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I sindaci si arrendono a Fleximanno. Lo Stato moderno non lo farà mai

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Fleximan è l’eroe del momento, la cosa è indiscutibile.

 

I giornali ieri dicono che sarebbe arrivato a quota 13. A Villa del Conte, in provincia di Padova, sarebbe stata lasciata anche una rivendicazione, una minaccia, un annuncio: «Fleximan sta arrivando». Ha colpito in Veneto, Lombardia, Emilia Romagna. In una sola settimana è riuscito a colpire cinque volte.

 

L’uomo che col flessibile, sterminatore di autovelox, è divenuto popolare come nessuno. Fleximan, che noi vogliamo chiamare Fleximanno (perché Norman–>Normanno; Herman –>Ermanno; Batman –>Batmanno) sembra trionfare nel cuore del popolo italiano.

 

Le discussioni nei bar d’Italia, città e campagna finalmente all’unisono, non possono vertere su altro. Giornali e telegiornali lo chiamano «vandalo», ma al popolo pare non importare.

 

I social traboccano di suoi ammiratori, tanto che un giudice ha già detto che potrebbe configurarsi per tutti il reato di apologia di reato: il lettore è avvisato, sapete che da lustri oramai si può venire rinviati a giudizio per un like, e in massa, e non scherziamo. (Va detto che vi sono avvocati in rete che dicono che, secondo una sentenza di qualche anno fa, il danneggiamento di autovelox comporterebbe invece una multa, peraltro di entità inferiore a molte multe per eccesso di velocità)

 

Siti e organizzazioni hanno prodotto con l’Intelligenza Artifiziale quantità di immagini del supereroe stradale padano, e anche Renovatio 21, come vedete qui sopra, ci ha dato dentro come poteva. (Apprezzerete la nostra versione, che prevede un elmo stile cavaliere medievale al neon, stile crociato del secolo XXI, e ovviamente il mantello, che forse è un tabarro portato in maniera ribalda).

 

A Padova è spuntato un murales che lo celebra sotto le forme della figlia dell’oscuro tibetologo consacrato portavoce del Dalai Lama Robert Thurman, Uma, nei panni della spadaccina vendicatrice della pellicola Kill Bill (2004): ornata della tuta giallonera di Bruce Lee ne L’ultimo combattimento di Chen (1978), in una mano tiene la katana, nell’altra un autovelox amputato.

 

 

Sono saltati fuori degli emulatori: quello piemontese però è stato beccato, identificato e denunziato.

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La notizia, tuttavia, è la resa dei sindaci. Testate nazionali riportano che un numero di primi cittadini veneti avrebbe alzato bandiera bianca: il segnale che daranno è che non piazzeranno autovelox nuovi al posto di quelli abbattuti dalla furia fleximanna.

 

Il sindaco di Villanova (PD) rifiuta l’idea di una reinstallazione: «in quella stessa strada ce n’è già un altro, e poi dobbiamo tenere conto anche del dissenso delle persone, se c’è chi arriva a tanto non possiamo ignorarlo».

 

Il sindaco di Cadoneghe Marco Schiesaro: «già non ero molto convinto prima, ora con quello che è successo, le indagini e tutto il resto, ho deciso di non reinstallare nulla».

 

Il sindaco di Tribano Massimo Cavazzana: «dobbiamo fare una riflessione, la nostra strada è battuta da molti camion e le auto vanno spesso in sorpasso, però dobbiamo anche trovare un dialogo con la popolazione, magari potremmo accenderlo a fasce orarie e mettere degli avvisi quando è funzionante».

 

Fleximanno ha vinto per lo meno nel padovano: nel rodigino invece un sindaco ha detto che «non possiamo certo darla vinta a questi criminali», un altro sta cercando di sostituire l’autovelox abbattuto alla viglia di Natale.

 

Ora, che i sindaci indicano la ritirata è un segno potente: l’autorità, sentita la vox populi, arretra. Mica capita spesso, anzi. Ma è facile capire cosa stia succedendo: i sindaci dei piccoli comuni non sono solitamente scarrozzati da autoblu con lampeggiante. Sono, cioè, politici non divorziati dalla realtà – anche dalla realtà stradale – come lo sono quelli romani, quelli che fanno leggi e decreti, e poi calpestano il traffico con il macchinone la scorta.

 

Il sindaco del piccolo comune, sempre a differenza di molti politici romani, non è stato sempre sindaco: e quindi si ricorda come anche lui, negli anni, è stato molestato dagli automi implacabili che misurano la tua velocità – e vogliamo dire che proprio da quelle parti c’è un Paese dove, se vi si passa, è impossibile non prendere una multa (lo scrivente, che è uno che tendenzialmente guida pianissimo, ne ha prese due a distanza di pochi giorni) e una tangenziale dove possono arrivarti more per eccesso di 1 chilometro all’ora sul limite.

 

Insomma, il sindaco, nonostante sia entrato dentro il meccanismo dello Stato italiano, potrebbe essere d’accordo: con gli autovelox si è esagerato.

 

L’idea di essere multati senza nessun contatto umano – ti controlla una macchina, una vera Intelligenza Artificiale ante litteram – è snervante per chiunque, per alcuni estremisti non dovrebbe nemmeno essere legale. E i casi di autovelox truccati sono noti: nel 2011 si parlava di 146 comuni coinvolti, centinaia di indagati, una cifra di almeno 82 mila multe emesse ingiustamente.

 

C’è la questione poi del costo: una multa, per molti di noi, è qualcosa che ti cambia l’economia del mese. Il popolo che arranca per arrivare a fine mese apre tremando al postino che porta la raccomandata. Non è così, invece per gli abbienti: anzi, possono considerare la mora come un costo compreso nello spostamento.

 

Un caso del genere lo si è visto a Vicenza pochi giorni fa: un signore con una stupenda Lamborghini ha parcheggiato dinanzi a Piazza dei Signori, Sancta Sanctorum della pedonalità della città più pedonale d’Italia, piazza dove in teoria nemmeno le biciclette potrebbero transitare. Quando i vigili gli hanno detto che dovevano procedere con la multa di ben 100 euro, il ricco personaggio «avrebbe immediatamente mostrato una certa insofferenza e cominciato a darsi delle arie con gli agenti della pattuglia che gli chiedevano di esibire patente e libretto», e poi «avrebbe deriso anche quella cifra, sottolineando che l’avrebbe pagata senza battere ciglio perché per lui sarebbe un importo irrisorio» ha scritto Il Giornale di Vicenza.

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Insomma, le multe, come le tasse, sono un mezzo per spremere i poveri facendoli soffrire, mentre i ricchi possono permettersi di pagarle – o di non pagarle.

 

Il gettito delle multe non è, per lo Stato, una voce da sottovalutare: nel 2022 il «mercato» valeva 3 miliardi, con città come Milano che incassano 150 milioni di euro in un anno dalle contravvenzioni.

 

Lo Stato può rinunziare ad una simile manna? Sono cifre da piccola manovra, sono quello che si definisce nel linguaggio politico-giornalistico un «tesoretto».

 

E quindi: no, il governo non può rinunziarvi, sono tanti soldi. O forse… anche sì?

 

Ipotizziamo: se montasse una vera ondata di malcontento, non è impossibile che l’autorità possa iniziare a considerare di smetterla di depredare le tasche dei cittadini con un sistema percepito via via sempre più come un sopruso. Scelte antieconomico in passato sono già state fatte: pensate dalla denuclearizzazione del Paese seguita al referendum del 1986.

 

È possibile, quindi, che anche al governo possano iniziare a pensarla come i sindaci padovani, i quali, va ricordato, si arrendono al Fleximanno lasciando sul piatto il gruzzoletto annuo delle multe.

 

Tuttavia, bisogna capire che se mai si farà a meno all’autovelox, sarà per istituire un sistema di controllo più. Perché lo Stato moderno non può esistere senza il controllo – diffuso, capillare, digitale, totale – sul cittadino.

 

Il controllo, numerico e biologico, è il fondamento dello Stato moderno. Lo Stato che in realtà è «piattaforma», e il cittadino «utente», dove non ci sono diritti, ma «accessi», tutto sotto la gestione del sistema che richiede non la cooperazione del cittadino, ma la sua sottomissione.

 

Ne abbiamo avuto la prova con il green pass: lo Stato che controllava la tua persona a livello biomolecolare, e che a seconda di esso ti proibiva di uscire e di lavorare, rispetto agli abusi delle contravvenzioni automatiche è avanti di anni luce in fatto di sorveglianza totale.

 

La realtà è che parlare di autovelox, oggi, è come parlare di carrozze e cavalli invece che di auto elettriche. Già vi sono mille sistemi più pervasivi, e non abbattibili, non fleximannabili, per controllare non solo quanto veloce correte, ma dove andate, quante volte, quando, perché.

 

Ci sono i satelliti, ci sono le telecamere intelligenti, magari con il riconoscimento facciale, ci sono i droni – anche quelli visti durante i lockdown, prova generale per la società del controllo, per la tecnocrazia che l’élite sogna di infliggere al resto dell’umanità almeno dai tempi della Repubblica di Platone.

 

Ci sono, soprattutto, i vostri telefonini: lo sapete, vi seguono, vi tracciano, prevedono i vostri spostamenti – e rivendono l’informazione a qualcuno che sui vostri dati lucrerà.

 

Di più: sapete anche che i vostri telefonini vi ascoltano, anche se hanno pure il coraggio di negarlo. Orwell in 1984 raccontava degli incontri dei protagonisti nei boschi, dove si sperava non vi fossero i microfoni del Grande Fratello, anche se il dubbio c’era. Nel XXI secolo, i microfoni del potere totalitario li portiamo appresso da noi, si chiamano smartphone, e che ci spiano senza pietà oramai è cosa che abbiamo perfino accettato, come il protagonista nel tremendo finale del romanzo.

 

Vogliono controllare ogni parte della vostra vita: vogliono stabilire quello che potete e non potete dire su internet (lo fanno già da anni), vogliono stabilire quello che dovete mangiare (dite addio alla carne) , quanto dovete spostarvi (perché, anche solo respirando, emetterete CO2, la sostanza che sta alla base della vita), cosa dovete comprare, quando dovete farlo, dove potrete farlo (le CBDC, l’euro digitale, sono qui) vogliono entrarvi nel cervello con microchip che renderanno le elezioni inutili, dice Klaus Schwab.

 

La tecnocrazia ha già messo i sensori in ogni ambito della nostra vita, e glielo abbiamo lasciato fare, con i computer e con il COVID.

 

Che cosa potrà mai essere, quindi, un autovelox abbattuto, se il mondo intero sta divenendo un’immane, ineludibile, matrice di controllo?

 

Quale Fleximan occorre, per fermare l’incubo biototalitario che si sta caricando in tutto l’Occidente?

 

Roberto Dal Bosco

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Pensiero

Oligarchia e aristocrazia eurodemocratica mondialista, da Ventotene a Kalergi e oltre

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La sinistra italiana perde la testa di fronte alla semplice lettura di brani del Manifesto di Ventotene, che evidentemente nessuno aveva mai letto, soprattutto tra cui se ne riempie la bocca scendendo pure in piazza.   Capiamo che per i sinceri democratici capire che – incontrovertibilmente – il testo base dell’eurodemocrazia spinge per la dittatura è un evento che può portare ad una dissonanza cognitiva esplosiva.  

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«La bussola di orientamento per i provvedimenti da prendere in tale direzione non può essere però il principio puramente dottrinario secondo il quale la proprietà privata dei mezzi materiali di produzione deve essere in linea di principio abolita e tollerata solo in linea provvisoria, quando non se ne possa proprio fare a meno».   Il Manifesto che si vuole alla base dell’Europa scrive proprio così: «La proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio». Gulp: notiamo però anche come continua il passaggio, con un vero cortocircuito per i fan del ReArm Europe: «questa direttiva si inserisce naturalmente nel processo di formazione di una vita economica europea liberata dagli incubi del militarismo o del burocratismo nazionale».   «La rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà essere socialista»   Ma c’è di peggio: «nelle epoche rivoluzionarie, in cui le istituzioni non debbono già essere amministrate, ma create, la prassi democratica fallisce clamorosamente». Ri-gulp. «Nel momento in cui occorre la massima decisione e audacia i democratici si sentono smarriti, non avendo dietro di sé uno spontaneo consenso popolare, ma solito un torbido tumultuare di passioni».   Questa cosa della mancanza di consenso popolare tenetela a mente per dopo, ma il concetto – il comando di pochi sul popolo refrattario: cioè, in pratica, il primato assoluto delle élite – è sviluppato davvero lucidamente:   «Durante la crisi rivoluzionaria» scrive il Manifesto, il movimento «attinge la visione e la sicurezza di quel va fatto non da una preventiva consacrazione da parte dell’ancora inesistente volontà popolare, ma dalla coscienza di rappresentare le esigenze profonde della società moderna. Dà in tal modo le prime direttive del nuovo ordine, la prima disciplina sociale alle nuove masse. Attraverso questa dittatura del partito rivoluzionario si forma il nuovo stato ed attorno ad esso la nuova democrazia».   Potete riconoscere bene cosa è teorizzato qui: il popolo non conta nulla, comandiamo noi, gli esperti che conoscono davvero cosa vuole il mondo moderno. È un pensiero oscuro, aristocratico, dittatoriale – e sa di esserlo. Abbiamo imparato a vedere questa idea pienamente realizzata con il COVID – e di fatto immaginiamo gli estensori del Manifesto ventoteniano tutti mascherinati e penta, esa, epta, octavaccinati.   Giorgia, per una volta, ha fatto una cosa giusta, con tanto di esecuzione perfetta. Vedere Elly Schlein (che su tre passaporti, ne ha solo uno pienamente Schengen) che si strappa i capelli assieme ai compagni di partito con le lacrime agli occhi («oltraggio!») è bellissimo.   Bravo premier: leggere in Parlamento passi come questo era la cosa migliore da fare. Trump lo sta indicando con chiarezza: sgonfiare il pallone di menzogne e corruzione dello Stato-partito è possibile, oltre che doveroso.   Anche perché, sinceramente, non tutti capiscono da dove salta fuori questa cosa di Ventotene oramai assurto a culto di Stato.   Crediamo che sia un’operazione di ridefinizione della storia (con occultamento di verità lapalissiane) nello stile che conosciamo: la guerra in Italia non l’anno vinta americani e inglesi (e i loro bombardieri, che mi racconta ancora oggi lo zio sopravvissuto, erano tanti da oscurare il cielo sopra una piccola città di provincia), macché, la vittoria è stata dei partigiani.   Eccerto: e ce lo hanno ripetuto sino a che ciò non è divenuto dogma inscalfibile e fondamentale (la «Repubblica fondata dalla resistenza»), al contempo cancellando altri fattori del processo – e qui vorremo, al solito, fare il nome di James Jesus Angleton, la superspia americana cresciuta in Italia che fu «madre della CIA», poeta e stratega che fu con probabilità il vero padre dello Stato italiano del dopoguerra.   E quindi: l’Europa non nasce da interessi geopolitici immani, e probabilmente non Europei. Viene piantata a Bruxelles, dove sta la NATO, per caso. L’Europa non nasce nemmeno da macchinazioni massoniche che affondano nei secoli. No, ora ci dicono che l’Europa Unita parte da tre signori messi al confino da Mussolini. Ecco, qui sorge una domanda, scusate: ma perché i fascisti, che sono tremendi, mandavano su un’isola i dissidenti invece di metterli in galera o peggio? Riconosciamo che per alcuni questa domanda suona come una bestemmia, ma non credo che ci possano dare una risposta. Il fascismo uccide Matteotti ma lascia vivere Spinelli? (È vero, tuttavia, che i fascisti uccisero Colorni: ci torneremo sotto)

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Qui vengono pensieri balzani. Non è che questi avessero qualche copertura, di quelle alle quali nemmeno il fascismo poteva resistere? Ci sovviene il caso di Alberto Beneduce (1877-1944), già collaboratore del primo sindaco anticlericale e massone, oltre che ebreo, Ernesto Nathan (che voci sussurrano potrebbe essere figlio di Mazzini), tesserato del PSI e massone a sua volta, uomo dietro alla creazione dell’assicurazione INA e dell’IRI, tanto importante per l’Italia mussoliniana che per quella democristiana.   Le idee socialiste di Beneduce, che fu senatore e ministro del Lavoro, non è che fossero tanto nascoste: tre delle sue figlie si chiamavano Idea Nova, Vittoria Proletaria e Italia Libera. Un altro figlio lo ha chiamato Ernesto, immaginiamo in onore al Nathan. Essendo questo un articolo in cui parliamo di famiglie e aristocrazie democratiche (abietta contradictio in adjecto), vale la pena di ricordare che Idea Nova Beneduce nel 1939 divenne moglie di Enrico Cuccia, il mitico dominus, potentissimo e silentissimo, di Mediobanca.   Nel 1936, in pieno ventennio, Beneduce era al contempo presidente dell’IRI, delle banche pubbliche Crediop e ICIPU, dell’Istituto per il credito navale, nonché membro del Consiglio d’amministrazione dell’IMI e dell’Istituto nazionale dei cambi. Nel privato era presidente della Società Italiana per le Strade Ferrate Meridionali (la società chiamata Bastogi). Assieme al governatore della Banca d’Italia Donato Menichella fu ispiratore della legge bancaria del 1936.   Insomma, il socialista Beneduce era fuso pienamente con il deep state dell’Italia fascista. Intoccabile ed indisturbato. Che cosa permetteva a chi veniva da mondi politici distanti e non aderiva all’ideologia del totalitarismo italiano di rimanere in circolazione? Non sappiamo dire.   Qualcuno può pensare che, anche allora, vi fosse un piano più grande all’opera, che non riguardava solo l’Italia – del resto, la Giovine Europa era proprio un’idea, ci fanno studiare a scuola, del Mazzini, proprio quello che alcuni dicono fosse padre del Nathan, morto da terrorista latitante come un Bin Laden qualsiasi.   Ecco che ci viene in aiuto il libro della scomparsa antropologa Ida Magli, il cui titolo è più che mai d’attualità, La dittatura europea: «(…) ad Altiero Spinelli è stato indispensabile delle potenti società semisegrete di cui abbiamo parlato, e della grande finanza nelle vesti di Gianni Agnelli. Spinelli era infatti membro del Bilderberg e fondatore assieme ad Agnelli dell’Istituto per gli Affari Internazionali Italiano».   Lo Spinelli nel Bilderberg: sì, pare se lo siano dimenticati tutti nella costruzione dell’eurosantino – non che la cosa, tuttavia, disturbi le sensibilità piddine. Al contempo, la Magli non aveva paura di fare nome e cognome dell’ingrediente ulteriore che con l’oscura aristocrazia eurodemocratica ha voluto riformulare i Paesi del continente: l’oligarchia.   «Non sappiamo se fosse la sua condivisione degli interessi di Agnelli alla mondializzazione del mercato, o il suo odio per la Nazione Italia a spingerlo su posizioni europeiste assolute» accusa la Magli. «Fatto sta che non è mai riuscito, pur avendo ottenuto grandi vantaggi dall’europeismo, quali un seggio parlamentare e il posto di Commissario europeo, a far conoscere e apprezzare il suo movimento all’opinione pubblica italiana».

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Proprio quello che sembra: l’europeismo, anche in Italia, è un movimento inflitto, in nessun modo organico alla popolazione, che di suo lo respinge. Gli europeisti convinti che si vedono in giro – con tanto di foto lombrosiane – esistono solo all’interno di piazza artificiali, come quella vista negli scorsi giorni, dove ad organizzare vi è un sedicente giornalista di satira, con doppio cognome, scrivente per qualche ragione da sempre sul giornale dei casati aristo-capitalisti dei Caracciolo e degli Agnelli, ora confluiti nella dinastia rabbinica degli Elkann.   Parliamo ovviamente di Repubblica, creata dal «laico» (sapete, in Italia, questo aggettivo a cosa è equivalente…) Eugenio Scalfari, che più di ogni altro riuscì negli ultimi decenni ad agglutinare un consenso popolare all’ascesa della sinistra di governo, vezzeggiando e rimestando il «ceto medio riflessivo» (professori, impiegati del para-Stato, e altre demografie con la pancia riempita automaticamente e tanto tempo libero), in modo da far percolare certi ideali – come l’amore incondizionato per l’Europa, non condiviso, per esempio, dal PSI – ed essere dirimente nella politica di era prodiana.   Eppure, nemmeno con i cannoni di Repubblica si è riusciti a rendere Spinelli una figura popolare (che è quello che, un po’ in ritardo, stanno cercando di fare ora).   «(…) È probabile che questa mancanza di riscontro popolare sia stata dovuta anche all’arroganza e dittatorialità del suo comportamento, un comportamento che appare, sotto questo aspetto, perfino peggiore di quello di Coudenove-Kalergi» tuona la Magli.   Qui spunta ancora, inevitabile, la figura del conte austriaco di famiglia greco-veneziana e di madre giapponese (cosa che, crediamo, gli ha creato qualche scompenso: leggetevi le sue conclusioni su razze e genere nei suoi libri per capire lo squilibrio): di Kalergi – di fatto progettatore del piano di invasione immigrazionista che stiamo vivendo – non si deve parlare, e perfino i ministri che vengono dall’ex MSI dicono di non conoscerlo. Non se ne deve parlare soprattutto vicino a Ventotene: anche se la Pan-Europa kalergiana è riconosciuta essere prodromo del Manifesto di Spinelli e compagni.   Dicevamo: quello che propongono qui, sotto la vernice democratica, è non solo una dittatura (appunto: la Dittatura europea) ma una vera aristocrazia, in cui comandano i pochi che sono nel giusto. E magari, trasmettono un po’ di potere anche ai figli.

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Certo è che le famiglie dei ventoteniani sono interessanti.   Ernesto Rossi (1897-1967) si sposò nel 1931 in reclusorio con rito civile: era un anticlericale sfegatato. La sposa, Ada Rossi, è definita «partigiana» e «antifascista», oltre che fondatrice con il marito e i ventoteniani del Movimento Federalista Europeo. Si ricordano i suoi legami con Gaetano Salvemini, che gli disse «avessi mai potuto fabbricarmi un figlio su misura me lo sarei fabbricato pari pari come te» e più tardi con il giovane Marco Pannella: finito il Partito d’Azione, Rossi era entrato nel Partito Radicale ai suoi albori, accettando di presiedere, poche ore prima di morire, la manifestazione dell’«apertura dell’Anno anticlericale».   Eugenio Colorni (1909-1944), l’unico a non morire nel suo letto effettivamente assassinato dai fascisti della banda Koch a pochi giorni dalla liberazione, proveniva da una famiglia ebraica di commercianti lombardi. La madre era una Pontecorvo, ulteriore famiglia ebraica pisana che conta nella sua discendenza il fisico nucleare Bruno Pontecorvo (allievo di Fermi, con cittadinanza britannica, poi fuggito in URSS) e il regista Gillo (autore di film anti-colonialisti ammaniti al pubblico cinefilo mondiale come il tremendo La battaglia di Algeri o Queimada!).   Sposò una correligionaria ebrea, Ursula (anche lei) Hirschmann (1913-1991), che proveniva da un’agiata famiglia dell’ebraismo tedesco. Il fratello, Albert Otto Hirschmann, era un economista che fu poi candidato al premio Nobel. Conobbe Colorni a Berlino, lo frequentò a Parigi per poi seguirlo a Trieste e Venezia. Come ribadito da Elly Schlein in Parlamento, la Hirschmann è riconosciuta tra i fondatori del mito di Ventotene.   Con Colorni ebbe tre figlie, tra cui Renata – traduttrice dei capolavori della letteratura tedesca, con molti anni spesi a collaborare con l’editore Adelphi – e Eva, che nel 1973 fu presa in moglie da un’altra figura centrale del mondialismo, l’economista e filosofo indiano premio Nobel Amartya Sen. Più tardi, sempre per parlare di «aristocrazie» e casati giudaici, il Sen avrebbe sposato Emma Georgina Rothschild, della nota famiglia di banchieri.   Dopo la morte di Colorni, la moglie Ursula – in un caso di endogamia tra europionieri – si risposò proprio con Altiero Spinelli. Nel 1975 aveva formato a Bruxelles il movimento Femmes pour l’Europe («donne per l’Europa»). Morta nel 1991 dopo anni in cui perse la parola a seguito di un aneurisma, è sepolta a Roma al cimitero acattolico. Il matrimonio con Spinelli portò nel 1946 la nascita della giornalista (zona Repubblica, ça va sans dire) ed europarlamentare (con il partito biodegradabile «L’Altra Europa con Tsipras») Barbara Spinelli, di cui si ricorda l’attivismo per impedire l’eligibilità di Silvio Berlusconi al Senato.   Barbara Spinelli è stata la compagna del grand commis superfunzionario italico Tommaso Padoa Schioppa (1940-2010), già ministro dell’economia del governo Prodi II (quello de «le tasse sono una cosa bellissima e civilissima»), vicedirettore generale della Banca d’Italia, presidente della CONSOB, dirigente del Fondo Monetario Internazionale, nonché Membro del Comitato esecutivo della Banca Centrale Europea, considerato da alcuni come uno dei fondatori della moneta unica, l’euro. Una mela non cade molto dall’albero…

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Le ridondanze e le ramificazioni, in questa storia (possiamo dire, anche per ischerzo, euro-pluto-giudaico-massonica?) di piccole dinastie, aristocrazie, oligarchie, sono tantissime.   Ora con il culto di Ventotente pare che dobbiamo riverire questo demi-monde eurodemocratico come si trattasse di famiglie di una monarchia: in realtà lo sono, perché l’accentramento del potere, pure a dispetto del popolo, è da essi teorizzato apertis verbis. Non dovete quindi stupirvi delle elezioni romene, né di altro.   Il problema più grande è che ora, l’Europa di questi qui vuole armarsi per poi – con ogni probabilità – scontrarsi con la Russia. Cioè, mette in pericolo tutti noi.   Quanto potremmo ancora tollerare di essere dominati da chi ci pone in un simile pericolo?   Roberto Dal Bosco  

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Mons. Viganò: la UE concepita per distruggere la sovranità nazionale

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L’arcivescovo Carlo Maria Viganò ha scritto su X alcune considerazioni riguardo l’Unione Europea, tema più che mai attuale nel momento in cui questa chiede un riarmo del continente.

 

«L’Unione Europea è un’entità concepita per sottrarre sovranità alle Nazioni, assorbendole in un superstato tecnocratico totalmente asservito agli interessi di una ristrettissima oligarchia finanziaria, eversiva e criminale» accusa monsignore. «I principi che la ispirano, gli scopi che si prefigge e i mezzi che intende usare sono antitetici rispetto alla nostra identità, alla nostra civiltà, alla nostra Religione».

 

Viganò lancia quindi un accorato appello alle superpotenze planetarie.

 

«Il Presidente Putin e il Presidente Trump devono aver ben chiara la minaccia costituita dal globalismo guerrafondaio dell’Unione Europea, nella quale emergono sempre più evidenti i tratti di una dittatura contro i propri stessi cittadini. Ed anche se la questione ucraina sembra prossima ad una soluzione grazie ai colloqui tra Mosca e Washington, è indispensabile estromettere dalla scena politica internazionale quanti – come Macron, Starmer e Carney, ma anche von der Lyen e Draghi – si credono investiti di un ruolo che nessuno riconosce loro».

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«Quanto più emergeranno gli scandali e i conflitti di interesse di questi cortigiani dell’élite globalista – che la censura di regime non riesce più a insabbiare – tanto più la loro azione diverrà marginale e la loro presenza imbarazzante» dice l’arcivescovo lombardo.

 

Quindi un auspicio per il futuro, dove giudizio e castigo siano possibili per quanti hanno portato il continente sull’orlo del baratro.

 

«Un futuro di pace e di concordia tra i popoli è possibile solo dove gli eversori che da decenni tramano contro i loro popoli siano portati a rispondere dinanzi all’opinione pubblica dei propri tradimenti, dei propri crimini, delle proprie menzogne».

 

Come riportato da Renovatio 21, un mese fa in merito alla UE contraria l’accordo per la pace in Ucraina monsignor Viganò aveva dichiarato che «è a dir poco sconcertante vedere con quale cinismo l’Unione Europea e la NATO stiano cercando di impedire la fine di un conflitto provocato dall’élite globalista che manovra entrambi».

 

Quindi, «di fronte a questa ostinata determinazione a creare morte e distruzione, e ai vergognosi tentativi di ostacolare il processo di pace, dobbiamo esprimere il nostro sostegno a coloro che agiscono nell’interesse della pace e condannare apertamente le azioni dei guerrafondai asserviti al globalismo massonico».

 

In un discorso su governo mondiale e sinarchia del gennaio 2024, Viganò aveva detto che «in un certo senso, l’élite è riuscita a estromettere lo Stato dal suo ruolo naturale per favorire un super-Stato che agisce non nell’interesse della collettività, ma dell’élite stessa. Questo in definitiva è il ruolo dell’Unione Europea e del governo federale americano in mano al deep state».

 

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Immagine di Thijs ter Haar via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic

 

 

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Economia

Draghi della distruzione: reloaded

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La verità è che vi eravate dimenticati di lui. Pensavate di averla fatta franca: del resto, gli italiani hanno votato la Meloni proprio in reazione ai due anni di suo governo. E poi ce lo siamo evitato come presidente della Repubblica con il bis a Mattarella, con nasi tappatissimi un po’ dappertutto. No?   Mario Draghi, invece, riappare. Intonso, pontificante: il suo potere, che non è facile capire bene da dove derivi, pare non essere scalfito in nessuna parte. Draghi invincibili. Draghi intrombabili. E dove trovarli.   E quindi, eccolo che dà, in italiano nel testo, il suo contributo per lanciare l’Italia nel suo futuro di guerra ipersonica e termonucleare.

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«Occorre definire una catena di comando di livello superiore che coordini eserciti eterogenei per lingua, metodi, armamenti, e che sia in grado di distaccarsi dalle priorità nazionali operando come sistema di difesa continentale» ha detto in un’audizione al Senato l’ex premier.   Perché, le azioni di Trump – cioè dell’uomo che lavora per la pace mondiale – «hanno drammaticamente ridotto il tempo disponibile»: Washington ha votato con Mosca all’ONU sulla risoluzione a difesa dell’Ucraina, lasciando Bruxelles sola (e con il cerino in mano). I «valori costituenti» dell’Europa sono quindi «posti in discussione».   «La nostra sicurezza è oggi messa in dubbio dal cambiamento nella politica estera del nostro maggior alleato rispetto alla Russia che, con l’invasione dell’Ucraina, ha dimostrato di essere una minaccia concreta per l’Unione Europea».   «Il ricorso al debito comune è l’unica strada. Per attuare molte delle proposte presenti nel rapporto, L’Europa dovrà dunque agire come un solo Stato».   Il contorno di filosofia politica è gustosissimo, con tanto di aneddoti messi a ciliegina. «Diversi di voi mi hanno chiesto: questo significa cedere sovranità?» dice il Super Mario, rispondendo: «ebbehcerto!». Quindi parte la storiella: «guardate, vi racconto una cosa che riguarda il presidente Ciampi… molti anni fa eravamo insieme in uno degli ultimi negoziati sulla costruzione dell’euro. Lui mi diceva: “tutti mi dicono: ma perché vuoi fare l’euro, tu ora sei sovrano della tua politica monetaria… ma che sovrano, io non conto niente, oggi devo fare quello che fa la Bundesbank [la Banca Centrale tedesca, ndr]… domani sto intorno ad un tavolo ed avrò una fettina di sovranità… e questa è la storia, la politica monetaria italiana è stata fondamentalmente non una politica monetaria sovrana».  

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Mario, qua la mano: e grazie della sincerità. Il re è nudo – e nemmeno è sovrano di nulla.   Queste affermazioni, tuttavia, non sono state fatte ad un evento incentrato sul ReArm UE dell’ex bundesministro della Difesa Von der Leyen, ora Commissario Supremo dell’Europa Unita. No: il contesto è quello dell’Audizione presso le Commissioni riunite Bilancio, Attività produttive e Politiche Ue di Camera e Senato in merito al Rapporto sul futuro della competitività europea».   Cioè: in teoria, si parlava di economia, e nel suo discorso Draghi lo ha fatto, pure soffermandosi a lungo sulla questione della guerra, includendo «anche l’intelligenza artificiale, i dati, la guerra elettronica, lo spazio e i satelliti, la silenziosa cyberguerra».   Insomma si parlava di crescita economica, che ora, senza tanti infingimenti, finisce per identificarsi con l’industria delle armi. È evidente a tutti: la Germania – contro la cui rimilitarizzazione sono state create la NATO e forsanche la stessa UE – ora gode perché la Volkswagen, messa in ginocchio dai diktat green, ora può felicemente riconvertirsi alla costruzione di veicoli da guerra come faceva ai tempi di Adolfo – che in un contesto di guerra di droni, robot e missili ipersonici non sappiamo bene a cosa serviranno.   La crescita insomma passa per strumenti di offesa. La nuova creazione del valore passa per la distruzione. Non è che avevamo già sentito questa musica?   Sì. Renovatio 21 ne aveva parlato tre anni fa, quando Draghi, ancora a Palazzo Chigi, parlava di «ricostruzione» del «dopo-emergenza». L’articolo si chiamava «“Ricostruire l’Italia” con i draghi della distruzione», di cui ora bisogna fare il reload.   «La “ricostruzione” che abbiamo davanti non pare in nulla simile a quella del dopoguerra. Soprattutto, perché non è una vera ricostruzione. Essa è, innanzitutto, e sempre più dichiaratamente, distruzione» scrivevamo. Perché non si tratta mica di un’opinione nostra, ma di un concetto economico-filosofico abbracciato alla luce del sole. Eccoci ripiombati nell’idea della «distruzione creatrice».   Possiamo dire che Draghi la distruzione la conosce: anzi, possiamo dire che persino la teorizza e la invoca. Lo si capisce leggendo un testo fatto uscire dal cosiddetto Gruppo dei Trenta, un consorzio elitista transnazionale di finanzieri ed accademici creato decenni fa dalla Rockefeller Foundation a Bellagio – un organismo, anche abbreviato in G30, di cui Draghi ha fatto parte come «membro senior».   A fine 2020 il Gruppo pubblicò saggio di analisi che riguardava i cambiamenti economici del mondo post-COVID chiamato Reviving and Restructuring the Corporate Sector Post-COVID. Nel testo il nome di Mario Draghi compare co-presidente del comitato direttivo. Nelle prime pagine del libro Draghi scrive, con tanto di firma autografa, anche alcuni ringraziamenti «per conto del Gruppo dei Trenta».

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Nel saggio compare apertis verbis la «distruzione creativa», un concetto coniato dall’economista austriaco Joseph Schumpeter (1883-1950), nominato nel 1919 a pochi mesi dalla fine dell’Impero degli Asburgo ministro delle finanze per la prima Repubblica d’Austria. Non seppe tenere il posto, andando quindi a dirigere una banca, per poi tornare all’accademia ed emigrare oltreoceano nel 1932 approdando alla prestigiosa università di Harvard – cuore intellettuale pulsante del patriziato transatlantico – dove fece il professore fino alla morte.   Qui compose il trattato economico Capitalismo, socialismo e democrazia (1942), dove lo Schumpeter lancia l’idea della distruzione creatrice (schöpferische Zerstörung) come «processo di mutazione industriale che rivoluziona incessantemente la struttura economica dall’interno, distruggendo senza sosta quella vecchia e creando sempre una nuova».   La distruzione di interi comparti professionali è per l’economista austriaco la condizione ideale per l’economia e la sua necessaria evoluzione. Ora tornate a leggere la data di pubblicazione di questo inno alla distruzione: uscì in America quando la distruzione concreta della guerra si abbatteva sulla guerra, e gli USA di Roosevelt si armavano per entrare in Guerra su due fronti, riconvertendo la propria industria e, di fatto, uscendo così del tutto dalla Grande Depressione.   A questo punto vi viene in mente qualcosa, se guardate dalla finestra?   Schumpeter, nel documento 2020 del Gruppo dei 30 del dicembre 2020, è menzionato una sol volta, tuttavia l’intero testo sembra girare intorno al suo concetto di distruzione creatrice.   «I governi dovrebbero incoraggiare le trasformazioni e gli adeguamenti aziendali necessari o desiderabili nell’occupazione.» scrive il testo del Gruppo di Draghi. «Ciò potrebbe richiedere una certa quantità di “distruzione creativa” poiché alcune aziende si restringono o chiudono e ne aprono di nuove e poiché alcuni lavoratori devono spostarsi tra aziende e settori, con un’adeguata riqualificazione e assistenza transitoria».   Insomma, il piano è noto. È noto anche ciò che lo anima: non la creazione – un concetto, se vogliamo, cristiano – ma la distruzione, che più che al Dio creatore e salvatore che ha informato l’Europa e legata a concetti oscuri dello shivaismo e del tantrismo, sistemi di pensiero gnostici trapelati nel codice sorgente dell’Occidente moderno.   Il sanscritista britannico Monier-Monier Williams (1819-1899) aveva per questo pensiero delle parole lucidissime: «la perfezione buddista è distruzione». Così: per le filosofie orientali, la scomparsa dell’io (in sanscrito, anatman) o l’estinzione del ciclo cosmico stesso (nirvana) sono i segni dell’illuminazione raggiunta. Illuminazione è distruzione.   Possiamo dire ciò è vero anche per gli arconti che ci governano: gli illuminati sono distruttori. I sapienti esperti ed intoccabili, saliti sulle loro torri ed eurotorri senza che si comprenda davvero perché, ci indicano la via della distruzione come l’unica da seguire.   Vedete come il quadro diviene perfettamente comprensibile: distruggere per procedere, procedere per distruggere. Solo così, comprendendo che la Cultura della Morte è un fondamento del mondo moderno e dei suoi padroni, è possibile spiegare la follia di questi anni, dai sieri genici allo scontro sempre più diretto con la maggiore superpotenza atomica mondiale.   Solo con la Necrocultura della distruzione è possibile spiegarsi la persistenza dei draghi.   Là fuori c’è chi vuole distruggervi – e ve lo dice in faccia, ed è pure pagato da voi. Non è una questione economica, ma materiale, metafisica: perché in gioco c’è la vostra stessa esistenza e quella dei vostri figli. Che sono minacciati di essere disintegrati in quindici minuti dalle scelte dei draghi distruttori.   Roberto Dal Bosco

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