Pensiero
Mafia e anarchici, tutti pazzi per il 41 bis
È davvero singolare questa coincidenza: acchiappano il vertice percepito di Cosa Nostra, e pochi giorni dopo ecco che contro il 41 bis – divenuto d’un tratto tema da prima pagina – cominciano a parlare gli anarchici.
Perché, nelle temutissime manifestazioni di cui abbiamo veduto le immagini in questi giorni, non possiamo aver notato striscioni che non erano solo contro il 41 bis al terrorista Alfredo Cospito, erano contro al 41 bis in generale.
In realtà, la notizia prescinde da questa passione improvvisa per l’articolo dell’ordinamento penitenziario italiano voluto dal marito della giovane parlamentare piddina Lia Quartapelle, cioè il vecchio craxiano Claudio Martelli.
Vogliamo dire: la notizia è che sono tornati gli anarchici. Cioè: gli anarchici esistono. Scusate ma a questo punto mica era scontato.
Per quanto sia confuso e fastidiosamente puerile, potete aver presente a cosa aspirano gli anarchici: una libertà assoluta, la mancanza totale di autorità, la disintegrazione dello Stato al fine di non ricostruirne più alcuno.
Ecco, negli ultimi due anni gli anarchici, come tutti noi, sono stati confinati privandoli di qualsiasi libertà, sono stati schiacciati da autorità violente e dementi, sono stati sottoposti allo Stato nella sua forma più soverchiante e coercitiva: il biennio pandemico, impossibile non riconoscerlo, ha significato tutto questo.
Per cui ci aspettavamo che se c’era un momento giusto per esprimere la rabbia anarchica, un punto della storia del Paese e dell’Europa e del mondo in cui avremmo visto gli anarchisti uscire e agire, beh, certo sarebbe stato durante l’ora della sottomissione COVID. E invece, niente. Non siamo in grado di dirlo con certezza, ma di anarchici, alle manifestazioni dei sabati contro il green pass (in Italia e in ogni altro Paese), praticamente non ne abbiamo visti.
Ma come, non si chiamano proprio «anarco-insurrezionalisti»? Così su Wikipedia definiscono il Cospito. Ma quindi non era quello il momento in cui far scattare la loro agognata «insurrezione»? A quanto pare no: ricorderete che i giornali ci parlavano invece delle piazze no-vax «fasciste», accusa ripetuta in Italia come in Francia, in Canada, in Germania, ovunque.
Poi però ecco che – puf! – gli «anarchici» saltano fuori ora. Fanno manifestazioni. Inneggiano a Cospito con graffiti e azioni perfino in altri Paesi. Gli anarchici sono stati, come dire, «attivati».
Uso questa parola perché è quella che qualche smaliziato commentatore americano ha iniziato ad utilizzare per i recenti fatti di Atlanta, in Georgia. In pratica, gli «antifa» – una sigla che morfologicamente non è in nulla dissimile dagli «anarchici» – ha fatto una sua protesta con assalto ad un hotel, vetrine spaccate, macchina della polizia incendiata. Tucker Carlson, in diretta TV davanti a milioni di telespettatori, ha avanzato con estrema sicumera la sua teoria: gli «antifa», ha detto, sono stati «attivati». Così come lo erano stati nel 2020, nelle proteste Black Lives Matter, una piccola «rivoluzione colorata» negli stessi USA volta a detronizzare Trump, dice Carlson.
Poi, in effetti, defenestrato il ciuffo biondo con l’elezione più grottescamente controversa della storia, BLM e gli antifa sono spariti. Per anni. Fino alla rivolta di Atlanta, e a quella che stavano per intentare per l’orrendo omicidio da parte della polizia del ragazzo di colore Tyler Nichols: il disastro, stile Los Angeles messa ferro ignique nel 1992 (dopo l’assoluzione dei poliziotti protagonisti del pestaggio del cittadino nero Rodney King), era pronto a partire… ma tutto è stato rinviato, perché i cinque poliziotti presunti assassini sono tutti afroamericani. Per quanto giornali e grandi testate TV abbiano detto che la colpa è comunque della white supremacy, la supremazia bianca, i cui valori di violenza contro i neri sarebbero stati introiettati dagli stessi poliziotti di colore, stavolta era troppo pure per gli antifa. Una menzogna così immensa difficile che reggesse…
Al di là della cronaca e delle sue venature metapolitiche, ci interessa questo pensiero: le proteste dei casseur anarcoidi come eventi di gruppi «attivati» per un fine completamente politico. Al termine della loro azione distruttiva, apparentemente caotica, c’è qualcuno che ne beneficia – una parte politica anche evidente. Nel caso americano, è chiaramente il Partito Democratico USA, che voleva far sloggiare il Trump, e ora si batte per impedire l’ulteriore candidatura nel 2024 del senescente Joe Biden.
E nel caso italiano?
Prima di parlarne, vorremmo andare con la memoria al 2001, a Genova, al G8. Alcuni lettori sono troppo giovani per ricordarlo, o magari non erano ancora nati. Altri si ricorderanno benissimo. Calarono sul capoluogo ligure «anarchici» di ogni sorta, alcuni davvero con tutti i crismi da original brand: ecco la bandiera nera dell’Anarchia, un residuo ottecentesco che si pensava sepolto a causa dell’interferenza poi prodotta dai vessili fascisti parimenti scurissimi.
Invece, eccoti i Black Bloc: non un centimetro di pelle visibile, tuta militare nera, casco nero, maschera antigas nera. Circolavano a Genova facendo perfino marcette con stendardo e tamburo. Produssero una distruzione senza precedenti, «aprendo» (è il loro gergo) quartieri, rendendo intere aree della città delle TAZ, zone temporaneamente autonome, spazi dove non esiste più l’autorità costituta, come da teoria del loro maître à penser, il filosofo filopedofilo Hakim Bey.
Da dove venivano i Black Bloc? Quelli più improvvisati sicuramente vedevano tanti italiani. Quelli un po’ meno magari dalla Francia: il Corriere fece un’intervista ad un «compagno» francese che conosceva bene il ragazzo della foto-simbolo, il ragazzo col passamontagna sull’auto ribaltata: anche qui, organizzazione non precisissima, non si andava molto al di là dello spaccavetrine vagamente riflessivo.
Ho ricordi del fatto che si disse che molte «tute nere» provenissero dalla Germania e alcuni… dall’Oregon. Ecco, l’Oregon riguardo agli anarchici ha tutta una sua tradizione, tanto che la cittadina di Eugene è ritenuta una sorta di piccola capitale dell’anarchismo. Se fosse vero che a Genova fossero arrivati questi anarchici del Pacifico americano, ebbene… chi gli ha pagato il biglietto intercontinentale? Chi ha dato loro gli «strumenti» della guerriglia G8, che certo non hanno imbarcato come bagaglio all’aeroporto?
Possiamo rispondere se capiamo chi ha davvero beneficiato della catastrofe di quel G8. Dopo Genova, qualunque forma di resistenza istituzionale alla globalizzazione è stata spazzata via. Ogni discorso critico nei confronti del piano globale (rammentate: erano i giorni in cui la Cina entrava nel WTO, cioè il momento in cui si decretò la fine della classe media dell’Occidente e la deindustrializzazione della quale stiamo vedendo in questi giorni il colpo di grazia con la follia dei costi energetici) veniva degradato al livello dei no-global in t-shirt, e quindi, non considerato.
Ecco perché nessun Paese è riuscito davvero a resistere al mondialismo slatentizzato – nemmeno chi, come la Francia di Chirac, pareva, per sussulto gollista, forse averne mezza voglia.
Conoscete il procedimento, di sapore tutto hegeliano: metti la tesi, crei l’antitesi, ed eccoti la sintesi – che è quella che si voleva.
Sapete poi che c’è questa teoria che circola, quella della dottrina Rumsfeld-Cebrowski: con il nuovo secolo, il potere profondo statunitense aveva realizzato che per rimanere prima potenza mondiale, Washington doveva garantire a sé e secondariamente agli alleati lo sfruttamento delle risorse naturali dei Paesi poveri. Poche settimane dopo i fatti di Genova, in quel memorabile 2001, vi fu l’attacco alle Torri Gemelle, e di fatto gli USA iniziarono un’immane guerra alla periferia petrolifera del pianeta…
E quindi, i disordini anarchici… manovrati dal Deep State mondialista americano? È una tesi estrema che non possiamo sposare del tutto: noi ci limitiamo a suggerire dei lettori dei puntini, le linee per far emergere il disegno le traccino loro.
Per questo vogliamo rimandare all’articolo del sito più letto degli ultimi giorni, quello sull’altrettanto stramba coincidenza castelvetranese: il luogo in cui il massimo potere USA si raccolse durante la Seconda Guerra coincide con la cittadina dove il massimo latitante della mafia pareva vivere con una certa libertà. A Castelvetrano si trovarono il presidente Roosevelt, il generale Patton, il generale Eisenhower (che divenne, poi, anche lui presidente). Anni dopo, ecco la curiosa libertà con cui Messina Denaro vive lì, con gli abiti firmati, l’auto, la chemio, perfino – disse una fonte di Report anni fa – qualche misteriosa capatina ad un Istituto scientifico del Centro Nazionale delle Ricerche.
Sappiamo che il grande sponsor della mafia italiano può essere l’ente che cagionava la «sovranità limitata» (espressione di impudicizia che un tempo si poteva usare tranquillamente) del nostro Paese: gli Stati Uniti d’America con i suoi tentacoli profondi, quelli che ci scatenarono addosso Lucky Luciano, quelli che forse nutrirono Salvatore Giuliano, quelli che protessero chissà quanti boss, intoccabili perché connessi ai loro capimafia italoamericani, alleati preziosi in tante operazioni indicibili, per esempio la guerra contro Fidel Castro.
E se ci pensiamo, i boss della mafia non è che venivano presi a mazzi, prima di Riina. Magari, questo capomafia così «rurale», aveva esagerato anche per i suoi sponsor. Mica si può andar in giro mettendo bombe contro i giudici e contro i monumenti italiani. Che il padrone abbia, a quel punto, mollato? Non possiamo saperlo, ma abbiamo in mente la notizia riemersa di recente, ossia della «mancata perquisizione del covo di Riina» dopo il raid della mitica Squadra Catturandi.
Che poi, a quanto si può ricostruire, le bombe e tutta la storia intricata della trattativa Stato-mafia (palude sulla quale non ci addentreremo), verteva proprio sul 41 bis: secondo le versioni emerse dai pentiti, era quello il pallino principale della mafia, porre fine ai 41 bis di Martelli.
La cosa, fermatevi a pensarci, dice moltissimo su origine e natura della mafia. Cosa Nostra controlla la Sicilia, nel senso che può disporre della vita e della morte di ogni cittadino, può bombardare il giudice e la sua scorta, può sciogliere il bambino nell’acido, può strangolare una donna incinta, come si dice abbia fatto Messina Denaro. Tuttavia, pur disponendo di questo potere illimitato, la mafia non chiede di sostituirsi allo Stato: domanda solo uno sconto di pena. Tutto qua.
È un paradosso: il mafioso, che è legibus solutus, «sciolto dalle leggi», chiede che sia cambiata… la legge.
La faccenda mi ha sempre sconvolto: ma come, tutto quel potere, la possanza militare, la segretezza, il codice d’onore, il rispetto totale e financo il di tanta popolazione intimorita e non, la potenza di uccidere chiunque e di attaccare qualsiasi istituzione, i miliardi che girano, e poi, quello che chiedi, non è un reset dello Stato, non è la sua sostituzione, non è il riconoscimento statuale definitivo nella comunità globale (cosa verso cui andava spedita, ad esempio, l’ISIS), non è nemmeno la scalata ufficiale all’interno dello Stato (cosa che tentò di fare Pablo Escobar), ma il semplice quieto vivere nell’ombra, con l’esclusione del carcere duro nel caso ti brinchino.
No, io questo 41 bis non lo ho mai capito. È così importante per i picciotti perché forse minaccia la comunicazione nella gerarchia mafiosa? Perché i boss così non possono comunicare con l’esterno? O forse è perché la sua prospettiva spaventa i mafiosi e li trasforma in pentiti, come pare sia accaduto negli USA, dove si dice che vi fosse, sia pur disatteso, un ordine di non trafficare droga, perché portando con sé questo reato 25 anni di galera, una volta beccati si finiva per forza per tradire il mandamento?
Non possiamo sapere neanche questo. Ma abbiamo imparato che questo 41 bis proprio ai mafiosi non piaceva. E quindi ci sale una paura: non è che quei vecchi sponsor della mammasantissima, in questo showdown oncologico terminale, abbiano accordato all’ultimo dei mohicani una fine senza l’articolo penale maledetto?
Se avete seguito questo articolo fantasy – perché di questo si tratta, caro lettore, e lo sai – potete immaginare che lo stesso potere che protegge nelle decadi Castelvetrano è in grado, senza tanta fatica, di far passare una legislazione precisa a Roma. Del resto, ribadiamo, si chiama impudicamente «sovranità limitata».
E quindi, non è che vogliono abolire il 41 bis dipingendolo di questo colore nero-anarchico, invece che delle tinte imbarazzanti dei vespri mafiosi?
Non è che il possibile smontaggio del 41 bis, per il quale ci sarebbe magari un accordo, lo farebbero passare per l’anarchico, anche se la vera base di una decisione è chiaramente un’altra?
Abbiamo raccontato su Renovatio 21 del patto tra mafia e potere occulto americano, magari nella persone della «madre della CIA» James Jesus Angleton. È possibile che una promessa fatta 70 anni fa sia in qualche modo – per onore, per ricatto, per chissà cos’altro – stia ancora in piedi, mostrandoci ora i suoi effetti crepuscolari?
Lo ripetiamo: non è diverso dal patto, sempre riverito con praticamente nessun tentennamento, del Grande Lago Amaro, quando Roosevelt (sempre lui) incontrò nel 1945 il Re Saud e garantì che gli USA avrebbero protetto la famiglia saudita (non la popolazione del Paese: il casato wahabita regnante) in cambio dell’uso del petrodollaro.
Ora, come sa il nostro lettore, anche il patto del Grande Lago Amaro sembra essersi sfilacciato, i sauditi vendono petrolio in yuan ai cinesi, e vogliono entrare nei BRICS.
È il disfacimento del mondo unipolare, quello annunziato da Putin nel suo discorso di Monaco del 2017, e poi ribadito e agito oggi con l’operazione militare speciale in Ucraina.
È il tramonto degli USA, nella cui macchina infernale magari qualcuno ricorda ancora che pacta sunt servanda. E quindi ecco, orde di persone che non c’entrano nulla con la mafia, scagliarsi contro il 41 bis. Eccoti gli anarchici. Eccoti i fricchettoni, con le loro fisime «umanitarie» di buonismo ebete. Eccoti avanzo hippy para-no-greenpassaro. Eccoti, magari, qualche politico che va in apprensione. Eccoti, possibilmente a breve, qualche prete, magari il papa. Tutti pazzi per il 41 bis.
Il motivo potrebbe essere più radicato di quel che credono tutti loro. Ma chiaramente tutto quello che avete letto è pura speculazione fantasiosa, complottista fino alla vergogna, insomma pura fiction, creata con il puro intento di intrattenervi.
No?
Roberto Dal Bosco
Pensiero
Il Corriere e Lavrov, apice del cringe giornalistico italiano
In un episodio imbarazzante come pochi altri per la stampa nazionale italiana, il Corriere della Sera ha rifiutato di pubblicare un’intervista esclusiva con il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov.
L’incredibile sviluppo è stato ridicolizzato dal portavoce del ministero degli Esteri di Mosca Maria Zakharova, che, facendo ridere i presenti ad un briefing a Mosca, ha raccontato che quando il ministero russo ha chiesto come mai l’intervista non fosse stata pubblicata il Corriere avrebbe risposto che non c’era spazio; la Zakharova ha proseguito dicendo che, visiti i «problemi con la Carta che deve avere l’Italia», era stato proposto dal Cremlino di pubblicarla sul sito, ma sarebbe stato risposto da via Solferino che non c’era spazio nemmeno su internet. Infine, non si sa quanto scherzando, la portavoce dice che è stato ulteriormente proposto all’antico quotidiano italiano di pubblicare un link ad una pagina esterna, ma sarebbe stato detto che non c’era spazio nemmeno per quello.
È finita che l’intervista la ha pubblicata il sito del ministero degli Esteri russo e dell’ambasciata russa in Italia.
Il video fantastico (tradotto in italiano) della #Zakharova che smerda i giornalai del Corriere della Serva per aver ridotto l’intervista a #Lavrov con la scusa che “non c’era sazio sul giornale” (e neanche sul sito web… e neanche lo spazio per un link da cui fosse possibile… pic.twitter.com/KfyimUl3du
— Sabrina F. (@itsmeback_) November 13, 2025
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Se le parole della Zakharova non fossero per ischerzo saremmo davanti ad un fatto di gravità – professionale, diplomatica, umana – sconcertante. Il racconto della portavoce racconta di una vetta di cringe giornalistico senza precedenti.
Nelle scorse ore il giornale della borghesia italiana ha tentato di rispondere, giustificando la mancata pubblicazione di uno dei vertici della massima superpotenza atomica planetaria (possiamo dire «censura»?) con i contenuti dei discorsi del Lavrov, che con evidenza il giornale ed i suoi padroni non condividono – ma dei quali i lettori dovrebbero essere informati.
«Le risposte del ministro contenevano anche molte affermazioni del tutto discutibili e dal chiaro intento propagandistico» scrive il Corriere in un articolo. Come, ad esempio, il passaggio sul «cruento colpo di Stato anticostituzionale a Kiev del febbraio 2014, organizzato dall’amministrazione Obama» (in via Solferino forse erano in vacanza quando uscì l’audio di Victoria Nuland che oltre che a parlare degli investimenti USA e decidere il premier di Kiev proclamava in maniera indimenticabile «Fuck the EU»), oppure quello sul «regime di Kiev» che definisce «subumani» o «terroristi» gli abitanti delle quattro regioni ucraine annesse illegalmente dalla Russia» (anche qui, forse il giornalone era in letargo negli anni dal 2014 al 2022, e quanto alle annessioni illegali, magari ricordare che ci sono stati dei referendum in zone quasi totalmente russofone sarebbe stata una cosa bella e «giornalistica»)
Il Corriere mica desiste: ha cancellato la pubblicazione dell’intervista al decano della diplomazia mondiale perché «in altre parti, Lavrov arriva a sostenere che, “a differenza degli occidentali”, l’esercito russo protegge “le persone, sia civili che militari” e che le “nostre forze armate” agiscono “con massimo senso di responsabilità, sferrando attacchi di precisione esclusivamente contro obiettivi militari e relative infrastrutture di trasporto ed energetiche”».
Qui sarebbe bello che il giornalissimo dimostrasse che non è così, facendoci vedere, chessò, Kiev e Kharkov ridotte in macerie come Baghdad e Beirut – perché non è che ci voglia un genio per vedere quanto la guerra condotta dalla Russia sia diversa da quelle fatte da USA, NATO e compagni in Iraq, Libano, Afghanistan, Siria, Libia e pure in Serbia… Diverso è il caso di Donetsk, città che dicono essere ucraina, ma che l’Ucraina, per qualche ragione, bombarda, anche a Natale e a Pasqua vicino alle chiese, nei mercati, nei centri commerciali, con le ondate di sangue civile che conosciamo: ma guarda chi li fa, i massacri degli innocenti.
Al Corrierone, come a tutte le testate occidentali possedute da camerieri atlantici o peggio, brucia ancora che Bucha non sia riuscita col buco, e di questa presunta «strage» che doveva fungere da casus belli per mandare i nostri soldati a morire in Ucraina non se ne è fatto più nulla. Voi avete più sentito nulla? Chissà perché.
Ma non basta: il Corriere è disturbato assai dal fatto che il Lavrov «dichiara che «il nazismo sta rialzando la testa in Europa». Lo scrive il giornale dove in prima pagina, con corsivi non esattamente imperdibili, scrive per qualche ragione uno che in TV andò a dire che un generale vicino al Battaglione Azov è «giusto» come Schindler e Perlasca. Lo scrive il giornale il cui inviato a Kiev riprese un militare nazi-odinista dichiarare la sua fede pagana dinanzi all’assedio dei monaci della Lavra. È stato detto, giustamente, che il Corriere in quell’occasione era riuscito, senza volerlo, a realizzare l’apice della propaganda ucraina e pure russa nello stesso momento.
L’inviato del Corriere a Kiev va davanti al Monastero delle Grotte e produce un documento che segna contemporaneamente il culmine sia della propaganda occidentale che di quella russa. pic.twitter.com/miLeXY85EG
— Marco Bordoni (@bordoni_russia) April 4, 2023
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Ma non è finita. Il giornalone nelle mani del venditore di pubblicità proprietario del Torino calcio alza il ditino con boria e pervicacia: «il ministero degli Esteri russo ha risposto alle domande inviate preliminarmente dal Corriere della Sera con un testo sterminato pieno di accuse e tesi propagandistiche. Alla nostra richiesta di poter svolgere una vera intervista con un contraddittorio e con la contestazione dei punti che ritenevamo andassero approfonditi il ministero ha opposto un rifiuto categorico».
Un’intervista scritta con il contraddittorio? Ma di cosa stanno parlando? Il compito dell’intervistatore è sentire quello che dice il più alto diplomatico della superpotenza oppure salvaguardare la mente dei lettori dalla possibilità di sentire l’altra campana – cioè il lavoro che dovrebbe fare il giornalismo?
Lavrov, accusa il Corrierissimo, «Evidentemente pensava di applicare a un giornale italiano gli stessi criteri di un Paese come la Russia dove la libertà d’informazione è stata cancellata». A questo punto non è più possibile trattenere le risate. «Quando il ministro Lavrov vorrà fare un’intervista secondo i canoni di un giornalismo libero e indipendente saremo sempre disponibili».
Il Corriere «libero e indipendente»? Eccerto. Ce lo ricordiamo in pandemia, quando, dopo decenni di abbonamento (chi scrive ha letto quel giornale quotidianamente da quando aveva praticamente 15 anni) abbiamo mollato il colpo, ché le menzogne (per esempio sull’ivermectina farmaco per cavalli) erano divenute intollerabili. Anche dopo, con la guerra ucraina e la lista dei putiniani italiani, con per soprammercato la stupenda affermazione che la stampa russa avrebbe usato come manifesto un articolo di Manlio Dinucci: le giornalistissime in cima al massimo quotidiano italiano non si era ovviamente peritata di comprendere o approfondire nulla – Dinucci riprendeva uno studio della Rand Corporation, citato varie volte anche da Renovatio 21, dipingendo quindi l’84 geografo italiano come faro della politica di Putin… eh?
Vabbè, qualche lettore lo sa: con il Corriere per Renovatio 21 ci può essere stata qualche screzio in passato. Come quando un video un po’ minaccioso di Bill Gates e consorte (col COVID stavano ancora assieme) trovato e sottotitolato da Renovatio 21 comparve per magia, senza credito alcuno, talis et qualis sul sito del Corriere.
Faccia il lettore il confronto. L’unica vera differenza e che noi – che abbiamo realizzato i sottotitoli, sistemato l’audio e finalizzato – non ci abbiamo messo la pubblicità.
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O quella volta che, ci segnalarono tanti lettori, c’era nelle pagine di cultura quella lenzuolata della celeberrima romanziera Susanna Tamaro sulla scuola che sembrava, a detta di molti, un pochino somigliante ad un articolo di Elisabetta Frezza pubblicato sulle colonne di Renovatio 21.
Pressati dal nostro pubblico, scrivemmo all’altezza del Natale 2022 alla redazione di via Solferino. Siamo in grado qui di riprodurre la missiva.
Gentili signori della redazione del Corriere,
Secondo voi i colleghi del Corriere dei grandi ci risposero? Maddeché – neppure agli auguri di Natale.
Gli auguri a questo punto glieli facciamo noi: perché, se continuano così, quanto avanti potrà andare ancora avanti il giornalismo italiano?
Roberto Dal Bosco
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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia
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Il potere della vittima
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Pensiero
Separazione delle carriere, equivoci vecchi e nuovi. Appunti minimi in tema di future riforme della Giustizia
In mezzo alle turbolenze inaudite di questi tempi, è tornata ad alleviare le nostre pene la separazione delle carriere di giudici e pubblici ministeri. Che è un po’ come la polemica calcistica nell’intervallo di un film dell’orrore. E tutto sommato servirebbe a sollevare gli animi se non implicasse cose un po’ più grandi di quelle a cui spesso viene ridotta.
Quella che ad alcuni può apparire una questione nuova, è invece una vecchia diatriba, andata un pò in sordina e tornata ora di prepotenza forse per dare lustro all’affaccendarsi di alcuni volenterosi, infaticabili riformatori della giustizia.
Il tema infatti poteva essere considerato in qualche misura obsoleto, perché emerso quando era in vigore il sistema processuale cancellato nel 1989 con la riforma del processo penale, o rivoluzione che dir si voglia in omaggio ad una data fatale per definizione.
Le ragioni addotte allora, per sostenere la necessità di una separazione delle carriere, si fondavano sulla vicinanza «fisica» tra i soggetti deputati alle funzioni giudicanti e requirenti che, alloggiati negli stessi ambienti giudiziari, potevano intrecciare rapporti troppo amicali, e quindi capaci di compromettere il corretto esercizio delle funzioni svolte rispettivamente da giudici e pubblici ministeri. Si trattava di una querelle che andava per la maggiore, ma confondeva gli effetti con una causa di ben altra portata: quella strutturale del cosiddetto «processo misto». Ovvero si vedeva la pagliuzza e non si vedeva la trave.
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Infatti in varie fasi processuali le funzioni del pubblico ministero venivano a confondersi o a sovrapporsi. Il giudice aveva poteri istruttori non dissimili da quelli del pubblico ministero mentre quest’ultimo, oltre ad essere titolare di una istruzione segreta, dalla quale per lungo tempo sono rimasti esclusi i difensori, anche se non pronunciava sentenze, era fornito di un importante potere decisorio «paragiurisdizionale», come quello di disporre misure cautelari, convalida di arresti e fermi etc.
Insomma, le possibili compromissioni e influenze reciproche, in bene o in male, non derivavano tanto dal fatto che i titolari dei diversi uffici potessero avere l’ abitudine di «prendere il caffè insieme». Derivavano semplicemente dal sistema processuale vigente. E non sarebbe valsa la separazione delle carriere ad ovviare agli inconvenienti di una commistione organica di funzioni e di poteri che di certo la separazione delle carriere non avrebbe potuto risolvere in alcun modo.
Semmai la formazione e l’incardinamento comune, che rendevano plausibile anche il passaggio da una funzione all’altra, passaggio ormai precluso dalla riforma Cartabia, portavano il vantaggio di evitare in qualche misura la sclerotizzazione della mentalità accusatoria, sempre in agguato in chi l’accusatore lo deve fare per mestiere e rischia perciò di trasformarsi in un irriducibile e messianico Javert. Un rischio sentito dallo stesso legislatore che da tempo ha previsto la possibilità per il pubblico ministero di chiedere l’assoluzione dell’imputato.
Ma il vero katechon contro la fissazione pregiudiziale di ogni attitudine critica poteva darsi e deve continuare ad essere riposto in quella solida e interiorizzata formazione giuridica e culturale capace di orientare ogni decisione sui valori etici superiori che il diritto dovrebbe tutelare, in sintonia con una forte etica personale.
Ora, con l’avvento della riforma del processo penale e l’adozione di un sistema radicalmente diverso da quello preesistente, l’esigenza di liberare certe funzioni da schemi anche mentali precostituiti dovrebbe essersi soddisfatta naturalmente. Infatti, nonostante successivi interventi legislativi abbiano ampliato nel tempo i poteri del pubblico ministero, tanto da richiamare alla memoria il vecchio schema della istruzione sommaria nelle fasi preliminari, l’attuale sistema accusatorio lo vede comunque nella scena dibattimentale davanti al giudice quale coprotagonista alla pari con la difesa.. Un quadro che avvalora quella capacità di equidistanza e neutralità, richiesta alle parti pubbliche, e di comprensione reciproca che viene dalla formazione giuridica comune a tutti i protagonisti di questa sacra rappresentazione triadica.
Insomma, all’esigenza di assicurare l’esercizio oggettivo della funzione dialettica richiesta dal sistema, risponde proprio quella formazione culturale comune che se da un lato fornisce a difensore, accusatore e giudice un imprescindibile linguaggio tecnico, dall’altro impone ai due soggetti incardinati nella amministrazione pubblica, la visione più elevata dell’interesse superiore della giustizia al quale hanno giurato di volersi votare. E in questa chiave va considerata come una contraddizione e una perversione dei principi cardine del sistema, quella separazione delle carriere che viene sostenuta con argomenti di lana caprina e della limpidezza delle cui finalità è legittimo dubitare.
Anzitutto proprio la auspicata costituzione di un corpo separato quasi in forma corporativa porterebbe di certo a ricostituire quella figura quasi metafisica dello accusatore per antonomasia e a prescindere, che il sistema sembra aver voluto seppellire. Infatti sembra soprattutto tradire quella aspirazione alla oggettività dello accertamento del fatto penalmente rilevante che il sistema accusatorio pretende di assicurare per quanto possibile.
Tanto più che si ventila già la prospettiva di concorsi i separati e di una formazione ad hoc. Cosicché quella base concettuale e quella identità e unità di linguaggio comune a tutti gli operatori giuridici verrebbe ad essere spezzato all’origine dallo scavo di un fossato pregiudiziale.
E a questo proposito si verifica un fenomeno abbastanza curioso: sono proprio i fautori della separazione delle carriere ad invocare, forse per una suggestione linguistica, il principio accusatorio come presupposto logico che imporrebbe quella separazione,.
Ma si tratta di una argomentazione senza fondamento razionale dal momento che quello cosiddetto «accusatorio», al di là delle assonanze che appunto sembrano suggestionare il presidente delle Camere Penali (come è risultato nel corso di una vivace polemica con un componente della Associazione Nazionale Magistrati), è un criterio di tecnica processuale che attiene alla formazione viva della prova davanti al giudice grazie allo scambio dialettico tra accusa e difesa.
Una tecnica che dovrebbe servire meglio all’ accertamento della verità nel processo e per questo non inchioda affatto il pubblico ministero ad una destinale missione accusatoria, volta ad ottenere ad ogni costo la condanna dell’imputato. Del resto, come dicevamo, la legge stessa prevede da molto tempo che la richiesta di assoluzione possa venire da parte del pubblico ministero sulla base di prove a favore.
Il procedimento si svolge per fasi separate, senza commistione di funzioni, e senza precostituzione di prove. Il principio «accusatorio» che domina la fase dibattimentale, quale tecnica per la formazione non precostituita della prova, non ha nulla a che fare con la supposta esigenza di separare le carriere e assicurare una maggiore indipendenza tra le diverse funzioni processuali attraverso un diverso incardinamento amministrativo dei rispettivi magistrati.
Anzi, proprio questo renderebbe non «neutrale» il magistrato che, incardinato in un organismo diverso da quello canonico, diverrebbe un «accusatore» precostituito. Non per nulla secondo Cassese sostenitore convinto della riforma, occorrerebbe «una preparazione diversificata che miri a formare attitudini diverse: una psicologia giudiziaria secondo capacità e competenze».
Insomma proprio il contrario di quello che serve per una oculata e distaccata ricerca della verità processuale, secondo le finalità proprie della tecnica dialogica del sistema «accusatorio».
Anche in questa figura ipostatizzata dell’accusatore preformato, torna prepotente il modello del processo americano che tanto ha suggestionato il pubblico italiano ai tempi delle serie televisive di Perry Mason. Come è noto la stessa riforma del 1989 ha tratto ispirazione dai modelli anglosassoni, per poi dovere fare i conti con la realtà della propria tradizione giuridica e di una diversa base socioculturale. Ma l’adozione acritica di modelli estranei non è mai senza innocue conseguenze.
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Sta di fatto che ora, come un tempo, la separazione delle carriere avrebbe lo scopo edificante di combattere il malcostume all’interno della amministrazione della giustizia, indotto dalle camarille interne o sul piano delle dipendenze politiche esterne.
Ma anche se questa riforma avesse veramente uno scopo moralizzatore e non, come appare probabile, quello esattamente contrario, di andare incontro ad un più esplicito condizionamento politico, resta il fatto che le leggi, come le famose gride manzoniane, di per sé non moralizzano un bel nulla ma e e quando servono da paravento al medesimo potere politico che le sciorina.
E uno degli indizi che si tratti di una riforma che va in senso contrario alle esigenze di indipendenza di un parte della magistratura e soprattutto a quelle di una corretta applicazione dei principi di garanzia di cui si è dotato il processo penale, è fornito dallo sdoppiamento degli organi di controllo previsto dalla riforma, che oltre a radicalizzare pericolosi antagonismi corporativi, rafforzerebbero le radicalizzazioni politiche e partitiche all’interno di una amministrazione della giustizia per la quale è prescritta in Costituzione la indipendenza politica.
Per la serenità e oculatezza dei giudizi, occorrono coscienze eticamente e culturalmente formate, libere da precondizionamenti e dai lacci di ruoli assegnati e da pregiudizi di sorta, dai nodi scorsoi delle «competenze» che, con buona pace di Cassese, oggi hanno assunto il senso profondo del vuoto a perdere.
Patrizia Fermani
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Immagine: Antonio Canova (1757–1822), La Giustizia (1792), Gallerie d’Italia, Milano
Immagine Fondazione Cariplo di via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported; immagine tagliata
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