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Memorie dal sottosuolo ebraico

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Anche quest’anno è giunto il «giorno della Memoria». Si chiama così, senza che sia specificato di cosa: gli altri dì dell’anno, forse sono senza memoria, pare il messaggio degli organizzatori. Oppure che questa è una memoria più importante delle altre?

 

È una memoria che non si può lavar via, che va fissata in mondo indelebile: le altre memorie sono RAM, mentre quella dell’«olocausto» – altra espressione generica assai, che sposta via tanti altri significati, compresi quelli della religione cristiana – è decisamente da hard disk.

 

Dal mio disco rigido quindi, quest’anno voglio estrarre un po’ di memorie assortite sull’argomento. Mi sblocco un po’ di ricordi personalissimi, così, per cercare di stare in linea, per una volta, con una giornata mondiale.

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Io ho memoria, innanzitutto, di una cosa accaduta ieri l’altro. Mio figlio, 8 anni, ha sentito in una conversazione l’espressione «campo di concentramento» e, pur non sapendo esattamente cosa volesse dire, mi ha chiesto di «Teresen. Teresin…».

 

«Theresienstadt...?» gli ho chiesto sbalordito.

 

«Sì, quello».

 

«E dove lo hai sentito?»

 

«A scuola…»

 

Scopro così che, dopo il lavaggio di cervello sul caso Cecchettin, qualcuno in classe ha parlato ai bambini dello sterminio degli ebrei, cosa del quale, almeno lui, ha potuto capire fino ad un certo punto. Come sappiamo, non è importante: quello che conta è che il discorso pubblico venga sfogato, e che qualche parola chiava («Theresien…» «Auschw…») entri nei giovani cervelli, e anche solo qualche sillaba va bene.

 

Scopro così che l’assessore regionale all’istruzione Elena Donazzan ha inviato una lettera aperta alle scuole del Veneto:

 

«Vi invito, anche quest’anno, in occasione della Giornata della Memoria in ricordo delle vittime della Shoah, come comunità educante del nostro Veneto, a ricordare degnamente questa data simbolo della persecuzione dell’odio nei confronti degli ebrei. Purtroppo la battaglia all’antisemitismo non è ancora compiutamente vinta perché il seme dell’antisemitismo continua a riemergere con molte facce e strumenti diversi. È una battaglia che soprattutto nella scuola dobbiamo affrontare trovando la più ampia diffusione tra le nuove generazioni così da costruire gli anticorpi contro l’odio antisemita. L’odio, nei confronti del popolo ebraico e contro lo Stato di Israele, è un dramma che ancora oggi si perpetra nel mondo».

 

Sono parole che, scrive il messaggio, l’assessore aveva usato anche l’anno scorso, ma che ha copincollato anche quest’anno perché «purtroppo, ancora più attuale dopo i fatti del 7 ottobre 2023 da parte del terrorismo islamico con l’obiettivo di colpire lo Stato di Israele».

 

«Si assiste ad un dibattito pubblico acceso e polarizzante ed è quanto mai necessaria una riflessione in ordine ai pericoli di un rinnovato odio nei confronti degli ebrei, che si è caratterizzato recentemente per episodi di estrema violenza anche nel nostro territorio, come accaduto a Vicenza in occasione di un recente evento internazionale ove partecipavano degli espositori israeliani. Episodio esecrabile che ha visto la giusta condanna da parte di tutte le forze politiche e che non deve ripetersi grazie all’apporto culturale garantito dalle nostre scuole».

 

«Il 27 gennaio è ancora più importante difendere la democrazia e la libertà».

 

La democrazia e la libertà coincidono con lo Stato di Israele? Non è tanto questo, che colpisce il quivis de populo. Ma scusate, la Donazza non è quella che la sinistra accusava di revisionismo? Non è quella che avrebbe cantato «faccetta nera» per radio a La Zanzara? Insomma quella considerata di destra, tanto di destra?

 

A fine anni Ottanta, la Donazzana fu presidente provinciale vicentina del Fronte della Gioventù, il movimento giovanile del MSI. Qui si sblocca un ricordo dell’era almirantiana: com’è, che ad un certo punto, i missini – tra i quali nel 1979 si candidò anche il marito della senatrice sopravvissuta ad Auschwitz Liliana Segre – presero a difendere lo Stato Ebraico? Sì, è successo. Si disse: è perché l’URSS difende i palestinesi (certo: dopo essere stato il primo Paese a riconoscere Israele, e a tenersi in pancia e fuori caterve di ebrei russi). Anzi no: è perché Israele è uno stato militarista, uno stato etnico – il motivo per cui piace pure al Battaglione Azov, che lo dice ufficialmente (e non scherziamo).

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Sarà quello? Mboh. Intanto io sblocco quella memoria, così per capire come le «lettere aperte» istituzionali dalla fiamma arrivano fino alla mente di mio figlio.

 

Quello degli ebrei a scuola è un tema ciclico e risalente. Dall’hard disco personale ripesco un giorno di più di un quarto di secolo fa, un sabato pomeriggio, sono da solo in un bel bar dentro una rara casetta liberty, di solito andavo lì alla sera per gli amici e le ragazze ma il pomeriggio, quando non c’è nessuno, c’è grande pace, e lo spritz lo pagherò 1000 lire (fate voi i conti – comunque era un posto costoso, nel baretto successivo della via il prezzo era 500 lire).

 

I tizi del locale sono di sinistra: ecco che sul bancone spunta Repubblica, giornale che leggo con avidità. Mi colpisce un grande editoriale, un articolone, un’articolessa, si intitola «Io professore fallito». Mi fiondo a leggerlo, perché fiuto subito la voglia del quotidiano di vellicare questa parte consistente del suo pubblico, gli insegnanti di scuola, medie, elementari, superiori, università, che vuolesi ceto medio riflessivo ma è soprattutto casta statale sempre in cerca di qualcuno che riconosca quanto bravi, intelligenti sono – e soprattutto dire quanto, ancorché talvolta tristi ed incompresi, quanto sono necessari al Paese.

 

Il pezzo è tutto un racconto intimo di dettagli personali anche poco significanti (tipo l’articolo che state leggendo). L’autore racconta di aver portato i suoi studenti a vedere un film in un multisale di una città del Lazio. Si tratta di Train de vie, una pellicola sull’Olocausto però con allegra musichetta balcanica alla Bregovic (quella che, anni dopo, Elio e le Storie Tese dissero solennemente che «ci ha rotto i…»): «un film straordinario, geniale, capace di ribaltare da un’inquadratura all’altra ogni ruolo e di guardare alla tragedia della Shoa [sic] con uno sguardo obliquo, ironico, poetico, in modo diverso (perché diverso è lo stile) ma analogo (per una vicinanza poetica tra i due autori) a La vita è bella di Benigni» scrive il professore nella mirabile infilata iniziale.

 

«Io non l’avevo mai visto prima e mi sono emozionato, gli alunni in gran parte si sono annoiati. A un certo punto mi sono dovuto alzare per andare ad azzittire un gruppetto di ragazzi che dalle prime file continuava ad alzare grida di “Heil Hitler!”» racconta con amarezza.

 

«Nell’intervallo sono andato al bar, fuori dal cinema, a prendermi un caffè. Vicino a me c’era il proprietario del cinema. Io l’ho riconosciuto, lui no. È un uomo sulla sessantina, uno di quegli ex malandrini talmente narcisisti da non riuscire a memorizzare un solo volto. Ne ho conosciuti a migliaia. Sono talmente concentrati sulla loro vita che tutto il resto non solo lo ignorano, ma faticano a considerarne l’esistenza. Sono perfino comici, certe volte, perché a un occhio inesperto tanta pienezza di sé, e senso dell’esclusione, può confondersi facilmente con un rincoglionimento da macchietta».

 

Diciamo di non sapere se, dopo la pubblicazione, sia partita una denuncia per diffamazione: ci starebbe. Ma si va avanti:

 

«Il barista gli ha chiesto se nel cinema ci fossero i ragazzi della scuola, e lui ha riposto di sì con la testa, appoggiando la tazzina del caffè alle labbra protese. Poi l’altro si è informato sul film che stavano proiettando. Allora lui ha mandato giù il caffè inghiottendo sonoramente, ha fatto schioccare la lingua, ha infilato una mano in tasca, ne ha estratto un mazzo di biglietti di vario taglio, ha sfilato con la punta di indice e pollice una banconota da mille, l’ha allungata alla cassa e infine ha risposto: – Un treno per vivere, ‘n’antra stronzata sull’ebbrei».

 

Ecco: «‘n’antra stronzata sull’ebbrei». Scritto proprio così: «sull’ebbrei». La frase romanesca mi è rimasta impressa nella memoria per anni, e non manca di farmi ridere ancor’oggi.

 

Ricercando questo mirabile testo, ho appreso che l’autore non era solo un professore, ma anche uno scrittore – specie nota in Italia, i docenti di scuola pubblica che gliela fanno a farsi fare il giro in giostra con il grande editore, e conseguentemente con qualche saletta di libreria o circolo Arci riempita di loro simili e tesserati PCI-PDS-DS-PD che per una sera si fanno convincere ad uscire di casa rinunziando al film su Rete 4. Si chiama Sandro Onofri, purtroppo sarebbe morto poco dopo la pubblicazione dell’articolo per cancro al polmone.

 

Lo scrittore e poeta e insegnante, ci chiediamo, come si sarebbe sentito quando, sugli stessi canali della grande sinistra e dell’establishment che ospitavano il suo sdegno per la mancanza di devozione olocaustica, anni dopo sarebbero apparsi peana al battaglione Azov? Quando la sinistra mondiale e il suo padronato borghese slatentizzato avrebbero fischiettato davanti a svastiche e lettere runiche, e anche a certi video recenti di supposte persecuzioni degli ebrei in Est Europa?

 

Davanti a chi gli avrebbe mostrato l’orrore nazista vivo e vegeto, e armato e finanziato dal contribuente italiano, avrebbe detto: «‘n’antra stronzata su Hitleh»…?

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Sblocchiamo un ricordo più recente. Il lettore deve sapere che mesi fa, molto prima dell’efferata strage di Hamas del 7 ottobre, Renovatio 21 aveva in canna un editoriale che parlava della Finestra di Overton che si stava aprendo riguardo l’antisemitismo. Il pezzo non fu prodotto e pubblicato, e mal ce ne incolse: ci avevamo, come sempre, ragionissima, e poco dopo avremmo visto l’odio per gli ebrei divenire mostruosamente mainstream con il cortocircuito attuale, dove in USA università e giovani della Generazione Z (più o meno goscisti, ma tutti, comunque, «fluidi», woke e nichilisti) arrivano a giustificare e persino celebrare i massacri contro gli ebrei (e ad esaltare le epistole del Bin Laden).

 

L’articolo che volevamo scrivere partiva dalle sparate del rapper Kanye West, che di colpo aveva cominciato a fare discorsi sugli ebrei piuttosto puntuti. Intervistato da Tucker Carlson, l’uomo – che è bipolare e miliardario, e popolarissimo – si era contenuto.

 

Poi, presentatosi in Texas da Alex Jones vestito tipo lo «storpio» di Pulp Fiction (una maschera nera che gli copriva il viso che forse veniva dalle sue frequentazioni con Balenciaga, marchio con cui ha collaborato molto), aveva spalancato tutto: lodi a Hitler, responsabile anche dell’invenzione dei microfoni, e attacchi diretti, nome e cognome, a Ari Emanuel, figlio di un terrorista sionista dell’Irgun e uomo più potente di Hollywood (e della TV, e della UFC, e chissà di cos’altro), fratello del capo di Gabinetto di Obama Rahm Emanuel (ora controverso ambasciatore in Giappone) e pure di Ezekiel Emanuel, medico e ultravaccinista della Bioetica di governo che va oltre l’eutanasia per chiedere direttamente la rinuncia alle cure per le persone oltre i 75 anni.

 

 

L’intervista del Jones con questo tizio mascherato era a dir poco incredibile: i discorsi sugli ebrei che faceva Kanye, che per qualche ragione ora vuole contrarre il suo nome in «Ye» – erano semplicemente inauditi in pubblico.

 

Capiamo anche l’imbarazzo del caso: difficile dire che si tratta del peccato onnipresente della società americana, quel suprematismo bianco che ci devono convincere essere legato al voto a Trump, perché il Kanye è nero.

 

E quindi: le critiche ferali sui potentati ebraici stavano diventando mainstream…? Certi discorsi, erano relegati all’underground dei lunatici.

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Un attimo, mi si sta bloccando un altro ricordo: sono a Nagasaki, la città più bella del mondo, tanti anni fa. Vicino alla stazione dei treni, tra la baia e i monti verdi, dopo un grande ballatoio che ti fa camminare sopra le strade, c’è un imperdibile negozio di libri usati. Il mio povero giapponese non mi consente la lettura di testi in presenza di troppi ideogrammi kanji, ma è uno spasso vero per il bibliofilo ammirare l’arte libraria nipponica: la tipografia, la consistenza della carta, il design delle copertine… anni dopo, alla Fiera di Francoforte, mi sarei fatto amico produttori di libri locali solo per sentire la passione con cui descrivono questo lavoro.

 

Tra i libri che sfoglio nella città del mio pellegrinaggio atomico, uno attira la mia attenzione: si chiama «Zionist Underground Conspiracy», o qualcosa del genere, ma non credo che parli davvero di complotti sionisti del sottosuolo: forse è un libro che parla di jazz, o di avanguardia letteraria, non lo ricordo, non lo so, perché, da mòna, lo sfogliai e non lo comprai.

 

Epperò è vero che c’è da chiedersi come i giapponesi vivano ‘sto «Giorno della Memoria». Messi giapponesi partecipavano alle «conferenze» razziali nella Germania nazista, dove cercavano di convincere tutti che i cinesi sono gli ebrei d’Oriente: ne parlava anche molto scandalizzato, Julius Evola nei suoi racconti di quegli eventi.

 

Ecco che scatta la voglia di rammentare il Fugukeikaku, l’«operazione fugu»: a forza di sentire i tedeschi lamentare delle incredibili capacità di controllo economico degli ebrei, i giapponesi, molto pragmaticamente, si erano detti: ma scusate, ma perché non sfruttiamo questa loro competenza? Pianificarono quindi di portare quantità di ebrei in Manciukuò, lo Stato fantoccio che il Giappone Imperiale aveva creato in Manciuria (lo potete vedere nel film L’Ultimo Imperatore).

 

Il fugu è una pietanza nota ai lettori di Renovatio 21: il pesce palla è cibo prelibato, che ha ucciso, vogliamo rammentarlo spesso, Bando Mitsugoro VIII (1906-1975), un attore che aveva il titolo di Ningen Kokuho, «tesoro nazionale vivente». Il pesce va preparato con una cura assoluta, perché varie parti sono velenose, quindi se finiscono, anche solo in parte in bocca al cliente del ristorante (che deva avere una licenza speciale per offrirlo nel menu), c’è la morte. L’attore patrimonio vivente morì dopo averne mangiato una quantità, una sfida al fato stile roulette russa ittico-venefica.

 

Ebbene, quei capoccia militari nipponici che idearono il Piano Fugu riconoscevano che l’importazione di ebrei poteva essere fatale al Paese. Per capire la situazione necessitiamo di una certa dose di elasticità, che è quella che serve spesso a contatto con le mentalità orientali. Cionondimeno, alcuni trovano la cosa talmente bizzarra da essere divertente.

 

Secondo alcuni, l’operazione fugu permise a molti ebrei di salvarsi dallo sterminio cui andavano incontro in Europa: il fugu come Schindler, come Perlasca. Tuttavia, non ci sembra che nemmeno quest’anno, nella pletora di contenuti olocaustici piombati per il «giorno della memoria», il pesce palla abbia trovato il suo posto. Ricordiamo pure, en passant, che in quello stesso 1934 Stalin creò ai confini della Manciuria l’oblast’ degli ebrei, una provincia autonoma estremo-orientale solo per giudei, che è peraltro ancora esistente. Anche il baffone… aveva concepito un suo piano fugu?

 

Vabbè, rimane il fatto che questo «underground sionista» di cui parlava quella copertina di libro a Nagasaki non ho capito cosa sia.

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Un attimo, si sblocca un ulteriore ricordo, recentissimo. È un altro articolo che non siamo riusciti a scrivere, forse per mancanza di tempo, forse perché inebetiti dalla questione, che toglie il fiato e le parole pure…

 

Sapete cosa è successo a Brooklyn. Avete visto nitidamente quelle immagini sconvolgenti… sotto una sinagoga degli Chabad Lubavitcher (avete presente: sono quelli con la barbona, i riccioletti palandrano, il capellazzo a tutte le stagioni, quelli che sarebbero dietro a Milei, anzi davanti, perché mica la cosa è più nascosta), hanno trovato dei tunnel sotterranei, scavati dagli stessi ebrei ortodossi.

 

 

I giornali mainstream americani, quelli filoisraeliani, magari pure con famiglie ebree come editori, hanno dovuto titolare proprio così: «Jewish Tunnel in New York City».

 

Ci siamo stropicciati gli occhi diverse volte, e dato tanti pizzicotti. La faccenda è che ci sono le immagini, che sono semplicemente pazzesche. La polizia che scopre i tunnel, o cerca di murarli, e la torma di ebrei hassidici – tutti uguali identici – che scatenano la rivolta: lasciateci le nostre strutture segrete sotterranee.

 

 

Il podcaster Tim Pool la ha detta giusta. Mostrando il filmato che mostra incontrovertibilmente un signore ebreo che esce da un tombino in strada (!?!) ha considerato: «pensa di essere senza il video, e dover descrivere questa scena a qualcuno».

 

 

Effettivamente, il racconto di tale realtà fotografica in Italia potrebbe essere materia da legge Mancino.

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Ebrei che operano nel sottosuolo? Ebrei che costruiscono tunnel sotto le città? Credo che nell’antisemitismo a cavallo tra XIX e XX secolo fosse venuta fuori pure una storia del tipo che gli ebrei erano dietro la costruzione della metropolitana, perché da sotto terra sarebbe stato più facile, poi, farle cadere a suon di terrorismo (non ricordo dove ho letto questa cosa, ma immagino la facilità con cui il complottaro antisemita ottocentesco poteva arrivare a simili idee).

 

Bisogna capire che il sotterraneo è la proiezione psicospaziale del complottista di bassa lega: se sentite qualcuno che improvvisamente vi parla di tunnel segreti sotto la vostra città, qualsiasi essa sia, siete in presenza spesso di cospirazionista domofugo, cioè scappato di casa, cioè inattendibile e perdigiorno: perché chi vuole sempre credere ad un lato occulto della realtà, se pensa a dove vive, ci proietta subito una parte invisibile, che non può che essere sottoterra.

 

Poi però arrivano queste immagini.

 

Scusate, ma cosa sono quei materassi? È vero che sono materassi delle dimensioni dei letti da bambini? E cosa sono quelle macchie? E quel seggiolone…?

 

 

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Risposte che mica arrivano con facilità. Tuttavia vari media hanno tentato di spegnere il fuoco con getti di teorie rassicuranti: va tutto bene, i tunnel erano per allargare la sinagoga. Allargare la sinagoga, sottoterra?

 

Ma no, i tunnel servivano a collegare la sinagoga con altre sinagoghe, o centri, o case, della zona. Ma perché scavare una galleria sotterranea illegale per farlo?

 

Ma no, tutto OK, in verità sappiamo che gli ebrei di Nuova York si erano opposti eroicamente al lockdown COVID del sindaco e del governatore, servivano quello… ma scusate, non è stato detto che i tunnel sono stati fatti l’anno scorso o poco prima, a restrizioni pandemiche morte?

 

Ma no, si tratta di mikvah, bagni rituali, quelli che si usano ritualmente per le donne ebree quando hanno il mestruo, solo che qui sono fatti per gli uomini… ma scusate, gli uomini hanno le mestruazioni? In USA anche sì, tuttavia è difficile che siano gli ebrei ortodossi a crederlo. Quindi: mikve rituali per purificare i futuri rabbini dal loro ciclo? Machedaverodavero?

 

Un comico su YouTube fa la battuta: il segno davvero apocalittico della situazione è il fatto che si sono visti dei giovani maschi ebrei ortodossi fare lavori manuali. Umorismo tutto neoeboraceno, dove è noto che di queste centinaia di aspiranti, solo il 2% diverranno rabbini, e gli altri saranno sistemati in qualche lavoro avulso dal lavoro materiale come la tratta dei diamanti in triangolazione con Anversa, Tel Aviv e forse qualche parente piazzato sopra una remota miniera africana.

 

Un altro dice: dopo questa cosa, la nostra vita è in discesa. Come faranno a chiamarci ancora complottisti? A deridere chi dice che la realtà, forse, non è quella che vediamo in superficie?

 

Qualcuno del giro QAnonista tira fuori dei disegni di artisti che, dicono, sarebbero nelle collezioni artistiche dei fratelli Podesta, che non capiamo bene come possano c’entrare qualcosa qui, ma sono inevitabili rigurgiti del Pizzagate.

 

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Altri ricordano più concretamente una pagina del sito internet dell’ADL. L’Anti Defamation League è il potente ente creato per combattere i discorsi antisemiti, anche schedando chiunque possa produrne anche solo echi lontani.

 

Nata – e collegata, secondo E. Michael Jones, al giro della mafia ebraica – per contrastare una fiammata di antisemitismo quando una 13enne di Atlanta fu trovata morta stuprata, l’ADL negli anni è passata a tacciare quantità impressionanti di persone di razzismo e di deviazione dai dogmi del politicamente corretto, arrivando di recente ad attaccare persino Elon Musk.

 

Il lavoro certosino di censimento di ogni possibile idea eterodossa da condannare perché pericolosa, aveva portato l’ADL a scrivere anche di una credenza detta «Mole/tunnel children», circolante fra i gruppi QAnon.

 

«Durante i primi mesi della pandemia di COVID-19, il governo ha allestito un ospedale improvvisato nel Central Park di New York. Allo stesso tempo, la Marina degli Stati Uniti ha inviato volontariamente in città la nave ospedale USNS Mercy per aiutare gli ospedali traboccanti» scrive il sito dell’ente di censura ebraico. «QAnon ha affermato che le tende a Central Park erano lì per nascondere buchi nel terreno che sarebbero stati utilizzati per salvare i numerosi bambini presumibilmente trafficati nei tunnel sotto il parco. Questi bambini salvati sarebbero stati portati alla USNS Mercy. Questa teoria ha guadagnato ulteriore popolarità perché la linea Q della metropolitana corre sotto il parco».

 

Diciamo che questa scheda che deride chi crede in tunnel segreti e traffici di bambini è invecchiata male – specie considerando che proviene da un’organizzazione, l’ADL, fondata nel 1913 dall’ordine giudeo-massonico B’nai B’rith.

 

E quindi… quei tunnel cosa sono? L’FBI, che ha programmi per infiltrare i pericolosi cattolici della messa in latino, sta indagando?

 

Non è che avremo risposta, lo sappiamo. Ci rimane l’immagine degli ebrei che escono dalle fogne, come le tartarughe ninja mutanti del vecchio cartone che un trentennio fa impazzava negli USA e anche un po’ in Italia.

 

Tuttavia, sblocchiamo un altro ricordo nel giorno memoria personale.

 

Sono in India, è il tardo autunno 2005. Sono ad Auroville, una stramba cittadina dove abitano in larga parte occidentali seguaci del filosofo e attivista separatista indiano Sri Aurobindo, delle cui stranezze magari parliamo un’altra volta. La mitica Marta, l’amica che ci ospita ci porta ad una sorta di festicciola sulla spiaggia, è notte, e l’Oceano Indiano scroscia nel buio più totale. Ad un tavolo ci sono dei ragazzi che mi presentano. Uno ha la pelle ambrata, il volto simpatico, ed è intento a prepararsi una sigaretta esotica. Capisco subito che si tratta di un israeli chilum smoker, espressione con cui gli indigeni indiani definiscono la massa di giovani israeliani che si abbattono costantemente sul subcontinente.

 

In pratica funziona così: in Israele fai tre anni di naja tremenda, dove di fatto non è che ti annoi in caserma, vai praticamente in guerra. I ragazzi (e le ragazze) sono talmente distrutti dall’esperienza che l’immediata reazione, già durante il servizio, è quella di convertirsi alla musica elettronica di tipo trance e all’uso di droghe sintetiche – insomma, il mondo dei rave, che ha fatto da teatro alla strage iniziale del 7 ottobre, con i parapendii motorizzati di Hamas a planare sul festival del ferale massacro nel deserto.

 

Finito il militare, ai giovani israeliani non bastano più i festoni locali – cercano uno spazio di decompressione in terre lontane per continuare a drogarsi ed ascoltare musiche para-spiritualiste, almeno per un po’, almeno prima di entrare finalmente all’università. L’India è la meta favorita per questo tipo di lavoro: qui trovano un certo senso di libertà, una qualche cifra spirituale orientale (che magari non intacca il loro ebraismo, secolare o no che sia, ma che è presente) e magari pure la cannabis che cresce in ogni angolo.

 

Quella sera avevo voglia di saperne di più. Il ragazzo stava davanti a me, e quindi sono partito con le domanda.

 

«Quanti passaporti hai?». Due. Uno era di un Paese UE che non avrei detto.

 

«Hai fatto il militare?». Sì, tre anni. L’ha fatto tutto. Ora stava decidendo dove, nel mondo, andare all’università.

 

«Hai mai ucciso un uomo?» chiedo a bruciapelo.

 

Lui, noto, cerca di non reagire d’istinto. Solo per un secondo, ferma il rollaggio.

 

«Sì» mi dice facendo come un sorriso, che però non è un sorriso. I suoi occhi dicono altro. Poi il sorriso finisce, lo sguardo gli diventa più controllato, razionale.

 

«Stavo in un carrarmato. Di notte, ho visto sullo schermo uno che scendeva dal muro. Una volta a terra, a cominciato a camminare così, come per non essere visto… combat walking»

 

«Ho chiesto al mio superiore se sparare. Lui mi ha detto di sì. L’ho fatto. In seguito sono stato premiato».

 

A questo punto il ragazzo israeliano accende. È chiaro che ci ha pensato mille volte. È chiaro che vuole dimenticare. È altrettanto chiaro, tuttavia, che non sa ancora cosa pensare, come sentirsi. O almeno, sa di non poterlo esprimere, forse nemmeno a se stesso: sia dentro stia venendo macinato, sia abbia invece il nulla.

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Ultimo ricordo di ebrei dal sottosuolo della mia mente, sempre con ambientazione indica, questa volta più leggero.

 

Estate 2010, sono a Dharamsala, la capitale del governo tibetano in esilio, residenza del Dalai Lama, eterna meta di pellegrinaggio di buddisti e divorziate a go-go. Sono con un gruppo di amici, cinque italiani e cinque indiani e indiane; abbiamo appena attraversato l’Himalaya in moto, siamo all’ultima tappa prima di tornare a Delhi.

 

Siamo esausti: in un passo a 5000 metri di altitudine metà della ciurma è caduta vittima del mal di montagna, e attorno a noi c’era il nulla, il deserto himalayano per chilometri di burroni sulla strada più pericolosa del mondo. A Leh, città più a Nord dell’India, avevamo visto come l’altitudine arrivi nei polmoni impedendoti quasi di fare le rampa di scale. A Lamayuru, un luogo sperduto vicino ad un monastero lamaista, eravamo finiti in un Overlook Hotel dove una ragazza finlandese sembrava intrattenere indiani a caso, in un contesto spettrale raccapricciante. A Sri Nagar, in Kashmir, sembrava che ci potessimo riposare: ed ecco invece che, di notte, viene nella nostra stupenda house boat che galleggia intarsiata sul lago Dal la polizia con il tizio che ce l’ha affittata, e ci dicono, apertis verbis, che è meglio se prendiamo le moto e fuggiamo via, perché per l’indomani era prevista una rivolta musulmana, cosa a cui qualcuno di noi pure pensava perché arrivando c’erano soldati armati di kalashnikov ogni cinquanta metri: ecco che sgommiamo impanicati, mentre prima dell’alba partono dai minareti suoni che si mischiano in un rumore che domina la valle e che sembra sul serio uscito dall’inferno.

 

Quindi, siamo a Dharamsala, qui bisogna riposarsi. Ce lo meritiamo. E se non trovi pace nella capitale del buddismo internazionale (almeno secondo Hollywood), dove la vuoi trovare? Gli israeli chilum smokers ci sono anche qui, ma ci sono tanti altri foreigner. La presenza israeliana era stata una costante in tutto il viaggio. Li avevamo visti a Manali, cittadina montana da cui si parte, dove negozi e call center hanno cartelli in hindi e in ebraico, skippando in alcuni casi del tutto l’inglese ed i caratteri latini. Nella valle di Numbra, posto remoto e magico con yak e cammelli d’alta quota da cui l’Himalaya guarda al Karakorum, ne avevamo incontrati una torma, tutti altamente disinteressati a fare amicizia con noi, anche se eravamo gli unici esseri viventi in tutta la zona.

 

Ecco che esce una rischiosa idea per il meritato relax: da qualche parte, dispersa nelle colline attorno a Dharamsala, c’è… una pizzeria. Proprio così: pur sapendo che stiamo andando incontro all’orrore puro, decidiamo unanimemente di partire alla sua cerca. Non ci si arriva in macchina e nemmeno in moto: bisogna camminare su un sentiero a piedi, dalla fine di un paesino, dove ancora si vede qualche stall, qualche localino dove notiamo lo spalmo di ulteriore presenza israeliana, poi avanti, nel buio, tra le colline. Alla fine, si giunge a questo posto sperduto povero ed indefinibile come la cosa che ci danno da mangiare, ma che ci importa, siamo qui, siamo in compagnia, siamo vivi, siamo sopravvissuti a tutto, siamo sopravvissuti all’Himalaya.

 

È stato camminando sul sentiero di ritorno che si è manifestata la scena con cui voglio chiudere questo scritto.

 

«Robi… Robi… vieni…. guarda!»

 

L’amico mi chiama da distante, ma come sussurrando, agitando le mani in aria. Pure nella tenebra, vedo che sta ridendosela di gusto. Lo raggiungo. Lui mi indica un punto sotto il sentiero, e continua a sganasciare sommessamente.

 

Allungo gli occhi: nel mezzo del niente, c’era una sorta di piccola struttura residenziale, quasi un condominio, tutto avvolto nell’oscurità. Tutte le finestre mostravano però che dentro c’era vita, le luci erano accese, forse si poteva sentire pure qualcuno parlare, e un lieve tunza-tunza della musica techno-trance in sottofondo.

 

«Guarda, Robi, guarda in quella finestra!»

 

A questo punto, vedo: nel caldo paratropicale indiano, nella capitale dei tibetani esiliati, nella notte più cupa ai piedi dell’Himalaya… ci sono, dentro un appartamento, due ragazzi ebrei ortodossi, riccioli, barba, cappello, palandrano, occhiali a fondo di bottiglia – proprio come quelli che a Nuova York scavano i misteriosi tunnel con dentro i materassi. Erano lì che parlavano, chiacchieravano uno metteva la mano sulla spalla dell’altro, sembravano sereni… felici.

 

Forse a leggerlo non fa effetto, ma assicuro che il cortocircuito di senso – tizi stile video Rock The Casbah dei Clash nell’oscurità asiatica – sul momento mi sconvolse, e non ricordo se risi o piansi, di dolore o di gioia (anche questo, in quel viaggio pazzesco, dovevo vedere).

 

Ci penso, in questo giorno della memoria, voglio ricordarlo: una delle prove che in effetti gli ebrei, dalla scuola elementare di mio figlio ai sotterranei americani, sono davvero un po’ dappertutto, sono un po’ in ogni cosa, e in modo paradossale – nel momento in cui si parla dei tunnel di Hamas, saltano fuori i tunnel ebraici di Brooklyn, nel giorno indetto per la memoria dello sterminio nazista, vengono accusati di genocidio all’Aia.

 

Rimane il dubbio: non sappiamo fino a che punto sia lecito, legale, tenere a mente queste cose, e pure scriverle.

 

Per cui, con le memorie dal sottosuolo ebraico, fermiamoci qua.

 

Roberto Dal Bosco

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Trump ha ottenuto la valanga di voti che avevano predetto i più ottimisti, ribaltando il colore degli Stati democratici e umiliando la campagna Harris in altri.   Tuttavia, un altro dato non ha mancato di allarmare i media dell’establishment: gli elettori della Florida, oltre a eleggere il loro conterraneo The Donald, ha votato in massa no ad un referendum che estendeva grandemente la tempistica degli aborti. La proposta avrebbe consentito i cosiddetti aborti «prima della vitalità», solitamente intorno alle 24 settimane di gravidanza.   La legislazione floridiana vieta la maggior parte degli aborti dopo sei settimane, prima che molte donne sappiano di essere incinte.

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La misura proposta dai democrats in Florida, nota come Emendamento 4, ha ottenuto il 57% dei voti, non raggiungendo il 60% richiesto per l’approvazione. Si tratta di una vittoria politica per il governatore Ron DeSantis, che nel 2022 aveva promulgato il bando degli aborti di 15 settimane, portando nel 2023 il divieto a 6 settimane. In precedenza, la Florida aveva consentito aborti fino a 24 settimane ed «era considerata una destinazione per le donne di altri stati del sud con leggi più severe», scrive il quotidiano neoeboraceno.   L’emendamento 4, detto «Emendamento per limitare l’interferenza del governo con l’aborto», affermava che «nessuna legge proibirà, penalizzerà, ritarderà o limiterà l’aborto prima della vitalità o quando necessario per proteggere la salute del paziente, come determinato dal medico curante del paziente». Esso avrebbe richiesto che l’aborto fosse consentito per qualsiasi motivo prima della «vitalità» fetale e avrebbe reso i divieti successivi alla «vitalità» di fatto privi di significato esentando qualsiasi aborto che un abortista afferma essere per motivi di «salute».   In pratica, se fosse passato, l’Emendamento 4 avrebbe consentito l’aborto dopo la vitalità per qualsiasi motivo ritenuto correlato alla salute da un operatore sanitario da quando il feto ha 23 settimane alla nascita.   Si trattava di una proposta radicale, con lo stesso DeSantis che ha dichiarato che, secondo il testo dell’emendamento, gli aborti potevano essere legalmente consentiti «fino alla nascita».   Ad un passo, notiamo noi, dall’infanticidio, pardon, dall’«aborto post-natale».   La sconfitta, pur non essendo inaspettata, ha interrotto quella che era stata una serie ininterrotta di vittorie per i gruppi per i diritti all’aborto sulle misure elettorali da quando la Corte Suprema ha annullato la sentenza Roe v. Wade nel 2022, scrive il New York Times. Gli elettori si sono schierati a favore dei diritti all’aborto in tutti e sette gli stati che avevano domande elettorali sulla questione prima di quest’anno, in stati diversi come Kansas e California.   Gli organizzatori della campagna chiamata «Yes on 4» avevano raccolto più di 100 milioni di dollari per far sì che la misura venisse inserita nella scheda elettorale e per fare campagna a favore.   Il presidente Donald J. Trump, ora residente in Florida, si era opposto all’emendamento 4, dopo aver inizialmente lasciato intendere che avrebbe potuto sostenerlo.

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Come noto, la Roe v. Wade – cioè l’aborto inteso come «diritto federale» non regolabile dai singoli Stati dell’Unione – è stato ribaltato da una Corte Suprema costituita da giudici indicati da Trump, cui quindi può andare il merito di aver, di fatto, rovesciato la legge abortista in USA, una promessa fatta nel 2016 ai gruppi pro-life che è riuscito a mantenere.   Al contempo, lo smacco delle elezioni midterm del 2022, quando ci si aspettava una red wave (cioè un’ondata di vittorie di candidati repubblicani), portò il pensiero che il Grand Old Party non aveva raccolto i consensi che ci si aspettava a causa del mancato voto delle donne «offese» dalla fine del libero aborto in vari Stati.   Tale idea ha spinto anche la campagna Harris, che ha investito sino all’ultimo sul tema dei «diritti riproduttivi» (cioè, il feticidio, e in seconda battuta la riproduzione artificiale in provetta) minacciati da Trump, sicuri del fatto che il tema avrebbe sicuramente fatto breccia nel cuore di tante donne che, pur repubblicane, avrebbero quindi evitato di votare per un potere antiabortista.   Non è andata così: la valanga di voti per Trump, e per i repubblicani che ora controllano sia la Camera che il Senato, c’è stata comunque. Non sappiamo se a ciò ha contribuito l’insistenza di Trump e dei suoi uomini (tra cui mettiamo pure Elone Musk) nel ripetere che Trump come 47° presidente si sarebbe opposto frontalmente ad una messa al bando federale dell’aborto.   Come riportato da Renovatio 21, è leggibile in questo senso anche l’uscita del libro di Melania di questi giorni, dove la bellissima slovena si dichiara pienamente abortista: certo, può essere la verità, ma al contempo si trattava con certezza di una manovra elettorale, come lo è stato l’appoggio in questi mesi dichiarato da Trump alla fecondazione in vitro, pratica di morte massiva entrata in crisi con una sentenza dell’anno scorso della Corte Suprema dell’Alabama che dichiara gli embrioni come persone. Un altro colpo prima impossibile senza il ribaltamento di Roe v. Wade.   L’aborto, quindi, è stato un tema dominante della campagna elettorale 2024, come lo sono stati immigrazione o l’inflazione.   Abbiamo già scritto qui come Trump, di fatto, rappresenti l’unica forza politica che in cinquant’anni è riuscita non solo a toccare, ma a cancellare una delle legislazioni sul feticidio libero spuntate, chissà perché quasi simultaneamente in tutto il mondo, negli anni Settanta.   La questione dell’aborto ha guidato di certo anche il voto cattolico americano, con vescovi e cardinali intervenuti, a vario titolo, con indicazioni di voto in merito – e la definizione, data dal vescovo texano Joseph Strickland, di Trump che, in quanto non integralmente pro-life, era da votare come «male minore».   Uno dei temi cattolici più importanti, quindi, era sulla scheda elettorale nel voto di uno dei Paesi di maggiore importanza al mondo – anche per la presenza di popolazione cattolica, che si conta negli USA in circa 71 milioni di fedeli.   La cosa, tuttavia, non è sembrata interessare Roma in alcun modo. Il Sacro Palazzo si è tenuto sideralmente distante dalle elezioni, e soprattutto da Trump, dopo che nel 2016 Bergoglio era entrato a gamba tesa nella corsa con Hillary definendo Trump «non cristiano» per la sua proposta di creare un muro al confine con il Messico.   Stavolta, tuttavia, il papa è riuscito a fare peggio.

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Nel giorno delle elezioni americane – dove, ripetiamo, il feticidio era anche fisicamente sulla scheda elettorale – Bergoglio è andato a trovare la persona che più di ogni altra ha incarnato la battaglia per il libero aborto in Italia, Emma Bonino.     Ecco infatti che il romano pontefice suona a sorpresa il campanello della leader radicale, «appena dimessa dopo un ricovero che le aveva fatto temere il peggio per una crisi respiratoria», scrive il giornale dei vescovi Avvenire.   I giornali sono pronti a scattare e pubblicare le foto dell’evento. Il gesuita bianco scende sorridente dalla macchina, poi eccotelo in terrazza con la radicale, entrambi – in una significativa, paurosa simmetria – in carrozzella.   «La foto di Francesco e della storica leader radicale attorno a un tavolino entrambi in sedia a rotelle mostra la condivisione della fragilità fisica, il simbolo di una fraternità che non si lascia imprigionare dalle appartenenze e dalle identità, che evidentemente restano» continua il quotidiano episcopale.  

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«Con enorme sorpresa e piena di emozione, Sua Santità mi ha fatto una graditissima visita. Di papa Francesco emerge sempre l’aspetto umano straordinario» ha detto la Bonino, raccontando l’argentino le ha regalato «un meraviglioso mazzo di rose e dei cioccolatini. Sono rimasta molto colpita dalla forza e comprensione dimostratami già dal suo saluto “cerea” tipico piemontese, per le nostre origini comuni. E avermi detto di essere “un esempio di libertà e resistenza” mi ha riempito di gioia».   Non si tratta della prima volta che i due si incontrano.  «Il Papa ed Emma Bonino si erano incontrati più volte negli anni scorsi intessendo un dialogo soprattutto sul tema dei migranti. Tanto che Francesco nel 2016 aveva detto che Bonino “ha offerto il miglior servizio all’Italia per conoscere l’Africa”» continua Avvenire.   Non ci è chiaro cosa avrebbe fatto la Bonino per l’Africa: sappiamo che per un periodo si era trasferita al Cairo, dove si diceva stesse studiando l’arabo; qualche cristiano copto incontrato in quegli anni rivelò inquietudine per la presenza in Egitto negli anni turbolenti della «Primavera Araba» della Bonino, notoriamente legata al finanziere internazionale Giorgio Soros, al punto da essere tra gli happy few invitati al suo terzo matrimonio anni fa.   Ma ci sono ancora più episodi: chi scrive ricorda l’oltraggio di tanti sostenitori che, recatisi alla Marcia per la Vita il 10 maggio 2015 – camminata che per qualche ragione terminava a San Pietro con l’Angelus del Bergoglio che la snobbava – si ritrovavano sui giornali, l’indomani, la foto della Bonino col turbante che abbracciava il pontefice in Vaticano ad una qualche iniziativa per i bambini. Più che ai bambini trucidati nel grembo materno, al papa interessavano i bambini dell’iniziativa «Fabbrica della pace» da presentare alla FAO.   Ora, siccome non lo fa Avvenire, tocca a noi ricordarci come i cattolici ricordano la Bonino – vera, grande eroina del feticidio in Italia, ben prima che esso fosse legalizzato dalla legge 194/78.   Neera Fallaci, sorella minore della più famosa Oriana, nel 1976 intervistava la giovine Bonino per la rivista Oggi: «tra il febbraio e la fine di dicembre del 1975, gli interventi per aborto del CISA [Centro Italiano Sterilizzazione ed Aborto, il nome preso dalla villa per volontà di Marco Pannella, ndr] sono stati 10.141».   Secondo quanto riportato, agli aborti la Bonino provvede di persona – ciò sarebbe dimostrato da una oramai notissima fotografia che circola da decenni, per l’aborto la Bonino si serviva di uno strumento fai-da-te, la pompa di una bicicletta.   Il bambino abortito prima di finire nella spazzatura veniva aspirato dentro un vasetto della marmellata opportunamente svuotato: «alle donne non importa nulla che io non usi un vaso acquistato in un negozio di sanitari, anzi, è un buon motivo per farsi quattro risate».   Come noto, sugli aborti di quel tempo scrisse un libro-manuale l’attuale ministro della Famiglia del governo Meloni Eugenia Roccella, l’indimenticato Aborto Facciamolo da noi. La Roccella è poi entrata in tutt’altro giro, quel sempiterno network democristiano di vescovi Family Day che è riuscito ad infiltrarsi anche nell’attuale compagine di governo. Resta il fatto che l’abolizione della 194 non è reclamata né dal ministro né da vari minion del sedicente mondo pro-life italiano.   I racconti del pre-1978 – prima della legalizzazione dell’aborto in Italia con la 194 – descrivevano una bella villa sui colli, dove un ginecologo a nome Giorgio Conciani eseguiva clandestinamente aborti in quantità. Il Conciani dopo aver allargato il campo con battaglie per l’eutanasia, finirà radiato dall’ordine dei medici e poi suicida, impiccato in cantina, nel 1997.

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La Bonino farà una carriera politica incredibile: Parlamento plurime volte (anche, secondo una foto che circolava in rete tempo, fa con i voti della Lega), Commissione Europea, ministeri della Repubblica italiana vari, tra cui, di recente, quello degli Esteri.   E poi, diventa partecipante del Bilderberg, ma ancora più significativamente, e poi ancora come membro del board di Open Society Foundations del già citato Giorgio Soros, il quale prese perfino la tessera di un partito-ircocervo radical-socialista spuntato fuori ad un certo punto, la non memorabilissima Rosa nel Pugno.   Va detto anche che la spinta della Bonino per l’aborto non era fatta con la storia dei migliaia di feti aspirati clandestinamente. Non tutti ricordano che l’aborto sbarcò in Italia sulle ali di un grande caso mediatico, quello di Seveso.   Nel 1976, cioè due anni prima che arrivasse la 194, la deputata del Partito Repubblicano Italiano (un partito che qualcuno dice vicino alle famose logge «laiche») Susanna Agnelli chiese al ministro della Sanità l’autorizzazione all’aborto per le madri di Seveso, cioè quelle donne incinte al tempo del disastro chimico che colpì la cittadina lombarda.   La richiesta della Agnelli, ovviamente, si univa a quella della deputata radicale Bonino. Sconvolge vedere come il mondo pro-life si sia scagliato negli anni contro Emma, ma mai contro la sorellona di Gianni Agnelli.   Per l’Agnelli, insomma, questa anteprima nazionale del feticidio di Stato doveva farsi per forza. La diossina di Seveso era un’occasione troppo ghiotta. Il Ministro De Falco concesse la deroga, non prima di aver avuto il placet del Presidente del Consiglio Giulio Andreotti, esattamente l’uomo che due anni dopo avrebbe firmato la legge genocida 194.   Gli aborti invocati dalla Agnelli vennero operati alla clinica Mangiagalli di Milano (tuttora in funzione) e al nosocomio Desio. Furono fatti degli studi sui poveri resti dei bambini massacrati: i resti degli aborti furono inviati in un laboratorio di Lubecca, in Germania, per essere analizzati; nella relazione stilata nel 1977 dai tedeschi si dice che in nessuno di quei resti umani fosse evidente un segno di malformazione.   Altre donne di Seveso portarono a termine le loro gravidanze senza problemi, i loro figli, che vivono tutt’oggi non mostrarono segni di malformazioni evidenti. Qualcuno magari sta pure leggendo queste righe.   Il disastro di Seveso non fu altro che il casus belli necessario all’avvento della legge 194, che arrivò firmata dal governo democristiano Andreotti IV. Pannella e la Bonino avevano vinto la loro battaglia.   Un’immagine a foto doppia pubblicata in un articolo pro-aborto del giornale degli Agnelli La Repubblica la mostra con il medesimo cartello dal 1978 al 2022: «abbiamo tutte abortito». Rammentiamo inoltre le scritte da sandwich umano «No Vatican no Taliban»: San Pietro come Kabul, il santo padre come il mullah Omar – allora, per i radicali, i mangiapreti partitici più accaniti, andava così.   Ora il sommo talebano vaticano va a trovare la leader radicale direttamente a casa. Din-don. Sorrisoni, solidarietà visibile sin dall’effetto speculare delle sedie a rotelle l’una dinanzi all’altra.

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Tutto questo avviene mentre in America torna al potere Donald Trump, l’uomo che, prima della controversa elezione 2020, aveva rilanciato la lettera aperta che gli aveva scritto monsignor Carlo Maria Viganò, l’arcivescovo già nunzio apostolico USA ora scomunicato dal Bergoglio.   Come sa il lettore di Renovatio 21, monsignor Viganò si è ripetuto quest’anno, con un appello ai cattolici americani per il voto a Trump, dove definiva Kamala Harris «mostro infernale che obbedisce a Satana». La lettera ha fatto il giro della stampa statunitense ed internazionale, probabilmente aiutando, in una qualche misura, il voto cattolico a Trump.   Viganò ieri ha celebrato apertamente la vittoria del presidente come «battuta di arresto per il piano criminale del Nuovo Ordine Mondiale», benedicendo l’America tutta.   Per cui ci chiediamo: non è che il nuovo presidente possa preferire l’ex nunzio apostolico a Washington «scomunicato» all’amico della Bonino e dei migranti, del cambiamento climatico e dell’internazionale woke? Quella figura che, a differenza di Viganò, aveva detto pubblicamente di non sapere se si dovesse votare per la sfidante (abortista radicale, persecutrice di pro-life oltre che dei conservatori tout court) Kamala Harris?   Perché, con una politica estera USA che potrebbe essere in gran parte ribaltata, alcuni nodi potrebbero venire al pettine… E a quel punto potremmo cominciare a vedere scene interessanti.   Chissà.   Roberto Dal Bosco

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Immagine dal profilo Twitter di Emma Bonino  
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Mistica dell’Ultra-MAGA: Trump e il «mandato del cielo»

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Ieri mattina, viaggiando con un amico sull’A4, ho visto due aerei da guerra che volavano bassi.

 

Erano americani? Non ho fatto in tempo a discernerlo, stavo guidando. Venivano da che base? Ghedi? Istrana? Aviano? Potevo solo fare supposizioni.

 

Il fatto è che, per qualche attimo, ho sentito distintamente un sentimento di paura. Così, una reazione subitanea, non mediata da nulla se non dall’animo. E se fanno partire una guerra oggi…?

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Se pensate che il pensiero di un disastro militare internazionale nel giorno del voto della grande burocrazia – pardon, democrazia – USA sia peregrino, sappiate che ieri gli USA hanno indetto, per pura coincidenza, un test del Minuteman III, un missile balistico intercontinentale ipersonico a capacità nucleare. Proprio nelle ore delle elezioni: ma guarda che combinazione.

 

Ogni cosa poteva succedere in queste ore. Come avevo predetto, non c’è stato discorso di concessione da parte di Kamala – è troppo vuota, troppo pupazza, per ammettere la sconfitta; parlerà solo quando i pupari le diranno di farlo, e abbiamo già visto come Obama poche ore fa se ne è uscito con un discorso pazzesco sul fatto che ci potrebbero volere giorni per certificare il voto.

 

(Sulla strana personalità di Kamala, che sembra direzionabile, malleabile a piacimento, capace di qualsiasi contraddizione e non in grado di esprimere un’idea sua che non sia la ripetizione di un talking point assegnatole, sono avanzate in questi ultimi giorni ipotesi sorprendenti, come quella secondo cui potrebbe essere un prodotto del progetto MK-Ultra: non sappiamo se chi ha fatto la sparata ora sentirà il bisogno di approfondire).

 

Non mi aspettavo, certo, la valanga di voti, con il ribaltamento di Georgia, Pennsylvania, Wisconsin, i tre Stati chiave, finiti tutti e tre senza problemi in mano a Trump. Vedevo l’uomo e il suo entourage – tra cui contiamo, ora, pure Elon Musk – particolarmente tranquilli. Dobbiamo farlo too big to rig, troppo grande per un broglio. Seguendo alchimie politiche percentuali precise, hanno portato a casa il risultato. E magari i voti sarebbero ancora di più, perché è impensabile che non vi siano stati tentativi da parte dell’establishment di truccare anche queste elezioni.

 

È più che una vittoria storica, è un cambiamento di paradigma totale. Più che il Partito Repubblicano, che certo ha fornito l’infrastruttura, ha vinto il movimento MAGA. La spinta popolare più netta, unita, potente vista in questi anni, in tutto il mondo. Come se il popolo americano avesse ritrovato, dopo decadi di sentimenti oscuri, fiducia in se stesso.

 

Il popolo ha fatto vincere la democrazia, o forse no. Di fatto, gli USA paiono ora una monarchia – un unico al vertice, con tantissimo potere, secondo alcuni esattamente quello che volevano i padri fondatori americani, che si ribellarono a Londra perché volevano una monarchia senza re ed una aristocrazia senza nobili.

 

Chi ha visto la convention repubblicana di luglio, quella fatta con il cerotto all’orecchio poche ore dopo l’attentato di Butler, si è reso conto che oramai l’intera famiglia Trump ha colonizzato il partito e il discorso politico: dopo che al microfono si sono susseguiti figli e nuore varie, parenti amici di famiglia di ogni sorta, ha parlato dal palco persino la nipote 18enne, figlia di Don jr. È un casato, una dinastia reale. E con il popolo, nella democratica America, che l’acclama come tale.

 

Non abbiamo mai dato peso alle storie di QAnon, che come avete visto sono sparite completamente in questi anni. C’era questa sorta di religione oracolare, alimentata da misteriosi, criptici messaggi postati su internet, che descriveva Trump come una sorta di eroe con un’agenda segreta, un piano occulto in via di svolgimento che avrebbe sconvolto il Paese e riportato la giustizia.

 

Si trattava di una sorta di messianismo immanente: Trump non era investito di poteri soprannaturali, ma gli veniva assegnato questo ruolo salvifico nell’opera di imminente distruzione, dicevano, dell’élite corrotta e perversa. Ho ritenuto che si trattasse di qualcosa di vago e di losco, e guardando il documentario HBO Q Into the Storm (2021), con il regista che ritiene di aver capito chi vi era dietro, ho trovato conferma alle mie sensazioni.

 

Tuttavia, vale la pena di ricordare che la realtà, anche stavolta, è ben più bizzarra della finzione. I Qanonisti sostenevano che Trump avrebbe tirato fuori i nomi dell’élite pedofila di Washington ed Hollywood: il biondo ha annunciato che vuole pubblicare la lista di Epstein, mentre ci si chiede cosa accadrà a quella di Puff Daddy – con quantità di divi ospiti del rapper lubrificatore che hanno apertamente appoggiato la Harris, compresa l’ex fidanzata, l’irriconoscibile Jennifer Lopez.

 

Il mondo di QAnon bisbigliava di tunnel sotterranei a Nuova York, dove avvenivano indicibili traffici: ebbene, tutti ricordiamo con stupore ancora vivo i sotterranei scoperti sotto le sinagoghe hassidiche di Brooklyn.

 

Ancora: i Qanonimi dicevano che, ad una certa, grazie a Trump e al suo piano sarebbe uscito dalla latitanza John John Kennedy, il figlio di JFK morto nel 1999 in un incidente aereo (en passant, rammentiamo che sarebbe stato sfidante di Hillary Clinton per il seggio senatoriale democratico nella Grande Mela): ebbene, con Trump un Kennedy, il cugino Robert junior, sta per tornare davvero al governo degli USA.

 

Sì, what a time to be alive stanno dicendo molti ora. Che epoca incredibile ci tocca di vivere.

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Eppure, vogliamo andare un po’ oltre, e parlare di qualcosa che va oltre la stramberia del cospirazionismo realizzato. Vogliamo parlare dello spirito, vogliamo parlare della cifra mistica di ciò che sta accadendo.

 

In Cina, le dinastie imperiali iniziate 3000 anni fa con i Zhou hanno goduto nei millenni del Tiānmìng (天命), il «mandato del cielo».

 

L’idea, definita in seguito da filosofo confuciano Mencio, è che il cielo (天, Tiān) approva il sovrano giusto fornendogli un mandato a regnare. Il potere politico, quindi, ha giustificazione politica che viene dalla morale e dalla divinità. A differenza dell’Europa, non era necessario che alla base di una dinastia ci fosse un nobile: il mandato del cielo si estendeva a uomini comuni, come i fondatori delle dinastie Han e Ming, perché esso derivava dalla virtù del regnante, prima che dal suo lignaggio.

 

Possiamo dire che Trump abbia avuto un mandato del cielo? Sì. Di questo, personalmente, siamo convinti – dopo l’attentato che gli ha sfiorato l’orecchio, dal quale si è rialzato mostrando una fibra morale mai vista prima (con annessa foto del secolo, ottenuta naturalmente a fronte di immagini iconiche come quella di Iwo Jima che sono artefatte) e disprezzando l’idea di rintanarsi in casa lontano dai comizi mentre in circolo ci sarebbero almeno cinque team di assassini, alcuni dotati di missili terra-aria, con l’ordine di ucciderlo. (Qui ricordiamo i dittatori uccisi mentre scappano o suicidi mentre si rintanano tra il tanfo del piscio nel bunker)

 

L’attentato di Butler ci ha lasciato senza parole: perché una cosa così non l’abbiamo mai vista. O meglio: giammai abbiam veduto qualcosa che assomiglia di più ad un intervento divino.

 

Come ha detto Tony Hinchliffe, il comico che al comizio del Madison Square Garden della settimana scorsa ha rischiato di far deragliare la campagna di Trump con la battuta su Porto Rico e spazzatura (in realtà, è stata la propulsione per la gaffe odiosa di Biden e il conseguente irresistibile sketch del Trump-netturbino): «noi voteremo il 5 novembre, Dio ha votato il 13 luglio».

 

Non è possibile spiegare in altro modo l’accaduto: i complottisti, che ora stanno a sinistra, hanno provato a dire che era tutta una scenata per prendere voti, tuttavia, oltre ai morti, ricordiamo anche il New York Times che pubblicò l’immagine della pallottola che sfreccia nell’aere, captata per caso dalla macchina del fotografo.

 

Dio vuole che Trump governi? È molto probabile. E la spiegazione che ci siamo dati è piuttosto semplice: certo, Nostro Signore odia l’aborto, ma potrebbe odiare ancora di più la guerra termonucleare globale. Perché la guerra atomica è l’aborto della civiltà. L’assassinio dell’umanità tutta.

 

Il cielo ha assegnato il suo mandato, perché il rischio è che il cielo si ritrovi senza la terra.

 

E quindi, è giusto, per quanto possa sembrare sconsiderato, sentire la cifra mistica di questo momento. È possibile dire: ma Trump ha detto di essere abortista, vuole liberalizzare la provetta (che fa più vittime dell’aborto), con la religione cristiana c’entra poco. Magari è tutto vero: ma quando mai si era visto al mondo che una regolamentazione abortista – la Roe v. Wade – venisse ritirata? Con Trump: una promessa mantenuta tramite la Corte Suprema.

 

Perché se Trump è uno strumento della Provvidenza lo è in quanto essere umano, in quanto essere imperfetto – come tutti noi. È Dio che sa scrivere dritto su righe storte. E al momento, sembra proprio che questa pagina la vuole scrivere.

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Da qui, mandiamo un caro saluto anche ai Soloni ebeti, abbondanti assai nel giro della cosiddetta «controinformazione», che ora berciano il classico «tanto non cambia nulla». Imbecilli: se solo cambiano gli algoritmi censorii di internet (cosa fattibile in un minuto) la rivoluzione sulle nostre vite, potendo dire ed ascoltare la verità, sarebbe immane. Ne sappiamo qualcosa.

 

E ribadiamo: la fine dei banning su internet (non solo sui social), sarebbe un low hanging fruit, un risultato semplice da ottenere.

 

Immaginiamoci il resto: e se Trump comincia, come ha promesso, aa deportare gli immigrati, significa che anche in Italia possiamo cominciare a parlare di «remigrazione»?

 

Se Trump toglie, come promesso, gli uomini dagli sport femminili, significa che magari possiamo arginare la follia gender anche nelle scuole e nelle cliniche italiane?

 

Se Trump chiude con la buffonata ucraina, significa che possiamo tornare ad avere energia a basso costo?

 

Se Trump affonda la NATO, significa che finalmente possiamo avere la pace in Europa?

 

È tanta roba. C’è davvero da perdersi in questa mistica del MAGA, anzi, come si era iniziato a dire l’anno passato, ultra-MAGA. Perché né più e né meno potrebbe trattarsi di un movimento di rigenerazione dell’intero mondo – con le nostre esistenze quotidiane incluse.

 

Concludiamo con un segno concreto di celebrazione, un qualcosa per ricordarsi per sempre di questa giornata. Quattro anni fa, nei mesi in cui la lotta post-elettorale di Trump sembrava possibile, avevamo avuto l’idea di fare una maglietta da vendere ai lettori di Renovatio 21, che allora ci raggiungevano, en masse, tramite Facebook. Circolava questa espressione, quella del «Kraken», il mostro che – come da battuta del film Scontro di Titani (1981) conservata pure nel remake del 2010– sarebbe stato liberato con esiti devastanti.

 

Creammo dunque un simbolo, che chiamammo «Donald Kraken». Un’icona che doveva finire su di una t-shirt per chi segue Renovatio 21. Non facemmo in tempo a realizzarne la produzione – erano, peraltro, i mesi del lockdown duro, e di lì a poco si sarebbero abbattute su di noi censure ed avvertimenti…

 

Il Kraken, come sapete, nel 2020 non venne liberato. È libero ora.

 

La maglietta quindi, a questo punto la rendiamo disponibile.

 

È questa.

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Cotone organico, realizzata in serigrafia – cioè, senza stampa digitale, ma con macchine manuali.

 

Se la volete, costa €49, spese di spedizione in Italia incluse: potete pagare con PayPal, indicando la taglia e l’indirizzo. Per ogni questione ulteriore, scriveteci.

 

Portate pazienza: a breve avremo un ecommerce serio, sì. E con altri prodotti. A breve, giuriamo – perché senza non è che possiamo andare avanti molto.

 

Intanto però volevamo fare questa maglietta, e spedirla a chiunque voglia ricordarsi di questa storia.

 

Lo dobbiamo allo spirito dell’Ultra-MAGA, lo dobbiamo al mandato celeste palesatosi sotto i nostri occhi.

 

Lo dobbiamo ai nostri lettori, perché oggi siamo mostruosamente felici.

 

Roberto Dal Bosco

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Pensiero

La notte di Halloween tra incidenti stradali, vandalismi e chissà cos’altro

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Un numero impressionante di incidenti stradali si sarebbe verificato secondo fonti giornalistiche locali durante la cosiddetta notte di Halloween in quel di Verona, ricca città veneta ormai soffocata da orde di turisti per 365 giorni all’anno e sotto la presa della criminalità straniera e non solo.   E se a Verona è andata così chissà cosa potrebbe essere successo in altri centri grandi e piccoli della penisola, per non parlare di Milano, Roma, Firenze in cui a volte può essere rischioso semplicemente uscire di casa per andare a comprare il pane.   E’ sufficiente digitare su un motore di ricerca «Notte di Halloween» e anche per quest’anno ne leggerete di ogni, tra stupri, violenze di ogni genere, paesini messi a ferro e fuoco a suon di molotov e incursioni fin nel cortile di casa.   Davvero qualcuno immagina che durante la notte di Halloween le cose possano andare diversamente?

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Provate a chiedere ad un amico o conoscente che lavori in un pronto soccorso quale sia la situazione ogni fine settimana, tra accoltellati e adolescenti in overdose da sostanze stupefacenti.    Chi scrive, ricorda bene quando nella sala d’attesa di un pronto soccorso, aspettando l’uscita di un genitore che, grazie al Cielo, non aveva nulla iniziarono ad arrivare individui sconvolti con mani sanguinanti mentre c’era chi in preda a chissà quale crisi o possessione sbatteva la testa contro i vetri urlando.   È ormai quasi sempre Halloween nelle notti italiane ed europee e non solo nelle metropoli, da anni in preda ad una criminalità tanto asfissiante quanto pervasiva, ma anche nei villaggi più sperduti, nella «provincia sonnacchiosa», in collina, ai monti, al mare.   Ce ne vogliamo rendere conto? Qualcuno vuole che sia Halloween tutto l’anno, che l’inferno regni nelle vostre vite sette giorni su sette.   Quel qualcuno, vuole che il sacrificio avvenga sempre, in ogni momento della vostra quotidianità per la completa instaurazione del suo regno sociale, null’altro che il Regno Sociale di Satana.   Victor Garcia 

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