Pensiero
Memorie dal sottosuolo ebraico
Anche quest’anno è giunto il «giorno della Memoria». Si chiama così, senza che sia specificato di cosa: gli altri dì dell’anno, forse sono senza memoria, pare il messaggio degli organizzatori. Oppure che questa è una memoria più importante delle altre?
È una memoria che non si può lavar via, che va fissata in mondo indelebile: le altre memorie sono RAM, mentre quella dell’«olocausto» – altra espressione generica assai, che sposta via tanti altri significati, compresi quelli della religione cristiana – è decisamente da hard disk.
Dal mio disco rigido quindi, quest’anno voglio estrarre un po’ di memorie assortite sull’argomento. Mi sblocco un po’ di ricordi personalissimi, così, per cercare di stare in linea, per una volta, con una giornata mondiale.
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Io ho memoria, innanzitutto, di una cosa accaduta ieri l’altro. Mio figlio, 8 anni, ha sentito in una conversazione l’espressione «campo di concentramento» e, pur non sapendo esattamente cosa volesse dire, mi ha chiesto di «Teresen. Teresin…».
«Theresienstadt...?» gli ho chiesto sbalordito.
«Sì, quello».
«E dove lo hai sentito?»
«A scuola…»
Scopro così che, dopo il lavaggio di cervello sul caso Cecchettin, qualcuno in classe ha parlato ai bambini dello sterminio degli ebrei, cosa del quale, almeno lui, ha potuto capire fino ad un certo punto. Come sappiamo, non è importante: quello che conta è che il discorso pubblico venga sfogato, e che qualche parola chiava («Theresien…» «Auschw…») entri nei giovani cervelli, e anche solo qualche sillaba va bene.
Scopro così che l’assessore regionale all’istruzione Elena Donazzan ha inviato una lettera aperta alle scuole del Veneto:
«Vi invito, anche quest’anno, in occasione della Giornata della Memoria in ricordo delle vittime della Shoah, come comunità educante del nostro Veneto, a ricordare degnamente questa data simbolo della persecuzione dell’odio nei confronti degli ebrei. Purtroppo la battaglia all’antisemitismo non è ancora compiutamente vinta perché il seme dell’antisemitismo continua a riemergere con molte facce e strumenti diversi. È una battaglia che soprattutto nella scuola dobbiamo affrontare trovando la più ampia diffusione tra le nuove generazioni così da costruire gli anticorpi contro l’odio antisemita. L’odio, nei confronti del popolo ebraico e contro lo Stato di Israele, è un dramma che ancora oggi si perpetra nel mondo».
Sono parole che, scrive il messaggio, l’assessore aveva usato anche l’anno scorso, ma che ha copincollato anche quest’anno perché «purtroppo, ancora più attuale dopo i fatti del 7 ottobre 2023 da parte del terrorismo islamico con l’obiettivo di colpire lo Stato di Israele».
«Si assiste ad un dibattito pubblico acceso e polarizzante ed è quanto mai necessaria una riflessione in ordine ai pericoli di un rinnovato odio nei confronti degli ebrei, che si è caratterizzato recentemente per episodi di estrema violenza anche nel nostro territorio, come accaduto a Vicenza in occasione di un recente evento internazionale ove partecipavano degli espositori israeliani. Episodio esecrabile che ha visto la giusta condanna da parte di tutte le forze politiche e che non deve ripetersi grazie all’apporto culturale garantito dalle nostre scuole».
«Il 27 gennaio è ancora più importante difendere la democrazia e la libertà».
La democrazia e la libertà coincidono con lo Stato di Israele? Non è tanto questo, che colpisce il quivis de populo. Ma scusate, la Donazza non è quella che la sinistra accusava di revisionismo? Non è quella che avrebbe cantato «faccetta nera» per radio a La Zanzara? Insomma quella considerata di destra, tanto di destra?
A fine anni Ottanta, la Donazzana fu presidente provinciale vicentina del Fronte della Gioventù, il movimento giovanile del MSI. Qui si sblocca un ricordo dell’era almirantiana: com’è, che ad un certo punto, i missini – tra i quali nel 1979 si candidò anche il marito della senatrice sopravvissuta ad Auschwitz Liliana Segre – presero a difendere lo Stato Ebraico? Sì, è successo. Si disse: è perché l’URSS difende i palestinesi (certo: dopo essere stato il primo Paese a riconoscere Israele, e a tenersi in pancia e fuori caterve di ebrei russi). Anzi no: è perché Israele è uno stato militarista, uno stato etnico – il motivo per cui piace pure al Battaglione Azov, che lo dice ufficialmente (e non scherziamo).
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Sarà quello? Mboh. Intanto io sblocco quella memoria, così per capire come le «lettere aperte» istituzionali dalla fiamma arrivano fino alla mente di mio figlio.
Quello degli ebrei a scuola è un tema ciclico e risalente. Dall’hard disco personale ripesco un giorno di più di un quarto di secolo fa, un sabato pomeriggio, sono da solo in un bel bar dentro una rara casetta liberty, di solito andavo lì alla sera per gli amici e le ragazze ma il pomeriggio, quando non c’è nessuno, c’è grande pace, e lo spritz lo pagherò 1000 lire (fate voi i conti – comunque era un posto costoso, nel baretto successivo della via il prezzo era 500 lire).
I tizi del locale sono di sinistra: ecco che sul bancone spunta Repubblica, giornale che leggo con avidità. Mi colpisce un grande editoriale, un articolone, un’articolessa, si intitola «Io professore fallito». Mi fiondo a leggerlo, perché fiuto subito la voglia del quotidiano di vellicare questa parte consistente del suo pubblico, gli insegnanti di scuola, medie, elementari, superiori, università, che vuolesi ceto medio riflessivo ma è soprattutto casta statale sempre in cerca di qualcuno che riconosca quanto bravi, intelligenti sono – e soprattutto dire quanto, ancorché talvolta tristi ed incompresi, quanto sono necessari al Paese.
Il pezzo è tutto un racconto intimo di dettagli personali anche poco significanti (tipo l’articolo che state leggendo). L’autore racconta di aver portato i suoi studenti a vedere un film in un multisale di una città del Lazio. Si tratta di Train de vie, una pellicola sull’Olocausto però con allegra musichetta balcanica alla Bregovic (quella che, anni dopo, Elio e le Storie Tese dissero solennemente che «ci ha rotto i…»): «un film straordinario, geniale, capace di ribaltare da un’inquadratura all’altra ogni ruolo e di guardare alla tragedia della Shoa [sic] con uno sguardo obliquo, ironico, poetico, in modo diverso (perché diverso è lo stile) ma analogo (per una vicinanza poetica tra i due autori) a La vita è bella di Benigni» scrive il professore nella mirabile infilata iniziale.
«Io non l’avevo mai visto prima e mi sono emozionato, gli alunni in gran parte si sono annoiati. A un certo punto mi sono dovuto alzare per andare ad azzittire un gruppetto di ragazzi che dalle prime file continuava ad alzare grida di “Heil Hitler!”» racconta con amarezza.
«Nell’intervallo sono andato al bar, fuori dal cinema, a prendermi un caffè. Vicino a me c’era il proprietario del cinema. Io l’ho riconosciuto, lui no. È un uomo sulla sessantina, uno di quegli ex malandrini talmente narcisisti da non riuscire a memorizzare un solo volto. Ne ho conosciuti a migliaia. Sono talmente concentrati sulla loro vita che tutto il resto non solo lo ignorano, ma faticano a considerarne l’esistenza. Sono perfino comici, certe volte, perché a un occhio inesperto tanta pienezza di sé, e senso dell’esclusione, può confondersi facilmente con un rincoglionimento da macchietta».
Diciamo di non sapere se, dopo la pubblicazione, sia partita una denuncia per diffamazione: ci starebbe. Ma si va avanti:
«Il barista gli ha chiesto se nel cinema ci fossero i ragazzi della scuola, e lui ha riposto di sì con la testa, appoggiando la tazzina del caffè alle labbra protese. Poi l’altro si è informato sul film che stavano proiettando. Allora lui ha mandato giù il caffè inghiottendo sonoramente, ha fatto schioccare la lingua, ha infilato una mano in tasca, ne ha estratto un mazzo di biglietti di vario taglio, ha sfilato con la punta di indice e pollice una banconota da mille, l’ha allungata alla cassa e infine ha risposto: – Un treno per vivere, ‘n’antra stronzata sull’ebbrei».
Ecco: «‘n’antra stronzata sull’ebbrei». Scritto proprio così: «sull’ebbrei». La frase romanesca mi è rimasta impressa nella memoria per anni, e non manca di farmi ridere ancor’oggi.
Ricercando questo mirabile testo, ho appreso che l’autore non era solo un professore, ma anche uno scrittore – specie nota in Italia, i docenti di scuola pubblica che gliela fanno a farsi fare il giro in giostra con il grande editore, e conseguentemente con qualche saletta di libreria o circolo Arci riempita di loro simili e tesserati PCI-PDS-DS-PD che per una sera si fanno convincere ad uscire di casa rinunziando al film su Rete 4. Si chiama Sandro Onofri, purtroppo sarebbe morto poco dopo la pubblicazione dell’articolo per cancro al polmone.
Lo scrittore e poeta e insegnante, ci chiediamo, come si sarebbe sentito quando, sugli stessi canali della grande sinistra e dell’establishment che ospitavano il suo sdegno per la mancanza di devozione olocaustica, anni dopo sarebbero apparsi peana al battaglione Azov? Quando la sinistra mondiale e il suo padronato borghese slatentizzato avrebbero fischiettato davanti a svastiche e lettere runiche, e anche a certi video recenti di supposte persecuzioni degli ebrei in Est Europa?
Davanti a chi gli avrebbe mostrato l’orrore nazista vivo e vegeto, e armato e finanziato dal contribuente italiano, avrebbe detto: «‘n’antra stronzata su Hitleh»…?
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Sblocchiamo un ricordo più recente. Il lettore deve sapere che mesi fa, molto prima dell’efferata strage di Hamas del 7 ottobre, Renovatio 21 aveva in canna un editoriale che parlava della Finestra di Overton che si stava aprendo riguardo l’antisemitismo. Il pezzo non fu prodotto e pubblicato, e mal ce ne incolse: ci avevamo, come sempre, ragionissima, e poco dopo avremmo visto l’odio per gli ebrei divenire mostruosamente mainstream con il cortocircuito attuale, dove in USA università e giovani della Generazione Z (più o meno goscisti, ma tutti, comunque, «fluidi», woke e nichilisti) arrivano a giustificare e persino celebrare i massacri contro gli ebrei (e ad esaltare le epistole del Bin Laden).
L’articolo che volevamo scrivere partiva dalle sparate del rapper Kanye West, che di colpo aveva cominciato a fare discorsi sugli ebrei piuttosto puntuti. Intervistato da Tucker Carlson, l’uomo – che è bipolare e miliardario, e popolarissimo – si era contenuto.
Poi, presentatosi in Texas da Alex Jones vestito tipo lo «storpio» di Pulp Fiction (una maschera nera che gli copriva il viso che forse veniva dalle sue frequentazioni con Balenciaga, marchio con cui ha collaborato molto), aveva spalancato tutto: lodi a Hitler, responsabile anche dell’invenzione dei microfoni, e attacchi diretti, nome e cognome, a Ari Emanuel, figlio di un terrorista sionista dell’Irgun e uomo più potente di Hollywood (e della TV, e della UFC, e chissà di cos’altro), fratello del capo di Gabinetto di Obama Rahm Emanuel (ora controverso ambasciatore in Giappone) e pure di Ezekiel Emanuel, medico e ultravaccinista della Bioetica di governo che va oltre l’eutanasia per chiedere direttamente la rinuncia alle cure per le persone oltre i 75 anni.
Anyone remember this? 👇
Ye on Infowars with Alex Jones talking about Netanyahu.#Netanyahu #InfoWars #AlexJones #KanyeWest #Ye pic.twitter.com/LqhPwHVVYX
— 🦍Sno™️🥶 (@vrotocol) January 20, 2024
L’intervista del Jones con questo tizio mascherato era a dir poco incredibile: i discorsi sugli ebrei che faceva Kanye, che per qualche ragione ora vuole contrarre il suo nome in «Ye» – erano semplicemente inauditi in pubblico.
Capiamo anche l’imbarazzo del caso: difficile dire che si tratta del peccato onnipresente della società americana, quel suprematismo bianco che ci devono convincere essere legato al voto a Trump, perché il Kanye è nero.
E quindi: le critiche ferali sui potentati ebraici stavano diventando mainstream…? Certi discorsi, erano relegati all’underground dei lunatici.
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Un attimo, mi si sta bloccando un altro ricordo: sono a Nagasaki, la città più bella del mondo, tanti anni fa. Vicino alla stazione dei treni, tra la baia e i monti verdi, dopo un grande ballatoio che ti fa camminare sopra le strade, c’è un imperdibile negozio di libri usati. Il mio povero giapponese non mi consente la lettura di testi in presenza di troppi ideogrammi kanji, ma è uno spasso vero per il bibliofilo ammirare l’arte libraria nipponica: la tipografia, la consistenza della carta, il design delle copertine… anni dopo, alla Fiera di Francoforte, mi sarei fatto amico produttori di libri locali solo per sentire la passione con cui descrivono questo lavoro.
Tra i libri che sfoglio nella città del mio pellegrinaggio atomico, uno attira la mia attenzione: si chiama «Zionist Underground Conspiracy», o qualcosa del genere, ma non credo che parli davvero di complotti sionisti del sottosuolo: forse è un libro che parla di jazz, o di avanguardia letteraria, non lo ricordo, non lo so, perché, da mòna, lo sfogliai e non lo comprai.
Epperò è vero che c’è da chiedersi come i giapponesi vivano ‘sto «Giorno della Memoria». Messi giapponesi partecipavano alle «conferenze» razziali nella Germania nazista, dove cercavano di convincere tutti che i cinesi sono gli ebrei d’Oriente: ne parlava anche molto scandalizzato, Julius Evola nei suoi racconti di quegli eventi.
Ecco che scatta la voglia di rammentare il Fugukeikaku, l’«operazione fugu»: a forza di sentire i tedeschi lamentare delle incredibili capacità di controllo economico degli ebrei, i giapponesi, molto pragmaticamente, si erano detti: ma scusate, ma perché non sfruttiamo questa loro competenza? Pianificarono quindi di portare quantità di ebrei in Manciukuò, lo Stato fantoccio che il Giappone Imperiale aveva creato in Manciuria (lo potete vedere nel film L’Ultimo Imperatore).
Il fugu è una pietanza nota ai lettori di Renovatio 21: il pesce palla è cibo prelibato, che ha ucciso, vogliamo rammentarlo spesso, Bando Mitsugoro VIII (1906-1975), un attore che aveva il titolo di Ningen Kokuho, «tesoro nazionale vivente». Il pesce va preparato con una cura assoluta, perché varie parti sono velenose, quindi se finiscono, anche solo in parte in bocca al cliente del ristorante (che deva avere una licenza speciale per offrirlo nel menu), c’è la morte. L’attore patrimonio vivente morì dopo averne mangiato una quantità, una sfida al fato stile roulette russa ittico-venefica.
Ebbene, quei capoccia militari nipponici che idearono il Piano Fugu riconoscevano che l’importazione di ebrei poteva essere fatale al Paese. Per capire la situazione necessitiamo di una certa dose di elasticità, che è quella che serve spesso a contatto con le mentalità orientali. Cionondimeno, alcuni trovano la cosa talmente bizzarra da essere divertente.
Secondo alcuni, l’operazione fugu permise a molti ebrei di salvarsi dallo sterminio cui andavano incontro in Europa: il fugu come Schindler, come Perlasca. Tuttavia, non ci sembra che nemmeno quest’anno, nella pletora di contenuti olocaustici piombati per il «giorno della memoria», il pesce palla abbia trovato il suo posto. Ricordiamo pure, en passant, che in quello stesso 1934 Stalin creò ai confini della Manciuria l’oblast’ degli ebrei, una provincia autonoma estremo-orientale solo per giudei, che è peraltro ancora esistente. Anche il baffone… aveva concepito un suo piano fugu?
Vabbè, rimane il fatto che questo «underground sionista» di cui parlava quella copertina di libro a Nagasaki non ho capito cosa sia.
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Un attimo, si sblocca un ulteriore ricordo, recentissimo. È un altro articolo che non siamo riusciti a scrivere, forse per mancanza di tempo, forse perché inebetiti dalla questione, che toglie il fiato e le parole pure…
Sapete cosa è successo a Brooklyn. Avete visto nitidamente quelle immagini sconvolgenti… sotto una sinagoga degli Chabad Lubavitcher (avete presente: sono quelli con la barbona, i riccioletti palandrano, il capellazzo a tutte le stagioni, quelli che sarebbero dietro a Milei, anzi davanti, perché mica la cosa è più nascosta), hanno trovato dei tunnel sotterranei, scavati dagli stessi ebrei ortodossi.
🧵
The Israeli students in question tore down the walls, started a riot with the police, and protested inside the tunnel. 10 people have since been arrested and the buildings are closed to the public. pic.twitter.com/hEuACCQYVi— CueBacca (@CueBacca17) January 9, 2024
I giornali mainstream americani, quelli filoisraeliani, magari pure con famiglie ebree come editori, hanno dovuto titolare proprio così: «Jewish Tunnel in New York City».
Ci siamo stropicciati gli occhi diverse volte, e dato tanti pizzicotti. La faccenda è che ci sono le immagini, che sono semplicemente pazzesche. La polizia che scopre i tunnel, o cerca di murarli, e la torma di ebrei hassidici – tutti uguali identici – che scatenano la rivolta: lasciateci le nostre strutture segrete sotterranee.
🚨Riot Unfolds as NYPD Responds to Discovery of Underground Tunnel in Brooklyn Temple
Currently, numerous law enforcementare at the scene of a riot at the Chabad headquarters in Crown Heights, Brooklyn, where individuals tore wooden panels to… pic.twitter.com/JwttELX5ya
— The Truth Hammer #ProjektJncojok💯🇺🇸🐸⭐️⭐️⭐️🍑 (@TruthHammer1776) January 10, 2024
Il podcaster Tim Pool la ha detta giusta. Mostrando il filmato che mostra incontrovertibilmente un signore ebreo che esce da un tombino in strada (!?!) ha considerato: «pensa di essere senza il video, e dover descrivere questa scena a qualcuno».
Hasidic Jew seen crawling out of sewer after NYPD busts Chabad tunnel network under New York City.
Follow: @AFpost pic.twitter.com/hJurb2Cc4Q
— AF Post (@AFpost) January 9, 2024
Effettivamente, il racconto di tale realtà fotografica in Italia potrebbe essere materia da legge Mancino.
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Ebrei che operano nel sottosuolo? Ebrei che costruiscono tunnel sotto le città? Credo che nell’antisemitismo a cavallo tra XIX e XX secolo fosse venuta fuori pure una storia del tipo che gli ebrei erano dietro la costruzione della metropolitana, perché da sotto terra sarebbe stato più facile, poi, farle cadere a suon di terrorismo (non ricordo dove ho letto questa cosa, ma immagino la facilità con cui il complottaro antisemita ottocentesco poteva arrivare a simili idee).
Bisogna capire che il sotterraneo è la proiezione psicospaziale del complottista di bassa lega: se sentite qualcuno che improvvisamente vi parla di tunnel segreti sotto la vostra città, qualsiasi essa sia, siete in presenza spesso di cospirazionista domofugo, cioè scappato di casa, cioè inattendibile e perdigiorno: perché chi vuole sempre credere ad un lato occulto della realtà, se pensa a dove vive, ci proietta subito una parte invisibile, che non può che essere sottoterra.
Poi però arrivano queste immagini.
Scusate, ma cosa sono quei materassi? È vero che sono materassi delle dimensioni dei letti da bambini? E cosa sono quelle macchie? E quel seggiolone…?
Stop it stalker! Go home or go find a tunnel in NY to hide or at least clean your mattress 💩 pic.twitter.com/0B0gJFQ0LA
— Maged (@MagedMorsy) January 26, 2024
The first video of those moments has emerged.❗️❗️❗️
Recently, Jews who dug tunnels under #NewYork to an underground synagogue were exposed.
Bloody beds, baby high chairs and cutting tools were found in the tunnel. pic.twitter.com/YmZcQ0FcRr— J.Mırror🇵🇸 (@J__Mirror) January 13, 2024
Im trying get this straight. Some unmarried Jews dig a tunnel, for an “unexplained” reason. The tunnel contains baby high chairs and stained mattresses. Wtf is going on here? Could it have to with this scandal? https://t.co/okKMRv37F5 pic.twitter.com/dbX28giXlm
— The Man from the North (@Curtis39873882) January 9, 2024
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Risposte che mica arrivano con facilità. Tuttavia vari media hanno tentato di spegnere il fuoco con getti di teorie rassicuranti: va tutto bene, i tunnel erano per allargare la sinagoga. Allargare la sinagoga, sottoterra?
Ma no, i tunnel servivano a collegare la sinagoga con altre sinagoghe, o centri, o case, della zona. Ma perché scavare una galleria sotterranea illegale per farlo?
Ma no, tutto OK, in verità sappiamo che gli ebrei di Nuova York si erano opposti eroicamente al lockdown COVID del sindaco e del governatore, servivano quello… ma scusate, non è stato detto che i tunnel sono stati fatti l’anno scorso o poco prima, a restrizioni pandemiche morte?
Ma no, si tratta di mikvah, bagni rituali, quelli che si usano ritualmente per le donne ebree quando hanno il mestruo, solo che qui sono fatti per gli uomini… ma scusate, gli uomini hanno le mestruazioni? In USA anche sì, tuttavia è difficile che siano gli ebrei ortodossi a crederlo. Quindi: mikve rituali per purificare i futuri rabbini dal loro ciclo? Machedaverodavero?
Un comico su YouTube fa la battuta: il segno davvero apocalittico della situazione è il fatto che si sono visti dei giovani maschi ebrei ortodossi fare lavori manuali. Umorismo tutto neoeboraceno, dove è noto che di queste centinaia di aspiranti, solo il 2% diverranno rabbini, e gli altri saranno sistemati in qualche lavoro avulso dal lavoro materiale come la tratta dei diamanti in triangolazione con Anversa, Tel Aviv e forse qualche parente piazzato sopra una remota miniera africana.
Un altro dice: dopo questa cosa, la nostra vita è in discesa. Come faranno a chiamarci ancora complottisti? A deridere chi dice che la realtà, forse, non è quella che vediamo in superficie?
Qualcuno del giro QAnonista tira fuori dei disegni di artisti che, dicono, sarebbero nelle collezioni artistiche dei fratelli Podesta, che non capiamo bene come possano c’entrare qualcosa qui, ma sono inevitabili rigurgiti del Pizzagate.
It’s possible John Podesta’s artwork came to life yesterday.
There is absolutely zero reason for a child size mattress should be soiled and kept in an illegally constructed tunnel under a synagogue in NYC.
ZERO!!!! pic.twitter.com/12PcnMvEXP
— Teresa (@pepedownunder) January 10, 2024
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Altri ricordano più concretamente una pagina del sito internet dell’ADL. L’Anti Defamation League è il potente ente creato per combattere i discorsi antisemiti, anche schedando chiunque possa produrne anche solo echi lontani.
Nata – e collegata, secondo E. Michael Jones, al giro della mafia ebraica – per contrastare una fiammata di antisemitismo quando una 13enne di Atlanta fu trovata morta stuprata, l’ADL negli anni è passata a tacciare quantità impressionanti di persone di razzismo e di deviazione dai dogmi del politicamente corretto, arrivando di recente ad attaccare persino Elon Musk.
Il lavoro certosino di censimento di ogni possibile idea eterodossa da condannare perché pericolosa, aveva portato l’ADL a scrivere anche di una credenza detta «Mole/tunnel children», circolante fra i gruppi QAnon.
«Durante i primi mesi della pandemia di COVID-19, il governo ha allestito un ospedale improvvisato nel Central Park di New York. Allo stesso tempo, la Marina degli Stati Uniti ha inviato volontariamente in città la nave ospedale USNS Mercy per aiutare gli ospedali traboccanti» scrive il sito dell’ente di censura ebraico. «QAnon ha affermato che le tende a Central Park erano lì per nascondere buchi nel terreno che sarebbero stati utilizzati per salvare i numerosi bambini presumibilmente trafficati nei tunnel sotto il parco. Questi bambini salvati sarebbero stati portati alla USNS Mercy. Questa teoria ha guadagnato ulteriore popolarità perché la linea Q della metropolitana corre sotto il parco».
Diciamo che questa scheda che deride chi crede in tunnel segreti e traffici di bambini è invecchiata male – specie considerando che proviene da un’organizzazione, l’ADL, fondata nel 1913 dall’ordine giudeo-massonico B’nai B’rith.
E quindi… quei tunnel cosa sono? L’FBI, che ha programmi per infiltrare i pericolosi cattolici della messa in latino, sta indagando?
Non è che avremo risposta, lo sappiamo. Ci rimane l’immagine degli ebrei che escono dalle fogne, come le tartarughe ninja mutanti del vecchio cartone che un trentennio fa impazzava negli USA e anche un po’ in Italia.
Tuttavia, sblocchiamo un altro ricordo nel giorno memoria personale.
Sono in India, è il tardo autunno 2005. Sono ad Auroville, una stramba cittadina dove abitano in larga parte occidentali seguaci del filosofo e attivista separatista indiano Sri Aurobindo, delle cui stranezze magari parliamo un’altra volta. La mitica Marta, l’amica che ci ospita ci porta ad una sorta di festicciola sulla spiaggia, è notte, e l’Oceano Indiano scroscia nel buio più totale. Ad un tavolo ci sono dei ragazzi che mi presentano. Uno ha la pelle ambrata, il volto simpatico, ed è intento a prepararsi una sigaretta esotica. Capisco subito che si tratta di un israeli chilum smoker, espressione con cui gli indigeni indiani definiscono la massa di giovani israeliani che si abbattono costantemente sul subcontinente.
In pratica funziona così: in Israele fai tre anni di naja tremenda, dove di fatto non è che ti annoi in caserma, vai praticamente in guerra. I ragazzi (e le ragazze) sono talmente distrutti dall’esperienza che l’immediata reazione, già durante il servizio, è quella di convertirsi alla musica elettronica di tipo trance e all’uso di droghe sintetiche – insomma, il mondo dei rave, che ha fatto da teatro alla strage iniziale del 7 ottobre, con i parapendii motorizzati di Hamas a planare sul festival del ferale massacro nel deserto.
Finito il militare, ai giovani israeliani non bastano più i festoni locali – cercano uno spazio di decompressione in terre lontane per continuare a drogarsi ed ascoltare musiche para-spiritualiste, almeno per un po’, almeno prima di entrare finalmente all’università. L’India è la meta favorita per questo tipo di lavoro: qui trovano un certo senso di libertà, una qualche cifra spirituale orientale (che magari non intacca il loro ebraismo, secolare o no che sia, ma che è presente) e magari pure la cannabis che cresce in ogni angolo.
Quella sera avevo voglia di saperne di più. Il ragazzo stava davanti a me, e quindi sono partito con le domanda.
«Quanti passaporti hai?». Due. Uno era di un Paese UE che non avrei detto.
«Hai fatto il militare?». Sì, tre anni. L’ha fatto tutto. Ora stava decidendo dove, nel mondo, andare all’università.
«Hai mai ucciso un uomo?» chiedo a bruciapelo.
Lui, noto, cerca di non reagire d’istinto. Solo per un secondo, ferma il rollaggio.
«Sì» mi dice facendo come un sorriso, che però non è un sorriso. I suoi occhi dicono altro. Poi il sorriso finisce, lo sguardo gli diventa più controllato, razionale.
«Stavo in un carrarmato. Di notte, ho visto sullo schermo uno che scendeva dal muro. Una volta a terra, a cominciato a camminare così, come per non essere visto… combat walking»
«Ho chiesto al mio superiore se sparare. Lui mi ha detto di sì. L’ho fatto. In seguito sono stato premiato».
A questo punto il ragazzo israeliano accende. È chiaro che ci ha pensato mille volte. È chiaro che vuole dimenticare. È altrettanto chiaro, tuttavia, che non sa ancora cosa pensare, come sentirsi. O almeno, sa di non poterlo esprimere, forse nemmeno a se stesso: sia dentro stia venendo macinato, sia abbia invece il nulla.
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Ultimo ricordo di ebrei dal sottosuolo della mia mente, sempre con ambientazione indica, questa volta più leggero.
Estate 2010, sono a Dharamsala, la capitale del governo tibetano in esilio, residenza del Dalai Lama, eterna meta di pellegrinaggio di buddisti e divorziate a go-go. Sono con un gruppo di amici, cinque italiani e cinque indiani e indiane; abbiamo appena attraversato l’Himalaya in moto, siamo all’ultima tappa prima di tornare a Delhi.
Siamo esausti: in un passo a 5000 metri di altitudine metà della ciurma è caduta vittima del mal di montagna, e attorno a noi c’era il nulla, il deserto himalayano per chilometri di burroni sulla strada più pericolosa del mondo. A Leh, città più a Nord dell’India, avevamo visto come l’altitudine arrivi nei polmoni impedendoti quasi di fare le rampa di scale. A Lamayuru, un luogo sperduto vicino ad un monastero lamaista, eravamo finiti in un Overlook Hotel dove una ragazza finlandese sembrava intrattenere indiani a caso, in un contesto spettrale raccapricciante. A Sri Nagar, in Kashmir, sembrava che ci potessimo riposare: ed ecco invece che, di notte, viene nella nostra stupenda house boat che galleggia intarsiata sul lago Dal la polizia con il tizio che ce l’ha affittata, e ci dicono, apertis verbis, che è meglio se prendiamo le moto e fuggiamo via, perché per l’indomani era prevista una rivolta musulmana, cosa a cui qualcuno di noi pure pensava perché arrivando c’erano soldati armati di kalashnikov ogni cinquanta metri: ecco che sgommiamo impanicati, mentre prima dell’alba partono dai minareti suoni che si mischiano in un rumore che domina la valle e che sembra sul serio uscito dall’inferno.
Quindi, siamo a Dharamsala, qui bisogna riposarsi. Ce lo meritiamo. E se non trovi pace nella capitale del buddismo internazionale (almeno secondo Hollywood), dove la vuoi trovare? Gli israeli chilum smokers ci sono anche qui, ma ci sono tanti altri foreigner. La presenza israeliana era stata una costante in tutto il viaggio. Li avevamo visti a Manali, cittadina montana da cui si parte, dove negozi e call center hanno cartelli in hindi e in ebraico, skippando in alcuni casi del tutto l’inglese ed i caratteri latini. Nella valle di Numbra, posto remoto e magico con yak e cammelli d’alta quota da cui l’Himalaya guarda al Karakorum, ne avevamo incontrati una torma, tutti altamente disinteressati a fare amicizia con noi, anche se eravamo gli unici esseri viventi in tutta la zona.
Ecco che esce una rischiosa idea per il meritato relax: da qualche parte, dispersa nelle colline attorno a Dharamsala, c’è… una pizzeria. Proprio così: pur sapendo che stiamo andando incontro all’orrore puro, decidiamo unanimemente di partire alla sua cerca. Non ci si arriva in macchina e nemmeno in moto: bisogna camminare su un sentiero a piedi, dalla fine di un paesino, dove ancora si vede qualche stall, qualche localino dove notiamo lo spalmo di ulteriore presenza israeliana, poi avanti, nel buio, tra le colline. Alla fine, si giunge a questo posto sperduto povero ed indefinibile come la cosa che ci danno da mangiare, ma che ci importa, siamo qui, siamo in compagnia, siamo vivi, siamo sopravvissuti a tutto, siamo sopravvissuti all’Himalaya.
È stato camminando sul sentiero di ritorno che si è manifestata la scena con cui voglio chiudere questo scritto.
«Robi… Robi… vieni…. guarda!»
L’amico mi chiama da distante, ma come sussurrando, agitando le mani in aria. Pure nella tenebra, vedo che sta ridendosela di gusto. Lo raggiungo. Lui mi indica un punto sotto il sentiero, e continua a sganasciare sommessamente.
Allungo gli occhi: nel mezzo del niente, c’era una sorta di piccola struttura residenziale, quasi un condominio, tutto avvolto nell’oscurità. Tutte le finestre mostravano però che dentro c’era vita, le luci erano accese, forse si poteva sentire pure qualcuno parlare, e un lieve tunza-tunza della musica techno-trance in sottofondo.
«Guarda, Robi, guarda in quella finestra!»
A questo punto, vedo: nel caldo paratropicale indiano, nella capitale dei tibetani esiliati, nella notte più cupa ai piedi dell’Himalaya… ci sono, dentro un appartamento, due ragazzi ebrei ortodossi, riccioli, barba, cappello, palandrano, occhiali a fondo di bottiglia – proprio come quelli che a Nuova York scavano i misteriosi tunnel con dentro i materassi. Erano lì che parlavano, chiacchieravano uno metteva la mano sulla spalla dell’altro, sembravano sereni… felici.
Forse a leggerlo non fa effetto, ma assicuro che il cortocircuito di senso – tizi stile video Rock The Casbah dei Clash nell’oscurità asiatica – sul momento mi sconvolse, e non ricordo se risi o piansi, di dolore o di gioia (anche questo, in quel viaggio pazzesco, dovevo vedere).
Ci penso, in questo giorno della memoria, voglio ricordarlo: una delle prove che in effetti gli ebrei, dalla scuola elementare di mio figlio ai sotterranei americani, sono davvero un po’ dappertutto, sono un po’ in ogni cosa, e in modo paradossale – nel momento in cui si parla dei tunnel di Hamas, saltano fuori i tunnel ebraici di Brooklyn, nel giorno indetto per la memoria dello sterminio nazista, vengono accusati di genocidio all’Aia.
Rimane il dubbio: non sappiamo fino a che punto sia lecito, legale, tenere a mente queste cose, e pure scriverle.
Per cui, con le memorie dal sottosuolo ebraico, fermiamoci qua.
Roberto Dal Bosco
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Immagine generata artificialmente
Pensiero
«Preghiera» pagana a Zeus ed Apollo recitata durante cerimonia di accensione della torcia olimpica. Quanti sacrifici umani verranno fatti, poi, con l’aborto-doping?
🗣️ “Apollo, God of sun, and the idea of light, send your rays and light the sacred torch for the hospitable city of Paris. And you, Zeus, give peace to all peoples on earth and wreath the winners of the Sacred Race.”#Paris2024 | @Paris2024 pic.twitter.com/FHMEmJ134U
— The Olympic Games (@Olympics) April 16, 2024
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Pensiero
Foreign Fighter USA dal fronte ucraino trovato armato in Piazza San Pietro. Perché?
È davvero forte il titolo che ha dato ieri l’edizione romana de la Repubblica, il giornale che ha dato la notizia: «Super ricercato Usa arrestato armato durante l’udienza del Papa: “Vengo dal fronte di guerra ucraino”».
«Cosa ci faceva un americano armato come un macellaio a Roma?» si chiede il quotidiano degli Agnelli. «Cosa ci faceva uno dei più pericolosi e ricercati criminali dello Stato di New York, nella top twelve dei “most wanted“, armato sino ai denti a Piazza San Pietro e arrivato direttamente dall’Ucraina? Moises Tejada, cinquantaquattrenne statunitense, negli USA è “classificato come estremamente violento”, così è scritto sul sito del New York State Department of Corrections and Community Supervision’s Office of Special investigations».
Viene specificato che nelle avvertenze è posto un monito preciso: «se lo vedete chiamate subito le forze dell’ordine, non cercate di fermare questi soggetti da soli poiché sono particolarmente pericolosi».
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Il fatto, leggiamo, risale a quasi dieci giorni fa. «I nostri poliziotti, ispettorato Vaticano, l’hanno notato (…) nell’Urbe. Non un giorno qualsiasi, poiché piazza San Pietro era affollatissima per l’udienza generale del Papa».
Poi parte la descrizioni delle doti extrasensoriali delle italiche forze dell’ordine: «Gli agenti senza sapere chi fosse, grazie anche al loro intuito, non gli hanno mai levato gli occhi di dosso, nemmeno per un secondo, fino a decidere di fermarlo e, infine, perquisirlo» continua il quotidiano fondato dal «laico» Scalfari, che pure anche lui qualche visita in Vaticano, nei primi giorni del papa preferito dai massoni, se l’era fatti per intervistare proprio l’inquilino di Santa Marta.
Ma torniamo in Piazza San Pietro, con i poliziotti premonitori. Lo hanno fermato, e «l’istinto aveva dato loro ragione. La scoperta delle armi che hanno trovato addosso all’americano gli ha lasciati interdetti: perché andare in giro con tre coltelli, uno con la doppia lama, da venti centimetri ciascuno? Per farne cosa?»
Già, una bella domanda. A cui epperò mica nessuno vuole dare risposta, neanche ci prova. Qualche giornale di destra, a denti stretti, ha provato a parlare di «segnale», ma buttandola là.
Quindi: un criminale americano super-ricercato, violentissimo, che dal fronte ucraino finisce, armato di coltelli, in Vaticano. Non abbiamo idea del perché. Interessante. Assai.
Apprendiamo che l’uomo, tale Moises Tejada «è planato sull’Urbe una decina di giorni fa, così hanno potuto verificare gli investigatori attraverso l’analisi del passaporto, dalla Moldavia dove era da poco arrivato da Kiev».
«In commissariato, in manette, con l’accusa di porto abusivo d’armi e resistenza, gli agenti hanno scoperto che negli USA, precisamente nello stato di New York, è considerato un “most wanted“». Pare che il personaggio si sarebbe reso responsabile di sequestri di agenti immobiliari che rapinava e riempiva di botte. Chiedeva appuntamenti per vedere case di lusso, poi aggrediva violentemente gli immobiliaristi per poi lasciarli seminudi nelle abitazioni.
Strano modus operandi, che forse parla di una tipologia specifica di personalità.
«Insomma, più che un criminale tutto tondo, una persona fuori controllo degna però di essere inserita tra i maggiori ricercati dello Stato» continua Repubblica. «A questo punto investigatori e inquirenti si sono domandati: come mai uno degli uomini più ricercati a New York è riuscito a lasciare il Paese in aereo e dirigersi a Kiev?»
È bello che il giornale degli Elkann guidato da Maurizio Molinari trovi, per una volta, di farsi una domanda vera. Specie considerando i rapporti non idilliaci di ambedue – gli Elkann e Molinari – con la Russia. Perché la Russia c’entra anche qui.
«A febbraio del 2022 ha abbandonato gli USA e si è diretto in Ucraina (come emerge dal suo passaporto) dove ha spiegato ai magistrati di aver combattuto, gli ha perfino mostrato delle foto in mimetica, armato di pistole e fucili». Il nostro è un Foreign Fighter, quindi, e non fa nulla per nasconderlo – c’è da capirlo, del resto, perché abbiamo visto, a dispetto di una legge specifica, l’Italia fischiettare sui Foreign Fighter pro-Kiev, mentre ci ricordiamo di subitanei arresti in aeroporto per quelli sospettati di aver combattuto per conto dei russi.
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Ma torniamo alle domande che Repubblica pone, e cerchiamo di accennare noi una mezza risposta, fatta della solita nuvola di puntini che sarà compito del lettore unire da sé.
In primis, ricordiamo che, per quanto riguarda la facilità con cui si possono spostare dagli USA all’Ucraina certi criminali. Ci viene in mente la vicenda del veterano americano incriminato dal Dipartimento di Giustizia USA per l’omicidio di una coppia in Florida, molto misteriosamente comparso a «lavorare» al fronte in Ucraina come «volontario», nonostante su di lui penda una richiesta di estradizione da parte di Washington. Il personaggio, che in America avrebbe minato la casa della moglie incinta, cercato di ucciderla, e poi ammazzato una coppia di «donatori» che volevano dare danaro alla sua causa, avrebbe aderito nel 2015 ad una milizia di estrema destra e, secondo documenti trapelati dalla divisione penale del Dipartimento di giustizia dell’Ufficio per gli affari internazionali il veterano americano in Ucraina avrebbe «presumibilmente preso come prigionieri non combattenti, li avrebbe picchiati con i pugni, li avrebbe presi a calci, li avrebbe picchiati con un calzino pieno di pietre e li avrebbe tenuti sott’acqua».
In secundis, vediamo come la personalità con tratti di violenza parossistica pure non è rara tra la manovalanza estera mandata in Donbass – anche prima dell’invio delle truppe russe il 24 febbraio 2022. Nel caso sopracitato, secondo il sito Ukr-leaks che raccoglie i documenti trapelati, un testimone – poi arrestato negli USA – avrebbe quindi anche raccontato di come il veterano americano avrebbe picchiato e annegato la ragazza, mentre un altro membro del gruppo, un australiano, le avrebbe somministrato iniezioni di adrenalina in modo che la giovane non perdesse conoscenza. «Tutto questo è stato filmato dalla telecamera» scrive il sito.
Diciamo di più: tali tipi di profili, inclini alla violenza parossistica sino all’essere insensata, ultrasadica, non solo sono comuni nelle guerre sporche degli USA in giro per il mondo, sono necessari.
La creazione delle forze neonaziste che servono il regime di Kiev – cioè lo Stato profondo americano – è stata operata per anni andando a lavorarsi le parti della popolazione che più si sarebbero prestate alla psicologia della violenza indiscriminata: ecco serviti al serbatoio immenso di braccia tatuate e teste rasate che sono le curve degli stadi le teorie di Bandera. È un processo di radicalizzazione, che non deve essere stato differente da quello di ISIS e Al-Qaeda. Lo si vede bene, descritto anche con una certa mesta poesia, nel film Syriana. È un qualcosa che, nemmeno più a denti stretti, cominciano a temere i servizi di sicurezza americani e pure qualche politico goscista francese: i Foreign Fighter di ritorno, radicalizzati in Ucraina in maniera totale, di ritorno a casa, magari pure con qualche arma di quelle «donate» a Kiev.
È il «jihadismo ucronazista» coltivato dall’Occidente per questo conflitto e forse per il prossimo – quello contro la stessa popolazione europea da trascinare nell’anarco-tirannia, come scritto tante volte da Renovatio 21.
Prendi una generazione impoverita (i soldi sono andati tutti agli oligarchi, gli stessi che poi hanno finanziato le milizie ucronaziste), la riempi di ideali che risuonano con il testosterone giovanile, sangue e suolo, la violenza come principale valuta sociale… aggiungi appoggi politici, armi, etc. Quello che ottieni è guerra. Morte e distruzione. Cioè quello che serve ai pupari per creare il cambiamento geopolitico.
È bene ricordare che se diciamo «nazisti», stiamo dicendo davvero «nazisti», oppure anche peggio. Strapagati giornalisti italiani ci hanno detto che i ragazzi con la svastica leggono Kant, la realtà è che i «nazionalisti integralisti» ucraini sono stati capaci di crudeltà che hanno impressionato pure gente di stomaco. È il caso di quel famigerato skinhead americano tatuatissimo, un altro volontario del fronte ucraino che aveva dichiarato che mai aveva visto una violenza del genere.
Girava un video, già prima della guerra, intitolato «gli ebrei si beccano la corda». Il contenuto: una donna incinta e suo marito, presumibilmente di origine giudaica, venivano linciati dai miliziani. Dicevano che si trattava di propaganda russa, non era vero. I nazisti ucraini non esistono. Salta fuori che, anche se i due non sono ebrei, il video è vero: e che i nazisti ucraini non solo esistono, ma sono capaci di gesti così indicibili da far pensare, più che altro, a vere caricature dei nazisti.
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E allora, torniamo alla domanda vera: perché? Perché il supercriminale Foreign Fighter ucraino stava in Piazza San Pietro?
Ah, poi c’è chi si chiede come abbiano fatto a beccarlo: alcuni non sono disposti ad accettare subito la storia dell’intuito da chiaroveggenti dei nostri, pur bravissimi certo, poliziotti zona Vaticano. Qui le ipotesi possibili sono due.
La prima: in Vaticano ci sono telecamere dotate di tecnologia face recognition, ma forse non si può dire, perché in Italia non si capisce se siano esattamente legali, e la Santa Sede non è Italia ma, pensano gli attuali occupanti del Soglio, è meglio non dirlo troppo spesso. Quindi: voi che su Facebook scrivete commenti contro Bergoglio, occhio.
La seconda: qualcuno ha fatto una soffiata, e ha avvertito i nostri che il tizio, ecco la foto segnaletica, era diretto da quelle parti. Qui si aprirebbero altre questioni cui ovviamente non sapremmo rispondere in alcun modo. Se lo ha mandato qualcuno, chi lo ha mandato? A fare cosa? Chi ha spifferato? Con che fine? Era avvertire di un pericolo, o era, più sottilmente, far comprendere a qualcuno, che c’è quel pericolo esiste?
Roba abissale, giuochi di specchi sacri e geopolitici come ai tempi di Ali Agca e le piste che incrociano i lupi grigi (altri giovani radicalizzati contro la Russia…), servizi bulgari, frati belgi legati alla CIA (come suggerì in un’intervista, sornione e diabolico, Andreotti), magari pure la Madonna di Fatima, et pour cause.
Possiamo solo buttare lì qualche altro puntino per il lettore. Sappiamo che il rapporto del papa con l’Ucraina, partito con un bacio alla bandiera della Centuria di Maidan (proprio ad un’udienza del mercoledì), passato per una politica di relazioni sterile, falsa e millantatoria, finito con vari insulti da parte Ucraina, è quello che è.
Lui ce l’ha messa tutta: ha taciuto quando hanno attaccato un suo sacerdote – sì, un prete cattolico, ad Uzhgorod – quando aveva osato pregare per la pace, ha provato a vendere ai giornalisti l’idea che la sua conversazione a Budapest con Ilarione – gerarca modernista e filocattolico del Patriarcato di Mosca finito rimosso, e che peraltro ora, dopo la Fiducia Supplicans, di Roma non ne vuole più sapere nulla – serviva alla pace, aveva mandato avanti Zuppi (idea geniale) a Kiev, aveva accettato che Zelens’kyj si sedesse prima di lui da ospite nell’incontro in Vaticano durante l’Italian tour del comico ucraino finito chez Bruno Vespa. (Qualcuno, in Russia, dice che il vertice tra Francesco e il comico TV divenuto presidente, invece, abbia alle spalle un famoso cardinale inglese…)
Bergoglio si era beccato gli insulti del consigliere di Zelens’kyj Mikhailo Podolyak, che sul Corriere della Sera (dove sennò) attaccò il papa e il cristianesimo tutto. Poi, con la storia dell’appello ai negoziati lanciato dall’argentino alla testata svizzera, ecco le offese anche del ministro degli Esteri già «bambino di Chernobyl» in Irpinia Kuleba, che ha insinuato di antichi rapporti della Santa Sede con il nazismo (il bue che dice all’asino… ecco quella storia lì).
Davvero, il ragazzo biancovestito in sedia a rotelle ce l’aveva messa tutta, o almeno aveva fatto finta, almeno per un po’. Adesso, chissà cosa vogliono dirgli.
Anche perché ad essere arrabbiati con lui mica sono solo quelli della banda di Kiev. Qualche mese fa è partita la rabbia dei rabbini, perché questa equidistanza vaticana con i palestinesi (fra cui, ricordiamo, la Chiesa cattolica ha molti, molti fedeli) non si poteva sentire. Anche lì: il sudamericano si era impegnato, nel 2017 aveva pure visitato la tomba del fondatore del sionismo Teodoro Herzl (ma perché?) a fianco di un soddisfattissimo premier Netanyahu, quello che adesso chiamano macellaio genocida, sconfessando il suo predecessore papa San Pio X che, in modo leggermente diverso, quando Herzl gli chiese l’appoggio per far tornare gli ebrei in Palestina gli promise che la Chiesa si sarebbe opposta con ogni forza al progetto.
Ma un patatrac presso il Sacro Palazzo cuore della cristianità globale farebbe comodo a tanti altri.
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Sappiamo come funziona il pensiero dei padroni del vapore: il programma va mandato avanti per traumi. Le società umane si manipolano shock dopo shock. Presidenti uccisi, presidenti rapiti, bombe nelle piazze, nelle stazioni, aerei dirottati, torri che cascano, guerre, invasioni, pandemie.
Aggiungiamo anche un altro pensiero, sul quale non ci dilungheremo qui. Durante la guerra del Vietnam la CIA organizzò uno sforzo operativo chiamato Phoenix Program, che doveva distruggere fisicamente e moralmente il sistema dei Viet Cong attraverso rapimenti, infiltrazioni, assassinii, terrorismo, torture. Secondo alcuni, il Phoenix Program prevedeva la creazione vera e propria di serial killer. Soldati americani capaci di violenze infinite, psicopatici al punto da essere più considerabili per i nemici come vampiri (con atti di cannibalismo inclusi) che non come nemici, in grado quindi di scatenare timori ancestrali nei vietnamiti comunisti.
C’è chi dice che l’effetto più evidente di questo programma siano stati i continui casi di assassini seriali registrati in USA negli anni Settanta e Ottanta. Moltissimi di questi soggetti, divenuti popolari grazie a stampa, TV e cinema, avevano un passato tra i militari americani, alcuni proprio direttamente in Vietnam. Se ci fate caso, dopo gli anni Novanta – in cui il fenomeno divenne una costante, più che nella cronaca nera, nella cultura popolare – i serial killer sono spariti.
Dove sono finiti gli assassini seriali? Sono scomparsi? O forse, dice qualcuno con malizia, ne hanno «chiuso la fabbrica»? E la fabbrica, magari, si può riaprire? L’hanno riaperta?
Una volta potevi parlare dei patsy, dei capri espiatori usati nei grandi misteri storici, e non prenderti del complottista. Ricordo ancora i tempi in cui credere che Lee Harvey Oswald fosse un matto manipolato (anche lui con trascorsi militari significativi…) piazzato lì per prendersi la colpa del regicidio Kennedy non era una bestemmia, anzi era la norma.
Ora c’è da aver paura anche solo a fare delle ipotesi. Ma non solo per l’etichetta di pazzotico che ti possono affibbiare i benpensanti, i fact-checker, gli algoritmi censori dei social e dei motori di ricerca. C’è da aver paura di averci ragione.
Che cosa sono disposti a fare, questi mostri, per far bruciare ancora di più il mondo?
A quale altro regicidio dobbiamo assistere?
Quale efferata crudeltà li sazierà mai?
Roberto Dal Bosco
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Pensiero
La giovenca rossa dell’anticristo è arrivata a Gerusalemme
ALERT 🚨 – The fanatical Zionists from Temple Mount Org have announced that April 22nd is their day to slaughter the much-vaunted #RedHeifer in Jerusalem to realise their version of the End Times messianic prophecy… https://t.co/HLo9nYbGvi pic.twitter.com/JYfs5dHORg
— Patrick Henningsen (@21WIRE) April 12, 2024
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Also to be precise: the red heifer isn't technically a sacrifice. It is slaughtered and burned on the Mt. of Olives but not on an altar. The ashes are used to make a mixture that is used in the purification process for entering the inner courtyard of the Temple Mount. Practical…
— Kassy Akiva (@KassyDillon) April 4, 2024
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