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Renovatio 21 recensisce Tokyo Vice

Nel 1999 un giovane ebreo del Missouri, Jake Edelstein, dopo aver studiato all’Università di Tokyo, trova lavoro presso la principale testata locale. Si tratta del primo straniero ad assurgere ad un tale ruolo. Che è in verità, inizialmente, piuttosto basso: scrivere articoli da striminziti comunicati della polizia, andare alla cerca di ladri di mutande in quartieri della capitale, etc.
Jake realizza che per comprendere la megalopoli, incomprensibile nei suoi equilibri umani e tradizionali, deve entrare in contatto con un poliziotto veterano in grado di spiegargli come funziona il mondo. Il ragazzo entrerà nel ventre oscuro di Tokyo, tra i loschi locali di hostess e la soffice onnipresenza della yakuza in ogni cosa.
Produzione HBO Max, trasmessa ad aprile 2022 sulla piattaforma americana, Tokyo Vice in Italia deve ancora trovare distribuzione. Il primo episodio lo dirige Michael Mann, e si vede abbastanza. Lo showrunner è J.T. Rogers, premiato drammaturgo di Broadway. Produce Ken Watanabe, qui anche attore. E produce pure Jake Edelstein: perché esiste, ed è autore del libro da cui è tratta l’opera. Tokyo Vice: An American Reporter on the Police Beat in Japan (2009).
Si tratta, sotto sotto, di una storia vera. Anche se sulla veridicità dello stesso libro molti hanno storto il naso.
Yakuzeria
nutile negare che, più che la polizia giapponese evocata nel titolo, l’elemento principale è la curiosità dello spettatore verso la yakuza – la mafia nipponica.
Tokyo Vice è di fatto un grande yakuza-movie spalmato in 8 episodi. Con l’intenzione di riempire ore e ore di girato con quelle atmosfere che 40 anni fa facevano impazzire Ridley Scott e quindi il mondo intero: i neon che pulsano nella lattiginosa tenebra edochiana (edochiano: modo arcaicamente figo per dire in lingua italiana «di Tokyo»), visioni che sono state iperbolizzate in Blade Runner e poi riprese propriamente in Black Rain.
La Yakuza è la creatura, fiera e silente, tranquilla e selvaggia, del mistero della notte giapponese. Grazie alla serie, impariamo tante cose. Uno dei protagonisti di quest’opera polifonica è Sato, un giovane yakuza alle prime armi ma già ben considerato dal suo Oyabun, il capomafia.
Vediamo la vita all’interno di un clan yakuza – eteronimo, quest’ultimo, perché loro si fanno chiamare ninkyō dantai, ovvero «organizzazioni cavalleresche».
In effetti, il membro della yakuza vive una sorta di vita monastica, fatta di varie cerimonie iniziatiche.
Nella serie vediamo anche la cerimonia antropologicamente più conosciuta: lo yubitsume, la mutilazione rituale del mignolo come segno di fedeltà e ammenda da un errore.
L’irezumi, il tatuaggio che a seconda dell’importanza del soggetto ricopre gradualmente tutto il corpo – dando spesso al mafioso potente e gerarchicamente avanzatissimo l’epatite – viene mostrato in tutta la sua complicazione.
L’antagonista della serie, il diabolico e crudele Tozawa, ne è una dimostrazione lampante. Vediamo i tattoo giapponesi ostentati in una scena di doccia e rilassamento termale: i mafiosi devono stare tra loro, perché nei bagni pubblici non sono ammessi i tatuati. Cosa che dovrebbero sapere anche gli occidentali che più o meno involontariamente hanno copiato sul loro corpo l’usanza yakuza.
La realtà è che la yakuza è qualcosa difficile da capire per gli occidentali abituati al concetto di criminalità come esclusione dalla vita comune, cioè «malvivenza». La yakuza è risaputamente integrata nella società nipponica. In modi che forse non è bene indagare – ma è quello che in effetti il protagonista vuol fare.
Lo spettatore resta perplesso quando capisce che in Giappone vi sono riviste di fan della Yakuza, con articoli e foto dei boss e dei loro sottoposti, i kyodai («fratelli maggiori») e shatei («fratelli minori»). Insomma, vere fanzine mafiose: immaginate pubblicazioni acquistabili in edicola o in libreria che celebrano i padrini di mafia, ‘ndrangheta e camorra… (Se state pensando a libri, trasmissioni TV, serie e film di Roberto Saviano, siete delle cattive persone)
La Yakuza per lo più non dispone di armi da fuoco, in teoria, perché la legge sul possesso di pistole nel Paese è draconiana. Le famiglie mafiose hanno palazzi di residenza che fanno da quartier generale, dove la polizia talvolta può andare a prendere il té, così per rispetto, o per collaborare su certi temi non connessi ai business mafiosi. Che sono i soliti: droga, prostituzione, strozzinaggio, etc.
La mafia infatti è in Giappone perfettamente lecita: la legge prevede la libera associazione, e quindi niente al mondo, secondo la mentalità giuridica giapponese, può sciogliere un gruppo yakuza. È emerso, di recente, che alcuni clan yakuza abbiano istituito esami di legge per entrare a far parte della famiglia. O conosci la giurisprudenza giapponese, oppure, spiacenti, il criminale non lo puoi fare.
Il colmo per noi è sentire la storia per cui alcuni negozianti che pagavano il pizzo hanno denunciato la yakuza. Ma non per il pizzo: perché, pur pagandolo, avevano offerto una protezione insoddisfacente.
Gaijini per sempre
Uno corposo sotto-plot è quello che riguarda Samantha Porter, una ragazza americana che lavora come hostess nel quartiere Kabukicho. In Giappone, la hostess è una sorta di cascame della geisha: non si tratta esattamente di una prostituta, ma di una ragazza elegante e acuta con cui conversare dietro l’acquisto di bottiglie pregiate da consumare al tavolo dei locali.
Edelstein, che esiste davvero, oltre che aver pubblicamente svergognato un Oyabun che lo ha poi minacciato di morte, è noto per aver investigato i casi di sparizioni di alcune hostess. In particolare la britannica Lucie Blackman, uccisa ad un dohan (appuntamento privato a pagamento) con uno stupratore e assassino seriale. Il medesimo killer avrebbe ucciso anche Carita Ridgway, una modella australiana che faceva la hostess nel quartiere alto di Ginza.
In Tokyo Vice, la storia di Samantha assume una luce particolare quando, avanti negli episodi, si capisce davvero qual è la sua storia. Mostrando un pezzo di America all’estero che, pur essendo visibile anche qui da noi, non è sempre ben comprensibile (non spoileriamo niente).
In generale, è potente nella serie l’analisi del gaijinato, cioè dell’essere gaijin. La parola gaijin dovrebbe significare genericamente «straniero», ed è composta dai caratteri 外 (gai, fuori) e 人 (jin, persona). Il gaijin è la persona che sta fuori, che è estranea al gruppo sociale.
Secondo la sociologa Chie Nakane, si tratta di un tratto difficilmente eliminabile dal carattere nazionale. Nel suo saggio degli anni Settanta La società giapponese – ovviamente controverso, e contestatissimo – la Nakane spiega come il disprezzo per «ciò che sta fuori», ossia una sorta di verticalità clanica, si riproduca anche all’interno della società. Ad esempio nella rivalità tra zaibatsu, cioè conglomerati. Dove il bidello della Toyota può prendere per i fondelli l’amministratore delegato della Nissan se quell’anno i risultati hanno premiato la sua azienda. Insomma: in Giappone rimani straniero anche quando sembra che ti abbiano fatto entrare del tutto – potete leggervi Stupori e tremore di Amélie Nothomb (anche un film strimmabile su Prime) per capire di che dramma surreale stiamo parlando.
In pratica, stai fuori anche se sei dentro.
Memento Operazione Fugu
Il povero Jake, che in Tokyo Vice entra nella redazione del prestigioso giornale locale Meicho (che è in pratica lo Yomiuri Shinbun, dove lo Edelstein lavorò davvero) di questo nipporazzismo ne sa qualcosa: trattato come una pezza da piedi da Baku, il suo collega superiore razzista. I giapponesi, che in teoria non dovrebbero avere cognizione dell’argomento, gli rinfacciano pure spesso di essere un judaijin, ossia un ebreo, al punto che in redazione lo chiamano «Mossaddo». Vi può essere qui una reminiscenza dell’Operazione Fugu, che se non verrà trattata qui ci domandiamo dove potrebbe mai esserlo.
L’operazione Fugu era un progetto dell’impero giapponese per portare un grande numero di ebrei in Manciuria. Mentre nell’Europa di Hitler spopolavano i Protocolli dei savi anziani di Sion e tutto l’antisemitismo forsennato, i Giapponesi cominciarono a farsi un’idea diversa del popolo giudeo: insomma, ma se sono così bravi con il danaro da controllare tutto come dicono i tedeschi, forse possono darci una mano a finanziarizzare il Paese. In sintesi il pensiero era questo, ma era altresì grande la consapevolezza del rischio: se avevano ragione i nazi, si trattava di qualcosa di pericolosissimo, potenzialmente velenoso.
Come il fugu: il pesce palla, una prelibatezza che, se cucinata male, può uccidere – solo pochi ristoranti possono infatti servirlo, e sono classificati a seconda del numero dei morti annui. Bando Mitsugoro VIII, attore Kabuki riconosciuto dal governo come ningen kokuho, cioè «tesoro nazionale vivente», ne magnò quattro in una serata, e ne perì.
Ecco: un po’ come il fugu, per la yakuza (che inizialmente lo avvicina e lo coccola) la presenza di Edelstein si rivelerà abbastanza dannosa. Anche se non lo sappiamo ancora: la serie purtroppo termina in medias res, nell’impellenza di una seconda stagione per far arrivare un po’ di nodi al pettine.
Vegliardi nipponici ruban la scena
Il protagonista Ansel Elgort, salito alla semicelebrità audiovisiva con il cancro-movie The Fault in Our Stars, non è che convinca troppo, però è bravo quando incassa. Rachel Keller, vista nella serie Fargo, non fa impazzire nessuno, né per bellezza né per bravura né per senso di spaesato mistero: la strada doveva essera quella di Kate Capshaw in Black Rain, ma siamo lontani anche da quel modello.
Rinko Kikuchi, conosciuta in occidente per Pacific Rim, non aiuta più di tanto – ma la sua storia di cripto-coreana in Giappone potrebbe promettere bene (una categoria ampia e opaca, che va dal guru terrorista Shoko Asahara al visionario miliardario dell’Intelligenza Artificiale Masayoshi Son).
Ken Watanabe, qui anche produttore, watanaba come non ci fosse un domani: smorfiette perplesse, sopraccigli severi, modi da duro epperò intrisi di infinita saggezza: egli è davvero «l’unico uomo incorruttibile che io abbia mai conosciuto», gli dice uno yakuzo ad un certo punto.
Sono i vegliardi nipponici che interpretano gli Oyabun, e i tamarri che fanno i sottoposti, a valere il prezzo del biglietto di Tokyo Vice.
Mono no aware: nota personale
Ecco che quindi, essendo a grande trazione nipponica, la serie si fa guardare in tranquillità. Specie se si ha interesse a vedere qualcosa di autentico sul Giappone.
Una nota personale. Lo scrivente lustri e lustri fa si trovava in Giappone e considerava la possibilità di fermarsi e apprendere fino in fondo quell’idioma impossibile. I ragazzi occidentali con quest’idea, come il Jake di Tokyo Vice, sono tantissimi, e li vedi ogni giorno sul treno assorti in libri di grammatica. A salvare lo scrivente da questa prospettiva fu un libro, sfogliato per caso in una libreria del quartiere di Roppongi. Si trattava di un volume fotografico, che mostrava quantità di scatti di gaijin euro-americani che avevano deciso di stabilirsi a Tokyo.
Le foto erano implacabili: eccoli nel loro micro-appartamento, seduti a terra, espressione persa, fasciati da una qualche forma di kimono. Erano, tutti, una raffigurazione perfetta del gaijin nel senso etimologico descritto: l’uomo che sta fuori, e che mai entrerà, nonostante sia fisicamente e magari pure moralmente già dentro.
Grazie all’orrore provocato da quel libro, il sottoscritto abbandonò l’idea.
È stato bello, quindi, vedere che il microappartamento di Jake, vecchio e angusto e incasinato, rimanda alla medesima percezione disperata. La quale è qualcosa di davvero autentico che qualcuno può trarre dalle cose giapponesi.
Mono no aware, la tristezza delle cose, il lato transeunte, impermanente, fragile dell’essere, le lacrimae rerum di virgiliana memoria.
E anche lo schifo morale ed immobiliare che può farti un tugurio microscopico che sa di solitudine mistico-infinita, e polvere.
Articolo previamente apparso su Mondoserie.it
Immagine screenshot da YouTube
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Ode all’equinozio di primavera

Oggi, 21 marzo, è il giorno dell’equinozio.
Tecnicamente, significa che la rivoluzione ha portato il sole allo zenit rispetto all’equatore. Tecnicamente, questo momento è stato raggiunto ieri, 20 marzo, alle ore 22:24.
Questo è il giorno in cui il giorno è in equilibrio con la notte. Questo è il giorno in cui inizia la primavera – il momento di rinnovamento, di rigenerazione della vita. Anche se il mondo moderno non vi fa più caso, l’importanza di questo giorno è conosciuta, e misteriosamente tramandata, nei millenni della storia umana.
Come ad ogni equinozio, Renovatio 21 vuole scrivere qualcosa. O meglio, lasciare la parola a quei pochi che hanno voluto, nel corso della storia, significare sulla cara la meraviglia di questo momento.
Questa poesia si chiama proprio L’Equinozio di Primavera («The Spring Equinox»). L’autrice è Anne Ridler (1912-2001), poetessa inglese che aveva lavorato con T.S. Eliot. Questi versi sono stati scritti alla fine degli anni Trenta.
Concediamoci questo momento di meditazione estetica. Concediamoci questa «pausa tra il sonno e la veglia».
Sospendiamoci in questa metafisica del passaggio, quando «il sole oscilla sulla linea equinoziale», e la nostra anima può permettersi per un attimo di concepire la bellezza del creato e dei suoi cicli.
Now is the pause between asleep and awake: Two seasons take A colour and quality each from each as yet. The new stage-set Spandril, column and fan of spring is raised against the winter backdrop. Murrey and soft; Now aloft The sun swings on the equinoctial line. Few flowers yet shine: The hellebore hangs a clear green bell and opulent leaves above dark mould; The light is cold In arum leaves, and a primrose flickers Here and there; the first cool bird-song flickers in the thicket. Clouds arc pale as the pollen from sallows; March fallows are white with lime like frost.
This is the pause between asleep and awake: The pause of contemplation and of piece, Before the earth must teem and the heart ache. This is the child’s pause, before it sees That the choice of one way has denied the other; Must choose the either, or both, of to care and not to care; Before the light or darkness shall discover Irreparable loss; before it must take Blame for the creature caught in the necessary snare: Receiving a profit, before it holds a share. |
Ora è la pausa tra il sonno e la veglia: due stagioni prendono ancora un colore e una qualità ciascuna da ciascuna. Sullo sfondo invernale si erge la nuova scenografia con pennacchio, colonna e ventaglio di primavera. fulva e morbida; Ora in alto Il sole oscilla sulla linea equinoziale. Pochi fiori brillano ancora: l’elleboro pende un chiaro campanello verde e foglie opulente sopra la muffa scura; La luce è fredda nelle foglie di arum, e una primula guizza qua e là; il primo fresco canto degli uccelli guizza nella boscaglia. Le nuvole sono pallide come il polline dei salici; I maggesi di marzo sono bianchi di calce come il gelo.
la pausa della contemplazione e del silenzio, prima che la terra brulichi e il cuore soffra. Questa è la pausa del bambino, prima che veda che la scelta di un modo ha negato l’altro; Deve scegliere l’uno o l’altro, o entrambi, di preoccuparsi e non preoccuparsi; Prima che la luce o l’oscurità scoprano una perdita irreparabile; prima che debba prendersi La colpa per la creatura presa nella trappola necessaria: ricevere un profitto, prima che detenga una quota |
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La morte di Kenzaburo Oe, lo scrittore premio Nobel testimone di Hiroshima

Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.
Scomparso all’età di 88 anni. Nel 1994 fu il secondo giapponese a ricevere il prestigioso riconoscimento per la letteratura. Dopo l’incidente di Fukushima si era fatto promotore di una campagna che chiedeva la chiusura degli impianti nucleari. Forte nelle sue opere anche la capacità di descrivere i drammi interiori dell’uomo di oggi.
La casa editrice Kodansha ha reso nota la morte dello scrittore giapponese Kenzaburo Oe, Premio Nobel per la letteratura nel 1994. Aveva 88 anni e il decesso avvenuto il 3 marzo sarebbe legato all’età.
La sua è stata una carriera di scrittore lunga e prolifica, segnata da riconoscimenti prestigiosi: il suo fu il secondo Nobel per la letteratura assegnato al Giappone dopo quello del 1968 a Yasunari Kawabata. La sua opera è stata influenzata da due eventi precisi: l’esperienza del conflitto vissuta da bambino (aveva dieci anni quando il Giappone dichiarò la resa il 14 agosto 1945) e la disabilità del figlio Hikari oggi 59enne, apprezzato compositore.
Le paure suscitate dalla guerra hanno segnato la sua memoria, a partire – lui stesso raccontava – da quella di non riuscire a mostrare la fedeltà e lo spirito di sacrificio allora richiesti in Giappone anche ai più piccoli, ma anche dall’esperienza delle bombe atomiche sganciate sul suo Paese che hanno più volte ispirato i suoi lavori. Un ricordo determinante per alcuni suoi libri, come Note su Hiroshima del 1965 e poi Note su Okinawa del 1970.
La sofferenza propria e quella del popolo giapponese durante il conflitto e per le sue conseguenze, permea molti suoi scritti ed è alla base del suo convinto impegno pacifista e anti-nuclearista. Al punto che dopo l’incidente dei reattori nella centrale di Fukushima-2 nel 2011 si fece promotore di una campagna che, con milioni di sottoscrizioni, chiedeva la chiusura degli impianti nucleari.
«Ripetere con la costruzione di reattori nucleari l’errore di mostrare la stessa mancanza di rispetto verso la via umana è il peggiore tradimento possibile della memoria delle vittime di Hiroshima», dichiarò alla rivista The New Yorker, dieci giorni dopo che il blocco dei sistemi di raffreddamento provocato dal fortissimo terremoto e dall’ancora più disastroso tsunami dell’11 marzo di 12 anni fa innescasse il rischio di una nuova catastrofe nucleare.
Oe ha anche pubblicato opere più introspettive, autobiografiche, a partire da Un’esperienza personale del 1964, con la descrizione di un uomo incapace di accettare la nascita di un figlio cerebroleso in un contesto di una famiglia in crisi.
La lunga e prolifica carriera di Oe era iniziata nel 1957, quando era ancora studente di letteratura francese all’Università di Tokyo, con la pubblicazione di La preda, cruda visione della sorte di un aviatore afro-americano catturato in un villaggio giapponese che gli portò l’assegnazione del Premio Akutagawa l’anno successivo a soli 23 anni.
Per il pubblico mondiale Il grido silenzioso pubblicato in Giappone nel 1967 e tradotto successivamente in molte lingue, è stato il suo, dirompente, biglietto da visita, mostrando le caratteristiche sottolineate nella motivazione del Nobel, assegnato nel 1994: la sua capacità di «creare con forza poetica un mondo immaginario dove vita e mito si condensano per formare una immagine sconcertante della difficile condizione umana di oggi».
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Rileggere 1984 oggi

Negli ultimi tre anni si è parlato molto di distopie, di incubi che si avviano purtroppo a divenire realtà, superando l’immaginazione romanzesca.
Il capostipite indiscusso di questa narrativa di anticipazione, delle utopie negative, è indubbiamente 1984 dell’inglese George Orwell. Il titolo 1984 era un piccolo espediente letterario: l’inversione delle ultime due cifre, in quanto scritto nel 1948. La storia ci mostra uno scenario di mondo futuro dominato da un totalitarismo cupo, terribile, molto simile allo stalinismo ma, in qualche modo, anche ai fascismi, una sorta di sintesi di quelli che erano stati i totalitarismi dominanti negli anni Trenta.
In quegli anni Orwell, pseudonimo di Eric Blair, inglese nato nelle colonie, esattamente nel Bengala, era un giornalista militante nella sinistra britannica andato volontario nella guerra di Spagna, dove potette assistere agli orrori di quel conflitto, compiuti non solo dai franchisti, ma anche dai repubblicani, che si accanivano soprattutto contro religiosi e religiose innocenti, arrivando a fare tra di essi circa settemila vittime.
Tornato in Inghilterra totalmente disincantato, Orwell cercò di raccontare le storture delle ideologie, a cominciare da quella comunista, sotto forma di racconto allegorico, quasi una fiaba, sul modello di Jonathan Swift. Nel 1945 aveva pubblicato La fattoria degli animali, una satira brillante e dolorosa del comunismo sovietico. Infine, portando alle estreme conseguenze l’avversione per il totalitarismo, pubblicò 1984.
La condanna di tutte le ideologie totalitarie garantì maggior fortuna a questo libro, considerato, nella letteratura utopistica del Novecento, il classico per eccellenza.
Gli elementi positivi e affascinanti di questo romanzo, però, stanno nell’esaltazione dell’individuo che si oppone al sistema, un uomo comune che si erge, con la sua piccola e banale vita, a contestare, a fermare il potere devastante del Grande Fratello.
Orwell non ha una prospettiva religiosa, bensì scettica, che parte dal desiderio di libertà dell’uomo, del piccolo uomo comune che cerca di sopravvivere al peso schiacciante del controllo esercitato non solo a livello sociale, ma anche individuale, dal potere rappresentato da quella espressione – Grande Fratello – ovvero un potere impersonale, senza nome e senza volto, semplicemente l’occhio che ti scruta ovunque vai, in tutti i particolari della vita. Un antidoto a questo potere è la memoria. La memoria contro la dimenticanza, che è invece uno degli strumenti del Grande Fratello.
L’incipit di 1984, che si apre sulla stesura di un diario, porta immediatamente in primo piano il tema della memoria, vero e proprio leitmotiv del romanzo. L’opera di Orwell si interroga continuamente, quasi ossessivamente sul ricordare, indagando a fondo il suo valore, il suo rapporto con la realtà e i suoi aspetti problematici, prime fra tutti le difficoltà che comporta ogni tentativo di recuperare il passato e inserirlo in una continuità di significato che coinvolga anche il presente e il futuro.
Il super-stato di Oceania, vero e proprio protagonista del romanzo più che semplice sfondo all’azione, è un condensato degli incubi e delle paure della generazione uscita dalle due Guerre mondiali e dall’esperienza dei grandi totalitarismi europei.
Oceania, vera e propria anti-Utopia è una società post-totalitaria, in cui il Partito dominante è davvero riuscito ad assicurarsi un potere assoluto ed eterno perché, in maniera vampiresca, ha privato il mondo della sua natura materiale e tangibile e lo ha trasformato in un intrico di narrazioni autoreferenziali, una sorta di «realtà virtuale», costruita in laboratorio, che prende il posto di quella reale.
Questo vale innanzitutto per l’atteggiamento del governo di fronte alla storia. La storia viene totalmente riscritta, manipolata, censurata, trasformata come in un laboratorio alchemico. L’obiettivo del gruppo dominante non è semplicemente alterare la storia in modo che rifletta i suoi canoni e i suoi giudizi, ma eliminarla tout court come possibile criterio di riferimento.
Ogni totalitarismo è, prima e al di là di ogni colore politico e ideologico, un enorme laboratorio per la trasformazione della natura umana e la creazione di una sorta di nuova specie. È proprio per questo motivo che il lettore di 1984 non può non assistere con trepidazione e angoscia alla sorte del protagonista, Winston Smith, l’ultimo uomo da riassorbire dal corpo sociale senza volto come una cellula tumorale.
Orwell si chiede insieme a Winston Smith quale memoria sia possibile in un mondo che si è sbarazzato del tempo e della verità, se quest’ultima continui a esistere, anche laddove è calpestata e negata, o se, di fronte a un potere che si arroga il diritto di affermare che due più due fa cinque, la risposta non possa davvero soltanto essere il «completo silenzio». Un silenzio che può essere rotto dall’incontro tra persone.
Orwell sembra aver profetizzato l’odierna ossessione per il politicamente corretto nel linguaggio, che porta spesso a esiti grotteschi. «Chi controlla il passato controlla il futuro, e chi controlla il presente controlla il passato», recita uno degli slogan del Partito.
L’obiettivo del Potere è, in ultima analisi, il completo controllo del pensiero e della coscienza. In altre parole, giungere a un pensiero unico. E se uno non si adegua, scattano le sanzioni per quello che viene definito lo «psico-reato». La colpa di pensare con la propria testa, di usare la propria coscienza anziché quella immateriale, collettiva. La coercizione usata dalla dittatura è subdola, apparentemente non violenta. Non è la brutale violenza del Nazismo e dello Stalinismo, ma non è meno efficace nel voler distruggere l’uomo.
E anche se la conclusione del libro è drammatica e può indurre al pessimismo, in realtà queste pagine hanno il pregio non da poco di tenere deste le coscienze di chi legge.
Paolo Gulisano
Articolo previamente apparso su Ricognizioni.
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