

L’ex ministro sta analizzando nel profondo una situazione che già ci figuriamo, e di cui già abbiamo scritto su Renovatio 21: la continuità totale che la politica post-25 settembre avrà con Draghi, Conte e tutto il sistema di governo pandemico.

 

Come abbiamo detto, sono solo due i temi che la politica ha in questo momento: il rifiuto del sistema pandemico, con relativa riduzione ai diritti dei cittadini a accessi «premiali» consentiti dai database di sorveglianza bioinformatica; l’accettazione della realtà «russa»,  che è al contempo coscienza della devastazione energetica e finanziaria in arrivo e al contempo rifiuto di una pericolosa guerra annientatrice che bussa alle nostre porte.

 

Essendo questi due temi gli unici che rivestono importanza per l’ora presente, su di essi non vi fanno votare – conoscete l’adagio, se votare contasse qualcosa non ve lo lascerebbero fare.

 

Come sapete, nessun partito maggiore sui due temi si può discostare da quanto è loro ordinato dal metaverso NATO. Non vi è distinzione tra la Meloni che vuole proseguire l’armamento dell’Ucraina e non ritiene green pass e mRNA di Stato un abominio. Tra Fratelli d’Italia e il PD, quindi, che differenza sostanziale può esserci? Purtroppo questo non è un discorso qualunquista: è una amara realtà che vivremo sulla nostra pelle, geopoliticamente e biologicamente, con le nostre aziende e con le nostre famiglie.

 

Semmai, come abbiamo cercato di dire, la vera distinzione si potrebbe trovare all’interno della stessa coalizione di centrodestra, dove per diversi motivi, Forza Italia e Lega potrebbero risultare partiti in grado di riallacciare con la Russia e, nel caso della Lega, riportare in testa qualche parlamentare in grado di opporsi all’orrore della sottomissione bioelettronica di vaccino e certificato verde (ci rendiamo conto che molti non sono d’accordo con quest’ultima idea, hanno perso la speranza nei confronti anche di quelli che sembravano i più accesi cavalieri nella Lega, non siamo in grado di difendere questa posizione, né di difendere nessuno di questi parlamentari: se ringhiate e ci mordete, avete ragione).

 

Il Draghi lord-protettore si innesta in questa guerra interna al centrodestra. L’uomo che garantisce al mondo la continuità del governo Meloni (che, ricordiamolo, in teoria era all’opposizione), con il suo governo precedente. Parliamo del Draghi che è stato tra i responsabili, ha scritto il Financial Times, del primo vero episodio di guerra economica della storia umana, ossia il sequestro di 300 miliardi di valuta estera della Banca Centrale russa depositati nelle banche centrali straniere. Un’operazione che, diciamo pure, ha danneggiato Mosca più dei lanciamissili HIMARS regalati da Washington con cui Kiev in queste ore starebbe provando (e fallendo) la sbandierata controffensiva d’agosto.

 

Un governo Meloni che si pone in continuità con ciò che era prima – cioè ciò che ordina il potere costituito sovranazionale, di cui Draghi era portatore – quindi non sarà in grado di risolvere né il problema energetico, né la minaccia del contagio della guerra, né la sottomissione dei cittadini alla siringa e a sistemi di biosorveglianza oramai inevitabili come l’euro digitale.

 

Fin qui, tutti possono capirlo.

 

Vogliamo però qui ipotizzare qualcosa di più oscuro. E, se possibile, di più doloroso – almeno fisicamente.

 

Renovatio 21 ha spesso ripetuto come, dall’Austria alla Germania ad altri Paesi, governi e servizi interni europei si stiano attendendo un autunno freddo (per mancanza di gas) ma caldissimo per le rivolte popolari, che danno per certe.

 

Moti di popolo non vi saranno solo per la disoccupazione, con forse un centinaio di migliaia di aziende che chiuderanno in Italia nelle prossime settimane, perché incapaci di pagare bollette e tasse. Vi saranno perché le case al freddo produrranno un malcontento popolare mai esperito prima.

 

Come abbiamo scritto, in Germania, non è un mistero, lo Stato si sta preparando alla repressione.

 

Confisca di armi a persone con credenze politiche «sbagliate», definizione di «estremista» allargata a chiunque protesti: non è diverso, se ci pensiamo, a quanto sta accadendo negli USA, in cui il presidente ha additato una volta per tutte gli elettori che non hanno votato per lui (circa 73 milioni di persone, probabilmente la maggioranza) come estremisti nemici della democrazia. Anche oltreoceano, insomma, si preparano alla repressione, che laggiù potrebbe tingersi dei colori della guerra civile.

 

Ne consegue che anche il prossimo governo italiano, con tutta probabilità, sarà un governo della repressione. Il pensiero che si può fare è che, se non fosse così, i poteri sovranazionali non lascerebbero che si faccia un governo. Come l’adagio di prima: se il governo fosse libero  di fare scelte che contano, mica te lo lascerebbero fare.

 

E quindi, se repressione deve essere in tutto il mondo, sarà repressione anche in Italia.

 

La cosa dovrebbe spaventare. Perché ricordiamo le repressioni dello scorso anno contro il popolo che ogni sabato protestava contro la follia delle restrizioni pandemiche, contro l’mRNA obbligatorio, contro il green pass. Su queste pagine ne abbiamo dato conto: è stato un crescendo tremendo, lancinante. Abbiamo visto, legge dopo legge, sabato dopo sabato, arresto dopo arresto, la repressione azzerare la protesta, fin nel suo ultimo rappresentante, la vecchietta, il vecchietto, il ragazzino, chiunque.

 

 

Ancora di più, vogliamo ricordare quello che da un ventennio è un cavallo di battaglia della sinistra, e che qui ci tocca però di tenere a mente: i cosiddetti «fatti della Diaz». G8 di Genova 2001, la scuola Diaz viene adibita a centro stampa del cosiddetto Genoa Social Forum, una sigla che dava una parvenza di organizzazione alla protesta (inutile, fessa) contro il G8 ligure. La città fu messa a ferro e fuoco (nel gergo dell’anarchismo, «aperta») dai cosiddetti Black Block – mascherati, disciplinati, in molti casi con strane uniformi – tuttavia la notte del 21 luglio reparti della Polizia, con il supporto di alcuni battaglioni dei Carabinieri, irrompevano nella scuola.

 

Vi furono 93 arresti e 63 feriti portati in ospedali, tre in prognosi riservata , uno in coma. Il numero degli agenti è ancora sconosciuto, tuttavia, se ci basiamo sulle informazioni fornite durante il processo dal questore, potremmo parlare di «346 Poliziotti, oltre a 149 Carabinieri incaricati della cinturazione degli edifici».

 

Le immagini che ne uscirono furono definite dal vicequestore Fournier «macelleria messicana».

 

Abbiamo qualche ricordo delle immagini che uscirono dalla notte horror di quella scuola. In particolare, abbiamo questa memoria di una pozza di sangue che inzuppava un libro tascabile. Non siamo sicuri di averla vista: era il 2001, si è dissipata nell’etere, forse l’abbiamo sognata. Tuttavia di macchie di sangue filmate ve n’è un’abbondanza.

 

 

Ci teniamo a precisare, con le parole dell’enciclopedia online, che «i procedimenti penali aperti in merito alle responsabilità delle violenze, alle irregolarità e ai falsi dichiarati nelle ricostruzioni ufficiali sui fatti avvenuti alla Diaz e a Bolzaneto, si sono svolti nei successivi tredici anni, concludendosi nella maggior parte dei casi con assoluzioni, dovute all’impossibilità di individuare i diretti responsabili delle stesse o per l’intervenuta prescrizione dei reati».

 

Ci teniamo a dire che, se poi hanno trovato come dissero delle armi, le ragioni per l’irruzione le forze dell’ordine ce le avevano.

 

Ci teniamo a rammentare anche, en passant, che il ministro degli Interni, presente a Genova in quei giorni era Gianfranco Fini. «È necessario ricordare e ripetere che nei giorni di Genova Gianfranco Fini, presente in prefettura e per alcune ore nella caserma dei carabinieri di Forte San Giuliano, è stato costantemente informato degli avvenimenti» scrisse Giuseppe D’Avanzo su Repubblica il 9 agosto 2001.

 

Non sappiamo quanti poliziotti di fatto abbiano votato, negli anni MSI, AN, poi PDL e infine FdI.

 

Però sappiamo che un numero cospicuo di loro è pronto a reprimere le proteste di chi, a differenza dei goscisti del G8 di Genova, mai ha in cuore di attaccare poliziotti e carabinieri, anzi, ne cerca l’appoggio, li applaude quando questi, come è capitato, mostrano un segno di solidarietà verso il popolo in protesta contro la follia pandemica.

 

A Renovatio 21 sono arrivate alcune storie strazianti di membri delle Forze dell’Ordine che provavano a resistere all’obbligo vaccinale, magari su base di un’obiezione spirituale. La cronaca poi ha parlato di quei poliziotti umiliati a pranzo, costretti a mangiare fuori, magari sotto la pioggia, perché non dotati di green pass.

 

Poliziotti e carabinieri che hanno capito la mostruosa trasformazione dello Stato moderno in questi due anni – di cui ora si vuole la persistenza – ve ne sono.

 

Tuttavia, i loro colleghi invece non hanno dimostrato nessuna pietà nella repressione della protesta. Lo abbiamo visto, con estremo nitore in Germania, o in Olanda, Paese in cui in più occasioni si è sparato sui manifestanti, li si è investiti con i furgoni e pure fatti sbranare dai cani-poliziotto.  Ma anche l’Italia ha avuto i suoi momenti magici di «movimento ondulatorio».

 

Bisogna quindi capire che i giovinastri pseudocomunisti del G8 non avevano contro di loro giornali, politici, leggi, il sentire popolare tutto. I gìottini non erano un capro espiatorio nazionale; né possiamo dire che erano un problema per la NATO (anzi, a fare certi pensieri, uno potrebbe dire che i black blocchi hanno fatto un ottimo lavoro nello screditare ogni possibile opposizione razionale alla globalizzazione).

 

I no-vax, ora filo-Putin, sì. Sono il capro espiatorio. Sono nemici del sistema atlantico. Sono, perfino, schedati, inseriti in blacklist di cui stiamo prendendo coscienza.

 

Per loro la repressione, nel caso della protesta autunnale, sarà inevitabile.

 

Se il governo sarà quello della Meloni, accadrà così? Molti hanno fiducia in lei, alcuni, ho sentito, vogliono votarla anche se nessuna posizione coincide con quelle di chi ha sentito la propria vita fracassata dall’impero della menzogna slatentizzatosi definitivamente dal 2020.

 

Giorgia è brava, Giorgia è buona. Non lo mettiamo in dubbio: guardate come ieri ha rispedito via il ragazzo con la bandiera LGBT salito sul palco ad interromperla, chiedendo per il tizio applausi dal pubblico. Maestria, sicurezza. «Pronti», dice lo slogan della campagna. Vero.

 

Tuttavia noi abbiamo in mente anche un altro palco, che fu davvero uno spartiacque molto significativo, soprattutto ora.

 

Il 25 settembre 2021 Giorgia Meloni era in Piazza Duomo a Milano per un grande comizio. Palco imponente, cornice da centro del mondo. La rimonta di Fratelli d’Italia, che si apprestava a disintegrare nei sondaggi la Lega, c’era tutta.

 

Solo un piccolo particolare: l’evento della Meloni era programmato di sabato, il giorno della settimana in cui, imperterrito, il popolo anti-green pass si ritrovava per manifestare il dissenso contro il governo.

 

Come abbiamo ripetuto qui varie volte, per consistenza, vastità e qualità (e assenza di leader visibili), bisognava riconoscere a Milano il titolo di capitale della protesta nazionale. Erano tanti, tantissimi: di tutte le età, di tutte le classi sociali. Erano determinati, erano inarrestabili. Ci vengono in mente i cori: «libertà, libertà…». Una protesta così non si era mai vista.

 

 

Il luogo di concentrazione delle manifestazioni del sabato a Milano era Piazza Fontana: cioè, a pochi metri da Piazza Duomo, dove la Meloni teneva il suo comizione.

 

Qui si sarebbe potuto pensare che il capo della cosiddetta opposizione al governo, avrebbe quantomeno provato a fare mezzo occhiolino ai no-vax: il nemico, del resto, è lo stesso, è il governo attuale. I no-green pass poi, sono tanti, tantissimi, e sono arrabbiati. Se non si è ciechi, dovrebbe essere chiaro che quelli sono in larga parte voti vagolanti, liberati finalmente dal M5S ma anche dalla Lega e dal PD, che attendono solo di essere catturati con il retino – o meglio un occhiolino, un sorrisino, un ammiccamento di qualsiasi tipo.

 

Uno potrebbe pensare che l’unico motivo per indire un comizio del partito d’opposizione parlamentare proprio nelle medesime coordinate spazio temporali della protesta no-vax, sia quello: sedurli, irretirli.

 

E invece, ci siamo trovati davanti uno spettacolo allucinante: transenne e celerini in assetto antisommossa per separare i no-green pass dal comizio di Fratelli d’Italia. Sostenitori del partito (smilzetti e pelati senza nemmeno essere skinhead: ma dove sono finiti i ragazzotti di destra di un tempo?) che vanno ad attaccar briga, mascherina sopra il naso, con i no-green pass, che hanno fatto il giro e vogliono entrare in piazza. Poliziotti con elmi, scudi e manganelli fanno da barriera.

 

Il comizio partitico meloniano, con i megaschermi e il logo grande, ha qualche centinaio di spettatori. I no-green pass sono migliaia.

 

La Meloni poi se ne va via veloce su sull’auto blu di ordinanza.

 

 

 

Non è che si possa chiedere un quadro più chiaro della situazione.

 

In nulla un governo Meloni si vorrà porre davvero contro il potere mondialista e i suoi segni visibili, la NATO e la UE, Washington e Big Pharma, Francoforte e Kiev.

 

E quindi, cosa dobbiamo aspettarci?

 

Dobbiamo aspettarci sul serio un governo chiamato alla repressione? Un governo a cui sarà permesso di esistere – proprio per reprimere le proteste residue di un popolo oramai stremato?

 

Che vinca la Meloni o Letta, Calenda, Speranza, Renzi, Conte o chiunque altro, sarà il governo della palude, quella che voluto il presidente bis e soprattutto Draghi, quella palude di mostri che ci ha venduti ad un potere che vuole sottometterci tutti ai suoi database o sacrificarci a milioni in una guerra con una superpotenza termonucleare.

 

Qualsiasi sarà il governo, dovrà essere il governo della repressione. La determinazione, l’intensità con cui ciò avverrà forse, da destra a sinistra, non cambieranno nemmeno poi tanto.

 

Perché l’impero della Cultura della Morte non permetterà altro.

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

 

 

Immagine screenshot da YouTube; modificata

 

 

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«Chiesa parallela e contraffatta»: Mel Gibson cita Viganò nel podcast più seguito della Terra. Poi parla di Pachamama, medicina e sacrifici umani

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Joe Rogan, il podcaster più seguito del pianeta, ha avuto come ospite ieri l’attore e regista cattolico Mel Gibson. La conversazione, della durata di più di due ore, è stata ricchissima di spunti altissimi e talvolta piuttosto sorprendenti, impressionanti.

 

L’intera intervista è segnata da un continuo ritorno alle questioni spirituali, non solo per l’annuncio di Gibson della preparazione di un film chiamato La Resurrezione di Cristo che abbraccia un racconto che va dalla caduta degli angeli ribelli sino a Nostro Signore risorto – un seguito ideale della sua Passione di Cristo, con il quale, ha detto il cineasta, vuole ambiziosamente rispondere alla domanda sul perché il regno del Bene e il regno delle Tenebre si contendano l’anima dell’umanità, umanità che è imperfetta.

 

Gibson, che mentre partecipava al podcast sapeva che la sua casa di Los Angeles stava andando in cenere nel grande incendio in corso, ha parlato della sua spiritualità cristiana non risparmiando dettagli, e confessando il suo essere «imperfetto», al punto di dichiararsi, «come risaputo, alcolizzato dalla nascita» e di essere stato aiutato da Dio a uscire dai suoi momenti bui.

 


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Va subito sottolineata la citazione che Gibson ha fatto di monsignor Carlo Maria Viganò e del discorso sulla chiesa attuale «parallela» e «contraffatta».

 

«Non aderisco alla chiesa postconciliare» ha detto Gibson, ottenendo dal Rogan una richiesta di spiegazioni. Mel, noto sedevacantista come lo era il padre Hutton Gibson, ha con molta cautela cominciato a spiegare dinanzi a milioni e milioni di utenti il problema di quello che ha chiamato «l’evento», cioè il Concilio Vaticano II, e ancora prima quello dell’elezione di Giovanni XXIII.

 

Gibson ha quindi parlato della fumata bianca che si era avuta durante quel conclave, subito seguita da una fumata nera: una probabile allusione ai discorsi sulla «Tesi Siri», secondo la quale a quel conclave (e forse non solo a quello), sarebbe stato eletto papa il cardinale arcivescovo di Genova, il tradizionalista Giuseppe Siri, che non sarebbe però arrivato al Soglio per minacce indicibili.

 

Gibson ha quindi proseguito spiegando ad un scandalizzato Rogan – che, nato in ambiente cattolico italo-irlandese, si è sempre dichiarato ateo e non si è mai tirato indietro rispetto a colpire la chiesa – la questione della Pachamama, mostrando immagini di un evento con la Pachamama del 2019.

 


«Abbiamo un papa che ha portato un idolo sudamericano in chiesa per adorarlo» ha detto Gibson.

 

«Davvero?» ha replicato Rogan apparentemente sbalordito, al che Gibson rispose: «Sì, la Pachamama».

 

Rogan ha chiesto a Gibson di chiarire cosa fosse la Pachamama, dicendo di non averne mai sentito parlare, e Gibson ha spiegato che si tratta di una «divinità sudamericana».

 

«Perché avrebbe dovuto farlo?» ha chiesto ancora uno sconcertato Rogan. «Bella domanda. Ma lo ha fatto» ha risposto gentilmente il Gibson.

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Alla domanda dell’intervistatore se Bergoglio avesse spiegato perché ha permesso che si verificasse l’evento Pachamama, Gibson ha menzionato la storia di indifferentismo religioso di Francesco, promuovendo il concetto che «tutte le religioni sono buone l’una quanto l’altra».

 

«Se questa è la sua tesi» ha detto Gibson prima che Rogan lo interrompesse, «allora non dovrebbe essere il papa».

 

«Come puoi essere il papa se dici “tutte le religioni sono ugualmente buone?”», si è chiesto l’ateo Rogan ad alta voce.

 

Il divo ha quindi usato apertamente e ripetutamente il termine «apostasia», che l’intervistatore pare aver capito, sottolineando che di mezzo ci sarebbe il Primo Comandamento che proibisce di adorare falsi dei.

 

«Sì, è il numero uno nella hit-list mosaica , ha risposto Gibson, riferendosi ai Dieci Comandamenti dati a Mosè.

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Gibson e Rogan anno parlato degli scandali di pedofilia nella Chiesa, con il podcaster corretto dal divo quando ha detto che questo papa, che gli sembra «progressista», non aveva coperto gli abusi come Ratzinger.

 

Gibson ha poi parlato di medicina, raccontando di tanti suoi malanni, della frequentazione di un medico guaritore cinese (approvato da un suo consulente spirituale, un gesuita «tradizionalista») e di altri rimedi farmacologici – ha usato il termina «allopatico» – e della censura che si abbatte su di essi.

 

Gibson era già stato da Rogan anni addietro assieme ad un dottore esperto per parlare dei benefici delle cellule staminali – non fetali, ovviamente – alle quali aveva sottoposto il padre Hutton negli ultimi anni prima che morisse, con esiti molto positivi, come, ha rivelato nel caso della sua spalla. La figura del padre è tornata spesso nell’intervista: Gibson ha ricordato le sue numerose vittorie a Jeopardy! il Lascia o raddoppia della TV americana di una volta. «Aveva una memoria quasi-fotografica» ha detto l’attore del padre, «mentre io ho una memoria pornografica».

 

Mel ha raccontato che il padre era stato in guerra nel Pacifico e aveva preso la malaria, guarendo poi con l’idrossiclorochina. Il discorso ha aperto la stura ad una serie di discorsi sui farmaci, posti con delicatezza, sull’ivermectina e pure su altre sostanze ora usate totalmente off label contro il cancro a stadio avanzato.

 

 

Il regista ha confessato di aver preso il Remdesivir – controverso farmaco anti-COVID approvato in USA – e di essere stato male per mesi. Ha quindi detto di aver letto il libro di Robert Kennedy jr. su Anthony Fauci, scatenando una conversazione, ripresa più volte, sull’incontrovertibile malvagità del personaggio, con riferimenti ai danni fatti da Fauci ai tempi dell’AIDS.

 

Il cineasta è sembrato, sia pure forse nervoso, molto cauto e dosato nella conversazione – come un uomo che sa molto di più di quello che dice, e fa la cortesia all’ospite di non essere troppo diretto e brutale, arrivando a dare suggerimenti di libri di storia, di cui ha dimostrato di essere un famelico lettore, e perfino di testi per smettere di fumare.

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Tutta l’intervista, in realtà è sembrata una danza del cattolico Gibson attorno all’ateo Joe Rogan, che è sembrato a tratti capire il gioco e lasciarsi trasportare senza fare resistenza, persino quando Gibson ha rifiutato fermamente l’idea dell’evoluzione di Darwin, e soprattutto quando gli ha mostrato il mistero della Sacra Sindone di Torino.

 


Degno di nota il riferimento al film capolavoro di Gibson Apocalypto, che Rogan ha detto di essere grandioso e di averlo rivisto di recente. Gibson ha spiegato la genesi del film, per poi entrare in un discorso articolato sul collasso della civiltà, e dichiarare che i sacrifici umani visti nella pellicola sono presenti ancora nella nostra società non differentemente da quella dei maya.

 

«Il sacrificio umano è vivo e vegeto» ha scandito Gibson, con Rogan che ha detto, che sì, ha solo cambiato forma, alludendo alle morti indotte dalla medicina. Qualcuno può aver avvertito che il non detto, che vibrava giocoforza dentro il cattolico Gibson, era l’aborto, che epperò non è stato spalmato in faccia al già liberal, sedicente abortista Rogan. I due hanno quindi convenuto in un’idea della guerra come sacrificio umano della gioventù.

 

 

Si esce dalle due ore di ascolto del podcast grati sino ad essere un po’ frastornati: la comprensione della catastrofe della chiesa conciliare, la comprensione del disastro della medicina moderna, la comprensione della Necrocultura, la comprensione del ritorno del sacrificio umano non solo solo temi che potete trovare su Renovatio 21: sono questioni che sono ad un passo dal divenire mainstream.

 

Se non è questo un momento per essere speranzosi, quale lo sarà?

 

Roberto Dal Bosco

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Storia delle bandiere rosse e nere nei movimenti di liberazione dell’America Latina

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Renovatio 21 pubblica questo saggio sulla storia dei colori nero e rosso nel contesto politico latinoamericano. Il cromatismo rosso e nero, come noto, è espresso ancora oggi in tutto il mondo: nere e rosse sono le bandiere dellinsieme di casseur goscistidettiAntifa, così come, teoricamente all’opposto nello spettro ideologico, sono rossonere le bandiere dei cosiddetti «nazionalisti integralisti» ucraini (o banderisti, o ucronazisti) più vivi che mai grazie alla spinta occidentale in senso antirusso. Ricordiamo pure che, en passant, i colori rosso e nero, che già per Stendhal avevano significato storico e metastorico, sono pure quelli di Renovatio 21, sia pure scelti con altri significati ancora.   Il divario tra la nascita di nuove idee e la loro effettiva realizzazione è in crescita e direttamente proporzionale al passare del tempo e allo stabilirsi di distanze geografiche sempre maggiori. La disparità tra la società in cui un’idea è stata concepita e la società in cui viene applicata può portare a un’interpretazione completamente diversa rispetto al suo significato originale. Date queste premesse, è quindi di fondamentale importanza sforzarsi di comprendere il significato originale all’interno del panorama in continua evoluzione delle comunicazioni globali che ci lascia con meno opportunità di approfondire il nostro mondo.   Un buon esempio può essere trovato nella storia e nel significato della bandiera rossa e nera nella lotta di liberazione in America Latina.   In Occidente i tre colori maggiormente utilizzati sono sempre stati il rosso, il bianco e il nero. L’introduzione al testo di Michel Pastoureau Rosso. Storia di un colore (2016) descrive come non solo nelle immagini ma anche nei vocabolari, la loro presenza dall’antichità ad oggi è sempre stata predominante, con una fortissima preminenza del rosso.   Stefano Zuffi ne I colori nell’arte (2013) spiega come durante il medioevo questi tre colori divennero i tre poli intorno ai quali ruotavano tutti i sistemi simbolici. Nell’immaginario cristiano, in particolar modo, i colori rosso e nero vennero usati assieme per evocare le suggestioni dell’inferno e il rosso in particolare si conquistò il ruolo di riconosciuto contrario del bianco grazie al suo simboleggiare la forza, l’energia, la vittoria e il potere.   In epoca moderna durante la Rivoluzione francese il bianco dell’aristocrazia venne affiancato dai colori blu e rosso, i colori della città di Parigi, nell’atto di simboleggiare la sottomissione della nobiltà alla città borghese. In seguito, quei colori divennero rispettivamente il simbolo della Repubblica e della lotta contro le ingiustizie ma anche della libertà, uguaglianza e fraternità.  

Francobollo sovietico del 1966 commemorante il Poeta Eugène Pottier (1876-1887) e le barricate della Comune di Parigi CC0 via Wikimedia

  Il colore rosso diverrà successivamente il simbolo delle lotte parigine del ’48, della Comune parigina del ‘78 e quando verrà utilizzato anche per la rivoluzione bolscevica nel 1917 si approprierà del significato diventando simbolo principe della lotta comunista al capitalismo.  

Hector Moloch, «La Framassoneria e La Comune». Immagine CC0 via Wikimedia

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La bandiera nera invece può essere ricondotta a Bakunin e al suo proselitismo a favore delle sue idee tendenti al caos e al nichilismo. Nella sua visione del mondo immaginava una rivolta contro lo stato costituito paragonata, a sua volta, alla rivolta di satana verso la supremazia del potere del paradiso. Attraverso le internazionali socialiste di metà 1800 si inizierà a vedere sventolare la bandiera nera inneggiante il movimento anarchico.   Il primo esempio verificato di utilizzo della bandiera rossonera simboleggiante l’unione dell’ideologia anarchica con la lotta socialista, fu quello di Malatesta assieme a Cafiero che la esposero in seguito all’assalto di Letino.    Secondo l’opera Occhiacci di legno (1998) dello storico italiano Carlo Ginzburg, nel corso della storia movimenti e personaggi politici si sono appropriati di simboli e miti per i propri scopi. Ginzburg, ad esempio, ha discusso del riutilizzo politico dei miti, evidenziando la combinazione di propaganda e manipolazione nascosta come strumenti per plasmare l’opinione pubblica: «Bakunin e i gesuiti, sebbene ideologicamente diversi, adottarono entrambi strutture gerarchiche e obbedienza assoluta nelle loro organizzazioni. Questi esempi dimostrano come gli attori politici, guidati dai propri programmi, manipolino simboli e narrazioni per portare avanti i propri obiettivi».   Sulla base del lavoro di Donald Hodges Intellectual Foundations of the Nicaraguan Revolution (2014), dopo il Congresso anarchico tenutosi a Londra nel 1881, l’anarco-comunismo emerse come l’ideologia dominante all’interno del movimento anarchico internazionale. L’anarco-sindacalismo, una fusione di anarchismo e sindacalismo che ebbe origine in Francia durante gli anni Novanta dell’Ottocento, si diffuse rapidamente in Spagna e alla fine attraversò l’oceano.   Gli ideologi spagnoli d’avanguardia associati ad organizzazioni come CNT (Confederazione Nazionale del Lavoro), IAT (Associazione Internazionale dei Lavoratori) e FAI (Federazione Anarchica Iberica) hanno svolto un ruolo cruciale nell’adattare l’anarco-comunismo al mondo industrializzato e hanno sottolineato l’importanza dei sindacati come punto focale della lotta di classe e nucleo per stabilire un nuovo ordine sociale. Giunto nelle Americhe, trovò terreno fertile nelle maggiori città industriali degli Stati Uniti e soprattutto nel Messico rivoluzionario, grazie soprattutto all’opera di Ricardo Flores Magon.    La Confederazione Nazionale del Lavoro (CNT), il primo esempio istituzionalizzato di anarcosindacalismo, fu fondata nel 1910 e arrivò successivamente nel Messico rivoluzionario, dove nel 1912 fu fondata la Casa del Obrero Mundial (COM).   

Battaglioni rossi della Casa del Obrero Mundial (1915). CC0 via Wikimedia

  Secondo l’INEHRM, Istituto Nazionale di Studi Storici delle Rivoluzioni del Messico, le fonti indicano che la bandiera rossa e nera era sconosciuta in Messico fino al 1° maggio 1913, quando la Casa del Obrero Mundial (Casa del Lavoratore del Mondo) venne esposta una bandiera rossa con una striscia nera. L’attivista Jacinto Huitrón sostiene addirittura di aver introdotto lui stesso il simbolo al proletariato internazionale.    Nel 1921, una bandiera rossa e nera fu posta nella Cattedrale Metropolitana in occasione della commemorazione del 1° maggio. In risposta, il governo di Álvaro Obregón proibì l’esposizione di stemmi e simboli che contraddicessero «l’insegnamento nazionale» negli edifici pubblici.     Anche se l’intervento del governo non è riuscito a sradicare la bandiera rossa e nera, ha portato all’incorporazione della bandiera messicana nelle espressioni pubbliche del movimento operaio, senza causare un conflitto tra nazionalismo e internazionalismo. Nel simbolismo della Casa del Obrero Mundial messicana, la fascia rossa rappresentava la lotta economica della classe operaia contro le classi dominanti, mentre la fascia nera simboleggiava la loro lotta insurrezionale per la liberazione. 

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L’opera di Neill MacAulay The Sandino Affair (1998) racconta come la bandiera rossonera incontrò Augusto Cesar Sandino nel Messico post-rivoluzione a Tampico.   Figlio di un proprietario terriero fervente liberale, fuggì dal Nicaragua dopo aver manifestato le sue idee politiche antimperialiste. Dopo un lungo girovagare trovò un lavoro stabile nella zona di Tampico, importante centro petrolifero molto vicino geograficamente e culturalmente agli Stati Uniti. Lavorò in un centro di estrazione petrolifero per alcuni anni e prese parte ai grandi movimenti sindacalisti della città. Cominciò a frequentare diversi circoli culturali e sperimentò idee anche molto eterogenee tra loro: dall’anarchismo magonista alla massoneria, dalla teosofia allo yoga.  

Augusto Sandino. Immagine CC0 via Wikimedia

  Al suo ritorno in Nicaragua, dopo aver fomentato una rivolta di minatori in una miniera dove aveva trovato impiego, iniziò ad aggregarsi alla lotta dei liberali contro i conservatori appoggiati dagli Stati Uniti. Non aderì al compromesso tra le fazioni in guerra e cominciò una guerriglia nelle montagne utilizzando la bandiera rossonera dei lavoratori anarchici come suo vessillo. In un secondo viaggio in Messico, in cerca di fondi per la sua causa, incontrò le idee spiritiste di Joaquin Trincado e divenne un adepto della sua Escuela Magnetico-Espiritual de la Comuna Universal.   Al ritorno nelle montagne del Nicaragua cominciò a mettere in pratica la sua particolare interpretazione del mondo attraverso una disciplinatissima visione patriottica fondata sull’identità culturale indigeno-spagnola e votata alla lotta antimperialista. Quando divenne condottiero di uomini nelle giungle delle montagne nicaraguensi non si separò più dalla bandiera che per lui rappresentava la difesa dei lavoratori della classe subalterna.   La propensione ad un comunismo utopico di Sandino derivava probabilmente dall’eredità culturale familiare liberale di piccoli proprietari terrieri e dall’idea di una società fondata sulla fraternizzazione e sulla comunizzazione proposta da Trincado ne Los cinco amores (1963) e vicina a Pëtr Alekseevič Kropotkin in Il mutuo appoggio: un fattore dell’evoluzione (1902).    Alla morte di Sandino i reduci del suo esercito confluirono nella Legione Caraibica dove l’istruttore Alberto Bayo, militare della Repubblica spagnola sconfitta da Franco, ne raccolse le testimonianze orali e successivamente scrisse un manuale sulla guerriglia dedicato al nicaraguense.   Attraverso le sue interazioni con i sopravvissuti dell’esercito di Sandino, che erano riusciti a fuggire in Costa Rica, Bayo diventò il custode delle loro storie ed esperienze. Tra i suoi contributi degni di nota ci fu la pubblicazione di un manuale sulla guerriglia intitolato 150 preguntas a un guerrillero (1955) tradotto in Italia come Teoria e pratica della guerra di guerriglia. 150 consigli ai guerriglieri.   Questa guida completa divenne ampiamente riconosciuta e venerata come una risorsa preziosa, fungendo da riferimento pratico per coloro che erano impegnati in attività rivoluzionarie. Il manuale di Bayo, permeato dello spirito dell’indomabile resistenza di Sandino, occupò un posto speciale nel cuore di coloro che furono coinvolti nella lotta per la liberazione. Era dedicato ai gloriosi guerriglieri emersi dalla scuola immortale di Sandino, riconoscendo a Sandino lo status di eroe venerato su scala globale.   Attraverso i suoi meticolosi sforzi per documentare e diffondere l’eredità della resistenza del leader nicaraguense, Bayo ha svolto un ruolo cruciale nel preservarne la memoria e i principi. Il suo lavoro non solo ha dotato i rivoluzionari di conoscenze tattiche, ma ha anche perpetuato lo spirito di Sandino, ispirando le generazioni future a lottare per la giustizia e la liberazione nonostante le avversità.   Fu Bayo nel ’56 in Messico ad esercitare gli esuli cubani di Castro e a trasmettere le tattiche militari e il mito del sacrificio patriottico di Sandino. Castro diventò presidente di Cuba ed incarnò il mito della rivoluzione vittoriosa del ventunesimo secolo. L’enorme esposizione mediatica che ne ricevette, in un periodo di grande contrasto globale per la guerra fredda in atto, trasformò l’esempio di Cuba in un nuovo paradigma che tenterà di venire replicato in un notevole numero di occasioni.

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La bandiera rossonera del sindacalismo anarchico diventerà attraverso il Movimiento 26 de Julio di Castro uno dei simboli dei movimenti rivoluzionari marxisti in America Latina.   In rapida successione dall’arrivo di Castro all’Avana, dal ’59 in poi, si avranno movimenti replicati in serie lungo tutto l’arco andino: Venezuela (1960), Nicaragua (1961), Perù (1962), Bolivia, (1963), Colombia, (1964), Cile (1965), Panama (1970) e nell’Angola sovvenzionato da Cuba (1975).   La rivoluzione cubana ebbe un debito fortissimo con l’operato di Sandino ma gli ideali che vennero realmente trasmessi furono l’esempio di lotta patriottica contro l’imperialismo statunitense e la ricostruzione a partire dalla dignità di razza indigeno-spagnola, una base riutilizzata in chiave marxista dai futuri movimenti rivoluzionari latino-americani. Non rimase traccia invece del pensiero spirituale di Sandino, suo vero motore ideologico. I movimenti rivoluzionari seguirono uno schema molto simile a quello proposto da Castro a Cuba, ma nessuno ebbe però altrettanta fortuna tranne, fatalità, quello dei Sandinisti in Nicaragua.   Nel 1959 Il pupillo di Bayo, Ernesto «Che» Guevara, aveva organizzato un’invasione del Nicaragua dando vita al Movimiento 21 de Setembro. L’invasione fallì ma uno dei partecipanti, il nicaraguense Daniel Fonseca, portò avanti la lotta cominciando a recuperare gli scritti di Sandino.  

Murales nicaraguense che ritrae Fonseca (a sinistra con gli occhiali) CC0 via Wikimedia

  Ignorò, anche lui, la parte più spiritista, mantenne l’ideale politico più vicino all’esperienza rivoluzionaria cubana e fondò nel 1961 un nuovo movimento di liberazione nazionale ispirato a Sandino, il Frente Sandinista de Liberacion Nacional (FSNL). Che Guevara era diventato il tramite tra l’eredità orale di Bayo e il lavoro testuale di Fonseca, la stessa bandiera rossonera divenne di nuovo simbolo di un movimento di liberazione nazionale ma anche in questo caso il significato aveva mutato inquadramento ideologico.    L’estrema destra messicana e il complotto giudeo-massonico emergono nelle opere di Traian Romanescu, come La Gran Conspiración Judía pubblicata a Città del Messico nel 1961, e Traición a Occidente. Entrambe le copertine del libro, Traición a Occidente e un’altra opera intitolata Amos y esclavos del siglo XX, presentano un disegno grafico distinto: una divisione dei colori rosso e nero in due fasce, con il titolo del libro in bianco al centro.   Questa scelta grafica deliberata non può essere liquidata come casuale, poiché racchiude in sé il concetto di lotta di liberazione nazionale, unendo uno spirito combattivo che trascende le affiliazioni politiche che possono essere percepite come contrastanti con quelle viste finora. Si ritiene che Traian Romanescu, una figura spesso menzionata nei resoconti storici, non sia mai esistito e fosse semplicemente uno pseudonimo.   Scavando più a fondo in questa intrigante narrazione, ci imbattiamo nel nome Carlos Cuesta Gallardo, che non solo ha svolto un ruolo significativo come uno dei fondatori dell’Università Autonoma di Guadalajara, ma aveva anche legami con un’organizzazione clandestina di estrema destra nota come Tecos.   Tuttavia, non è solo il suo coinvolgimento in queste imprese a suscitare curiosità, ma piuttosto un fatto storico che fa luce sulle sue attività in quel periodo. È noto che Carlos Cuesta Gallardo intraprese un viaggio nella Germania nazista, dove cercò di stabilire legami con il movimento nazionalsocialista tedesco. Questa mossa solleva domande e speculazioni sulla natura della sua visita e sull’accoglienza che ha ricevuto. È ragionevole supporre che gli siano state riservate attenzioni e considerazioni particolari, vista l’importanza che Adolf Hitler attribuiva al Messico per la sua immediata vicinanza agli Stati Uniti d’America.   L’intreccio tra la presenza di Carlos Cuesta Gallardo nella fondazione dell’università, il suo coinvolgimento con la società segreta Tecos e le sue interazioni con il regime nazionalsocialista in Germania aggiungono strati alla storia enigmatica che circonda la presunta inesistenza di Traian Romanescu. Questi collegamenti storici e le loro implicazioni alimentano il dibattito e gli intrighi in corso che circondano questo argomento a Guadalajara.  

Ricostruzione della Bandiera delle forze sandiniste di Muago CC BY-SA 4.0 via Wikimedia

  La corrente cristiana di sinistra chiamata teologia della Liberazione, sviluppatasi in seguito al Concilio Vaticano II, si schierò a favore della rivoluzione. La vittoria finale si ottenne solamente con la popolazione cristiana che aderì in massa all’organizzazione rivoluzionaria allo scopo di mettere fine alla dittatura della famiglia Somoza. Ma Sandino, quando era ancora in vita, voleva diventare, invece, il riassunto del pensiero proposto da Trincado: «l’uomo completo […] il comunista-spiritista».   L’immagine che verrà riproposta di Sandino durante la Rivoluzione sandinista non terrà mai conto di questo aspetto che invece fu sempre una delle variabili scatenanti della sua volontà di azione. A maggior ragione non venne mai diffuso il feroce anticlericalismo che aveva assorbito e fatto suo dalla lettura dei testi di Trincado. La trasmissione della storia di Sandino divenne, per omissione, una menzogna politica orchestrata con l’obiettivo di creare un mito fondatore che potesse legittimare l’operato dei rivoluzionari.    Tomás Borge, fondatore dell’FSLN, poeta e guerrigliero, scrive in uno dei suoi libri: «i cristiani autentici credono che l’uscita dalla tomba non si riduca al semplice ritorno alla vita, ma comprenda un processo di rinascita e trasformazione. Ed è per questo motivo che si realizza l’integrazione del cristianesimo liberazionista con la rivoluzione all’interno della nostra rivoluzione nazionale: «Per lottare per la pace, Compagni cristiani, dobbiamo essere pronti a impegnare la nostra stessa vita. Dobbiamo essere pronti a dichiarare senza esitazione: Patria libera o morte».

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Borge, un appassionato comunista e devoto seguace di Castro, abbracciò con tutto il cuore la crescente ondata di fervore religioso, rendendosi conto del ruolo fondamentale che le masse cristiane giocavano nella realizzazione degli obiettivi della rivoluzione. Nella sua astuta comprensione, riconobbe che la fusione della rivoluzione comunista e della teologia della liberazione non solo era compatibile ma si rafforzava anche a vicenda.   Durante gli anni del Sandinismo al potere, Daniel Ortega fu prima rappresentante nella Junta de Gobierno de Reconstrucción Nacional, organo di governo transitorio, e in seguito vinse le elezioni del 1984 diventando Presidente del Nicaragua. Nel 1990 vennero indette nuovamente le elezioni e ne uscì sconfitto dalla coalizione UNO, capitanata da Violeta Chamorro, sostenuta dagli ambienti favorevoli al ritorno di una politica vicina al mondo statunitense. Dopo la sconfitta, Ortega rimase all’opposizione fino al 2006 quando riuscì ad ottenere una importante vittoria elettorale e a riportare la sua bandiera rosso nera al governo.  

Daniel Ortega. Immagine di Cancilleria Ecuador CC BY-SA 2.0 via Wikimedia

  La visione politica di Ortega si dimostrò decisamente differente rispetto a quella del suo primo mandato negli anni rivoluzionari. Assieme alla sua compagna Rosario Murillo, avversaria politica del prete e poeta Ernesto Cardenal, Ministro della cultura all’epoca della rivoluzione e principale esponente della teologia della liberazione in Nicaragaua, cominciò un avvicinamento ai rappresentanti della destra cristiana e agli interessi della classe imprenditoriale nicaraguense. Il cardinale Miguel Obando y Bravo, uno dei maggiori avversari dei Sandinisti all’epoca della rivoluzione, officiò il loro matrimonio nel 2005, l’anno delle elezioni vinte. Da molti osservatori quell’occasione venne vista come l’accordo di Ortega con i poteri filostatunitensi.   Nel giorno 22 dicembre 2014, Ortega aprì la cerimonia dell’inizio del cantiere che avrebbe portato alla costruzione di un canale interoceanico grazie alla concessione dell’appalto ad un fondo di investimenti cinese. Questa operazione diede il via a una enorme ondata di proteste antigovernative indirizzate, paradossalmente, a liberare il Nicaragua dal Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale.   Il nuovo canale interoceanico non vide mai l’inizio dei lavori e il miliardario cinese Wang Jing, a capo del Hong Kong Nicaragua Development Corporation (HKNDC) finì per chiudere la compagnia per bancarotta.   Come descritto nell’opera di Russell White Nicaragua Grand Canal (2015), la famiglia Ortega è stata accusata di utilizzare il progetto del Canale come mezzo per consolidare il proprio potere politico. Similmente alla dinastia Somoza, la famiglia Ortega ha acquisito un controllo significativo sulle infrastrutture commerciali del Nicaragua e ha ricevuto aiuti dal Venezuela per acquistare aziende locali.   L’approfondimento della parabola della bandiera rosso nera vuole mostrare come il significato, insito nel simbolo utilizzato come schema aggregante nelle diverse situazioni descritte, cambi ad ogni passaggio. L’appropriazione di Sandino della bandiera del sindacalismo anarchico come suo vessillo porterà alla trasmissione della stessa con significati sempre differenti.

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La morte di Sandino nel ’34 creò un martire e in seguito i suoi reduci riunitesi nelle Legione caraibica consentirono a Bayo di apprendere le storie di Sandino direttamente dai loro racconti orali. La distanza venutasi a creare con la morte di Sandino venne in aiuto a Castro nel costruire il mito fondativo della bandiera rosso nera inneggiante al M 26 7, il movimento dal quale la Rivoluzione cubana ebbe inizio. Il ritorno della figura di Sandino in Nicaragua avvenne soprattutto attraverso l’influenza culturale del movimento cubano.   Il lavoro sui testi fatto da Fonseca, infine, lo cristallizzò spogliato della sua profondità più spirituale ma in una forma più utile politicamente a coagulare al suo interno le correnti presenti nella popolazione. L’ulteriore sconvolgimento del significato della bandiera è in atto ancora oggi con il governo di Ortega che dimostra di aver riportato il Nicaragua vicino al punto contro il quale aveva combattuto da giovane.   Il mito fondativo di Sandino campeggia presente ovunque in Nicaragua anche se ormai il suo significato è stravolto.   Scriveva Tacito: «Fingunt, simul creduntque». Fingono, «hanno immaginato o hanno costruito?», ma al tempo stesso ci credono. L’importanza del saper mantenere il controllo sul popolo dopo aver vinto una rivoluzione passa attraverso anche i simboli aggregatori che lo fanno diventare il più possibile coeso verso un obiettivo comune.   Maggiore sarà la distanza dall’origine del significato utilizzato come mito, più difficile sarà riuscire a verificarne la veridicità. In questo modo il racconto politico che ne deriverà potrà sempre utilizzare il mito fondatore, la bandiera rosso nera o Sandino stesso, nel modo che si dimostrerà più utile e adatto alla situazione.   Coloro che guidano il popolo e che hanno la responsabilità di traghettare un’intera nazione, come in questo particolare esempio centramericano, hanno per primi l’obbligo di credere alla costruzione della loro stessa menzogna per poterla trasmettere con sicurezza.    Marco Dolcetta Capuzzo  

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Pensiero

Dugin parla di rivoluzione nella destra americana

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Il filosofo e politologo russo Aleksandr Dugin spera che le sanzioni statunitensi vengano presto revocate, così da poter visitare il Paese e sperimentare quello che ritiene sarà un cambiamento politico storico sotto la guida del presidente eletto Donald Trump.

 

La scorsa settimana il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha annunciato sanzioni contro il Center for Geopolitical Expertise (CGE) con sede a Mosca, un think tank fondato da Dugin, accusandolo di «alimentare tensioni socio-politiche e influenzare l’elettorato statunitense durante le elezioni statunitensi del 2024», affermando che il CGE ha utilizzato deepfake e strumenti di intelligenza artificiale per diffondere falsità, agendo su richiesta dell’agenzia di intelligence militare russa (GRU). Mosca ha costantemente negato di essersi intromessa nelle elezioni statunitensi.

 

Reagendo alle ultime restrizioni, il filosofo ha detto sabato: «Spero che nel 2025 mi tolgano le sanzioni. Voglio visitare gli Stati Uniti. Ci sono molti buoni amici lì».

 

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Lo stesso Dugin è stato sottoposto a sanzioni dagli Stati Uniti dal 2015 per quello che Washington vede come il suo ruolo in azioni che «minacciano l’integrità territoriale dell’Ucraina». La designazione è arrivata dopo il colpo di Stato sostenuto dall’Occidente a Kiev nel 2014, che ha scatenato una potente rivolta nel Donbass, ora parte della Russia, che Dugin ha sostenuto.

 

Dugin ha continuato dicendo che «gli piace la bro-revolution e la svolta woke di destra», definendo così l’arrivo di una certa aria da «fraternità» scolastica che spira nella destra, divenuta al contempo intransigente come il neogoscismo detto woke. «Sono molto curioso del nuovo saeculum e della First Turn». Il filosofo si riferiva apparentemente all’idea che dopo la rielezione di Trump, l’America è entrata in un nuovo ciclo storico, del genere che capita una volta ogni diverse generazioni, una teoria elaborata dai politologi Neil Howe e William Strauss nel libro del 1997 The Fourth Turning e portata avanti in particolare da Steve Bannon – il quale è apertamente nemico di Elon Musk (il bro per eccellenza del nuovo trumpismo).

 

Dugin ha descritto la vittoria di Trump sulla democratica Kamala Harris come una «vera rivoluzione ideologica» che alla fine aprirà la strada all’America per liberarsi dall’iper-individualismo, dalla cultura della cancellazione e dall’odio per il proprio retaggio.

 

Dugin è noto come fervente difensore dei valori tradizionali, falco della politica estera e ideologo dell’«Eurasiatismo», l’idea di un blocco geopolitico che unisca Europa e Asia per respingere il progressismo occidentale. I media occidentali spesso si riferiscono a lui come al «cervello di Putin», a causa della sua presunta influenza sul presidente russo. Tuttavia, classifica sui maggiori pensatori geopolitici ascoltati dal Cremlino non lo vedono ai primi posti: secondo alcuni, l’idea di Dugin vicino a Putin serve dunque, soprattuto, alla propaganda antirussa.

 

Come riportato da Renovatio 21, due anni fa i libri di Dugin sparirono improvvisamente da Amazon. Se ne accorse, mesi dopo, anche il giornalista televisivo americano Tucker Carlson.

 

Il filosofo l’anno scorso diede una lunga, densissima intervista allo stesso Carlson, mostrando la profondità del suo pensiero storico-filosofico nell’analisi della situazione dell’ora presente riguardo all’imperio del liberalismo omotransumanista.

 

Dugin ha pagato il prezzo più alto possibile per le sue idee, un prezzo persino superiore alla morte: come noto, la figlia Darja Dugina è stata uccisa da un’autobomba a Mosca due anni fa. Secondo i servizi segreti americani la giovane è stata uccisa dagli ucraini.

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Immagine di Fars Media Corporation via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International; immagine tagliata

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