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Il ritorno del sacrificio umano in Ucraina, spiegato bene

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La settimana scorsa è apparso in rete questo bizzarro, inquietante video.

 

Con probabilità, il lettore lo ha già visto. Su uno sfondo digitale, fatto di cielo e di campi di grano – i colori della bandiera ucraina – una ragazza agghindata con solenni vesti tradizionali declama parole poetiche, per poi sgozzare quello che, da quel che ci è dato di capire, è un uomo russo.

 

Moltissimi di coloro che lo hanno rilanciato – compresi alcuni grandi analisti internazionali – hanno detto che si trattava di una sorta di Pubblicità progresso del potere ucraino. Non sembra essere così: pare essere opera di un’attrice, originaria di Leopoli. La fattura del video è compatibile con uno studio di posa domestico o di modeste dimensioni, nonostante sia visibile uno sforzo produttivo non estemporaneo (trucco e parrucco, costume, luci, etc.).

 

Il video è stato caricato per la prima volta sul profilo Instagram dell’attrice ucraina. L’account è stato poi chiuso.

 

Questo filmato, caricato con sottotitoli in vari canali su YouTube e Twitter, ha cominciato rapidamente a sparire.

 

 

Alcuni soldati russi hanno già reagito.

 

Nei canali Telegram legati all’Operazione Z si è diffuso un video in cui alcuni soldati al fronte dicono che l’attrice dovrebbe rimanere a casa, e se la prendono con gli uomini ucraini, che mandano avanti le donne a parlare di queste cose.

 

Parole che qui, nel metaverso NATO, sono oramai illegali: «Non vi vergognate che le donne parlino per voi?»

 

Dicono che devono essere i valori europei verso cui gli uomini ucraini ora tendono. Anzi, si chiedono: ci sono ancora uomini in Ucraina?

 

 

ISIS nazi-pagana

Vari commentatori occidentali hanno subito collegato il videosgozzamento ucraino all’ISIS.

 

Et pour cause: è piuttosto facile che gli autori del video non se ne rendessero conto, ma si tratta esattamente della stessa pulsione – esibire dinanzi al mondo il proprio zelo sfrenato, con il nemico in ginocchio, in un atto arcaico, sacrificale.

 

Il nemico è disumanizzato, reso bestia – da sgozzare, appunto, come un agnello, come un capretto, come un maiale, in un antico atto alimentare e religioso. L’omicidio produce brivido, fierezza piacere.

 

Sì, decisamente assomiglia ai video dello Stato Islamico.

 

 

Questo sito ha parlato da subito al fatto che l’Ucraina, con le sue fiammate neonaziste vendute come poesia romantica dai giornali occidentali, era di fatto parte di un programma del tutto simile a quello subito da siriani e iracheni. La radicalizzazione. La zeloteria. La sete di sangue. Lì, il wahabbismo, l’islamo-nichilismo assassino. Qui, il nazismo, più qualche sfumatura di paganesimo paleoslavo.

 

L’Ucraina è il territorio di coltura di un’ISIS neonazista, non v’è dubbio. Sappiamo bene che, qualora dovessero sopravvivere al conflitto, ci ritroveremo molti dei suoi uomini qui a generare caos. Oppure riassorbiti in qualche altro conflitto – l’ex ispettore ONU Scott Ritter ritiene che, addestratissimi dalla NATO come sono, i battaglioni ucronazisti sono ora piazzabili in qualsiasi forza, ufficiale o meno, del Patto Atlantico.

 

La ragazza tagliagole è un primo segno di maturità mediatica di questa ISIS slava, creata sinteticamente dai soliti noti. Certo.

 

Tuttavia non è di questo che vogliamo scrivere qui. Vogliamo trattare un tema più profondo. Proibito.

 

 

Il ritorno materiale degli dei

Guardate bene il video. La ragazza è più di una ragazza: è calma, ieratica. Sulla testa una elaboratissima corona di fiori, che sa di qualche tradizione locale millenaria.

 

L’effetto della visione, unita ai campi rigogliosi dietro di lei, ci fanno pensare decisamente ad una figura divina, ad una dea: Cerere, dea della fertilità, dei fiori, della frutta e dei raccolti. In Grecia è conosciuta come Demetra. È la madre di Prosperpina, Persefone per i greci – la dea della crescita del grano, rapita da Ade, dio dell’ombra e della morte, signore del sotterraneo che chiamiamo, per estensione, sempre «Ade».

 

Alla fine del filmato, il commiato ci riporta proprio qui: «dobro pozhalovat’ v Ad», benvenuti all’Inferno, dove quest’ultimo è reso con la parola russa, classicamente risonante in ogni europeo mediterraneo ma non solo, «Ad».

 

Sì, è effettivamente l’immagine di una dea. La sua flemma, il suo pallore… quelle labbra, che sembrano piene di lividi, o forse… si tratta di un pasto vampiresco?

 

Non stiamo proiettando significati nostri. È la signora dei campi che, ad un certo punto, comincia a parlarne, quando dice che «qualcosa che dormiva da secoli nelle profondità del fiume Dnepr … il dio iniziale ed antico dell’Ucraina» si è svegliato.

 

«E ora stiamo raccogliendo il nostro raccolto di sangue», dice questa dea dei campi, della fertilità e della morte.

 

Una divinità arcaica è stata fatta tornare sulla terra. E ora esige il suo tributo di violenza, una violenza che è necessaria, che è sacra.

 

Un’immagine migliore della ripaganizzazione del mondo non potevamo trovarla. Perché qui si va molto nel dettaglio: non si riesuma un rito, un mito… ma un dio, una dea, un essere antropomorfo, vivente, intelligente.

 

Non una mera forza storica o naturale – no, si tratta di una persona. Sia pure, una persona non umana

 

Non ho inventato io questa storia del ritorno materiale degli dei. Il lettore la può trovare romanzata nel libro di Neil Gaiman American Gods, e più ancora dalla serie che ne hanno tratto, dove vediamo miriadi di divinità minori vivere tra noi, in cerca di adorazione e sacrificio.

 

Il ritorno degli dèi: in Italia vi è una prestigiosissima casa editrice che si occupa solo di quello. Tanta fumisteria della destra tossico-narcotica, da Evola a De Benoist, ne ha scritto in modo fremente. Ma soprattutto, colui che ha preparato il campo per questo tipo di pensiero è lo psicologo svizzero Carl Gustav Jung, che per qualche oscura ragione riuscito a scampare, al momento, alla cultura della cancellazione.

 

Jung scriveva di archetipi, cioè di forme di rappresentazione psichiche preesistenti all’individuo e comuni a tutte le culture del mondo. L’allievo ribelle di Freud è tuttora celebrato per l’idea di questa grammatica di simboli dietro ogni vita umana, individuale e collettiva.

 

La realtà è che Jung, personaggio esoterico assai, probabilmente nutriva pensieri più radicali sul tema. Nel 1937, Jung scrisse  che «un medium (…) il portavoce degli antichi Dei». E ancora «Non c’è dubbio che Hitler appartenga alla categoria dello stregone veramente mistico (… Hitler è un vaso spirituale, una semidivinità o, ancora meglio, un mito».

 

Quale divinità sia coinvolta nella tumultuosa Germania degli anni Trenta Lo Jung – che una biografia americana definisce «profeta ariano» –  lo spiega con chiarezza nel saggio Wotan, che è il nome germanico di colui che da questi parti chiamiamo Odino:

 

«Siamo sempre convinti che il mondo moderno sia un mondo ragionevole, basando la nostra opinione su fattori economici, politici e psicologici. (…) In effetti, azzardo il suggerimento eretico che le profondità insondabili del carattere di Wotan spieghino più del nazionalsocialismo di tutti e tre i fattori ragionevoli messi insieme».

 

«Un movimento collettivo è composto da milioni di individui, ognuno dei quali mostra i sintomi del Wotanismo e dimostra così che Wotan in realtà non è mai morto, ma ha conservato la sua originaria vitalità e autonomia. La nostra coscienza immagina solo di aver perso i suoi dèi; in realtà sono ancora lì e basta una certa condizione generale per riportarli in pieno vigore».

 

Di solito, a questo punto, agli scettici si fa vedere un dipinto del pittore simbolista Franz Von Stuck (1863-1928). Il quadro si chiama Die Wilde Jagd, la «caccia selvaggia»: secondo il mito nordico, un corteo di creature preternaturali guidato da Odino, che viaggia per il cielo o per la terra come in una grande battuta di caccia. Chi testimonia la caccia selvaggia può essere rapito e portato nel Regno dei Morti, oppure deve aspettarsi l’arrivo di una catastrofe.

 

L’opera è datata 1889. È decisamente impossibile non vedere che nel ruolo di Odino è rappresentato quel famoso personaggio, non ancora dimenticato (specie da certi ucraini), che era nato proprio nel…1889.

 

Franz Von Stuck, «La caccia selvaggia», 1889

 

Qualcuno lo considera un quadro profetico: c’è la visione di schiere ctonie che portano morte e catastrofe sulla terra, e il volto dell’uomo attraverso il quale passerà tanta parte del disastro.

 

A noi serve per ricordarci quello che diceva Jung. Gli dei vogliono tornare a vivere. Gli dei demandano per loro un tributo di sangue.

 

Il ritorno degli dèi quindi ha come immediato effetto il ritorno del sacrificio umano.

 

Pensatela così: gli dèi sono scacciati dalla terra con l’arrivo di Cristo. Egli sulla croce compie di fatto l’esorcismo definitivo: non sono più gli umani a dover far sacrifici alla divinità, ma è Dio stesso che si sacrifica per gli umani. Dopo Gesù più nessun sacrifizio, nemmeno quello animale, è necessario: anzi, egli continua a sacrificarsi per i suoi figli ogni giorno ed in ogni latitudine tramite la Santa Messa, che è ripetizione materiale del sacrificio di Dio per l’uomo.

 

Nel mondo pagano valeva precisamente l’inverso: gli uomini doveva sacrificare alla divinità, preferibilmente quanto c’è di più prezioso: la vita umana. Magari, la vita dei loro stessi figli, dei primogeniti. Laddove c’è il paganesimo, c’è il sacrificio umano. Fra gli Aztechi come a Cartagine con Moloch, con Baal, con il Faraone, a Roma, nei misteri greci. Tuttora, mi raccontarono sottovoce a Calcutta, succede per il culto segreto della dea Kali.

 

Dove ci sono gli dèi, c’è la necessità di versare per loro il sangue degli esseri umani. Dove c’è Cristo, vi è l’esatto contrario: non la determinazione a portare la morta, ma a generare la vita. Questo semplice assunto è una delle basi di quella che chiamiamo Necrocultura, la Cultura della Morte di cui parlava Giovanni Paolo II.

 

 

Resettare e ripaganizzare

In pratica, questo è ciò che sta succedendo in Ucraina. Questo sito è stato l’unico a parlare e ad insistere sul fatto che  il battaglione Azov avesse eretto a Mariupol’ un templio al dio del tuono degli antichi slavi – secondo il paganesimo rodnoverico – Perun.

 

La ripaganizzazione del Paese è il risorgere di un demone antico  pronto a riprendersi quella fetta di umanità. Ciò che esso farà e invertire completamente l’insegnamento di Cristo – ama il prossimo tuo come te stesso. In termini pratici, ciò significa la disintegrazione della dignità umana. Il prossimo tuo diventa non un nemico da sconfiggere, ma un suino da sgozzare, da offrire alla divinità risvegliata come raccolto di sangue: il video qui sopra dice proprio questo, letteralmente.

 

Senza la barriera – il katechon, direbbe qualcuno – della dignità umana, ogni forma di massacro è possibile: non solo quella del nemico, ma anche quella dell’amico. Perché, gli dèi sono in fondo indifferenti al tributo di morte che gli si offre, anzi… ricordiamo come a loro piacciano i primogeniti, le vite più vicine al cuore di chi intraprende il sacrificio.

 

Ecco perché facciamo fatica a credere alle storie dei massacri perpetrati dai russi, mentre con più facilità ascoltiamo le storie, come quelle raccontata da Patrick Lancaster, delle forze ucraine che sparano sui loro stessi civili per impedire loro di scappare (di modo da non avere più scudi umani), che nascondono armi e carroarmati fra i condomini, che piazzano cecchini sui palazzi residenziali, che usano le scuole come basi…

 

I russi – e i ceceni – non si sono piegati alla risorgenza maledetta degli dèi del male. Almeno, non ancora. Un cristiano, un musulmano, anche un laico (che ha vissuto, cioè, in una società informata dalla Civiltà cristiana) di suo non si dovrebbe lasciar andare alla crudeltà, neppure in guerra (con certe evidenti, patologiche eccezioni).

 

La crudeltà diviene generalizzata quando una cultura (uno… spirito) di morte è stato insufflato nei loro animi. Quando qualcosa li spinge verso il compimento del sacrificio umano.

 

Esso diviene la legge. Non è qualcosa di cui vergognarsi, anzi. La cattiveria del massacro diventa un vanto. Avete visto anche voi quel video di soldati ucraini che chiamano le mamme dei soldati russi morti per canzonarle. Qualcosa del genere è semplicemente indefinibile, spiegabile solo se pensiamo che ci si sia votati ad una divinità mortifera e ingannatrice, uno spirito del caos seminatore di dolore, un trickster

 

Non credo si tratti di un fenomeno solo ucraino: un dio della morte si era svegliato nella Germania degli anni Trenta, qualcosa del genere deve aver danzato nel cuore dei Balcani nell’ultimo decennio del Secondo Millennio… In Sri Lanka, i Tamil, che tanto hanno sofferto sotto il tallone della buddocrazia genocida di Colombo, ad un certo punto, si narra, si sono messi a pregare la dea Kali, «madre della guerra». Poramma

 

Tuttavia, l’Ucraina è ora l’avanguardia planetaria per la ripaganizzazione, e il ritorno del sacrificio umano – cioè per il più grande pericolo per la Civiltà come la conosciamo.

 

Non è un caso che essa sia il luogo in cui è risorto il nazismo: ossia, il regno del controllo totale sull’essere umano, dell’eugenetica, dei campi di concentramento, dello sterminio secondo la volontà del più forte – tutte cose che sono incontrovertibilmente vere anche per il mondo moderno, in ispecie in questi ultimi tempi. Si dice che il modello di Hitler venisse dall’America (come del resto il suo danaro…).

 

In realtà, il III Reich, dalla lotta contro il cancro all’animalismo, dall’eliminazione degli handicappati (che oggi si fa con l’eutanasia, o le diagnosi prenatali pagate dalla regione) alla propaganda martellante, dal culto del corpo al sogno del bambino perfetto è stato il pieno percursore della realtà che stiamo vivendo.

 

No, non ci stupiamo di niente: come diceva quello, il demone non se ne va mai via davvero, sta sempre lì sotto. Basta solo, evocarlo.

 

E chi lo ha evocato, per l’Ucraina? Se leggete Renovatio 21 qualche risposta un po’ ce la dovreste avere.

 

Così come dovrebbe esservi chiaro del perché il sacrificio umano stia tornando proprio lì: perché (lo abbiamo scritto, lo ripetiamo) una certa parte degli ucraini è stata resettata. Hanno detto loro che non sono pienamente slavi, sono germanici. Non devono niente alla Russia, il loro futuro è l’Occidente. Li hanno impoveriti, li hanno fatti impazzire – mentre qualcuno si ingrassava schifosamente. Hanno preso gli ultras (un gruppo sociale la cui determinata coesione, come abbiamo visto nella  Yugoslavia di Arkan, è utilissima nel momento del collasso) e ne hanno fatto, a suon di addestramenti angloamericani, dei guerriglieri spietati.

 

Gli ucraini resettati, abbiamo visto, stavano divenendo i primi a dotarsi di una app che governava, dal telefonino, tutte le loro vite, la stessa dove lo Stato poteva infilarti qualche soldo ogni volta che ti sottoponi al programma di vaccinazione COVID. Anche qui, notiamolo: pura avanguardia di ciò che sta per toccare a noi,

 

Agli ucraini hanno fatto ciò che sta per toccare a noi. Ed è per questo che gli Stati ci invitano a prenderli a modello, anzi, ci sostituiscono con essi…

 

Torniamo agli dèi del sangue. Anni fa feci a Rimini una conferenza per la Fraternità San Pio X dove coniai la parola «geodemonologia». Una parola che praticamente ho usato solo io: se la scrive su Google vi esce solo quella relazione, «Geodemonologia e salvezza planetaria», e ipotizzavo, con umiltà e misura, quanto ho scritto sopra: la realtà dei demoni che, lungo la storia, arrivano a riprendersi, e a guidare, intere nazioni. (Echi di questo discorso, sono in un altro articolo pubblicato qui)

 

Il caso, ora, è esattamente questo. Non sappiamo ancora con certezza il nome di quello che si sta riprendendo gli ucraini. Perun, Veles, Zhiva, Rugiaevit, Porevit,  Devana, Morana… Chernobog, il dio oscuro finito nell’arte di Mussorgorsky e Walt Disney, il cui Monte Calvo sarebbe il colle boscoso Lysa Hora, appena fuori Kiev.

 

Potete capire però di cosa si tratta: di un processo di possessione della Terra.

 

 

I nostri sacrifici umani sono legge

L’altra sera ho intravisto l’ultima parte di Report. Con il consueto tonitruante afflato del giornalismo d’inchiesta che disvela ogni retroscena, spedivano i loro inviatini più o meno irsuti e erremosciati in giro per il mondo: ecco il tedesco con la faccia ecologica che dice che il Nord Stream 2 fa schifo, ecco il mister X russo che da un porto di Cipro non vede l’ora di dire a Rai 3 gli affaracci del gas, ecco Prodi invecchiatissimo che ammette che gli ucraini rubavano dai gasdotti, ecco ricicciata l’intervista dell’uomo ENI defunto da anni, e qualche filmato dall’impianto in Kazakistan…

 

La morale di tanto sforzo era: non avete capito nulla, la guerra si fa per il gas, altro che ideologia, nazionalismo, NATO etc. Dietro a tutto questo c’è solo il soldo dell’idrocarburo, punto. È il vecchio, immortale ritornello marxista, ma anche liberista: l’economia è il motore della storia. Follow the money.

 

Mi sento di rigettare in toto questa visione infantile. Io guardo la dèa che sgozza l’uomo russo, e penso che l’unica economia che conta per la Storia umana è quella fatta dal Bene e dal Male. Non il dollaro, il rublo, lo yuan, non l’oro e il petrolio: l’unica moneta che conta davvero è la vostra anima.

 

Gli antichi dèi stanno tornando per riprendersela.  Stanno tornando per giocarsela, per spendersela come vorranno. Per farlo, devono cancellare la vostra umanità.

 

E non crediate che si tratta solo di questa piccola guerra ai nostri confini: essa è solo il momento in cui, abbiamo visto, certi esseri possono divenire più visibili.

 

No, la guerra va avanti da tanto, tanto tempo.

 

I sacrifici umani avvengono in questo stesso momento negli ospedali, nei laboratori. Persone squartate dopo un incidente stradale, mentre ancora batte loro il cuore, imbottiti di curaro. Neonati trucidati nel ventre materno, sempre più grandi, fino alle proposte, oramai realizzate, di «aborto post-natale», cioè di infanticidio vero e proprio. Milioni di embrioni umani prodotti in provetta, esaminati, scartati, congelati, ora pure manipolati. E ancora più vicino: pensate a quanti morti stiamo vedendo dopo l’avvento dell’mRNA, distribuito possibilmente in ogni corpo umano del pianeta.

 

I demoni della Necrocultura ci hanno dichiarato guerra da mo’. E i loro sacrifici umani sono per noi, letteralmente, legge.

 

Cara ragazza, te lo dobbiamo dire: è un po’ che siamo all’inferno.

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

 

Immagine screenshot da Twitter, modificata

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NATO e mRNA, la Von der Leyen riconfermata per l’imminente guerra transumanista

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«Intanto ci teniamo la Von der Pfizer» mi ha detto un parlamentare italiano a poche ore dalla conferma di Ursula al vertice della piramide UE. Io gli parlavo sognante del fatto che magari Kennedy finisce dentro il prossimo gabinetto Trump con mansioni di revisione sanitaria, lui mi riportava alla realtà. La Von der Leyen è ancora presidente della Commissione Europea.

 

Di fatto, è qualcosa per cui ci sarebbe da darsi i pizzicotti: i giornali, fino al giorno prima, davano per improbabile che Von der Leyen ce la facesse. Tuttavia abbiamo visto lo stesso fenomeno in Francia, dove pareva dovesse stravincere l’estrema destra, invece, tra trucchetti e giravolte, eccoti che al governo potrebbe andare l’estrema sinistra. Eccoci, dunque, in istato di choc.

 

Dicevano, e anche all’estero: deciderà Meloni. In molti gongolavano: l’Italia ago della bilancia… Costoro non solo l’hanno presa nel muso, come Giorgia, ma ignoravano pure il fatto che la prima elezione di Ursula, che stava venendo deragliata da una sanguigna manovra europarlamentare di Salvini, la si deve ad un partito italiano, il M5S, che – vero grande partito del dissenso – votò la super-intrallazzante democristiana tedesca. Se rivangate nella memoria, ricorderete che si parlava di un SMS di accorato ringraziamento mandato dalla Von der Leyen alla Trenta, allora ministro della Difesa grillino zona Link University, che conosceva l’Ursula dai tempi in cui questa era ministro omologo a Berlino.

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Sarebbe seguito l’incubo che tutti ricordiamo. Con la tedesca, cominciò a caricarsi l’Europa pandemica, l’Europa del green pass, dell’euro digitale, della crisi energetica, della guerra alla Russia.

 

Come è possibile che chiunque abbia votato – o, come Fratelli d’Italia, abbia anche solo immaginato di votare – per la riconferma dell’algida sciura germanica, non abbia tenuto conto della catastrofe multipla che rappresenta?

 

È che davvero sembrava impossibile che andasse così liscia: su tutto, pesava il fatto che pochi giorni prima la Corte di giustizia europea avesse accolto il ricorso intentato da cittadini ed eurodeputati dei Verdi contro il rifiuto opposto alla richiesta del 2021, di ottenere l’accesso ai documenti relativi ai contratti per l’acquisto di vaccini COVID da parte della Commissione Von der Leyen e Big Pharma.

 

Abbiamo pensato tutti: il messaggio è chiaro. Ursula, scansati. Ci hai, a questo punto, uno scandalo di troppo. C’era stata la storia degli SMS con il CEO di Pfizer, Albert Bourla, spariti nel nulla. Era trapelato che il Bourla, quello che ha paura di presentarsi davanti ai deputati europei, peraltro, apprezzava tanto la Ursula, perché sulla questione dei farmaci genici sembrava informata: e ci crediamo, l’aristocratico marito (padre dei suoi sette figli) è un esperto nella materia, e lavora proprio in quel campo.

 

Qui era scattato uno scandalo ulteriore, che aveva toccato anche l’Italia: ecco che nella fiumana di finanziamenti del fondo europeo PNRR, tra i progetti dell’Università di Padova spuntava fuori anche il nome del marito Heiko, della nobile casata dei Von der Leyen. Conflitto di interessi? Mah. Lui alla fine dovrebbe essersi ritirato.

 

Sono tegole che possono capitare, ma i giornalisti cominciarono a dire che si trattava di una recidiva: erano spariti messaggini anche rispetto ad una storia di appalti militari, quando era ministra della guerra della Repubblica Federale. Anche lì, non successe niente, tutto le scorre addosso come niente fosse: Ursula von der Teflon. Evidentemente, ci sono altri piani per lei. Piani altissimi.

 

La cosa ci pare evidente se rammentiamo – e forse siamo gli unici a farlo – che ad una certa sembrò che Biden voleva che, dopo lo Stoltenberg, a capo della NATO ci finisse proprio lei, l’Ursula. E pazienza per gli scandali – o forse, proprio per gli scandali era il caso che al vertice visibile della più grande macchina da guerra della storia umana ci finisse una come lei.

 

Poi niente: han fatto segretario NATO l’ex premier olandese Mark Rutte (quello dei lockdown massivi, dei cani che sbranano i manifestanti, degli spari sui trattori dei contadini, etc.). Ursula era destinata a tenersi lo scranno più alto d’Europa. Non le è andata male, anzi: lì dove è serve eccome.

 

Perché quando avanzò l’idea della Von der Leyen alla NATO – il cui quartier generale, sottolineiamo ancora una volta, sta sempre a Bruxelles – la guerra alla Russia era già bella che partita. E quindi, era già chiaro quale postura avrebbe avuto la NATO ursulina con Mosca. Lei aveva già fatto vedere tutto: round di sanzioni continue, che hanno incontrovertibilmente danneggiato più industrie e cittadini europei che non la Russia. E poi, episodi come quello in cui sembrò intimare al governo tedesco di dare alle forze ucraine «tutte le armi necessarie».

 

Ricapitoliamo: la storia di Ursula è fatta quindi di NATO, e di mRNA. Le due cose paiono indissolubili, e l’abbiamo capito nelle riflessioni che abbiamo fatto sulla geopolitica vaccinale degli anni pandemici. Un tempo c’era la cortina di ferro, ora c’è quella di RNA messaggero sintetico. Sempre ricordando che si tratta di tecnologia militare del Pentagono, l’edificio che guida il Patto Atlantico.

 

I vaccini mRNA sono essenzialmente quelli che, a livello maggioritario, sono stati consentiti, cioè inflitti, alla popolazione dei Paesi NATO ed alleati. Pfizer e Moderna sono vaccini mRNA puri, mentre AstraZeneca e Janssen, cioè Johnson&Johnson, che sono a vettore virale, hanno avuto una fetta minuscola del mercato del deltoide europeo bucato per obbligo. Abbiamo visto pure che ora AZ è stato del tutto ritirato, e pazienza per quelli che alla lotteria della siringa se lo sono beccati, e adesso magari (ammesso che abbiano coraggio o cervello, cose che nei vaccinati possono a volte drammaticamente mancare) si trovano a seguire i processi britannici sulle morti da coagulo.

 

Nei Paesi NATO, lo sapete, per qualche ragione non sono stati accettati né il vaccino russo Sputnik – un siero genico a vettore virale, quindi non diverso dall’AZ o dal J&J – né i vaccini cinesi Sinovac, che usavano invece l’antica tecnologia del virus attenuato. Nessuna vera spiegazione è stata data sul diniego opposto a questi sieri, pure in un momento in cui vi era scarsità tale che gli editorialisti del Fatto Quotidiano si segnalavano come caregiver per farsi inoculare il prima possibile.

 

C’era l’emergenza, non c’erano abbastanza dosi – ce lo ripetevano di continuo, assieme alla narrazione della tecnopozione miracolosa venuta dalla catena del freddo, talmente necessaria che l’anno dopo i vaccini cominciarono a farli tra gli ombrelloni in spiaggia, rincorrendo signore spalmate di crema solare impegnate nel cruciverba de La Settimana Enigmistica.

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Eppure i vaccini russi e cinesi no, non si potevano avere. Si ingenerò il problema di San Marino, nazione dove i solidi contatti preesistenti con la Russia (dovuti magari a qualche circuito inconfessabile messo su ai bei tempi il Partito Comunista Italiano), consentirono la distribuzione dello Sputnik, con il problema che poi i sanmarinesi, che sono materialmente italiani, non sapevano come fare usciti dai confini del Titano: dovevano iniettarsi anche un vaccino atlantico? Che effetto avrebbe fatto la mistura? All’epoca si diceva che la misture di marche diverse non si poteva fare, poi, come niente fosse, dissero che fare dosi di brand differenti si poteva, anzi magari era pure meglio. (Quante meraviglie ci riemergono…)

 

I lettori avranno capito dove voglio arrivare: esiste sulla Terra un’immensa spaccatura, partita tempo prima della guerra in Ucraina, una divisione del mondo che passava attraverso i corpi dei cittadini occidentali perfino a livello subcellulare. Se sei cittadino USA o UE, devi farti l’mRNA. Punto.

 

I lettori di Renovatio 21 sanno altresì che a questo fenomeno abbiamo tentato, soli soletti, di dare una spiegazione: la popolazione va abituata alle terapie geniche (questo di fatto è il siero, non un vaccino), che sono peraltro proprio la specializzazione del marito principe Von der Leyen.

 

La popolazione va indotta all’uso dell’mRNA, e non solo per il COVID: ogni malattia, in futuro, potrà essere curata con strumenti genetici. Ogni disturbo sarà trattato con la modifica biomolecolare dell’essere umano. Si tratta, né più né meno, dell’imposizione di un programma di transumanesimo di massa. E con la prima prova, il referendum per capire se il gregge avrebbe accettato, è andata benissimo.

 

Il cittadino europeo sarà genicamente modificato, o non sarà: il green pass significava esattamente questo. La cittadinanza, i diritti che ne derivano, sottomessi all’accettazione della propria trasformazione genetica cellulare.

 

E quindi, ci diviene più chiara la composizione del conflitto militare sul punto di deflagrare definitivamente: da una parte la Russia, dall’altra parte il mondo umanoide.

 

Da una parte una nazione che è tornata cristiana, e che valuta positivamente le altre religioni (come l’Islam, che costituisce il 15% della popolazione russa, ma stranamente non vi è anarco-tirannia musulmana delle banlieue né minaccia soverchiante del terrore jihadista); dall’altra il blocco che dell’umanità transumanizzante.

 

La guerra contro la Russia quindi, oltre che termonucleare, sarà in effetti la prima guerra transumanista della storia.

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Non perdete tempo a pensare ai giochetti di superficie dell’europolitica: sì, Ursula si è presa i voti dei Verdi promettendo chissà quale follia decrescitista climatica antiumana, ma ricordatevi sempre che i Verdi sono al momento il partito più guerrafondaio al governo in Germania. Sì, c’era una manovrina che ha tentato la sgomitante Meloni – richieste di ruoli di vice, robette così – ma del fatto che nel vero scacchiere Giorgia non contasse nulla non è che dovevamo avere dimostrazioni, altrimenti non l’avrebbero mai lasciata arrivare lì, sbarrando ovunque la strada a Salvini.

 

Quello è rumore di fondo. La realtà è che la Von der Leyen è rimasta perché c’è un lavoro da portare avanti, il grande piano da realizzare una volta per tutte: scatenare una guerra post-umana contro la Russia, e perseverare con la sottomissione – perfino biologica – della popolazione dell’Occidente.

 

È più spaventoso di quanto si riesce ad immaginare, ma va così. E quando vedete quella bella vecchina, il dolce volto diafano stile Charlotte Rampling camomillizzata, dovete capire che dietro vi è qualcosa di enorme – il programma di riforma, intima e violenta, del pianeta e dell’umanità stessa.

 

Le pallottole per Trump – a proposito: ci diranno quante erano? Sono tutte state sparate dal misterioso ragazzino sfigato? – hanno la medesima radice politica, geopolitica, metapolitica, metafisica. Il miracolo che lo ha salvato, pure è un fatto metafisico che riguarda le sorti dell’umanità intera.

 

Eppure non è ancora finita: nei prossimi mesi, giocoforza accelereranno. Perché la guerra transumanista si deve fare, costi quello che costi.

 

I signori del mondo non molleranno, e se ne fregano oramai se – tra signore controverse e presidenti dementi – non hanno nemmeno più facce nuove, o anche solo decorose, da mettere sul palco.

 

È, in verità, un gran brutto segno.

 

Roberto Dal Bosco

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Immagine di European Union, 2024 via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International; immagine modificata

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La chiesa Notre-Dame-du-Travail, situata nel 14° arrondissement di Parigi, è stata vandalizzata nella notte tra il 14 e il 15 luglio. Sulle pareti della chiesa furono dipinte iscrizioni contro la religione cattolica e altri commenti offensivi. Un coltello è stato conficcato nella gola di una statua lignea della Vergine Maria, riferiscono diversi media.   Il sito Valeurs Actuels precisa che all’interno della chiesa c’è stata una «effrazione» e danni. Padre Vincent de Mello racconta al Journal du Dimanche che «la persona che ha aperto la chiesa la mattina ci ha avvisato: il parroco è andato subito lì, e io l’ho raggiunto più tardi nella giornata».   Aggiunge che «è stata chiamata la polizia e la chiesa è rimasta chiusa per 24 ore, mentre venivano prelevati i campioni scientifici e si svolgevano le indagini. I fatti si sono verificati nella notte tra domenica e lunedì. La persona ha avuto tutto il tempo per agire durante la notte e, non avendo una telecamera di sorveglianza, non sappiamo a che ora è iniziato».   Secondo Valeurs Actuels, «l’autore(i) è entrato dalla porta di emergenza e ha scritto con pennarello nero su diversi supporti dell’edificio: “sottomettetevi ad Allah, infedeli, la preghiera 5 volte al giorno”, e ancora “Gesù bastardo, un dio unico, allah”, oppure “questa grande Babilonia ha bruciato la chiesa, satana”, e “la chiesa qui sta bruciando prima parte”».   La litania di bestemmie e insulti – oltre che di grossolani errori di ortografia – continua: «l’ultimo profeta Maometto», «tagliata la testa a chi sorpassa / Farò guerra al mondo cristiano», «noi musulmani, noi noi non puoi accettare questa di religione/sposarsi questo è il tuo destino”, “vai all’inferno, satana brucia”».

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Gli stessi media riferiscono che, secondo una fonte della polizia, «sono state rotte anche le porte degli armadi, è stata perquisita la reception, è stato forzato un piccolo registratore di cassa e sono stati bruciati dei documenti». Alla fine, un coltello fu conficcato nella gola di una statua lignea della Vergine Maria. L’organo era «rotto» secondo Le Figaro, «anche l’impianto audio era danneggiato: tutti i relè del radiomicrofono erano strappati».   Alla fine, i criminali hanno tentato di dare fuoco all’edificio.   Padre de Mello ha detto a CNews che «sembrava l’opera di un pazzo», ma che «aveva intenzioni religiose anticristiane», ha aggiunto. Ciò sembra probabile, ma resta il fatto che questo odio anticattolico è stato alimentato da un fuoco che non è venuto dal nulla.   Non bisogna chiudere gli occhi di fronte ai violenti attacchi dello stesso Corano contro gli «associatori», cioè i cristiani che adorano la Santissima Trinità, che, per il Corano, è associare altri dei all’unico Dio. E le minacce sono chiare: «combattete gli associatori ovunque li troviate, prendeteli, assediateli, intrappolateli».  

Chiesa di Notre-Dame-du-Travail

Secondo Wikipedia, la chiesa fu costruita «per i numerosi lavoratori del 14° arrondissement che furono responsabili dell’allestimento delle esposizioni universali di Parigi all’inizio del XX secolo. Rende omaggio alla condizione lavorativa e ai significati che danno alla parola lavoro». Padre Jean-Baptiste Roger Soulange-Bodin (1861-1925) iniziò il progetto nel 1897.   «Si distingue per l’utilizzo di un innovativo telaio metallico e di un’intelaiatura di travi a vista. La sua campana fu riportata da Sebastopoli dopo la presa della città (1855) durante la Guerra di Crimea (1853-1856). Fu completato nel 1902 dall’architetto Jules-Godefroy Astruc (1862-1955)».   Le Figaro ricorda che nel 2023 sono stati registrati quasi mille atti anticristiani, di cui «il 90% sono attacchi contro proprietà, come cimiteri o chiese», hanno indicato gli uffici statistici di Place Beauvau all’inizio del 2024.   Articolo previamente apparso su FSSPX.news.

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Immagine di Chabe01 via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 4.0 International
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La scuola e l’eclissi della parola. Intervento di Elisabetta Frezza al convegno presso la Camera dei Deputati

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Renovatio 21 pubblica in versione l’integrale l’intervento di Elisabetta Frezza al convegno dell’associazione Asimmetrie «La scuola artificiale. Età evolutiva ed evoluzione tecnologica» tenutosi presso la Camera dei Deputati il 10 luglio 2024 alla presenza del ministro Valditara.

 

Da qualche decennio a questa parte la scuola italiana è posseduta dal demone della innovazione: versa in uno stato di riforma permanente. È sovraccarica, ormai sfigurata, eppure chiunque passi dalle parti di quel ministero si sente in dovere di aggiungere la propria impronta senza chiedersi a quale τέλος [tèlos] essa concorra. Ammesso che un τέλος ci sia.

 

Si accenni solo a tre passaggi legislativi salienti, ex multis

 

  • nel 1997 l’autonomia scolastica ha aperto gli istituti al territorio e li ha incoraggiati ad avventurarsi in ogni genere di sperimentazione, creando per questa via un surreale clima di competizione mercatista tra le varie scuole; 

 

  • nel 2015 la cosiddetta «buona scuola», tra l’altro (tra molto altro), ha fatto delle innovazioni didattiche – qualunque fosse il loro risultato – una sorta di obbligo e un titolo per accedere alle premialità; 

 

  • nel 2019 la legge istitutiva della «nuova educazione civica» ha sfruttato quest’etichetta dal suono familiare e rassicurante per inondare l’orario curricolare di contenuti ad alto tasso ideologico (il piatto forte è l’Agenda 2030, nuovo libro sacro sui cui dogmi catechizzare, dall’asilo fino all’università, schiere di fedeli), contribuendo pesantemente a relegare la didattica delle discipline – già tanto sacrificata da attività estemporanee di ogni genere, spesso scadenti se non addirittura imbarazzanti – in uno spazio che si può a buon diritto definire residuale. 

 

Ormai fare scuola a scuola è diventata un’esperienza piuttosto eccezionale e non occorre spiegare come le continue distrazioni, anche senza entrare nel loro merito, producano l’effetto plurimo di: interrompere il ritmo didattico; immiserire i contenuti dell’insegnamento; disperdere l’attenzione in mille rivoli ciechi; contribuire alla interiorizzazione della superficialità come metodo di lavoro. 

 

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Così, lanciata alla rincorsa di magnifiche sorti e progressive, la scuola si è via via trasformata in altro da sé. Ha finito per rinunciare al suo compito specifico ed esclusivo, che è innanzitutto quello di alfabetizzare e quindi – attraverso la chiave di accesso del linguaggio – di trasmettere le conoscenze, con particolare riguardo a quelle che hanno resistito alla prova del tempo, agli invarianti; e di iniziare al sapere teoretico, che vuol dire afferrare le cause, elevarsi alle leggi, agli universali, che sono gli strumenti di comprensione della realtà. 

 

A farci caso, il modello a cui i riformatori nostrani si abbeverano parla un’altra lingua, parla inglese: skills, life long learning, cooperative learning, problem solving, peer education, gamification, job shadowing, etc. 

 

E infatti, la demolizione controllata del nostro sistema di istruzione, che aveva il grave difetto di funzionare a dovere, è avvenuta tramite l’importazione massiva dei pacchetti pedagogici anglosassoni, con tutto il loro repertorio di stilemi attraenti. Essi rappresentano una parte – non certo secondaria – di quel capillare processo di colonizzazione culturale che da tempo, in Italia, gioiosamente ci autoinfliggiamo.

 

Erano gli anni Settanta del Novecento, quando Elémire Zolla, avendo in mente proprio la pedagogia progressiva di John Dewey (definito come colui che «consigliò di aggiogare il maestro all’alunno») commentava che «gli italiani, come macilenti gatti di periferia, si ostinano a nutrirsi dei rifiuti altrui». 

 

In realtà il prodotto di importazione, presentatoci sotto il segno invincibile della innovazione, per paradosso è tutt’altro che nuovo: è vecchio di secoli. Non solo – paradosso su paradosso – si è pure dimostrato empiricamente fallimentare: la devastazione cognitiva e culturale delle scuole americane è una piaga non controvertibile.

 

La spiega con dovizia di particolari Eric Donald Hirsch nel suo saggio Le scuole di cui abbiamo bisogno e perché non le abbiamo, uscito in prima edizione nel ’96 in America e recentemente tradotto in italiano da Paolo di Remigio e Fausto Di Biase (edizioni Petite Plaisance). 

 

Il nostro legislatore quindi – o chi gli fa da scrittore ombra – continua ad attingere a una fonte tossica e a riscaldare una minestra già andata a male nel paese di origine.

 

Ma cosa contengono questi pacchetti? Sono plasmati su quell’impostazione pedagogica puerocentrica di stampo ludico-pratico e laboratoriale, che fa leva sul pragmatismo e sull’attivismo didattico, sul mito della personalizzazione e sul culto del benessere; e che, correlativamente, si nutre di un profondo pregiudizio anticognitivo, perché porta con sé l’avversione per le conoscenze teoriche, per i libri, per la scrittura, per la parola. 

 

La sua stella polare è il protagonismo dell’alunno, ritenuto capace di dare forma a se stesso (la base filosofica risale al mito dello stato di natura e del “buon selvaggio”, e della civiltà come struttura corruttrice dell’innocenza): un’idea comprensibilmente dotata di una particolare presa emotiva, tant’è che, grazie alla sua suggestione vischiosa, si è talmente incistata nella mentalità corrente da sembrare ormai inestirpabile e da impedire, come una lente deformata, di ritrovare il vero perché della scuola. 

 

Questo pregiudizio anticognitivo si sublima nella fede che l’ignoranza possa formare alunni creativi che pensano con le loro teste. Si tratta della fede che sta alla base della didattica per competenze: si crede che l’acquisizione di abilità cognitive (le famose skills) avvenga in assenza di cognizioni, vale a dire che si possa pensare criticamente un argomento senza conoscerlo. Quindi, si dovrebbe «imparare a imparare» senza imparare mai nulla (la metacognizione appesa nel vuoto cognitivo) e il senso critico nascerebbe per partenogenesi, confondendosi con l’esercizio di qualsiasi protervo vaniloquio.

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L’impeto digitale – scatenato dalla nuova superstizione che va sotto il nome di tecnolatria – è coerente con questo sistema di pensiero, dal quale è stato propiziato: la scuola 4.0 può essere ben vista come l’ultima declinazione, al passo con il progresso, della solita teoria pedagogica secondo cui il bambino, alla stregua di un cucciolo d’animale, svilupperebbe la sua mente spontaneamente e avrebbe bisogno soltanto di un ambiente attrezzato intorno a lui e di un inserviente al suo fianco.

 

La novità è che oggi questo ambiente ribattezzato «ecosistema di apprendimento» o «eduverso», o ambiente onlife (sic), tende ad abbandonare la presa sul mondo reale per popolarsi dei fantasmi di quello virtuale. E così la scuola si trasforma in una grande sala giochi in cui la tempesta di immagini sostituisce le parole, la scrittura, lo studio delle leggi della realtà. 

 

Osservata dall’altra parte (non del cliente ma del gestore), la scuola 4.0 si presenta come una distesa sterminata di materiale umano da scrutare, da sfruttare, da spolpare, da offrire in pasto alle banche dati e infine da assoggettare agli automatismi degli algoritmi delegati a predire i destini futuri dal loro impenetrabile ὀμϕαλός [onfalòs]

 

Ma, sempre da questa prospettiva puerocentrica, deriva anche dell’altro: deriva da un lato lo snaturamento della figura del docente; dall’altro l’ubriacatura dell’«utenza», cioè delle famiglie che usano del servizio che alla scuola compete. 

 

I docenti. Dovrebbero essere i promotori del sapere e invece, costretti a farsi satelliti dell’alunno e a inchinarsi alla sua singolarità sovrana, assumono il ruolo subalterno di assistenti, di animatori, di facilitatori, finiscono per degradarsi al dilettantismo psicologico e ora soprattutto informatico (il ministro Bianchi parlò apertis verbis di ri-addestramento digitale del corpo docente); mentre diventa irrilevante, paradossalmente quasi inopportuno, che conoscano bene la propria materia di insegnamento al fine di trasmetterne la sostanza, e l’amore.

 

In questo modo, fatalmente perdono autorevolezza e prestigio, vengono umiliati nella loro professionalità e marginalizzati in un contesto che non valorizza la preparazione, restano totalmente disarmati di fronte all’imbarbarimento dilagante. Nel tempo, questo trattamento li ha intimamente passivizzati.

 

I genitori. Si fanno abbagliare dagli effetti speciali esposti in vetrina (la vetrina si chiama PTOF e, grazie al regime di concorrenza di cui sopra, contiene quante più attrazioni possibili per sedurre la clientela, salire nell’indice di gradimento degli osservatori, accaparrare fondi). Alimentano così l’ipertrofia dei progetti inutili scordandosi dei fondamentali – a partire dal leggere, scrivere, far di conto – con tanti saluti al «diritto all’istruzione» dei propri figli.

 

La più parte di loro si accontenta del bel voto gonfiato, da ottenere senza fatica, senza stress e senza frustrazioni. Non comprendono – non solo loro per la verità – che la prodigalità valutativa, essendo una finzione, è non soltanto diseducativa, ma mortificante sia per il mittente sia per il destinatario.

 

Hanno recepito l’idea che la scuola debba essere ritagliata come un abito su misura addosso al loro figlio (peccato che questo cambi taglia ogni momento, perché cresce e matura, per fortuna). La personalizzazione viene spacciata urbi et orbi come un salto di qualità necessario, quando invece conduce da un lato alla paralisi didattica, dall’altro alla medicalizzazione delle fragilità – per cui qualsiasi ostacolo non è più qualcosa da superare, da vincere, per conquistare un traguardo, ma semplicemente qualcosa da rimuovere dal percorso

 

È chiaro che a queste condizioni il cosiddetto «successo formativo» non può che essere garantito. Ma a che prezzo? Al prezzo di abbassare sempre più obiettivi e risultati e di rinchiudere l’alunno nel proprio bozzolo abbandonandolo a se stesso. Con il fenomenale risultato che le sue fragilità si cronicizzeranno (ora per giunta si fisseranno algoritmicamente nella memoria indelebile delle banche dati) e le sue potenzialità, non stimolate, si deprimeranno sul nascere. 

 

È questo, oltretutto, il modo migliore – il più subdolo: si chiama «inclusione» – per rompere l’ascensore sociale, cioè per far perdere alla scuola la sua funzione essenziale di assicurare la mobilità sociale. Perché l’egualitarismo dell’ignoranza interno alla scuola si traduce fatalmente al suo esterno in differenziazione classista (Gramsci, che ci aveva visto molto lungo, parlava al proposito di divisione in caste) e lo status della famiglia di provenienza diventa più decisivo che mai per il destino degli alunni. 

 

Non sono, queste, considerazioni astratte. Chi ha a che fare con l’ambiente scolastico, sa come sia sempre più frequente che gli studenti approdino alle medie, o anche alle superiori, senza saper impugnare la penna e prendere appunti; senza riuscire a mantenere l’attenzione se non per un tempo molto fugace; senza essere in grado di afferrare periodi complessi ma, ancor prima, senza comprendere il significato delle parole che eccedano un corredo sempre più scarno. Sopravvive un solo modo verbale, l’indicativo, con giusto un paio di tempi. 

 

L’italiano della nostra tradizione letteraria sta diventando di fatto una lingua straniera: è sempre meno accessibile, a tratti del tutto incomprensibile. E non ci si riferisce all’italiano di Dante o di Machiavelli, ma a quello di Pascoli, di d’Annunzio, di Manzoni (lo lamentava, ancora negli anni ’80 del Novecento, Alfonso Traina, e chissà cosa direbbe ora). 

 

Queste debolezze strutturali, diffuse e ingravescenti, ostacolano la produzione orale e scritta, e condannano troppo spesso gli alunni al silenzio e alla pagina bianca. Con tutta la frustrazione che ne deriva.

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Lungo la china percorsa da decenni, il laboratorio della pandemia ha segnato indubbiamente un cambio di passo. Dopo l’isolamento forzato e l’esperienza devastante della DAD, alle voragini cognitive si è sommato un pregiudizio psicofisico generalizzato: gli studenti sono rientrati in aula più arrugginiti e inselvaggiti che mai, regrediti, profondamente provati dalla deformazione protratta dei ritmi della loro quotidianità, dalla immersione telematica in apnea, dalla prolungata desuetudine allo studio, dalla espropriazione di quel contesto vitale, fisico e partecipato, che la classe costituisce in modo infungibile.

 

Il rapporto UNESCO del 2023 che esamina gli «effetti avversi» della chiusura delle scuole e dell’uso assorbente delle tecnologie educative si intitola significativamente An EdTech tragedy.

 

Insomma, la cattività ha fatto da detonatore a problemi preesistenti. Ma l’esperimento è servito per incrementare, normalizzare e legittimare l’invasione selvaggia del digitale dentro un luogo che, all’opposto, avrebbe dovuto esserne preservato e semmai bonificato. Subito dopo la parentesi emergenziale, le scuole sono state inondate dei soldi del PNRR da spendere in materiale tecnologico (peraltro soggetto a rapidissima obsolescenza) in ossequio a ferree condizionalità e a una tabella di marcia incalzante – la fretta, si sa, è un espediente impareggiabile per azzerare il tempo della riflessione.

 

Dal canto loro, i più giovani hanno guadagnato un alibi istituzionale per avallare la dipendenza dal dispositivo informatico, e pazienza se questo funzioni anche da idrovora di informazioni personali, da braccialetto elettronico, da profilatore, da spacciatore continuo di spazzatura fluttuante nell’etere. 

 

Non occorrono certo studi scientifici particolari – per quanto ce ne siano a bizzeffe, e siano dirimenti – per capire ciò che è autoevidente: ovvero che le funzioni, sia fisiche sia cerebrali, appaltate precocemente a una protesi, peraltro così potente, o sono inibite a priori, oppure si atrofizzano. Peccato che si tratti di funzioni non marginali, ma letteralmente fondanti. 

 

Se già da tempo i libri di testo (ciò che ne rimane) sono sempre più zeppi di immagini (oltre che di errori) e vuoti di parole, e le poche parole sono ridotte a slogan, ora vengono sovente sostituiti dai tablet, e la penna dalla tastiera. Si perdono l’abitudine alla lettura e l’abilità della scrittura, che costituiscono la base ideale e materiale di tutta attività scolastica.

 

Non è un caso che la scrittura, insieme alla grammatica e alle lingue dotte, sia sempre stata fonte di grave imbarazzo per la pedagogia progressiva: i suoi adepti, incantati dalla modalità di apprendimento del primo linguaggio orale (poiché è vero che il bambino impara a proferire le sue prime parole spontaneamente per imitazione), restano intrappolati nell’equivoco che il linguaggio tout court si apprenda spontaneamente, per istinto e senza fatica.

 

Non è così. Già gli antichi avevano capito come il linguaggio umano si dispieghi su due livelli: quello del lessico, cioè il sistema di segni; e quello del discorso, il λόγος [logos]. I γράμματα [gràmmata] –le lettere, ciò che è scritto) sono la struttura elementare, atomica, del linguaggio, il suo elemento indivisibile: stanno dentro la voce – ἐν τῇ ϕων (en té phonè) e rendono la voce significante, intellegibile, appunto in quanto scrivibile. 

 

La scrittura è dunque un atto consapevole e volontario, che richiede esercizio, e che man mano libera il linguaggio dagli errori legati all’imitazione espandendo la sua orbita lessicale e sintattica. 

 

Oggi l’arte dello scrivere a mano – in particolare della scrittura corsiva – non è più coltivata. Insieme alla manualità fine, viene così inibita tutta la vasta gamma di attitudini che si sviluppa esercitandola, a partire dalla memoria – in russo si dice рука помнит [ruka pomnit], «la mano ricorda», per sottolineare come la mente si appropri del concetto anche attraverso il corpo, attraverso la memoria muscolare che passa per la mano. Tra l’altro, la grafia è un connotato unico e distintivo del suo autore e il toglierla di mezzo a scuola rappresenta una via maestra verso la spersonalizzazione e l’omologazione. 

 

A ben vedere, la scrittura è uno degli elementi in cui si radica la distinzione tra uomo e animale. L’argomento è stato approfondito dal prof. Agamben nel suo recente saggio La voce umana (Edizioni Quodlibet, 2023). Anche l’animale, infatti, possiede un linguaggio. Ma il linguaggio umano, a differenza di quello animale, non è un mero flusso di suoni.

 

Esso consta dell’elemento costitutivo della grafia, che lo sposta da un piano sensoriale a un altro: dal binomio voce-orecchio, a quello mano-occhio. Permette di «vedere la voce», di leggerla. Più in generale, permette di oggettivare la lingua, di articolarla e, quindi, di dominarla. Separandola da sé, l’uomo ha fatto della sua lingua uno straordinario strumento di conoscenza, proprio perché con lo scritto può lasciare traccia di sé: può fissare il suo messaggio e, fissandolo, può tramandarlo.

 

Alla luce di questi pur sommari rilievi, non si può non pensare a quali ricadute abbia il togliere di mezzo a scuola il magistero e l’esperienza della scrittura, la consuetudine col segno e con il processo di astrazione che al segno è collegato; e l’esercizio della parola, che è simbolo – da συμβάλλω [symbàllo], «unisco» – , ciò che appunto unisce l’uomo sia alla cosa significata, sia ai suoi simili coi quali la condivide.

 

Il danno che si causa negando tutto questo si misura anche se si considera come tanto per l’apprendimento della lingua materna quanto per quello del linguaggio matematico (è dimostrato chei due sono intimamente correlati) esista una finestra temporale di opportunità, un periodo dentro il quale la natura ha posto una particolare sensibilità a fissare i segni e i suoni, ovvero le parole e la musicalità della lingua, a stamparli nella memoria. Passata questa fase, diventa difficile recuperare il terreno perduto.

 

E ancora, a proposito di lingua madre – e della acquisizione graduale della capacità di dominarla, di modularla, di distinguerne i diversi registri, di scoprire in ogni lemma uno scrigno di senso e di saperci mettere mano –, si pensi per contrasto alla moda del CLIL (che consiste nell’insegnamento in inglese delle materie diverse dall’inglese), una metodologia introdotta dalla «buona scuola» e oggi spinta con valanghe di denaro dal PNRR insieme all’alluvione digitale. Essa rappresenta uno straordinario veicolo di erosione della nostra lingua (e della civiltà che vive dentro la sua lingua) e un micidiale strumento di colonizzazione linguistica: costituisce un avallo alla superficialità e approssimazione espositiva e, di riflesso, contenutistica. È la rivincita del maccheronismo.

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Si diceva anche del fattore tempo, nel senso che ogni tipo di apprendimento ha il suo momento ideale. Ma non solo. Ogni apprendimento richiede un congruo tempo di assimilazione: la strada lenta e paziente della formazione non ammette troppe scorciatoie. Sempre per contrasto, si pensi allora all’altra moda della riduzione a quattro anni delle scuole superiori, come se ciò che si è sempre studiato in cinque anni, integrandosi peraltro a un percorso di crescita e maturazione complessive, possa essere strizzato e ingurgitato in quattro. Un po’ come la storia del letto di Procuste. 

 

C’è un simpatico passaggio di Proclo, che è la fonte principale su cui si fonda la storiografia di Euclide: è Proclo a collocare Euclide al tempo del primo Tolomeo e a dirci che fu discepolo di seconda generazione di Platone. Egli, nel suo Commento a Euclide (II, 68) scrive: «…si racconta che Tolomeo una volta gli chiese (chiese a Euclide, ndr) se non ci fosse una via più breve degli Elementi per apprendere la geometria; ed egli rispose che per la geometria non esistevano vie fatte per i re». 

 

Anche la matematica è un linguaggio che si nutre di segni, di scrittura, di parole, di astrazione. 

 

Oggi l’enfasi sugli STEM implica, e allo stesso tempo induce, una contrapposizione del tutto pretestuosa tra materie scientifiche e materie umanistiche; nell’orizzonte pedagogico asfittico di cui si è detto finora, la matematica, la fisica e le scienze sono degradate a mera pratica laboratoriale e sottratte all’astrazione e alla teoria; quando invece – non meno della filologia o della storia – sono anch’esse forme del contegno teoretico.

 

Fausto Di Biase, che è un matematico, spiega: «Avere abbandonato lo studio serio della geometria euclidea e avere giovani immersi nella dimensione puramente visuale a discapito di quella simbolica e verbale, a discapito in particolare del ragionamento ipotetico deduttivo che esige il rigore della dimostrazione, ecco, tutto questo già significa essere “anti-matematici”». 

 

Abolendo la prospettiva storica dei saperi, si recidono le radici, indissolubilmente intrecciate, della matematica e della filosofia, delle scienze, dell’arte e della letteratura; radici che affondano nello stesso humus, fertile e geniale, nel quale vissero Pitagora, Anassimandro, Platone, Euclide, Archimede.

 

Esiste quindi un legame inscindibile tra linguaggio e pensiero, tra categorie grammaticali e categorie logico-filosofiche. La stessa matematica, come si è visto, è impensabile al di fuori del linguaggio e di categorie logico-filosofiche. E le nostre strutture grammaticali – sempre per via di quelle ascendenze – riprendono la terminologia aristotelica: per noi, cioè, l’alfabeto del pensiero sono le categorie della lingua greca. 

 

Non è un caso che da tempo si cerchi di uccidere il liceo classico, dipinto come una sorta di monumento all’inutilità da svecchiare e professionalizzare con curvature fantasiose e altre improbabili trovate. Ce la faranno, probabilmente, ad ammazzarlo. Il colpo di grazia sarà inferto dall’orientamento vincolante, prossima barbara frontiera, semplicemente perché non vi si orienterà più nessuno, e così morirà per asfissia. 

 

Perché sarebbe un delitto? Perché il liceo classico possiede l’esclusiva dello studio della lingua greca, chiave di accesso a un deposito di pensiero e di sapere irrinunciabile. Al miracolo compiuto dai greci noi dobbiamo non soltanto modelli letterari eterni, ma anche la matematica sistematizzata da Euclide, la scienza della natura dell’epoca l’ellenistica, la filosofia di Platone e di Aristotele. Senza contare che oggi, nemmeno ce ne rendiamo conto ma nel linguaggio quotidiano parliamo greco (oltre che latino) e saper risalire all’etimo delle parole è ciò che permette di usarle comprendendo cosa davvero le abita – ἔτυμος [ètymos] significa «vero, reale».

 

Un esempio tra gli innumeri che si potrebbero fare, giusto per rimanere in tema: il ramo della scienza che si occupa dello studio e della fabbricazione degli strumenti magici capaci di scimmiottare alcune funzioni del cervello umano, è detto «cibernetica». Il κυβερνήτης [kybernètes] è il timoniere. La κυβερνητική τέχνη [kybernetiché tèchne] è l’arte di governare la nave.

 

È il greco a dirci che abbiamo a che fare con un fenomeno di sostituzione al timone della nostra nave: che stiamo cedendo questo timone a una guida aliena, meccanica, che erode la nostra libertà di decidere la rotta, intacca il nostro libero arbitrio, orienta e condiziona la nostra vita nella logica di un controllo sempre più penetrante e pervasivo. 

 

Ecco perché il primo dei servizi che la scuola dovrebbe onorare, a maggior ragione di fronte all’irruzione di tecnologie tanto sofisticate e invadenti (di fronte al sempre più aggressivo non-pensiero algoritmico), è proprio quello di coltivare il linguaggio, chiave di accesso a un patrimonio inestimabile (e indisponibile) di scienza, arte, letteratura, che non va certo ascritto semplicisticamente alla categoria del passato, bensì a quella del durevole, dell’eterno. 

 

Senza la parola infatti non c’è comunicazione, col suo valore catartico: sapersi esprimere e saper comprendere gli altri è ciò che permette di uscire dal proprio guscio autoreferenziale superando la limitatezza e l’istintività della propria esperienza contingente. 

 

Ma, prima ancora, senza la parola non c’è ragionamento. Nello sforzo di parlare, di leggere, di scrivere, cova il seme della libertà – dove libertà è il sapersi emancipare da visioni settarie e parziali, imposte ab extra, per imparare ad analizzare e interpretare autonomamente la realtà. 

 

Oggi, al contrario, la scuola fornisce contenuti ideologici preconfezionati, oltretutto prescrittivi: tende a imporre stili di vita e modi di pensare conformi, impartisce lezioncine morali sottoforma di educazioni omologate. Si fa ripetitore dei media, appropriandosi degli stessi slogan, della stessa iconografia, degli stessi codici corrivi. Così, oltre a svuotarsi dei contenuti fondamentali, imbocca una preoccupante deriva autoritaria.

 

Solo recuperando la sua sostanza culturale attraverso l’uso della parola vera, della parola che mantiene la presa sulla realtà che designa (e che è il contrario esatto della barbarie degli slogan), la scuola può tornare a essere vivaio e palestra di libertà, e può restituire ai più giovani, insieme alla cognizione della realtà e insieme al senso delle dimensioni che servono a prendere le misure della realtà – comprese l’altezza, la profondità, la distanza – anche una solidità interiore andata quasi completamente distrutta. Perché, al contrario di ciò che affermano tanti melensi luoghi comuni, l’incapacità della scuola di abituare i giovani a un lavoro impegnativo e sensato esaspera la loro fragilità psicologica.


Il professor Agamben, in un suo articolo del 2023 (intitolato Virgole e fiamme), scrisse tra l’altro: «Gli uomini hanno nel linguaggio la loro dimora vitale e se pensano e agiscono male, è perché è innanzitutto viziato il rapporto con la loro lingua. Noi viviamo da tempo in una lingua impoverita e devastata, […] ridotta a un piccolo numero di frasi fatte; il vocabolario non è mai stato così stretto e consunto, il frasario dei media impone ovunque la sua miserabile norma, nelle aule universitarie si tengono lezioni in cattivo inglese su Dante: come pretendere in simili condizioni che qualcuno riesca a formulare un pensiero corretto e ad agire in conseguenza con probità e avvedutezza? Nemmeno stupisce che chi maneggia una simile lingua abbia perso ogni consapevolezza del rapporto tra lingua e verità e creda pertanto di poter usare secondo il suo tristo profitto parole che non corrispondono più ad alcuna realtà…».

 

Infine, non si può non citare l’attacco del Vangelo di San Giovanni: «Ἐν ἀρχῇ ἦν ὁ λόγος, καὶ ὁ λόγος ἦν πρὸς τὸν θεόν, καὶ θεὸς ἦν ὁ λόγος…» («In principio era il Logos, ed il Logos era presso Dio, ed il Logos era Dio…»).

 

E più avanti: «…Καὶ ὁ λόγος σὰρξ ἐγένετο καὶ ἐσκήνωσεν ἐν ἡμῖν…» («e il Logos si fece carne, e venne ad abitare (lett: piantò la sua tenda) in mezzo a noi…». 

 

Per dire che la profondità di quanto sta accadendo sotto i nostri occhi – qualcosa di clamorosamente sottostimato e colpevolmente non indagato – è tale da intaccare il nucleo duro della natura dell’uomo, la cifra stessa dell’umano. 

 

Ecco perché non possiamo rassegnarci alla sostituzione alla guida della nostra nave, ma abbiamo il dovere assoluto di attrezzarci, e di attrezzare chi ci succede, per restare ciberneti di noi stessi e custodire il fuoco – che è il logos, la parola, il simbolo. 

 

I nostri figli, al traino della macchina e immersi nel fumo degli slogan incantatori, rischiano di perdere definitivamente l’accesso al tesoro sedimentato lungo un passato grande e maestro. Ma solo da qui può scaturire un futuro dove ancora brillino la luce della conoscenza e la forza della ragione.

 

Per elevare ad maiora, verso cose più grandi, chi avrà l’onore e l’onere di viverlo.

 

Elisabetta Frezza

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