Pensiero
Gli ucraini non pagano il pedaggio in autostrada. E ci comandano
Gli ucraini non pagano il pedaggio in autostrada. Quando ho letto la notizia ho subito pensato ad una battuta, una cosa tipo Lercio, una barzelletta che finalmente sfotte la situazione di sottanza morale degli italiani verso il popolo di Zelens’kyj.
Poi ho controllato il messaggio: la cosa sembrava più seria, non c’era traccia di umorismo. Forse era una nuova trovata, finalmente originale, di micropropaganda Azov, tipo «casellante autostradale italiano lascia passare pullmino di profughi di Leopoli». Ci sta. Anni fa passai per l’Iran in macchina: quando il casellante seppe che eravamo italiani, ci fece passare senza pagare nulla. Fu un momento magico di amicizia fra i popoli.
No, non è nemmeno una notizia di colore. Il messaggio su Telegram ha un link. Non è il sito di un giornale, è, per direttissima, un link al sito della Società Autostrade.
«Ai sensi e per gli effetti dell’Ordinanza n. 876 del 13 marzo 2022 della Presidenza del Consiglio dei Ministri – Dipartimento della Protezione Civile, si comunica l’esenzione dal pagamento del pedaggio autostradale per i transiti effettuati da cittadini ucraini, e/o soggetti comunque provenienti dall’Ucraina, che entrano nel territorio italiano per raggiungere il primo luogo di destinazione o di accoglienza».
Proprio così.
Gli ucraini non pagano l’autostrada. Tutto vero.
Pensavate di aver visto tutto, con la storia degli ucraini – vaccinati neanche al 30%, e chissà con cosa – e l’esenzione dal super green pass?
Credevate che con la sostituzione dei sanitari no-vax con lavoratori ucraini si fosse raggiunto il fondo?
Maddeché. Hanno appena cominciato.
Dovete prepararvi a titoli a decreti pro-Kiev eccezionali: «gli ucraini esentati dalla fila al supermercato», «i rifugiati ucraini possono passare con il rosso», «soffiarsi il naso senza fazzoletto: gli ucraini possono», «gli ucraini possono detenere armi da guerra» – pardon, questa ultima è vera, anche se al momento solo nel loro Paese, e sono armi da guerra che sta regalando il contribuente italiano.
Di fatto non c’è nulla di che scherzare.
Avevamo già visto, in passato, questo senso di sudditanza psicologica nei confronti di popoli ritenuti «martiri». Come non ricordare il terzomondismo – cioè l’idea che siccome vieni da un Paese povero e corrotto (anche a decenni dalla decolonizzazione) allora ci hai ragione – dei centri sociali, magari con accenti nordafricano-arabeggianti negli anni Novanta e primi Duemila (cioè, prima di capire che ai maghrebini non interessava esattamente il movimentismo comunista). Come dimenticare gli Inti-Illimani, 50 anni di carriera come portatori della sofferenza inflitta al popolo cinese dal golpe di Pinochet. El pueblo unido jamás será vencido. Oriana Fallaci, nella sua fase anti-islamica e filo-israeliana lamentò lo strapotere degli studenti palestinesi nelle università europee: chissà se aveva ragione, però la carta del popolo-martire, ai tempi di Arafatto, funcicava alla grandissima.
Possiamo capirlo, è un fenomeno umano. Incontrare nel 1993 una signora che ti dice che viene da Vukovar non poteva non sortire effetto – anche se, di fatto, chi scappava dai Balcani in Italia o in Germania non si comportava esattamente da vittima.
Il problema è che l’Ucraina – Paese che qualora entrasse in Europa sarebbe paradossalmente il più grande e di gran il più povero, nonostante la ricchezza di risorse – non si ferma alle autostrade aggratis.
Lo vediamo sempre più spesso: l’Ucraina comanda.
Lo si vede molto bene in televisione. Un programma di La7 invita con costanza imbarazzante un ragazzo italofono, che crediamo si colleghi dal suo Paese. Definito giornalisti, il giovane per qualche motivo non pare essere al fronte, a meno che non spari con qualche battaglione runico negli orari in cui non è ospite di Giletti.
Il ragazzo è partito indossando gli occhiali e cercando di offrire la sua opinione. Ora, senza lenti, si autoinquadra nella telecamerina del PC collegato con la nostra TV nazionale in modo irruento, il volto ossuto e stempiato, le urla a interrompere chiunque, da Franco Cardini (chi ci tocca di difendere!) a Luca Telese.
Proprio con il genero di Enrico Berlinguer va in onda una prima prepotenza interessante. Il Telese ogni tanto ha avuto dei momenti di lucidità, come quando di recente si è domandato se dopo la balla della strage al teatro di Mariupol’ – quella che, in assenza di corpi da esibire, le stesse autorità ucraine dovettero smentire – se dobbiamo credere a quel che vediamo (poco dopo gli hanno dato la strage di Bucha, forse avrà cambiato idea, non sappiamo).
Ecco quindi che nello spezzone di YouTube, Telese accenna alle svastiche del Battaglione Azov, al quale, si rende incredibilmente conto, «non possiamo dare armi», in quanto sono «milizie nazifasciste… che c’ha le rune della Seconda Guerra Mondiale sulla spallina». La preoccupazione, dice, gli arriva dal «New York Times, non dal Manifesto».
La risposta, sempre gridata: «il New York Times ha scritto tante boiate». Il Battaglione Azov, spiega, in realtà «è un reggimento». Quindi, «come si può dare ad un reggimento della Guardia Nazionale… finanziato dallo Stato… che porta la bandiera Ucraina… dire che sono neonazisti? Ma stiamo scherzando?»
Minga è finita. Dulcis in fundo: «non è una svastica! Si informi! È una runa… la smetta con queste SS! Guardi che le rune sono esistite prima delle SS… e la svastica si trova anche per esempio nei templi in India, onnò? Si trovano onnò le svastiche nei templi in India? Si trovano… Voi dite che sono neonazisti… non è vero!»
E niente. Glielo lasciano dire, così, tranquilli. Nessuno si dissocia, nessuno si imbarazza. È bellissimo.
Pensiamo all’occasione persa per tanti poveri ultras di tutta Europa – potevano andare in curva con le croci uncinate su striscioni, e in caso dire alle forze dell’ordine, ai giudici, ai giornalisti: «embè, la svastica ci stava da prima di Hitler. Non ce l’abbiamo perché abbiamo appena fatto un viaggio in Tamil Nadu, alla ricerca della spiritualità indiana, nei templi induisti tra lingam e scimmiette. ‘Ste rune non c’entrano col Terzo Reich: sono celtiche, anzi etrusche, anzi, guardi che anche il venetico usava una scrittura simile, stiamo per dare in massa l’esame di epigrafia preromana».
La voglia di ridere ci passa quando lo Youtubo ci offre un altro video simile. Il solito personaggio ucraino – dicono giornalista – è alle prese con un altro ospite in collegamento, un giornalista russo.
L’ucraino gli urla ripetutamente nella lingua di Leone Tolstoj. «Complimenti, mi sta offendendo in russo sulla TV italiana» tenta di abbozzare il moscovita.
Ma questo non è nulla: con fare ieratico, l’ucraino riprende la parola, in italiano.
«Per tutti coloro, che sono i mandanti, per tutti i propagandisti, e gli esecutori dei crimini contro i civili ucraini, dovete avere paura fino all’ultimo giorno della vostra misera esistenza. Ridi finché puoi, ridi. Poi non riderai più. Abbi paura, fino alla fine dei tuoi giorni. Perché noi vi troveremo tutti. Come ha fatto Israele dopo il ’72, dopo l’attentato, troveremo tutti e li puniremo. E capirete, finalmente la lezione di Dostojevskij, del Delitto e del Castigo»
Segue altra espressione in lingua slava.
Potete guardare il video qui sopra è controllare. Sì, è successa una cosa del genere, sulla TV italiana.
Un cittadino ucraino ha lanciato una minaccia – fantastorica, ma dettagliatissima – contro un cittadino italiano. Forse è legale, non sappiamo. Di certo nessuno l’ha interrotto, anche quando chiaramente stava raschiando il fondo della sua fantasia.
Fantasia che tuttavia per lo spettatore italiano –quello per il quale Putin sta perdendo la guerra, e le sanzioni sono una idea geniale – può essere scambiata per realtà. In questo universo parallelo, dove si compirà la tremenda vendetta dell’ospite di Gilletti, l’Ucraina vincerà la guerra e manderà dei kidon (le squadre di assassini del Mossad) ad ammazzare maree di russi.
Il rimando diretto è alla vendetta contro i palestinesi ritenuti responsabili della strage delle Olimpiadi di Monaco, la storia, negata da Israele per le patenti violazioni del diritto internazionale – uno, ricorderete, fu ucciso a Roma – divenuta il film di Steven Spielberg Munich. Perfino Spielberg e il suo sceneggiatore, ambedue ebrei, nel film lasciano trapelare qualche dubbio: giusto vendicarsi in giro per il mondo, facendo sparatorie e piazzando bombe in casa d’altri?
Per l’ucraino la prospettiva è accettabile. Così come potrebbe esserlo quella del caso del rapimento da parte dei servizi dello Stato Ebraico del nazista Adolf Eichmann per portarlo a processo, e condannarlo a morte, in Israele. Anche quello un po’ spinosetto, e non esattamente digerito dal diritto internazionale: Ian Shapiro, grande politologo di Yale, apre il suo corso di Filosofia Morale dello Stato indicandone le non piccole contraddizioni.
Non importa: ci viene detto che gli ucraini, in termini della futura vendetta, la pensano già come gli israeliani. La qualcosa è una paradossale conferma dell’influenza dell’ideologia Azov sul mainstream ucraino: in un’intervista del 2018, il fondatore del Battaglione Azov Andriy Biletsky ha spiegato di considerare Israele e il Giappone come modelli per lo sviluppo dell’Ucraina. Stati mono-etnici, dove ottenere la cittadinanza, al di fuori di precisi requisiti di razza, è pressoché impossibile. Stati che sono, con il neanche tanto segreto placet americano, armati fino a denti in modo illegale: Israele ci ha 200 e passa testate atomiche non dichiarate, il Giappone è pacifista per Costituzione ma nelle sue «forze di autodifesa» (basta non dire «esercito», una parola anticostituzionale) ha più caccia della Gran Bretagna.
Insomma, gli ucraini, sulla TV italiana, comandano. Possono dire qualsiasi cosa. Possono insultare, mentire in modo ridicolo, ingenerare fantasie minacciose.
Nessuno li ferma. Sbarra alzata. Casellante arreso. Nessun pedaggio.
La cosa non si limita, tuttavia, alla grottesca televisione nazionale dello Stivale.
Se ci pensate, la prepotenza è uno dei tratti precipui dell’opera mediatica di Zelens’kyj e dei suoi ministri.
In collegamento da un bunker dello Stato più povero e corrotto di Europa, un Paese che ha portato alla distruzione, Zelens’kyj chiede più armi. Costantemente.
Zelens’kyj chiede la no-fly zone, perfettamente conscio del fatto che Putin ha detto che a chiunque tenti di istituirla la Russia dichiarerà guerra seduta stante.
Zelens’kyj chiede i MiG polacchi.
Zelenskyj chiede missili antiaerei S-300 (di fabbricazione russa…)
Zelens’kyj chiede più sanzioni.
Zelens’kyj chiede che la Russia sia espulsa dal Consiglio di Sicurezza ONU.
Zelens’kyj chiede ancora armi.. Anzi, chiede «l’1% dei caccia e dei carrarmati NATO»
Ambasciatori e ministri ucraini dicono ai Paesi che usano il gas russo che devono farne a meno, subito. Lo pretendono, lo ordinano. Anzi, non basta solo il gas: gli altri Paesi devono rinunciare a qualsiasi cosa.
«Non è solo il gas russo, è petrolio, carbone, metalli, diamanti e altre materie prime. Noi (Ucraina) siamo diventati la più grande vittima di questa relazione perversa. Gli ucraini stanno pagando con la vita questa politica tedesca fallita», ha detto l’ambasciatore ucraino in Germania Andrij Melnyk all’agenzia Reuters poche ore fa.
«Questo tipo di ipocrisia con la Russia risale al Nord Stream 1 (gasdotto)», ha affermato Melnyk. «L’enorme dipendenza della Germania dalla Russia, in un momento della peggiore aggressione dalla seconda guerra mondiale, è vergognosa».
Notate anche qui, come nel caso del tizio della TV italiana: l’ucraino comanda, e insulta.
La cosa bella è che i tedeschi, per motivi psicanalitici che ora non vogliamo nemmeno affrontare, tacciono. Si fanno comandare, e insultare, dall’ucraino. Un po’ come i sanitari italiani, che pagano l’autostrada mentre i profughi ucraini prendono il loro posto di lavoro in ospedale.
Va tutto bene: noi intanto continuiamo a trasmettere. Zelens’kyj parla al Parlamento italiano. Zelens’kyj parla al Congresso USA. Zelens’kyj parla ai deputati inglesi. Zelens’kyj parla alla Knesset, il Parlamento israeliano, e paragona la situazione ucraina all’Olocausto: glielo lasciano fare, anche se qualcuno, che magari ha avuto i nonni deportati nei campi dalle truppe ucraine di Stepan Bandera, si è inalberato.
Zelens’kyj parla al premio Grammy, anche se agli Oscar, con grande scorno dello Sean Penn, invece non ce lo hanno voluto.
Zelens’kyj chiede che la Russia sia «portata alla giustizia».
Zelens’ky chiede se l’Occidente non abbia per caso paura della Russia, visto che non gli arriva la quantità di armi necessaria. (Mentre, come riportato da Renovatio 21, alcuni foreign fighter sono scappati perché mandati al fronte senza armi e senza munizioni).
È pazzesco. Richieste continue, isteriche, ondivaghe, di un egotismo totale: si rende conto il presidente ucraino che armare l’Ucraina significa portare il mondo a pochi metri dall’abisso termonucleare della Terza Guerra Mondiale?
La risposta è: sì. È l’unico modo che ha per sopravvivere, lui e i nazisti che lo circondano. Senza Terza Guerra Mondiale, l’Ucraina – nonostante la propaganda allucinatoria occidentale – verrà spazzata via con tutta la sua élite, e quindi «denazificata». Immaginiamo che succederà quello che successe a Norimberga. Forse no, forse i processi saranno diversi, o non ci saranno.
Ad ogni modo, voi capite il perché di questa tracotanza, di questa chuzpah, del mendicante che pretende di scegliere, del poveraccio che strepita e comanda. Alternative non ce ne sono. Urlando imperiosamente, fanno dimenticare al mondo, e forsanche a loro stessi, la loro situazione: un Paese bello e ricco distrutto da decadi di cleptocrazia oligarchica (miliardi di debito internazionale pur partendo con zero debito nel 1992, poche o nessuna infrastruttura creata), con una politica talmente corrotta e idiota da aver portato la guerra per sfinimento della pazienza del Cremlino – il quale ha dimostrato di averne riserve che possono durare anche anni, ma ad una certa, bum. Tutto debitamente annunciato per tempo, peraltro.
Ma non disperate: la vittoria finale della bandiera gialloblù e vicina, e quindi lo sarà anche la resa dei conti, su modello «israeliano» o meno che sarà.
Tuttavia la a situazione, quando il comico che suona il piano con il pene avrà vinto eroicamente la sua guerra contro Putin, diverrà brutta non solo per i filorussi. Lo sarà anche per certi ucraini, soprattutto quei pochi maschi che – segreto che i giornali non vi dicono – sono riusciti a passare il confine, dove i doganieri di Kiev trattengono gli uomini 18-60 anni per farne carne da cannone.
Leggiamo su un canale Telegram che il capo del Consiglio di sicurezza e difesa e nazionale di Kiev avrebbe appena affermato che «Tutti gli uomini che hanno lasciato l’Ucraina dopo l’inizio delle ostilità saranno fermati al ritorno. “Dovranno spiegare dove e come sono riusciti ad attraversare il confine”». Danilov ha sottolineato che tutti gli uomini che hanno lasciato l’Ucraina sono stati registrati.
Riuscite a capire con chi abbiamo a che fare? Ricordate cosa è successo al negoziatore?
Volete credere alle cose che vi urlano, alle immagini che vi mostrano?
Volete ascoltare le storie che vogliono obbligarvi a credere?
Davvero: volete prendere ordini da questi?
Volete farvi insultare, e nel frattempo distruggere i vostri interessi, perdere il lavoro, passare l’inverno al freddo, esperire per la prima volta in generazioni la fame?
Se la risposta è sì abbiamo per voi una buona notizia: abbiamo il governo giusto per procedere in questa generazione direzione.
Se la risposta è no, è il caso di dire: diamoci una svegliata.
Perché, dopo il COVID, stiamo avendo, a bruciapelo, un altro caso conclamato di «psicosi di formazione di massa».
Con la differenza che dall’amore per le molecole di mRNA stiamo passando per ipnosi massiva a quello degli atomi di uranio delle bombe che possono mettere fine alla Civiltà umana.
Roberto Dal Bosco
Immagine di Treleau via Deviantart pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-NonCommercial 3.0 Unported (CC BY-NC 3.0)
Pensiero
Di tabarri e boomerri. Pochissimi i tabarri
Abbiamo lanciato su queste colonne un mese fa una dura condanna dei cosiddetti Baby Boomer, cioè i nati dal 1946 al 1964, definendoli come «generazione perduta nel suo egoismo». In altri articoli, come quello sulle gemelle suicide Kessler, abbiamo definito sempre più il tiro riguardo la cifra utilitaristico-mortifera di questa fetta della popolazione.
Molti dei problemi che stiamo vivendo, crediamo, derivano da questo gruppo generazionale, cui tutto è stato concesso senza che nulla fosse dato in cambio. I boomer con il loro narcisismo tossico, la loro avarizia, il loro edonismo autistico hanno mandato alla malora il mondo, portandolo sull’orlo del collasso. I boomer come volenterosi carnefici della Necrocultura, come agenti di decadenza, come soldati della fine della Civiltà. Questa è un’analisi che non ci togliamo dalla testa.
Tuttavia, il lettore deve sapere come il direttore di Renovatio 21 abbia visto rimbalzare il concetto del male boomerro ad un evento, forse più prosaico di questi pensieri, cui ha partecipato di recente.
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Il vostro affezionatissimo un paio di mesi fa è andato a dare una mano a degli amici che producono tabarri durante una piccola fiera che si tiene in un castello medievale sperduto nel deserto padano piacentino. Nella piattezza della campagna emiliana (o… lombarda?) si tiene questa rassegna che dovrebbe essere incentrata sulla frutta antica, ma a cui partecipano vari artigiani.
Gli amici facitori di tabarri vi avevano allestito, con sforzo non indifferente, un piccolo banchetto ricchissimo: diecine di capi, il banchetto, lo specchio, il mobile per i cappellacci, manichini, locandine, foto, registratore di cassa e bancomatto. Lo scrivente era lì per aiutare: come presidente della Civiltà del Tabarro mica posso esimermi dall’opera di evangelizzazione, cioè di tabarrizzazione del mondo: convertire le moltitudini del paganesimo giubbotto per portarle verso la luce della verità vestimentaria, del gusto immortale, della storia umana, della Civiltà, del Tabarro.
Sono stati due giorni di fatica impressionante. In piedi per una diecina e più di ore, interazioni con centinaia di persone (non sempre piacevoli: ci arriveremo), una caviglia dolente perché rottasi cadendo a settembre per le scale dell’Università di Scampia (un’altra storia, un’altra volta).
Già dopo qualche ora abbiamo cominciato a percepire che forse gli avventori della fiera non rappresentavano esattamente il nostro target, ma in fondo non era vero – c’era qualcosa di diverso, di più sottile, che ci turbava.
Accanto a noi, c’era, appena separato da una colonna e dai nostri appendi-abiti, il banchetto di un ragazzotto oltre i cinquanta, simpatico e gentile, che vendeva un unico prodotto specifico: copertine di lana. Tali copertine non incontravano, diciamo, il gusto nostro e dei nostri amici: fatte di lana grezza, con fiorelloni e altri motivi non irresistibili…. e poi, l’idea che quelle sembravano coperte, più che da letto, da ginocchia, da divano, cioè da televisione.
Non riuscivo ad immaginarne altro uso: uno che guarda la TV (immagine che dentro di me è quasi divenuta antica, come un bisnonno che si scalda un pentolone d’acqua per lavarsi) e che, nel culmine della narcosi catodica, vuole riscaldarsi le gambe, divenute inutili, proprio come accade agli astronauti in assenza di gravità: la televisione non prevede l’uso degli arti, trasforma i suoi utenti in tronchetti mutilati, quindi è normale che si senta la necessità di riscaldarsi davanti al fuoco freddo del palinsesto televisivo.
Eppure, il ragazzotto aveva lo stand pieno, strapieno. Sempre. Noi no. E quelle copertine, mica le vendeva a poco. La ressa attorno al suo banchetto era totale, continua. «Pare che venda gelati» dice il mio amico, che ha fatto il commerciante dagli anni Sessanta, e usa questa espressione spesso per dire che un negozio è pieno di clienti.
Il lettore avrà capito chi fossero gli infiniti clienti della copertineria. Erano, senza eccezione, tutti boomer. Un’esercito, un’armata, che sgomitava assiepata per comprarsi la calda copertina di lana. «Quanto costa questa»…? Altre domande non mi è parso di sentirne, anche perché probabilmente non era possibile farle. Il boomerro compra un prodotto monodimensionale, e l’unico dato con cui si misura davvero è il prezzo.
Da noi, tra i tabarri più belli del mondo, invece, poche persone. Sicuramente molte, molte meno del nostro vicino copertinista. Tuttavia, nelle interazioni che abbiamo avuto, ha cominciato a svilupparsi un pattern.
Entrava spesso qualche boomer, giubbottino di ordinanza, che in realtà era diretto poco più in là. Se avvicinava al punto al bancone che non era possibile registrarlo come semplice curioso: ti tocca, a quel punto alzarti (se sei riuscito a sederti un minuto), avvicinarti, salutare, ricevere, e fargli la domanda più cordiale che si possa fare: «vuole provare un tabarro?»
Risposta: «assolutamente no. Volevo solo dire che ce lo aveva mio padre». Tale replica è stata ottenuta praticamente identica in forse una dozzina di diversi occasioni – ripetiamo: è un pattern riconoscibile. Dicevano proprio: «assolutamente no». Assolutamente. Detto dalla generazione che l’assoluto lo ha perso per strada, è un bel segno di rifiuto, probabilmente non solo del tabarro.
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Subito dopo averci edotto del tabarro paterno, e averci fatto capire quando si sente diverso dal genitore, il boomer medio, rifiutato di provare il capo (nemmeno per fare qualcosa di particolare, ad una fiera), si dirige – indovinate, indovinate – a comprarsi la copertina lì a fianco. Lì spende, tocca, prova, è il suo prodotto. Con evidenza, ne vede l’utilità esistenziale: si immagina subito con il telo lanoso di fiorelloni variopinti steso sopra le gambette mentre guarda Rete 4.
Vi è tuttavia un ulteriore pattern che dà speranza, e completa l’analisi. L’avventore volontario, entusiasta, che chiede del tabarro, lo tocca, lo prova, si guarda e riguarda allo specchio mentre lo indossa in tutte le sue varianti (aperto, chiuso, intabarrato a destra, intabarrato a sinistra, colletto su, colletto giù), gli vedi che in testa gli macina l’immaginazione: come sarebbe uscire con gli amici con il tabarro? Senti, talvolta, delle domande sussurrate: «ma quanto figo sono, così?».
Il giovane aspirante tabarrista ascolta ammirato il suono dell’intabarrata, l’atto di coprirsi con il tabarro – unico indumento che ha un suo effetto sonoro, romantico e notturno come nient’altro. Il ragazzo, la ragazza rimirano ammirati e riproducono estasiati la sequenza di gesti classici per la vestizione: tabarro preso a rovescio dinanzi a sé, colpo d’anca, il manto che gira dietro le spalle… più fluido e raffinato di un kata di un’arte marziale giapponese.
E quando gli dici che il tabarro è per sempre, perché non solo non passerà di moda, ma potrà essere trasmesso ai propri figli, nipoti, pronipoti – ad una conferenza di Renovatio 21 a Modena sei anni fa uno mi si presentò con un tabarro la cui etichetta diceva 1907! – ai giovani brillano gli occhi, sia che la prole la abbiano o sia che non la abbiano ancora. Quei pochi che ne hanno memoria famigliare – del nonno, bisnonno, o persino più indietro – non ne parlano come un ricordo da cui separarsi: il nonno, il bisnonno, il trisavolo, riconoscono i giovani, avevano una dignità superiore alla nostra, una dimensione esistenziale fatta di sacrificio e semplicità, di compostezza e determinazione cui non è possibile non anelare.
Quando ai ragazzi dici il prezzo – certamente più di un giubbino di Decathlon, epperò assai meno di un giubbotto parafirmato, di un Moncler, di qualsiasi brand tiri per qualche ragione quest’anno – non si scompongono. Li vedi calcolare a mente come fare per permetterselo: aspettare il prossimo stipendio, sfruttare il Natale o il compleanno, rompere il porcellino che da qualche in parte è in casa.
Il ragazzo veniva, provava, e si lanciava con il pensiero: questa cosa se la metteva addosso per uscire, non per chiudersi in casa. Per portare fuori la morosa, per trovarsi con le amiche o per (caso di una serie di signorine che, senza che si conoscessero, sono capitate tutte da noi) per andare a cavallo. Il tabarro come catapulta dell’essere, veicolo per incontrare, nella materia, le persone, il mondo.
Capite da voi cosa invece rappresentino le copertine boomer: la contrazione nel non-essere del tinello televisivo, la chiusura verso la realtà della gente, del consorzio umano, del proprio corpo. La copertina è l’addobbo per l’essere umano che ha abdicato alla sua dignità di creatura vivente e creatrice, che ha appaltato la gestione del cervello a qualcun altro, che ha accettato per decadi la propria mummificazione catodica.
È, in tutta chiarezza, uno scontro metafisico, ontologico, apocalittico: l’espansione contro la contrazione, l’essere contro il non-essere… la vita contro la morte.
Una volta realizzato questo, bisogna andare avanti con la disamina, e considerare i concreti effetti sociopolitici di quanto stiamo notando.
Nonostante il loro lavoro, non tutti i giovani che volevano acquistare un tabarro avevano i danari per farlo. Al contrario, tutti i boomer che sono entrati per rifiutarsi di indossare il tabarro i soldi per il tabarro li avevano, accumulati nell’età dell’oro dell’economia mondiale, quando era possibile, senza essere imprenditori d’alto bordo, farsi una casa, una seconda casa, la macchina e pure mettere via qualche soldo in banca.
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Tutti i boomer che finiscono ricoperti a guardare Barbara D’Urso e Mentana hanno conti in banca che permettono loro di vivere benissimo, e pensioni che moltiplicano tale benessere. Ecco quindi la settimana in crociera, il weekend alle terme, il sole a Sharm el-Sheik, il giretto in Nepal, la vacanzetta all’isola d’Elba, etc. Tutti questi non hanno avuto problemi a cambiare l’auto – di più, non hanno avuto necessità di farlo, ma senza problemi si sono presi l’ultima Toyota, Audi, Hyundai, FIAT, etc.
Il giovane, al contrario, non ha i soldi per niente di tutto questo, e l’auto, o la vacanza, o il tabarro, devono essere calcolati a dovere in un paradigma che è l’opposto di quello della generazione precedente: non più abbondanza, ma carenza, scarsità anche negli ambiti più basilari. Quanti, della generazione dei boomer, hanno avuto problemi a riscaldare la propria casa? Per quanti il costo del gas o della benzina sono stati un problema tale da indurre rinunzie drastiche, come quella di lasciare mezza casa, o una casa intera, al freddo?
È chiaro, quindi, il blocco storico del presente: tutte le risorse sono in mano ad una generazione vecchia, sterile, priva di valori che non siano di consumo continuo e distruttivo. Le generazioni successive, che pure hanno dalla loro la spinta della vita che non ancora sono riusciti a spegnere, hanno niente o poco più – e di fatto pagano per le gozzoviglie degli anziani parassiti. I mezzi economici sono concentrati su una fetta della popolazione votata allo spreco e – in ultima analisi – alla morte e alla sua cultura. A chi manda avanti la società, a chi continua la vita, invece non è lasciato nulla. Non ci è chiaro quanto questa situazione sarà considerata tollerabile, di certo i suoi effetti sono già visibili e devastanti.
Secondariamente, c’è il rilievo psico-sociale: se compri una coperta per il divano e non un mantello per uscire e vivere stai di fatto amalgamando il tuo essere al programma del potere costituito che è, lo abbiamo visto con i nostri occhi col lockdown, chiuderti in casa. In casa sei controllabile in ogni modo possibile, in casa non creerai mai alcun problema, in casa ti puoi spegnere senza sporcare, levarti di torno senza che nemmeno si oda il tuo lamento – il vertice della piramide vede il tuo appartamento come luogo di esistenza pre-tombale a bassa intensità.
Qui, nel loculo domestico, non puoi far altro che ricevere gli ordini che ti arrivano dalla TV (o dai grandi canali internet, che abbiamo visto essere manipolati dagli stessi poteri che producevano la psicopolizia dei palinsesti televisivi). Chi si mette al calduccio per guardare il televisore accetta di farsi lavare il cervello, e quindi divenire servitore dell’agenda mondialista.
Sì, l’esistenza stessa di un fenomeno come quello della pandemia COVID parte proprio dai divani di una generazione stravaccata e satolla che si è fatta indottrinare nel modo più rivoltante, accettando la clausura, la siringa genica obbligatoria, le ore quotidiane di odio verso i no-vax… Di lì avanti, ancora, la stessa gente ha accettato di pagare bollette folli e rischiare una guerra termonucleare globale perché la TV gli ha detto è ripetuto che Putin è cattivo.
La società, la geopolitica mondiale, la storia presente sono impattate da questo blocco umano immenso, e in maniera presente.
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È stata consentita qualsiasi cosa, ai boomer, perfino l’essere gustibus soluti: il loro schifo non è solo metafisico e morale, è pure estetico. Il giubbino in piuma d’oca, il cappottino peloso, sono lì a testimoniarcelo con più forze del nano da giardino.
La rivolta contro il boomer moderno passa, quindi, da dimensioni come quella del tabarro, che ti avvolge spingendo in faccia agli aridi e narcisi il loro essere senza bellezza e senza radice.
Renovatio 21 si offre di dare una mano a coloro che vorranno partecipare a questa riscossa cosmica. Se volete un tabarro, non avete che da comunicarcelo.
Non siete soli. Il network della resistenza è più grande di quello che potete pensare. E contiene, ovvio, pure vari boomer anagrafici non piegati ai diktat entropici del sistema.
Un tabarro alla volta, rovesceremo l’impero delle copertine di lana. Chi scrive già da anni opera in questo senso.
Riscriveremo l’etica del secolo passando per l’estetica, e non poteva che essere così. Dimenticandoci una volta per tutti di quelli che hanno vissuto con indolenza distruttiva, offendendo la meraviglia della Vita e della Civiltà.
Roberto Dal Bosco
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Foto di Silvano Pupella; modificata
Pensiero
Trump e la potenza del tacchino espiatorio
🦃 America’s annual tradition of the Presidential Turkey Pardon is ALMOST HERE!
THROWBACK to some of the most legendary presidential turkeys in POTUS & @FLOTUS history before the big moment this year. 🎬🔥 pic.twitter.com/QT2Oal12ax — The White House (@WhiteHouse) November 24, 2025
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Civiltà
Da Pico all’Intelligenza Artificiale. Noi modernissimi e la nostra «potenza» tecnica
Se Pico della Mirandola fosse vissuto nel nostro secolo felice, non avrebbe avuto di certo le grane che gli procurò la Chiesa del suo tempo.
Avrebbe potuto discutere tranquillamente le sue 900 tesi, tutte più o meno volte a dimostrare la grandezza dello spirito e dell’ingegno umano. Soprattutto avrebbe venduto in ogni filiale Mondadori milioni di copie del proprio best seller sulla superiorità dell’uomo e della sua creatività benefica, ben rappresentata in Sistina dall’ eloquente immagine delle mani di un possente Adamo e del suo creatore, che si sfiorano e dove, in effetti, non si sa bene quale sia quella dell’ essere più potente.
Insomma Pico non avrebbe dovuto darsela a gambe nottetempo da Roma per finire prematuramente i propri giorni nelle terre avite, raggiunto da una febbre malsana di origine sconosciuta, manco gli fosse stato iniettato a tradimento un vaccino anti-COVID. Eppure era stato frainteso, o a Roma si era temuto che potesse essere frainteso dai suoi contemporanei e dai posteri. Che avrebbero potuto interpretare quella sbandierata superiorità dell’uomo come una divinizzazione capace di escludere la sua condizione di creatura.
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Ma oggi proprio così fraintesa, quella affermata superiorità dell’uomo faber serve ad alimentare la accettazione compiaciuta di qualunque gabbia tecnologica in cui ci si consegna per essere tenuti volontariamente in ostaggio. Sullo sfondo, l’ambizione tutta moderna ad essere liberati dalla condizione involontaria di creature, e dall’inconveniente di una fatale finitezza. Non per nulla la prima cosa di cui si incarica la scuola è quella di rassicurare i bambini circa la loro consolante discendenza dalle scimmie.
Ed è con questa superiorità che hanno a che fare le meraviglie abbaglianti della tecnica.
Dopo la navigazione di bolina e la scoperta dell’America, dopo il telaio meccanico e la ghigliottina, l’idea della onnipotenza umana ha trovato conferma definitiva in quella che a suo tempo è apparsa la conquista più ingegnosa della tecnica moderna: la capacità di uccidere il maggior numero di individui nel minor tempo possibile. Gaetano Filangeri annotava infatti già alla fine del Settecento come fosse proprio questo il massimo motivo di compiacimento che emergeva dai discorsi di tutti i politici incontrati in Europa.
Di qui, di meraviglia in meraviglia, si è capito che non solo si possono fare miracoli, prescindendo dalla natura, ma che è possibile un’altra natura, prodotta dall’uomo creatore. E se Dio il settimo giorno riconobbe che quanto aveva creato era anche buono, non si vede perché non lo debba pensare anche l’evoluto tecnico, o il legislatore o il giudice che si scopra signore della vita e della morte.
Sia che crei la pecora Dolly, o inventi il figlio della «madre intenzionale», o renda una coppia di maschi miracolosamente fertile, oppure stabilisca chi e come debba essere soppresso perché inutile o semplicemente desideroso di morire per mano altrui.
O, ancora, applichi a scatola chiusa quel criterio della morte cerebrale che serve a dare qualcuno per morto anche se è vivo. Una trovata perfetta capace di salvare capra e cavoli: perché mentre soddisfa la sacrosanta aspirazione del cliente ad ottenere un pezzo di ricambio per il proprio organo in disuso, appone sull’operazione il sigillo altrettanto sacrosanto della scientificità, che tranquillizza tutti e preserva dalle patrie galere.
Con la tecnica si manipolano le cose ma anche i linguaggi e quindi le coscienze. Si può mettere pubblicamente a tema se sterminare una popolazione inerme etnicamente individuata seppellendola sotto le sue case, costituisca o meno genocidio. Con la logica conseguenza che, se la risposta fosse negativa, la cosa dovrebbe essere considerata politicamente corretta mentre l’eventuale giudizio morale può essere lasciato tranquillamente sui gusti personali.
Tuttavia senza l’approdo ultimo alla cosiddetta «Intelligenza Artificiale», tutte le meraviglie del nostro tempo non avrebbero potuto elevare il moderno creatore tecnologico alla odierna apoteosi, molto vicina a quella con cui i romani presero a divinizzare i loro imperatori, senza andare troppo per il sottile.
Anzi, dopo più di un secolo di riflessione filosofica, di scrupoli, timori, ansie e visioni apocalittiche, di pessimismo sistematico e speranze di redenzione, di fughe in avanti e pentimenti inconsolabili come quello di chi dopo avere donato al mondo la bomba atomica ne aveva verificato meravigliato gli effetti, dopo tanta fatica di pensiero, le acque sembrano tornate improvvisamente tranquille proprio attorno all’oasi felice della cosiddetta «Intelligenza Artificiale».
Ogni dubbio antico e nuovo su dominio della tecnica ed emancipazione umana potere e libertà, civiltà e barbarie, sembra essersi dissolto in un compiacimento che non risparmia pensatori pubblici e privati, di qualunque fascia accademica, e di qualunque canale televisivo. Anche l’antico monito di Prometeo che diceva di avere dato agli uomini «le false speranze» ha perso di significato, di fronte a questo nuovissimo miracolo che entusiasma quanti, quasi inebriati, toccano con mano i vantaggi di questa nuova manna. Mentre le più ovvie distinzioni da fare e la riflessione doverosa sui problemi capitali di fondo che il fenomeno pone, sembrano sparire da ogni orizzonte speculativo.
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Dunque si può tornare a dire «In principio fu la meraviglia» ovvero lo stupore e il timore reverenziale di fronte alla potenze soverchianti della natura che portarono il primo uomo a venerare il sole e la madre terra e a riconoscere una volontà superiore davanti alla quale occorreva prostrasi. Eppure allora iniziò anche qualche non insignificante riflessione sull’essere umano e sul suo destino.
Oggi lo stupore induce al riconoscimento ottimistico di una nuova forza creatrice tutta umana e quindi controllabile e allo affidamento alle sorti progressive che comunque si ritengono assicurate.
Incanta il miracolo nuovo che eliminando la fatica di fare e pensare induce compiacimento e fiducia. Il discorso attorno a questo miracolo non ha alcuna pretesa filosofica perché assorbito dalla meraviglia si blocca sulla categoria dell’utile. La prepotenza della funzione utilitaristica assorbe la riflessione critica. Non ci si preoccupa perché la tecnica «non pensa» come vedeva Heidegger alludendo alla indifferenza dei suoi creatori circa la qualità delle conseguenze. La constatazione trionfalistica dell’utile fornito in sovrabbondanza dalla tecnica basta a fugare ogni scrupolo, ogni dubbio, ogni timore, ogni preoccupazione sui risvolti esistenziali non più e non solo derivanti dalla volontà di dominio delle centrali di potere che la governano.
Viene eluso in modo sorprendente il nodo centrale del fatale immiserimento delle capacità critiche logiche e speculative, in particolare di quelle del tutto indifese, perché non ancora formate, dei più giovani, esposti ad un progressivo e forse irrecuperabile deterioramento intellettuale. Eppure questa avrebbe dovuto essere la preoccupazione principale sentita da una civiltà evoluta.
Come accadde in tempi lontanissimi all’avvento della scrittura, quando ci si chiese se essa avrebbe mortificato le capacità mnemoniche di popolazioni che avevano fondato la propria cultura sulla tradizione orale.
Noi ci compiaciamo dell’avvento della scrittura, che ci ha permesso di tesaurizzare quanto del pensiero umano altrimenti sarebbe andato perduto. Ma ciò non toglie che quella coscienza arcaica avesse chiaro il senso dei propri talenti e avesse la preoccupazione della possibile perdita di una capacità straordinaria acquisita nel tempo, dello straordinario patrimonio accumulato grazie ad essa e in virtù della quale quel patrimonio avrebbe potuto essere trasmesso, pur con altri mezzi.
la mancanza di questa preoccupazione prova una inconsapevoleza e un arretramento culturale senza precedenti, ed è lecito chiedersi se tutto questo non sia già il frutto avvelenato proprio delle acquisizioni tecnologiche già incorporate nel recente passato.
La riflessione dell’uomo sulle proprie possibilità ha accompagnato la «consapevolezza della propria ignoranza e le domande fondamentali sull’origine dell’universo e sul significato dell’essere». Ma presto, il pensiero greco aveva messo in guardia l’homo faber dalla tracotante volontà di potenza di fronte alla natura e alle sue leggi, e aveva eletto a somma virtù la misura. Esortava a quella conoscenza del limite oltre il quale c’è l’ignoto. Hic sunt leones! Come avrebbero scritto gli antichi cartografi.
Del resto la saggezza antica suggeriva anche di tenere ben distinto il mondo dei mortali da quello incorruttibile degli dei che ai primi rimaneva precluso. La stessa divinizzazione degli imperatori romani era una messinscena politico demagogica sulla quale si poteva anche imbastire una satira feroce.
Il valore dell’uomo si misurava sulle imprese di quelli che erano capaci di lasciare il segno in una storia che inghiottiva tutti gli altri, senza residui.
Poi per gli umanisti in generale, a destare meraviglia fu l’uomo in se’, ovvero l’essere superiore capace di dotarsi di pensiero filosofico e speculativo, e di un bagaglio culturale elevato, in cui vedere riflessa la propria superiorità. Pico scrive il manifesto di questo riconoscimento intitolandolo Oratio Hominis dignitate. La grandezza dell’uomo non si esprime in opere dell’ingegno ma nella capacità di rigenerarsi come essere superiore. Attraverso la ragione può diventare animale celeste, grazie all’intelletto, angelo e figlio di Dio. È la potenza del pensiero a farne il signore dell’universo accanto all’Altissimo. Del quale però rimane creatura. Precisazione indispensabile per Pico, che doveva salvarsi l’anima, se non la vita. Gli artisti cominciavano a firmare le proprie opere ma l’arte era ancora la scintilla divina che essi riconoscevano nel proprio creare.
Col tempo, la vertiginosa progressione tecnica fino alla impennata tecnologica contemporanea ha invece condotto l’uomo contemporaneo, ad un senso di sé che si declina come volontà di potenza espressa nelle opere dell’ingegno di cui egli è creatore e fruitore.
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Tuttavia, se la tecnica serve per uccidere il maggior numero di uomini nel minor tempo possibile, si capisce come da nuova meraviglia e nuova natura, possa farsi problema. Si è presa coscienza vera delle sue applicazioni e implicazioni economiche, politiche, e antropologiche in senso ampio, della mercificazione umana di cui diventa portatrice. Ma anche della necessità di risalire alla matrice prima di questo processo, ovvero alla ragione, la dote distintiva dell’uomo che da guida luminosa può degenerare in mezzo di autodistruzione.
Giovanbattista Vico aveva visto nelle sue degenerazioni il germe di una seconda barbarie. Quella stessa ragione che ha scoperto i mezzi per vincere l’ostilità della natura, procurare condizioni più favorevoli di vita, e controllare la paura dell’ignoto, ha sviluppato la tecnica, soprattutto nella modernità occidentale, secondo una progressione geometrica. Ma questa stessa ragione umana da fattore di liberazione si rovescia in strumento di dominio, proprio attraverso la tecnica.
Tale rovesciamento, come è noto, è stato al centro della Dialettica dell’illuminismo di Horkheimer e Adorno che lo hanno fissato genialmente nell’incipit memorabile: «L’illuminismo ha sempre perseguito il fine di togliere all’uomo la paura dell’ignoto, ma la terra interamente illuminata, splende all’insegna di trionfale sventura». Dove per illuminismo si allude appunto all’impiego della ragione calcolante, e al suo sforzo primigenio per vincere lo smarrimento e la sottomissione indotte dalle forze della natura. Ma il mondo creato attraverso il processo di razionalizzazione diventa a sua volta naturale e quindi domina i rapporti umani, ne produce la reificazione, e a sua volta risulta ingovernabile. Dunque la ragione è creatrice degli strumenti di dominio sotto la maschera della liberazione.
Questi autori hanno visto da vicino, anche per esperienza personale, come l’avanzata incessante del progresso tecnico possa diventare incessante regressione verso quella seconda barbarie preconizzata da Vico tre secoli prima. Hanno visto la barbarie ideologica e pratica prodotta dai sistemi totalitari. E poi, una volta emigrati negli Stati Uniti, lo imbarbarimento di una società che dal di fuori era ritenuta politicamente più evoluta. Avevano constatato come l’umanità del XX secolo avesse potuto regredire a «livelli antropologici primitivi che convivevano con stadi più evoluti del progresso».
E infine, come in questo orizzonte regressivo i capi avessero «l’aspetto di parrucchieri, attori di provincia, giornalisti da strapazzo», «al vuoto di un capo, corrispondesse una massa vuota, e alla coercizione quella adesione generalizzata che rende la prima quasi irreversibile». Inutile dire che di questi fenomeni abbiamo ora sotto gli occhi la forma più compiuta.
Con la modernità la ragione che per Pico avvicinava l’uomo a Dio, è diventata irrimediabilmente strumentale e soggettiva. Non si mette in discussione la qualità dei fini ma si adotta in ogni campo e senza riserve, fraintendendone il senso, la lezione di Machiavelli. Non per nulla, nella versione Reader’s Digest, questo rimane l’autore di riferimento, dei teorici dell’espansionismo imperiale e americano fino ai giorni nostri.
Ma se con la ragione strumentale si impone la logica dei rapporti di forza, questa, portata alle estreme conseguenze,, fa cadere anche il limite e il discrimine tra bene e male, secondo la filosofia di De Sade, che sembra farsi largo in una società ormai nichilista. Così negli ospedali londinesi si possono sopprimere impunemente i neonati troppo costosi per il sistema sanitario, a dispetto dei genitori. Si possono destabilizzare i governi a dispetto dei popoli, si possono roversciare i canoni etici, estetici, religiosi e logico razionali.
Dunque, quella diagnosi pessimistica, dovrebbe tornare quanto mai attuale oggi che l’approdo alla cosiddetta intelligenza artificiale si è compiuto, ed essa è già diabolicamnete applicata all’insaputa delle vittime, o trionfalmente accolta dai suoi ammirati fruitori. Torna attuale per avere messo a tema la torsione della ragione liberatrice in strumento di dominio anche se non era ancora possibile intravedere il rovesciamento ulteriore, l’Ultima Thule della autoschiavizzazione che avviene con la sottomissione spontanea e felice alla sovraestensione tecnologica.
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Invece sembra che si sia dimenticata, per incanto, tutta la riflessione intorno alla tecnica , che ha affaticato il pensiero di un intero secolo. Ora che le metamorfosi di una intera Civiltà, diventate presto di dimensioni planetarie, mostrano più che mai la necessità di riprendere il tema filosofico per eccellenza, sulla essenza e sul destino dell’uomo.
Ed è con questo tema che noi abbiamo a che fare più che mai. Infatti non si tratta più o non solo di prendere coscienza della esistenza di centri di potere che hanno in mano le redini degli strumenti con cui siamo dominati. Perché questa, bene o male, è diventata coscienza abbastanza diffusa almeno in quella parte di dominati che hanno la capacità di riflettere sulla propria condizione di sudditanza.
Tutti più o meno si sono accorti della manipolazione del consenso e della potenza della pubblicità e della forza della propaganda. Nonché della dipendenza dalla tecnologia e delle sue controindicazioni. Anche se ogni diffidenza e ogni riconoscimento di dipendenza viene poi spesso temperato dalla convinzione che si possa comunque controllare lo strumento.
Il salto di qualità l’ha prodotto la meraviglia. Questa volta non turbata dal timore della propria impotenza. L’utile immediato è metafisico, e il miracolo salvifico non megtte in discussione la bontà della volontà che lo genera. Il miracolo crea fedeli e discepoli confortati. Gli agnostici tutt’al più vogliono toccare con mano, anche Tommaso diventa il più convinto dei credenti di fronte alla evidenza dei risultati. Ogni aspetto problematico della faccenda viene messo da parte perché è comunque meglio una gallina oggi che un uovo domani.
Sotto a tanta meravigliosa e meravigliata fiducia c’è la rinnovata fede nella divinità del genio umano che comunque appare lavorare per il bene dei mortali. Un bene tangibile, pronto e tutto svelato, nonché senz’altro proficuo per le nuove generazioni sollevate dalla fatica inutile di imparare a leggere, scrivere e fare di conto, e soprattutto da quella pericolosa attitudine a pensare, ricordare, esplorare e guardare al di là del proprio particulare.
Ancora una volta è dunque la ragione calcolante che dopo avere rinchiuso gli uomini nella gabbia dell’utile materialmente ponderabile tenuta dal potere, fa sì che essi vi si rinchiudano con rinnovato entusiaimo e di propria iniziativa. Insomma non si tratta più di un ingranaggio di dominio e manipolazione subito e del quale non tutti e non sempre hanno acquistato chiara consapevolezza. Si tratta della rinuncia volontaria alla propria capacità di autonomia e di sviluppo delle facoltà speculative destinate ad immiserirsi e isterilirsi per abbandono progressivo, e infine per non uso.
Di certo la difficoltà di uscire dall’ingranaggio, di fronte alla prepotenza dell’ordigno e alla accondiscendenza crescente degli stessi entusiasti utilizzatori diventa oggi drammatica quanto sottovalutata. Gli stessi Horkheimer e Adorno avevano esitato a proporre una soluzione per il problema, più oggettivamnete contenuto, che avevano affrontato allora con tanta acribia. Non bisogna però sottovalutare il suggerimento che essi formularono alla fine, ipotizzando la possibilità di riportare proprio la ragione calcolante alla autoriflessione sul proprio invasivo precipitato tecnologico.
Una soluzione utopica , si è detto, perché la ragione rinnegando se stessa dovrebbe paradossalmente rinunciare a tutto quello che ha anche fornito all’uomo come mezzi di sopravvivenza e di emancipazione dai condizionamenti della natura. Tuttavia non è insensato pensare che la autoriflessione possa condurre a stabilire il confine invalicabile oltre il quale il costo umano capovolge il senso stesso del calcolo razionale togliendo ad esso ogni giustificazione logica. Si tratta di vedere con disincanto tutta la realtà dei nuovi giocattoli antropofagi. Perché di questo si tratta: quella innescata dalle nuove frontiere della tecnica altro non è che autodistruzione morale e materiale, consegna senza scampo all’arbitrio incontrollabile di una potenza che fugge anche al controllo di chi la mette in moto.
Se «dialettica dell’illuminismo» significava nella riflessione dei suoi autori, rovesciamento della promessa di emancipazione della ragione in dominio e schiavizzazione sotto mentite spoglie, di questo rovesciamento la cosiddetta Intelligenza Artificiale è il compimento funesto e pericolosissimo perché capace non soltanto di neutralizzare attualmente ogni difesa, ma anche di isterilire nel tempo ogni potenzialità critica e speculativa. E appare del tutto irrisorio obiettare che è possibile controllare il processo perchè si è consapevoli che in ogni caso il meccanismo è un prodotto umano. Come se la valanga provocata dalla dinamite fosse per ciò stesso anche arrestabile.
Converrebbe piuttosto ricordare il monito di Benedetto XVI sulla necessità di allargare un concetto di ragione oramai ridotta a ragione calcolante per riconoscere di nuovo ad essa la funzione di guidare gli uomini verso l’ orizzonte spiritualmente ed eticamente più ampio ed elevato della cura e della vita buona, della consapevolezza e della corrispondenza tra il pensiero e il bene che va oltre l’immediatamente utile.
Per questo forse non basta lo sforzo di autoriflessione suggerito nella Dialettica dell’illuminismo, occorre ritrovare quel senso della trascendenza che allarga la mente oltre il vicolo cieco e le secche di un pensiero senza la luce di fini più grandi dell’utile contabile ed immediato.
Quell’uomo non a caso tanto presto dimenticato, perchè incompatibile con la miseria dei tempi, aveva compreso perfettamente, dall’alto di una grande intelligenza e di una solida fede, che sul ciglio del baratro occorre tornare indietro e buttare al macero «le false speranze».
Patrizia Fermani
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