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Urna Z. Putin deciderà le elezioni italiane (guerra di agosto permettendo)

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«Questo è il problema del ministro degli Esteri Di Maio, non capisce nulla di quello di cui si occupa». Così parlò Maria Zakharova. Si tratta, del medesimo perculamento – diplomaticamente terribile, inaudita – che venne rifilato a Giggino dopo quello di inizio guerra, quando il ministero degli Esteri russo , giustamente, disse che la diplomazia non era fatta di «viaggi vuoti per assaggiare piatti esotici». Il pomiglianese pochi giorni prima era stato proprio a Mosca.

 

Il discorso venne fatto quando Di Maio, ora soldatino ubbidiente di Mario Draghi, cominciò a parlare di «gravi ingerenze nei confronti del governo italiano» di Mosca, che lavorerebbe «per destabilizzare l’Italia e l’Europa».

 

La Zakharova – che, va da sé, qui riteniamo sia mitica – smentì tutto sull’agenzia russa TASS. «Noi stessi siamo sbalorditi dal potere della diplomazia russa come risulta dai resoconti dei media italiani. Si scopre che i nostri ambasciatori possono cambiare i governi con un paio di chiamate».

 

«Più volte i rappresentanti di altri Paesi occidentali hanno cercato di utilizzare trucchi simili, quando non c’era nessuno a cui addossare la colpa dei propri fallimenti in un contesto di crescente malcontento della popolazione», dice la portavoce. Tre giorni fa Di Maio aveva accusato Mosca di lavorare «per destabilizzare l’Italia e l’Europa».

 

Quindi, lo zampino di Putin nella fine di Draghi? Volete che sia proprio come dicono i pentastellati mononeuronali e i piddini piatti e inaciditi?

 

Il problema è che anche noi potremmo dire: sì, potrebbe essere. Anzi, guardate, è peggio: il fatto è che la Russia non solo potrebbe essere la causa della fine del Drago, ma pure potrebbe divenire ciò che deciderà le prossime elezioni politiche italiane.

 

Non scherziamo.

 

Ora, sulla caduta di Draghi, non abbiamo idea se ci sia stata una manovra partitica, né se ha senso ricordare quando, all’altezza di quella stranissima polemica sull’esercito russo nella Lombardia del COVID 2020, saltò fuori che c’erano delle cose interessanti che magari potevano uscire sul governo dell’epoca? A che si riferivano? Ad accordi sullo studio del virus, o sullo sviluppo del vaccino? Oppure sono quelle storie personali su alcuni ministri di allora, di cui nessuno osa scrivere, a parte Dagospia che utilizza giri di parole?

 

Non lo sappiamo. In verità, non ha importanza, perché crediamo che la Russia abbia contribuito alla fine di Draghi perché essa rappresenta quello strano impiccio per gli speculatori e parassiti chiamata realtà.

 

Un Paese senza la realtà materiale del gas, cioè senza economia e con valanghe di morti (di freddo, non di COVID) in arrivo in autunno, non può permettersi di mantenere un governo che l’ha portato a quel punto. È addirittura possibile che questo lo abbiano capito perfino Salvini e Berlusconi.

 

Tuttavia, non è da Di Maio o dal mondo piddificato con la bava alla bocca che arriva l’illuminazione sul futuro russo delle nostre elezioni.

 

Abbiamo capito tante, tantissime cose leggendo un’intervista all’ex magistrato, considerato di centrodestra, Carlo Nordio.

 

Sull’interferenza russa nella caduta del governo «Non abbiamo prove, ma le coincidenze sono diventate indizi gravi, precisi e concordanti».

 

«Sono rimasto inorridito dalle parole di Berlusconi e Salvini che rappresentavano una sorta di endorsement a Putin. L’aggressione russa all’Ucraina è folle, criminale e ingiustificata, e sarebbe inammissibile un governo che non sostenesse, in politica estera, la linea di Draghi, ovvero un sostegno all’Ucraina senza se e senza ma».

 

Interessante davvero. Libero scrive che «Nordio è considerato dai retroscenisti e commentatori della politica italiana molto vicino a Fratelli d’Italia, il partito che da mesi chiede agli alleati Lega e Forza Italia di togliere la fiducia al governo di unità nazionale». Il quotidiano milanese scrive addirittura che «il “ministro della Giustizia” in pectore di un “governo Meloni”».

 

A questo punto ci è chiaro che si è aperta tutt’altra partita. Ed era inevitabile che fosse così.

 

Silvio Berlusconi si dice fosse arrabbiato con Putin, forse perché non risponde più alle telefonate, o se risponde mette giù subito. Però, ci è impossibile non ricordare che la loro era la più bella, salda (e, sulla carta, davvero improbabile) amicizia politica transnazionale che mai abbiamo veduto.

 

Questo sito ha già ricordato in passato dei momenti più alti di questo rapporto: Putin che va nella villona sarda a incontrare la stampa a fianco di Berlusconi (!) appena vinte le elezioni 2008. Silvio che risponde al posto di Putin in un altro incontro internazionale quando un giornalista chiede al russo riguardo alla guerra in Georgia. E poi, la passeggiata insieme nella Crimea appena tornata alla patria, con gli ucraini inferociti al punto da denunciare Berlusconi per essersi bevuto con Putin una bottiglia di Sherry.

 

Mettetela come volete, è chiaro che quello che c’è tra i due è qualcosa di enorme, di perennemente riattivabile – un rapporto che Silvio non può avere con Biden, Zelen’skyj, Scholz, la Von der Leyen.

 

Dove volete che cadesse, quindi, la mela? Di fatto, come riportato da Renovatio 21, Berlusconi – l’uomo che a Pratica di Mare portò brevemente la Russia nella NATO – già da qualche mese aveva con probabilità cominciato la virata ucraina, con la dichiarazione-shock per cui dando le armi a Kiev siamo di fatto in guerra. Vero.

 

Poi c’è Salvini. A lui, che si presentava in Europarlamento con indosso una t-shirt ritraente Vladimir Putin con  l’uniforme della Marina russa, che in un’altra foto scattata sulla Piazza Rossa dinanzi al Cremlino vestiva un’altra t-shirt con disegno a stencil del primo piano del presidente russo, hanno cucito addosso un incredibile Russiagate all’italiana, con la storia dell’Hotel Metropol, e Report che segue le cene fra amici di Dugin in Italia.

 

Salvini è lo stesso, lo dimenticano tutti, che mantenendo una posizione che non poteva dispiacere alla Russia, attaccò perfino Trump quando questi mandò qualche missile contro la Siria. «Ma vi sembra normaleeeh?». Qualcuno dice che da lì siano iniziati i suoi problemi.

 

Insomma, due capi su tre dei partiti del Centrodestra, dato per vincente alle urne 25 settembre, qualche simpatia per Mosca ce la ha – e perfino con il presidente russo in persona, oramai assurto per l’establishment occidentale al ruolo di demonio globale.

 

Dall’altra parte, c’è il partito ancora più favorito – stando ai sondaggi – con la sua capa favoritissimissima. La quale, sulla Russia ci pare avere tutt’altra posizione, al punto che sono circolati messaggi interni per punire i membri del partito che sui social inneggiano alla Russia. Abbiamo visto in TV un altro parlamentare FdI dire addirittura che, anche qualora si riuscisse a cacciare Putin dall’Ucraina, bisognerebbe andare oltre e sconfiggerlo del tutto, perché sennò questo potrebbe avanzare e arrivare fin qui in Europa. (Sento già il sospiroso «magari» di molti lettori…)

 

Insomma: il Centrodestra potrebbe essere composto da due partiti che si riallineano politicamente, geopoliticamente e financo personalmente con Putin, più un partito – quello in pole position, dicono – che invece sulla Russia la pensa come Draghi, Washington, Di Maio, Varsavia, Enrico Letta, Vilnius, Matteo Renzi, CIA, Londra e Bruxelles: Bruxelles nel doppio senso di sede UE e di sede NATO.

 

La cosa bella è che questo partito russofobo, quindi perfettamente sintonizzato con il governo Draghi (e allineato anche su vaccini green pass), era il partito all’opposizione…

 

Sì, uno ad una certa può arrivare a dire che non ci capisce niente, in realtà è tutto chiarissimo.

 

La partita oggi, insomma, sarà interna alla coalizione di centrodestra con la Russia come tema principale. I dilemmi politici saranno il gas e la guerra ucraina: i partiti sovranisti sono disposti a distruggere le aziende e ad affamare il popolo per andare a muso duro con gli arconti della nostra, appunto, storica sovranità limitata?

 

Siamo disposti a morire per Kiev?

 

Per quanto dobbiamo tirare avanti la balla di Zelens’kyj, che sta perdendo la guerra e potrebbe essere spazzato via da un  momento all’altro, magari da una mossa degli stessi ucraini o dal suo entourage di (parole di Putin) «nazisti e drogati»?

 

Queste sono alcune delle domande che conteranno internamente al voto di destra di fine settembre. E ringraziamo il cielo: perché il rischio di trovarci, come altri Paesi, con una russofobia suicida e monocolore su tutto l’arco parlamentare era cospicua assai.

 

Ne consegue che di fatto l’elezione altro non sarà che un referendum pro o contro Putin. Giratela come volete, ma è così. La Russia, la realtà, decideranno il voto. Anche senza muovere un dito. Per conseguenza automatica dell’emergere sulla scena di ciò che il mondo NATO del gender e della finanza aveva rimosso: il reale.

 

Il principio di realtà riaffiora in quest’ora impazzita. Evviva.

 

Lega e Berlusconi agiranno di conseguenza. Coloro che in Forza Italia non sono in grado di capire, o che semplicemente non riescono a concepire altro che la greppia occidentale,  stanno venendo epurati in questo momento.

 

Il Carroccio, dopo essersi «giorgettizzato» a seguito della batosta elettorale in Emilia Romagna a gennaio 2020, si ri-salvinizza. Questo è il succo del magheggio del segretario «Capitano», che si riprende il timone del partito e sta pure in una posizione privilegiata per intercettare qualche voto del grande dissenso, in quanto, pur votando ogni porcata, non si è mai esposto in modo irrecuperabile.

 

Conoscendo la capacità di manovra politica sia di Salvini (che ha ereditato un fiuto preternaturale da Bossi) che di Berlusconi (uno specialista nel recuperare rocambolescamente punti durante le campagne elettorali) la Meloni – il candidato preferito di certa parte del Partito Repubblicano USA, e non solo di quello – non dovrebbe dormire sonni tranquilli, nonostante i sondaggioni narcotizzanti che tutti le stanno offrendo.

 

Quindi, popcorn.

 

Tuttavia va segnalato il grande Jolly che potrebbe essere calato ad agosto.

 

Mio padre mi ha insegnato che, più che delle idi di marzo, devo sempre diffidare della metà di agosto. Perché, se qualcosa bolla in pentola, detona lì, quando il coinvolgimento della popolazione è al minimo, vuoi per le ferie, vuoi per il caldo. Guerre. Colpi di Stato. Attentati. Macchinazioni politiche: il Ferragosto è il momento migliore.

 

Ora, quel che posso credere possa succedere è un gigantesco false-flag, o qualcosa del genere, che Kiev si può autoinfliggere il mese prossimo per tirare dentro la NATO e scatenare, come da desiderio esplicito di Zelen’skyj, la Terza Guerra Mondiale.

 

Gli Ucraini già hanno dichiarato le loro fantasie su una controffensiva ad agosto con un milione di uomini. A me preoccupano altri segni. I russi hanno appena detto che i missili spariti sul grano ad Odessa non sono loro. Così come nessun giornale ha dato risalto all’attacco con decine di droni kamikaze ucraini alla Centrale Atomica di Zaporiggia. Non sappiamo se si trattasse dei famosi assassini droni Switchblade regalati dal Pentagono, tuttavia ricordiamo che quando arrivarono i russi all’impianto, mesi fa, il Corriere della Sera e il New York Times ci fecero prime pagine apocalittiche.

 

Un disastro vero in Ucraina – un disastro che, come dimostrato in questo mezzo anno, Mosca non ha motivo di cercare – altererebbe gli equilibri del mondo. Ridarebbe fiato alla NATO, e tutti i Paesi comincerebbero a far rullare i tamburi marziali, magari non per una guerra immediata, ma per un’operazione, piccola o grande, a ottobre o novembre – come in Afghanistan nel 2001, dopo le Torri.

 

Un trauma agostano in Ucraina giocoforza cambierebbe completamente lo scenario elettorale che abbiamo descritto sopra. Fratelli d’Italia, il partito vincitore di ogni raccolta punti occidentalista, riprenderebbe il comando, e pure Berlusconi e Salvini dovrebbero cambiare rotta immantinente, e questo nonostante sappiano che milionate di loro elettori stanno con Putin e non si bevono nemmeno più mezza parola della propaganda atlantica che gronda da TV e giornali venduti.

 

Ad ogni modo, pure in questa infausta prospettiva (perché, significherebbe che in Ucraina è accaduto qualcosa che ha provocato migliaia e migliaia di morti, di cui sarebbero accusati incontrovertibilmente i russi) le elezioni saranno decise dalla Russia.

 

Sì, un grande referendum pro o contro lo Zar. Tutto qua.

 

Urna Z, e poco di più.

 

Ci va bene. Sappiamo cosa votare.

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

Immagine dell’urna e della scheda di Nicolò Caranti via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-ShareAlike 3.0 Unported (CC BY-SA 3.0); immagine modificata

 

 

 

Economia

Draghi della distruzione: reloaded

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La verità è che vi eravate dimenticati di lui. Pensavate di averla fatta franca: del resto, gli italiani hanno votato la Meloni proprio in reazione ai due anni di suo governo. E poi ce lo siamo evitato come presidente della Repubblica con il bis a Mattarella, con nasi tappatissimi un po’ dappertutto. No?

 

Mario Draghi, invece, riappare. Intonso, pontificante: il suo potere, che non è facile capire bene da dove derivi, pare non essere scalfito in nessuna parte. Draghi invincibili. Draghi intrombabili. E dove trovarli.

 

E quindi, eccolo che dà, in italiano nel testo, il suo contributo per lanciare l’Italia nel suo futuro di guerra ipersonica e termonucleare.

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«Occorre definire una catena di comando di livello superiore che coordini eserciti eterogenei per lingua, metodi, armamenti, e che sia in grado di distaccarsi dalle priorità nazionali operando come sistema di difesa continentale» ha detto in un’audizione al Senato l’ex premier.

 

Perché, le azioni di Trump – cioè dell’uomo che lavora per la pace mondiale – «hanno drammaticamente ridotto il tempo disponibile»: Washington ha votato con Mosca all’ONU sulla risoluzione a difesa dell’Ucraina, lasciando Bruxelles sola (e con il cerino in mano). I «valori costituenti» dell’Europa sono quindi «posti in discussione».

 

«La nostra sicurezza è oggi messa in dubbio dal cambiamento nella politica estera del nostro maggior alleato rispetto alla Russia che, con l’invasione dell’Ucraina, ha dimostrato di essere una minaccia concreta per l’Unione Europea».

 

«Il ricorso al debito comune è l’unica strada. Per attuare molte delle proposte presenti nel rapporto, L’Europa dovrà dunque agire come un solo Stato».

 

Il contorno di filosofia politica è gustosissimo, con tanto di aneddoti messi a ciliegina. «Diversi di voi mi hanno chiesto: questo significa cedere sovranità?» dice il Super Mario, rispondendo: «ebbehcerto!». Quindi parte la storiella: «guardate, vi racconto una cosa che riguarda il presidente Ciampi… molti anni fa eravamo insieme in uno degli ultimi negoziati sulla costruzione dell’euro. Lui mi diceva: “tutti mi dicono: ma perché vuoi fare l’euro, tu ora sei sovrano della tua politica monetaria… ma che sovrano, io non conto niente, oggi devo fare quello che fa la Bundesbank [la Banca Centrale tedesca, ndr]… domani sto intorno ad un tavolo ed avrò una fettina di sovranità… e questa è la storia, la politica monetaria italiana è stata fondamentalmente non una politica monetaria sovrana».

 

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Mario, qua la mano: e grazie della sincerità. Il re è nudo – e nemmeno è sovrano di nulla.

 

Queste affermazioni, tuttavia, non sono state fatte ad un evento incentrato sul ReArm UE dell’ex bundesministro della Difesa Von der Leyen, ora Commissario Supremo dell’Europa Unita. No: il contesto è quello dell’Audizione presso le Commissioni riunite Bilancio, Attività produttive e Politiche Ue di Camera e Senato in merito al Rapporto sul futuro della competitività europea».

 

Cioè: in teoria, si parlava di economia, e nel suo discorso Draghi lo ha fatto, pure soffermandosi a lungo sulla questione della guerra, includendo «anche l’intelligenza artificiale, i dati, la guerra elettronica, lo spazio e i satelliti, la silenziosa cyberguerra».

 

Insomma si parlava di crescita economica, che ora, senza tanti infingimenti, finisce per identificarsi con l’industria delle armi. È evidente a tutti: la Germania – contro la cui rimilitarizzazione sono state create la NATO e forsanche la stessa UE – ora gode perché la Volkswagen, messa in ginocchio dai diktat green, ora può felicemente riconvertirsi alla costruzione di veicoli da guerra come faceva ai tempi di Adolfo – che in un contesto di guerra di droni, robot e missili ipersonici non sappiamo bene a cosa serviranno.

 

La crescita insomma passa per strumenti di offesa. La nuova creazione del valore passa per la distruzione. Non è che avevamo già sentito questa musica?

 

Sì. Renovatio 21 ne aveva parlato tre anni fa, quando Draghi, ancora a Palazzo Chigi, parlava di «ricostruzione» del «dopo-emergenza». L’articolo si chiamava «“Ricostruire l’Italia” con i draghi della distruzione», di cui ora bisogna fare il reload.

 

«La “ricostruzione” che abbiamo davanti non pare in nulla simile a quella del dopoguerra. Soprattutto, perché non è una vera ricostruzione. Essa è, innanzitutto, e sempre più dichiaratamente, distruzione» scrivevamo. Perché non si tratta mica di un’opinione nostra, ma di un concetto economico-filosofico abbracciato alla luce del sole. Eccoci ripiombati nell’idea della «distruzione creatrice».

 

Possiamo dire che Draghi la distruzione la conosce: anzi, possiamo dire che persino la teorizza e la invoca. Lo si capisce leggendo un testo fatto uscire dal cosiddetto Gruppo dei Trenta, un consorzio elitista transnazionale di finanzieri ed accademici creato decenni fa dalla Rockefeller Foundation a Bellagio – un organismo, anche abbreviato in G30, di cui Draghi ha fatto parte come «membro senior».

 

A fine 2020 il Gruppo pubblicò saggio di analisi che riguardava i cambiamenti economici del mondo post-COVID chiamato Reviving and Restructuring the Corporate Sector Post-COVID. Nel testo il nome di Mario Draghi compare co-presidente del comitato direttivo. Nelle prime pagine del libro Draghi scrive, con tanto di firma autografa, anche alcuni ringraziamenti «per conto del Gruppo dei Trenta».

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Nel saggio compare apertis verbis la «distruzione creativa», un concetto coniato dall’economista austriaco Joseph Schumpeter (1883-1950), nominato nel 1919 a pochi mesi dalla fine dell’Impero degli Asburgo ministro delle finanze per la prima Repubblica d’Austria. Non seppe tenere il posto, andando quindi a dirigere una banca, per poi tornare all’accademia ed emigrare oltreoceano nel 1932 approdando alla prestigiosa università di Harvard – cuore intellettuale pulsante del patriziato transatlantico – dove fece il professore fino alla morte.

 

Qui compose il trattato economico Capitalismo, socialismo e democrazia (1942), dove lo Schumpeter lancia l’idea della distruzione creatrice (schöpferische Zerstörung) come «processo di mutazione industriale che rivoluziona incessantemente la struttura economica dall’interno, distruggendo senza sosta quella vecchia e creando sempre una nuova».

 

La distruzione di interi comparti professionali è per l’economista austriaco la condizione ideale per l’economia e la sua necessaria evoluzione. Ora tornate a leggere la data di pubblicazione di questo inno alla distruzione: uscì in America quando la distruzione concreta della guerra si abbatteva sulla guerra, e gli USA di Roosevelt si armavano per entrare in Guerra su due fronti, riconvertendo la propria industria e, di fatto, uscendo così del tutto dalla Grande Depressione.

 

A questo punto vi viene in mente qualcosa, se guardate dalla finestra?

 

Schumpeter, nel documento 2020 del Gruppo dei 30 del dicembre 2020, è menzionato una sol volta, tuttavia l’intero testo sembra girare intorno al suo concetto di distruzione creatrice.

 

«I governi dovrebbero incoraggiare le trasformazioni e gli adeguamenti aziendali necessari o desiderabili nell’occupazione.» scrive il testo del Gruppo di Draghi. «Ciò potrebbe richiedere una certa quantità di “distruzione creativa” poiché alcune aziende si restringono o chiudono e ne aprono di nuove e poiché alcuni lavoratori devono spostarsi tra aziende e settori, con un’adeguata riqualificazione e assistenza transitoria».

 

Insomma, il piano è noto. È noto anche ciò che lo anima: non la creazione – un concetto, se vogliamo, cristiano – ma la distruzione, che più che al Dio creatore e salvatore che ha informato l’Europa e legata a concetti oscuri dello shivaismo e del tantrismo, sistemi di pensiero gnostici trapelati nel codice sorgente dell’Occidente moderno.

 

Il sanscritista britannico Monier-Monier Williams (1819-1899) aveva per questo pensiero delle parole lucidissime: «la perfezione buddista è distruzione». Così: per le filosofie orientali, la scomparsa dell’io (in sanscrito, anatman) o l’estinzione del ciclo cosmico stesso (nirvana) sono i segni dell’illuminazione raggiunta. Illuminazione è distruzione.

 

Possiamo dire ciò è vero anche per gli arconti che ci governano: gli illuminati sono distruttori. I sapienti esperti ed intoccabili, saliti sulle loro torri ed eurotorri senza che si comprenda davvero perché, ci indicano la via della distruzione come l’unica da seguire.

 

Vedete come il quadro diviene perfettamente comprensibile: distruggere per procedere, procedere per distruggere. Solo così, comprendendo che la Cultura della Morte è un fondamento del mondo moderno e dei suoi padroni, è possibile spiegare la follia di questi anni, dai sieri genici allo scontro sempre più diretto con la maggiore superpotenza atomica mondiale.

 

Solo con la Necrocultura della distruzione è possibile spiegarsi la persistenza dei draghi.

 

Là fuori c’è chi vuole distruggervi – e ve lo dice in faccia, ed è pure pagato da voi. Non è una questione economica, ma materiale, metafisica: perché in gioco c’è la vostra stessa esistenza e quella dei vostri figli. Che sono minacciati di essere disintegrati in quindici minuti dalle scelte dei draghi distruttori.

 

Roberto Dal Bosco

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Dire «Cristo è re» è «antisemitismo»: studio firmato da Jordan Peterson

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Uno studio pubblicato da un’organizzazione no-profit liberale fondata da un intellettuale ebreo condanna come «antisemitismo» la frase «Cristo è Re» – un’espressione al centro di accese polemiche negli ultimi mesi. Lo riporta LifeSite.   Giovedì 13 marzo, il Network Contagion Research Institute (NCRI) ha pubblicato uno studio di 20 pagine intitolato «Il tuo nome in vano: come gli estremisti online hanno dirottato “Cristo è Re”».   L’NCRI è stato fondato nel 2018 da Joel Finkelstein, un ricercatore presso l’università Rutgers che in precedenza aveva lavorato per l’Anti-Defamation League, l’ente ebraico dedito alla censura di quello che ritiene «antisemita» e ora anche «razzista». L’NCRI si propone di denunciare «la diffusione di contenuti ideologici ostili” online lavorando per «identificare e prevedere minacce cyber-sociali».

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Finkelstein è coautore del paper con il celebre psicologo canadese Jordan Peterson (una star di YouTube negli ultimi anni), insieme ad altri 11 accademici, la maggior parte dei quali sono ebrei. Il Peterson ha difeso a gran voce il paper sui social media.   Lo studio sostiene che il termine «Cristo Re» è stato «strumentalizzato» da «estremisti politici» che lo stanno usando per promuovere «narrazioni escludenti e piene di odio».   «Gli estremisti in America hanno iniziato a distorcere il significato della frase e la stanno sfruttando come un simbolo in codice … per destabilizzare la politica americana, infiammare le tensioni all’interno della società civile e incoraggiare l’odio verso le minoranze», si legge nello studio.   Per sostenere la sua tesi, il rapporto include screenshot di X post pubblicati da personalità pubbliche note in rete come Candace Owens, Jack Posobiec e Nick Fuentes (tutti e tre cattolici) tra gli altri.   Come noto, la Owens – ora cattolica partecipante al pellegrinaggio tradizionalista Parigi-Chartres – era stata licenziata dal gruppo The Daily Wire (un conglomerato «conservatore» di programmi YouTube fondato dall’opinionista ebreo Ben Shapiro) l’anno scorso per aver promosso la frase. Andrew Klavan, conduttore di una delle trasmissioni del Daily Wire sedicente cristiano convertito, ha sostenuto che si trattava di un «tropo antisemita» e che era come «sputare addosso» a Ben Shapiro, che porta sempre la kippah.   Nello studio viene menzionato pure il vescovo Joseph Strickland, che – a riprova di una certa ignoranza sulle questioni religiose sulle quali la dozzina di autori vuole discettare – viene descritto in modo inesatto come un «ex» vescovo cattolico. Sebbene Strickland sia stato rimosso da Bergoglio dal suo incarico di vescovo di Tyler, Texas, nel novembre 2023, non è stato scomunicato né privato dell’ordine sacerdotale. È noto inoltre che secondo la dottrina cattolica il titolo di vescovo non può essere tolto.   Tra gli autori di fatto non vi sono cattolici e vi è forse un solo cristiano, l’evangelico Johnnie Moore, già capo di alcune commissioni ed enti con la parola «libertà» nel titolo, nonché premiato con una medaglia al valore dal Simon Wiesenthal Center, l’organizzazione ebraica intitolata al celebre «cacciatore di nazisti».   Il protestante Moore ha assunto un ruolo attivo nella promozione dello studio dell’NCRI sui social media, difendendolo di fronte al massiccio contraccolpo della Owens e decine di altri commentatori cristiani.   «Il termine CRISTO È RE… viene dirottato dagli estremisti antisemiti per manipolare i cristiani», ha affermato Moore giovedì.   Come scrive LifeSite, lungi dall’essere un centro di ricerca «neutrale» di terze parti, l’NCRI è legato a diversi gruppi di sinistra e ha promosso molti punti di discussione del Deep State sin dal suo inizio.   Nel 2021, ol Finkelstein è apparso sulla trasmissione di inchiesta americana 60 Minutes per criticare la «disinformazione» sui vaccini anti-COVID e sull’uso delle mascherine. Il suo gruppo ha anche affermato che i «propagandisti russi» erano da biasimare per la «disinformazione» in atto.   Nel 2019, l’NCRI ha stretto una partnership con la radicale anti-Defamation League (ADL), potente ente che funge da «inquisizione» di idee non allineate, che di recente dalle questioni ebraiche si è spostato su temi come razzismo e omofobia, cercando di colpire anche figure del calibro di Tucker Carlson e Elon Musk. Un comunicato stampa emesso all’epoca spiegava che avrebbero «prodotto una serie di report che analizzassero in modo approfondito il modo in cui l’estremismo e l’odio si diffondono sui social media».   L’ADL consiste de facto in un gruppo di pressione ebraico che ha diffamato i cattolici tradizionali e attaccato la Santa Messa tradizionale per molti anni. Il Finkelstein ha lavorato come Research Fellow per l’ADL dal 2018 al 2020. Moore stesso ha prestato servizio come membro del Board of Trustees dell’ADL a Los Angeles. Moore ha anche lavorato con la Middle East Task Force dell’ADL.   L’NCRI è stato sostenuto da altri gruppi di sinistra e sionisti. La testata di sinistra Mint News riferisce che avrebbe ricevuto oltre 1 milione di dollari dalla Israel on Campus Coalition (ICC), un gruppo che cerca di diffondere il sionismo nei college statunitensi. La testata di sinistra Grayzone ha anche scoperto che l’NCRI ha elencato la Open Society Foundation di George Soros come affiliata fino a quando non ha eliminato quella sezione dal suo sito web nel 2021.   L’attuale sito web dell’NCRI include un elenco di consulenti strategici. Tra questi c’è il professor Robert George di Princeton. George è cattolico e ha legami con molti gruppi influenti e importanti cattolici coinvolti nella politica a Washington DC. Ha trascorso molti anni a promuovere il dialogo tra cattolici ed ebrei.

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Membro del Council on Foreign Relations (CFR), il George sembra aver incontrato Finkelstein durante gli anni del college, quando Finkelstein frequentò Princeton, scrive LSN. Il Finkelstein fu anche visiting scholar per il James Madison Program di Princeton, di cui George è a capo.   Il George ha condiviso un articolo sul suo account X questa settimana, invitando i cattolici a «1essere solidali con i nostri fratelli ebrei». Sebbene non abbia condiviso il rapporto del NCRI, ha condiviso un saggio scritto dal cardinale Timothy Dolan di New York. Il saggio è stato pubblicato un giorno prima della pubblicazione dello studio del NCRI e rimproverava «coloro che sui social media si definiscono cristiani ma diffondono odio contro gli ebrei». La tempistica della pubblicazione dell’articolo solleva la questione se sia stato coordinato per amplificare il messaggio del NCRI.     Da tempo Renovatio 21 aveva in cuore la stesura di un articolo intitolato «Basta con Jordan Peterson», per porre argine all’immeritata popolarità che l’ex accademico canadese ha in tanti ambienti conservatori e non solo. Solo chi non conosce la sua figura può essere colpito dal fatto che l’uomo che ha basato la sua fama sul rifiuto di sottomettersi al linguaggio altrui opponendosi ai pronomi gender all’università ora firma saggi per condannare chi usa una propria espressione religiosa.   L’espressione «Cristo Re» ha le sue radici nella Bibbia dove Gesù è detto Re (basileus), Re dei Giudei (basileus ton Iudaion), Re d’Israele (basileus Israel), Re dei re (basileus basileon) per un totale di 35 volte.   La regalità di Cristo,e la necessità di principi e governanti di sottomettersi ad essa, è ribadita consistentemente nell’enciclica Quas Primas del 1925 di Papa Pio XI : «non rifiutino, dunque, i capi delle nazioni di prestare pubblica testimonianza di riverenza e di obbedienza all’impero di Cristo insieme coi loro popoli, se vogliono, con l’incolumità del loro potere, l’incremento e il progresso della patria».   Va quindi considerata come pura spazzatura e manipolazione tutta la serie di video lezioni che il Peterson ha dedicato alla Bibbia e alla figura di Cristo, che riesce ad intendere, secondo la mentalità junghiana che emerge dal suo lavoro universitario, come simbolo, più che come realtà vivente ed eterna.   Renovatio 21, che lotta costantemente contro la piaga dell’uso degli psicofarmaci, ricorda anche come il Peterson mentre dava al mondo i suoi consigli per vivere meglio (con libri tradotti in italiano anche da Mondadori) in realtà assumeva benziodiazepine sino a divenirne dipendente. Sparito per un periodo dalla circolazione, si raccontò poi che i famigliari lo avevano portato in Russia e in Serbia per curarsi.   Di lì a poco sarebbe stato assunto dal Daily Wire, il gruppo mediatico dell’ebreo Ben Shapiro, che gestiva stelle di YouTube a fior di milioni di dollari (Stephen Crowder, che doveva entrare nel gruppo ma rifiutò, parlò di un contratto da 60 milioni di dollari), arrivando a finanziare persino la creazione di un polo cinematografico che si voleva alternativo ad Hollywood: da dove arrivassero tutti quei soldi, piovuti improvvisamente in ambiente conservatore, in molti se lo sono chiesti più volte.

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Uscito dalla crisi psicofarmaceutica e dall’università, il Peterson riemerse in un incredibile video in cui pranzava in Israele assieme a Ben Shapiro e al premier dello Stato Ebraico Beniamino Netanyahu. Osservando il video, si possono notare persone che mangiano sullo sfondo, a indicare che il video era stato concepito per sembrare il più casuale e naturale possibile (si può mangiare nella stessa stanza di Netanyahu, una delle persone più minacciate al mondo? Davvero?).   Già quel video faceva capire il disegno complessivo, che rivela una verità profonda e risalente: l’intero movimento conservatore è infiltrato dagli interessi di un etno-Stato, con le icone e le vedette intellettuali concupite e messe a libro paga (e forse, qualcuno sussurra pensando al caso Epstein, ricattate).   Il conservatorismo, ha detto E. Michael Jones (un altro che ha avuto i suoi problemi con ADL e compagni) è un meccanismo creato «per farti rimanere stupido».   L’industria culturale, anche ai tempi di YouTube, anche per la destra, funziona così: narcosi e manipolazione pura.

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Pensiero

Ecco il reato di femminicidio. E la fine del diritto

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Femminicidio, tanto tuonò che piovve. Di questa ennesima «conquista di civiltà» si era già tanto sentito a fasi intermittenti, e i giochi sembravano fatti da tempo.

 

Il termine sgangherato circolava da quando quella idea distorta era già stata inoculata di soppiatto in quel capolavoro di brigantaggio legislativo che aveva assunto da solo il titolo onorifico di «Buona scuola». Infatti, faceva corpo unico col pacchetto avvelenato del gender per tutti, da distribuire nelle scuole di ogni ordine e grado per la formazione adeguata delle inermi giovani generazioni.

 

Un pacchetto confezionato nientemeno che a Istanbul, nel 2011 con la Convenzione stilata lì, chissà perché, dal Consiglio Europeo. Dunque farina del sacco di Bruxelles, come tutto il ciarpame che viene prodotto e distribuito da anni nella indifferenza o nella ignoranza di popoli da esso contaminati e oppressi. Infatti, tutto viene metabolizzato e alla fine legittimato in un processo di adeguamento passivo che sembra non dare scampo.

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Il DDL accolto trionfalisticamente dalle signore (ma anche dai signori) della politica, è lo specchio di un degrado culturale e in particolare giuridico che potrebbe diventare inarrestabile, di cui essi non arrivano minimamente a valutare le conseguenze, per grossolana ignoranza in alcuni casi, ma forse per mirata malafede in altri.

 

Di certo, ancora una volta si va ad intaccare il meccanismo sapiente e coerente, e per questo delicato, del sistema penale, ignorando o mettendo in programma conseguenze capaci di minare gli stessi assetti, peraltro già traballanti, dell’ordinamento giuridico e istituzionale.

 

Per mettere a fuoco correttamente quale sia veramente la posta in gioco, occorre lasciare da parte il contorno folkloristico del piagnisteo fuori tempo massimo e fuori luogo in cui il politicume di ogni colore cerca di ritagliare una propria aggiornata credibilità.

 

Tra Sette e Ottocento, menti illuminate e sostenute da una solidissima cultura umanistica, sentirono l’urgenza di dedicarsi allo studio della legge penale, con la speranza e la volontà di apportare ad essa quel contributo di conoscenza e di pensiero con cui gettare le basi dei moderni sistemi penalistici.

 

Era stato messo a fuoco come il problema eterno del delitto e della pena, da sempre fondamentale per la vita di una comunità organizzata, in un tempo in cui la tortura era ancora uno strumento per «rendere giustizia», portava con sé quello di un nuovo rapporto tra cittadino e potere che doveva essere e poteva essere riformulato sulla scia degli eventi rivoluzionari.

 

Si trattava di fondare lo «stato di diritto», dove il cittadino possa ottenere la protezione della legge anche nei confronti del potere costituito, e in cui tutte le moderne società sedicenti «democratiche» aspirano a sentirsi incastonate (va detto per onore di cronaca che per nostra signora di Bruxelles lo stato di diritto significa dovere dei sudditi di obbedire simul ac cadaver alle «regole» UE).

 

Ci si è resi conto che il diritto penale deve dunque difendere la società dai comportamenti antisociali dei singoli, ma anche dall’arbitrio del giudice e del legislatore. Ma queste finalità possono venire raggiunte attraverso l’elaborazione di un sistema di norme ordinate secondo una logica precisa e articolata. Con una tecnica legislativa capace di garantire il più possibile quegli obiettivi attraverso una precisa rete concettuale, che non deve lasciare spazio alla distorsione dei principi e della loro vocazione ordinatrice.

 

Anzitutto debbono essere individuati i valori che assicurano le condizioni di conservazione e sviluppo della società e che, come tali, vengono chiamati «beni giuridici».

 

Il reato è il comportamento lesivo che, offendendo quei valori predeterminati, mette in pericolo queste condizioni, e deve essere combattuto attraverso la minaccia prima, e l’applicazione poi, della pena da parte dello Stato. Questo assume il ruolo di chi subisce l’offesa in quanto espressione della intera collettività, e dispone del potere di infliggere la sanzione utilizzando i mezzi necessari allo scopo.

 

Se il reato è dunque la violazione di un valore meritevole di tutela, quello che viene punito è il fatto che viola il bene giuridico, indipendentemente dalle qualità di chi sia vittima del reato, qualità che incidono soltanto sulla gravità e quindi eventualmente sulla quantità della pena.

 

I fatti lesivi del valore tutelato vengono «tipizzati» cioè indicati in schemi astratti predeterminati che limitano l’oggetto dell’accertamento del fatto concreto da parte del giudice. La tipizzazione garantisce all’individuo di non essere esposto ad una incriminazione e ad un giudizio arbitrari, e al tempo stesso definisce il valore oggettivo tutelato, ovvero il bene giuridico violato dal fatto indipendentemente dal soggetto che ne sia portatore particolare.

 

Così, se ad essere tutelata è la vita umana, o la proprietà, o la fede pubblica, il valore offeso rimane il medesimo chiunque sia la persona offesa, salvo la graduazione della pena, come si diceva, se il fatto è stato commesso ai danni ad esempio di un minore o di persona in condizioni di menomazione fisica o psichica.

 

La tecnica normativa non si manifesta dunque come un informe catalogo di divieti e di minacce, ma come una rete concettuale determinata volta a comporre le esigenze contrapposte di difesa della società e di difesa da un uso arbitrario del potere punitivo. Si tratta di un sistema che risponde ad una logica che garantisce nei limiti del possibile l’applicazione corretta della legge e il soddisfacimento di quelle esigenze di tutela.

 

Così ad esempio, per venire al caso in questione, se il reato venisse calibrato sulle caratteristiche della persona offesa, avremmo un sistema penale basato su discriminazioni e privilegi, cioè esattamente in opposizione con quella che riconosciamo come una conquista di civiltà giuridica, ovvero di civiltà tout court.

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Un ritorno al tempo che pensavamo seppellito per sempre nella modernità, in cui l’uccisione di un feudatario era ritenuto più grave di quella del servo della gleba, e punito di conseguenza. E viene in mente in proposito la tremenda pena per squartamento, peraltro non proprio eccezionale, inflitta all’attentatore di Francesco I qualche secolo fa.

 

Ma tutto questo sfugge evidentemente ai virtuosi promotori, ai propagandisti di regime, ai mestatori di ogni risma, a politici impegnati per definizione, non si sa bene in cosa, fino alla Presidenza del Consiglio e dintorni, dove si fa sfoggio di qualche carenza formativa almeno sul piano dei concetti giuridici più elementari. Carenza che peraltro non andrebbe sottovalutata.

 

Infatti, in questa nuova forma di reato di genere, si potrebbe vedere, in fondo, il rovescio di quell’ «uccidere un fascista non è reato» che spopolava nei tempi d’oro della guerra per bande politiche. Perché il principio è lo stesso: il reato dipende dalla qualità della vittima. Ma su una base del genere si possono aprire scenari di ogni tipo nel grande varietà in movimento di cui siamo spettatori spesso attoniti.

 

Non occorre spendere ancora parole sulla disperante campagna fumogena che viene alimentata sul tema e che è ormai sotto gli occhi di tutti. Ma basterebbe che si acquisisse coscienza anche della estrema pericolosità dello slittamento di un intero sistema normativo che, con inaudita irresponsabilità da parte degli organi di governo, viene intaccato nei suoi cardini e nelle sue chiavi di volta.

 

Perché senza una presa di posizione fortissima contro questa deriva da parte di giuristi e politici oculati, le conseguenze potranno diventare incontrollabili.

 

Patrizia Fermani

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