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Due parole sulla psiche di Zelens’kyj. E di chi gli sta intorno

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Della presunta follia di Putin, giornali e politici di tutto il mondo ci hanno edotto in abbondanza.

 

Con buona pace della Goldwater Rule – la regola istituita tra gli psichiatri americani per non profilare patologicamente i candidati alla presidenza – sull’uomo del Cremlino hanno detto di tutto: è pazzo, ha il Long COVID, anzi no sono i segni dell’isolamento prolungato.

 

Come riportato da Renovatio 21, è entrato poi in gioco un Lord inglese, che ha parlato di steroidi. I giornali italiani, che hanno tradotto con Google, hanno quindi iniziato a parlare di «Rabbia di Roid», come se Roid fosse il dottor Roid e non il diminutivo inglese per, appunto, gli steroidi.

 

Nessuna di queste diagnosi a distanza ci pare convincente, ma è inevitabile: pensate alla quantità di profiling psicologico fatto sullo Hitler durante la Seconda Guerra Mondiale, dove si annunciava che le nevrosi sessuali del Fuehrer, titillate nel modo giusto, avrebbero portato gli alleati alla vittoria  – peraltro diamo una notizia, lo Hitlerro sì che si faceva di steroidi, e di una quantità di anfetamine e altre droghe da stendere un cavallo: lui e la Germania tutta, come ha dimostrato il libro Tossici. L’arma segreta del Reich. La droga nella Germania nazista.

 

Meno noto era il fatto che anche dalle parti dell’asse partivano psicoanalisi moleste del nemico: di Churchill, per esempio, stigmatizzavano la passione per i sigari…

 

La psichiatrizzazione del leader, nel momento della tensione è inevitabile.

 

Proprio per questo, è davvero misteriosa la mancanza totale di interesse psico-scientifico per una figura speciale come quella dello Zelens’kyj.

 

E sì che le discipline psicologiche ne avrebbero già di dire parecchie: un attore – un uomo, quindi, con un’architettura dell’io bella specifica – che diventa presidente, anzi, un attore che interpreta il presidente che realmente diventa il presidente-attore. Siamo molto al di là di Grillo, o di Ronald Reagan (il quale aveva comunque una lunghissima storia di politico in ambo i partiti USA, e una bella gavetta da governatore della California).

 

Invece, niente.

 

Eppure non crediamo sia solo una nostra impressione: il ragazzo non dà prova di equilibrio.

 

Certamente, chi lo segue dai giornali occidentali, o dai parlamenti, occidentali, si è fatto un’altra idea. Lo Zelensko è Batman. È il mio eroe, ha detto in una excusatio filoucraina di default qualche sera fa in qualche programma l’oramai mitico prof. Orsini, quello che hanno scelto per far vedere in TV come potreste essere linciati se osate pensarla diversamente. Di più: da pagliaccio comico che faceva sketch ignudo in cui suonava il pianforte con il pene (2016: l’altro ieri), il nostro stava per passare per direttissima alla notte degli Oscar, e l’abbiamo scampata per un soffio (in compenso, lo Sean Penna ora distruggerà le sue statuette).

 

Eppure se andiamo a prendere le sue dichiarazioni, qualcosa non torna. Sono contraddittorie. Sono bipolari. Con ogni evidenza.

 

Dice che vuole i negoziati, ma nella stessa dichiarazione parla di Terza Guerra Mondiale – che come noto è l’unica possibilità di salvezza che ha. Anche questo, fenomeno psicologico interessante: trascinare il mondo in una guerra annientatrice, per salvare la propria pelle. Come potremmo chiamare questo meccanismo di difesa, in termini psichiatrici?

 

Qualche giorno fa il Corriere ha riportato entusiasta un altro virgolettato, in cui si parlava, in una dissonanza cognitiva bella evidente, di pace ma anche di vittoria.

 

«Ci stiamo avvicinando alla pace, ci stiamo avvicinando alla vittoria». Eh?

 

Quindi, sembra far capire l’attore-presidente, sta andando verso il tavolo della pace da vincitore? La guerra la sta vincendo lui?

 

Parrebbe, da quello che dice.

 

«Se la Russia avesse saputo cosa li attendeva, sarebbe stata terrorizzata dal venire qui». Parole bellicose. DI uno che ha davvero la pace in tasca, perché ha effettivamente vinto.

 

È vero? Neanche per sogno.

 

Anche se non steste vedendo che Mariupol sta cadendo, che Odessa sta per cadere, che ci sono file infinite di carri fuori da Kiev,  che depositi di armi e di petrolio sono stati distrutti da missili Kalibr, che praticamente tutti i foreign fighter accorsi da tutto il mondo sono stati disintegrati a Yavarov,  che Karkhov è circondata che con la tenaglia dal Donbass stanno per catturare tutto l’esercito ucraino che era lì installato per attaccare il Lugansk e Donetsk a inizio marzo, ebbene, anche non vedeste nulla di tutto questo e sceglieste di credere ciecamente solo alla propaganda di TV e giornali occidentali, vi chiesiamo: se sta vincendo, perché continua a chiedere armi?

 

Se l’Ucraina sta vincendo, perché Zelens’kyj continua a chiedere la no-fly zone, che costerebbe, come detto dal Cremlino, l’immediata dichiarazione di guerra di Mosca a chiunque oserebbe?

 

Se l’Ucraina sta vincendo, perché continua a chiedere di avere armamenti, i MiG polacchi, etc.?

 

Perché chiede danari?

 

Il titolo del Corriere del 28 marzo, a 9 colonne: «Zelensky scuote l’Occidente». «Vi manca coraggio, dateci armi».

 

L’atteggiamento pare regressivo, infantile. Quattro giorni fa: «Ucraina, Zelensky alla NATO: “Da voi ancora nessuna risposta chiara”».

 

Due giorni fa il capo di gabinetto della presidenza ucraina ha fatto sapere che sono «delusi dalla NATO e dalla UE».

 

Sono tante le sindromi che verrebbero in mente all’esperto di scienza della psiche. Per esempio, qualcuno potrebbe citare il Barone di Munchausen, quello che si inventava storie pazzesche, viaggi sulla luna, e quella volta che riuscì ad uscire dalle sabbie mobili tirandosi per i piedi. Chiuso in un bunker, non è un’ipotesi remota: pensate allo Hitler che negli ultimi giorni credeva ancora di comandare immensi battaglioni.

 

Qualcuno potrebbe parlare di regressione freudiana, meccanismo di difesa che porta il soggetto ad uno stato precedente dello sviluppo dell’io: datemi gli aerei, chiudete il cielo, datemi fucili, bombe, soldi… mamma, papà, attaccate voi la Russia per conto mio!

 

Qualcuno potrebbe tirar fuori anche qualche trauma psicologico da isolamento, tipo hikikomori. Del resto il presidente sta in un bunker, comunica solo attraverso video girati su green back per fingere che sia ancora in grado di stare a Kiev all’aperto.

 

Qualcuno potrebbe osservare una sindrome maniaco-depressiva, a cui a momenti di tristezza («ammettiamolo, non entreremo mai nella NATO») si alternano esplosioni di vitalità creativa: la vittoria è vicina, ora tirerò dentro tutti in questa guerra, etc.

 

In Russia vi è tuttavia un’altra idea per spiegare il comportamento di Zelens’kyj: la cocaina.

 

A metà marzo alla TV russa Pervij Kanal il deputato ucraino filorusso Ilya Kyva ha lanciato una serie di accuse oltraggiose al governo del suo Paese d’origine, riporta il quotidiano britannico Mirror.

 

Durante una discussione sul canale di Stato, il Kyva ha quindi parlato dello «stato psichiatrico e fisico» del Presidente.« Non è un segreto che sia salito al potere perché è facilmente controllabile. È un tossicodipendente. Cocaina».

 

Kiva ha quindi dichiarato che Zelen’skyj non era più in Ucraina, informazione che sarebbe poi stata, in teoria, smentita. I pubblici ministeri di Kiev hanno annunciato che Kyva è accusato in contumacia di alto tradimento e violazione dell’integrità territoriale dell’Ucraina, oltre che di aver preso parte alla propaganda di guerra russa e di possesso illegale di armi.

 

Le vili accuse del deputato fuggito in Russia non sono verificabili, e possono attaccare solo perché, come noto, la polvere bianca, che sembra talco ma non è, e serve a darti l’allegria, è quasi considerabile come uno strumento del mestiere dell’attore, dove il professionista è costantemente sotto la pressione della performance, e del giudizio altrui, da cui la sostanza dà tregua, accordando alla psiche una potente euforica carica elazionale che smolla i freni inibitori.

 

Tuttavia, le accuse potrebbero aver avuto una eco piuttosto importante: Vladimir Putin, che rifiutò l’incontro con i vertici di Kiev parlando di una banda di drogati e neonazisti.

 

Vladimir Vladimirovic non fece nomi. Qualcuno ha pensato addirittura si riferisse a Hunter Biden, il figlio corrotto e depravato di Joe Biden.

 

In verità, in molti nelle Russie hanno inteso il riferimento come piuttosto diretto.

 

Gonzalo Lira, eccezionale YouTuber cileno-statunitense che semina perle di saggezza dalla Kharkov sotto le bombe (e sui cui i banderisti hanno messo una taglia), in un suo stream parlava schiettamente del «cokehead of Kiev», il cocainomane di Kiev.

 

Lira, che fino a pochi giorni fa a Kiev ci stava fisicamente, prima di essere cacciato dal direttore del suo albergo 5 stelle dopo che una sua clip di accuse al regime Zelens’kyj era finita sulla TV nazionale russa, racconta di raccogliere varie voci di strada in ucraina.

 

La sua tesi è che di fatto l’oligarcato, cioè in particolare Igor Kolomojskij, a questo punto lo abbiano abbandonato: e noi crediamo di sapere perché – per quanto scaltro possa essere Kolomojskij, il notoriamente controverso miliardario ebreo finanziatore di armate neonazi che ha inventato il fenomeno Zelens’kij sia in TV che in politica,  sa che qui si è passato il segno – s’è incazzato lo Zar. Con quello non si scherza, anche se vivi in Svizzera e in tasca hai il passaporto israeliano e cipriota. Quello, se vuole, ti trova, ovunque, chiunque tu stia pagando per proteggerti.

 

Se Zelens’kyj è stato abbandonato dal suo puparo, chi rimane? Semplice: i neonazi. E, sempre nel nostro pensiero, è facile capire perché: la mentalità del Götterdämmerung, il crepuscolo degli dei, l’autodistruzione come parte ineludibile del proprio destino di sangue: vi basta guardare Mariupol’, sapendo chi ci stava prima, per capire.

 

Gli ucronazi non hanno nulla da perdere: si giocano il tutto per tutto, in una splendida avventura nibelungica di bombe e tatuaggi. Dal vertice del potere.

 

Lira dice che, «word on the street», Zelens’kyj sia completamente in mano loro ora, e che questi lo tengano «coked up», cocainato ben bene, così da controllarlo. Del resto è un lasciapassare mica da poco, lo Zelensko. Non sarà stato agli Oscar, ma è stato al Congresso USA, al Parlamento italiano, a quello britannico, perfino a quello israeliano – dove però qualcuna delle dissonanze cognitive che ingenera (davvero ha voluto fare il parallelo con l’olocausto, con tutti quei collaborazionisti che hanno dato una mano ai tedeschi?) non hanno trovato troppi applausi.

 

In effetti circolava la voce, qualche settimana fa, che a difenderlo non ci sarebbe stato l’esercito regolare ma formazioni neonazi – che peraltro ora, come noto, sono inquadrate ufficialmente nell’esercito… Una voce che non siamo in grado di verificare.

 

Una foto che circola mostra che, se allarghi l’inquadratura del podio da cui parla, è circondato da uomini col Kalashnikov…

 

 

Vedete a terra dei fogli. Sono i discorsi con cui sta incantando il mondo – cioè, il mondo pagato per farsi incantare, cioè ripetere la sbobba ai Paesi NATO. Una coraggiosa giornalista italiana ha ricordato che quei discorsi sono scritti dai suoi sceneggiatori, e che giù questo è un segnale inquietante.

 

 

«È molto inquietante sapere che dietro i discorsi di Volodymyr Zelens’kyj, già applauditi dai tre parlamenti – come ipnotizzati – di Stati Uniti, Regno Unito e Germania, ci sono gli sceneggiatori della serie TV satirica che lo ha reso famoso. Una squadra affiatata che organizza le giornate di Zelens’kyj e che sa come usare i social per raccogliere consenso, motivare e rimescolare gli equilibri geopolitici. Una squadra bravissima che è riuscita a trasformare un attore in un presidente e in un eroe» ha scritto Tiziana Ferrario.

 

«Volete diventare anche voi attori di questo reality? Io no. Spero neanche il mio parlamento, perché non pare esserci lieto fine in questa storia».

 

No. Al momento pare non esserci. Non con questi personaggi. Ci verrebbe da dire che solo drogandoci potremmo crederlo. E non abbiamo intenzione di farlo.

 

Tenetevi la vostra propaganda tossica. Tanta parte del mondo occidentale, rimasta sana, non si intossicherà.

 

Stateci voi dietro a Zelens’kyj, alla sua mente, a quella dei suoi pupari.

 

 

 

 

 

 

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«Chiesa parallela e contraffatta»: Mel Gibson cita Viganò nel podcast più seguito della Terra. Poi parla di Pachamama, medicina e sacrifici umani

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Joe Rogan, il podcaster più seguito del pianeta, ha avuto come ospite ieri l’attore e regista cattolico Mel Gibson. La conversazione, della durata di più di due ore, è stata ricchissima di spunti altissimi e talvolta piuttosto sorprendenti, impressionanti.

 

L’intera intervista è segnata da un continuo ritorno alle questioni spirituali, non solo per l’annuncio di Gibson della preparazione di un film chiamato La Resurrezione di Cristo che abbraccia un racconto che va dalla caduta degli angeli ribelli sino a Nostro Signore risorto – un seguito ideale della sua Passione di Cristo, con il quale, ha detto il cineasta, vuole ambiziosamente rispondere alla domanda sul perché il regno del Bene e il regno delle Tenebre si contendano l’anima dell’umanità, umanità che è imperfetta.

 

Gibson, che mentre partecipava al podcast sapeva che la sua casa di Los Angeles stava andando in cenere nel grande incendio in corso, ha parlato della sua spiritualità cristiana non risparmiando dettagli, e confessando il suo essere «imperfetto», al punto di dichiararsi, «come risaputo, alcolizzato dalla nascita» e di essere stato aiutato da Dio a uscire dai suoi momenti bui.

 


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Va subito sottolineata la citazione che Gibson ha fatto di monsignor Carlo Maria Viganò e del discorso sulla chiesa attuale «parallela» e «contraffatta».

 

«Non aderisco alla chiesa postconciliare» ha detto Gibson, ottenendo dal Rogan una richiesta di spiegazioni. Mel, noto sedevacantista come lo era il padre Hutton Gibson, ha con molta cautela cominciato a spiegare dinanzi a milioni e milioni di utenti il problema di quello che ha chiamato «l’evento», cioè il Concilio Vaticano II, e ancora prima quello dell’elezione di Giovanni XXIII.

 

Gibson ha quindi parlato della fumata bianca che si era avuta durante quel conclave, subito seguita da una fumata nera: una probabile allusione ai discorsi sulla «Tesi Siri», secondo la quale a quel conclave (e forse non solo a quello), sarebbe stato eletto papa il cardinale arcivescovo di Genova, il tradizionalista Giuseppe Siri, che non sarebbe però arrivato al Soglio per minacce indicibili.

 

Gibson ha quindi proseguito spiegando ad un scandalizzato Rogan – che, nato in ambiente cattolico italo-irlandese, si è sempre dichiarato ateo e non si è mai tirato indietro rispetto a colpire la chiesa – la questione della Pachamama, mostrando immagini di un evento con la Pachamama del 2019.

 


«Abbiamo un papa che ha portato un idolo sudamericano in chiesa per adorarlo» ha detto Gibson.

 

«Davvero?» ha replicato Rogan apparentemente sbalordito, al che Gibson rispose: «Sì, la Pachamama».

 

Rogan ha chiesto a Gibson di chiarire cosa fosse la Pachamama, dicendo di non averne mai sentito parlare, e Gibson ha spiegato che si tratta di una «divinità sudamericana».

 

«Perché avrebbe dovuto farlo?» ha chiesto ancora uno sconcertato Rogan. «Bella domanda. Ma lo ha fatto» ha risposto gentilmente il Gibson.

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Alla domanda dell’intervistatore se Bergoglio avesse spiegato perché ha permesso che si verificasse l’evento Pachamama, Gibson ha menzionato la storia di indifferentismo religioso di Francesco, promuovendo il concetto che «tutte le religioni sono buone l’una quanto l’altra».

 

«Se questa è la sua tesi» ha detto Gibson prima che Rogan lo interrompesse, «allora non dovrebbe essere il papa».

 

«Come puoi essere il papa se dici “tutte le religioni sono ugualmente buone?”», si è chiesto l’ateo Rogan ad alta voce.

 

Il divo ha quindi usato apertamente e ripetutamente il termine «apostasia», che l’intervistatore pare aver capito, sottolineando che di mezzo ci sarebbe il Primo Comandamento che proibisce di adorare falsi dei.

 

«Sì, è il numero uno nella hit-list mosaica , ha risposto Gibson, riferendosi ai Dieci Comandamenti dati a Mosè.

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Gibson e Rogan anno parlato degli scandali di pedofilia nella Chiesa, con il podcaster corretto dal divo quando ha detto che questo papa, che gli sembra «progressista», non aveva coperto gli abusi come Ratzinger.

 

Gibson ha poi parlato di medicina, raccontando di tanti suoi malanni, della frequentazione di un medico guaritore cinese (approvato da un suo consulente spirituale, un gesuita «tradizionalista») e di altri rimedi farmacologici – ha usato il termina «allopatico» – e della censura che si abbatte su di essi.

 

Gibson era già stato da Rogan anni addietro assieme ad un dottore esperto per parlare dei benefici delle cellule staminali – non fetali, ovviamente – alle quali aveva sottoposto il padre Hutton negli ultimi anni prima che morisse, con esiti molto positivi, come, ha rivelato nel caso della sua spalla. La figura del padre è tornata spesso nell’intervista: Gibson ha ricordato le sue numerose vittorie a Jeopardy! il Lascia o raddoppia della TV americana di una volta. «Aveva una memoria quasi-fotografica» ha detto l’attore del padre, «mentre io ho una memoria pornografica».

 

Mel ha raccontato che il padre era stato in guerra nel Pacifico e aveva preso la malaria, guarendo poi con l’idrossiclorochina. Il discorso ha aperto la stura ad una serie di discorsi sui farmaci, posti con delicatezza, sull’ivermectina e pure su altre sostanze ora usate totalmente off label contro il cancro a stadio avanzato.

 

 

Il regista ha confessato di aver preso il Remdesivir – controverso farmaco anti-COVID approvato in USA – e di essere stato male per mesi. Ha quindi detto di aver letto il libro di Robert Kennedy jr. su Anthony Fauci, scatenando una conversazione, ripresa più volte, sull’incontrovertibile malvagità del personaggio, con riferimenti ai danni fatti da Fauci ai tempi dell’AIDS.

 

Il cineasta è sembrato, sia pure forse nervoso, molto cauto e dosato nella conversazione – come un uomo che sa molto di più di quello che dice, e fa la cortesia all’ospite di non essere troppo diretto e brutale, arrivando a dare suggerimenti di libri di storia, di cui ha dimostrato di essere un famelico lettore, e perfino di testi per smettere di fumare.

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Tutta l’intervista, in realtà è sembrata una danza del cattolico Gibson attorno all’ateo Joe Rogan, che è sembrato a tratti capire il gioco e lasciarsi trasportare senza fare resistenza, persino quando Gibson ha rifiutato fermamente l’idea dell’evoluzione di Darwin, e soprattutto quando gli ha mostrato il mistero della Sacra Sindone di Torino.

 


Degno di nota il riferimento al film capolavoro di Gibson Apocalypto, che Rogan ha detto di essere grandioso e di averlo rivisto di recente. Gibson ha spiegato la genesi del film, per poi entrare in un discorso articolato sul collasso della civiltà, e dichiarare che i sacrifici umani visti nella pellicola sono presenti ancora nella nostra società non differentemente da quella dei maya.

 

«Il sacrificio umano è vivo e vegeto» ha scandito Gibson, con Rogan che ha detto, che sì, ha solo cambiato forma, alludendo alle morti indotte dalla medicina. Qualcuno può aver avvertito che il non detto, che vibrava giocoforza dentro il cattolico Gibson, era l’aborto, che epperò non è stato spalmato in faccia al già liberal, sedicente abortista Rogan. I due hanno quindi convenuto in un’idea della guerra come sacrificio umano della gioventù.

 

 

Si esce dalle due ore di ascolto del podcast grati sino ad essere un po’ frastornati: la comprensione della catastrofe della chiesa conciliare, la comprensione del disastro della medicina moderna, la comprensione della Necrocultura, la comprensione del ritorno del sacrificio umano non solo solo temi che potete trovare su Renovatio 21: sono questioni che sono ad un passo dal divenire mainstream.

 

Se non è questo un momento per essere speranzosi, quale lo sarà?

 

Roberto Dal Bosco

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Immagine screenshot da YouTube

 

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Storia delle bandiere rosse e nere nei movimenti di liberazione dell’America Latina

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Renovatio 21 pubblica questo saggio sulla storia dei colori nero e rosso nel contesto politico latinoamericano. Il cromatismo rosso e nero, come noto, è espresso ancora oggi in tutto il mondo: nere e rosse sono le bandiere dellinsieme di casseur goscistidettiAntifa, così come, teoricamente all’opposto nello spettro ideologico, sono rossonere le bandiere dei cosiddetti «nazionalisti integralisti» ucraini (o banderisti, o ucronazisti) più vivi che mai grazie alla spinta occidentale in senso antirusso. Ricordiamo pure che, en passant, i colori rosso e nero, che già per Stendhal avevano significato storico e metastorico, sono pure quelli di Renovatio 21, sia pure scelti con altri significati ancora.   Il divario tra la nascita di nuove idee e la loro effettiva realizzazione è in crescita e direttamente proporzionale al passare del tempo e allo stabilirsi di distanze geografiche sempre maggiori. La disparità tra la società in cui un’idea è stata concepita e la società in cui viene applicata può portare a un’interpretazione completamente diversa rispetto al suo significato originale. Date queste premesse, è quindi di fondamentale importanza sforzarsi di comprendere il significato originale all’interno del panorama in continua evoluzione delle comunicazioni globali che ci lascia con meno opportunità di approfondire il nostro mondo.   Un buon esempio può essere trovato nella storia e nel significato della bandiera rossa e nera nella lotta di liberazione in America Latina.   In Occidente i tre colori maggiormente utilizzati sono sempre stati il rosso, il bianco e il nero. L’introduzione al testo di Michel Pastoureau Rosso. Storia di un colore (2016) descrive come non solo nelle immagini ma anche nei vocabolari, la loro presenza dall’antichità ad oggi è sempre stata predominante, con una fortissima preminenza del rosso.   Stefano Zuffi ne I colori nell’arte (2013) spiega come durante il medioevo questi tre colori divennero i tre poli intorno ai quali ruotavano tutti i sistemi simbolici. Nell’immaginario cristiano, in particolar modo, i colori rosso e nero vennero usati assieme per evocare le suggestioni dell’inferno e il rosso in particolare si conquistò il ruolo di riconosciuto contrario del bianco grazie al suo simboleggiare la forza, l’energia, la vittoria e il potere.   In epoca moderna durante la Rivoluzione francese il bianco dell’aristocrazia venne affiancato dai colori blu e rosso, i colori della città di Parigi, nell’atto di simboleggiare la sottomissione della nobiltà alla città borghese. In seguito, quei colori divennero rispettivamente il simbolo della Repubblica e della lotta contro le ingiustizie ma anche della libertà, uguaglianza e fraternità.  

Francobollo sovietico del 1966 commemorante il Poeta Eugène Pottier (1876-1887) e le barricate della Comune di Parigi CC0 via Wikimedia

  Il colore rosso diverrà successivamente il simbolo delle lotte parigine del ’48, della Comune parigina del ‘78 e quando verrà utilizzato anche per la rivoluzione bolscevica nel 1917 si approprierà del significato diventando simbolo principe della lotta comunista al capitalismo.  

Hector Moloch, «La Framassoneria e La Comune». Immagine CC0 via Wikimedia

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La bandiera nera invece può essere ricondotta a Bakunin e al suo proselitismo a favore delle sue idee tendenti al caos e al nichilismo. Nella sua visione del mondo immaginava una rivolta contro lo stato costituito paragonata, a sua volta, alla rivolta di satana verso la supremazia del potere del paradiso. Attraverso le internazionali socialiste di metà 1800 si inizierà a vedere sventolare la bandiera nera inneggiante il movimento anarchico.   Il primo esempio verificato di utilizzo della bandiera rossonera simboleggiante l’unione dell’ideologia anarchica con la lotta socialista, fu quello di Malatesta assieme a Cafiero che la esposero in seguito all’assalto di Letino.    Secondo l’opera Occhiacci di legno (1998) dello storico italiano Carlo Ginzburg, nel corso della storia movimenti e personaggi politici si sono appropriati di simboli e miti per i propri scopi. Ginzburg, ad esempio, ha discusso del riutilizzo politico dei miti, evidenziando la combinazione di propaganda e manipolazione nascosta come strumenti per plasmare l’opinione pubblica: «Bakunin e i gesuiti, sebbene ideologicamente diversi, adottarono entrambi strutture gerarchiche e obbedienza assoluta nelle loro organizzazioni. Questi esempi dimostrano come gli attori politici, guidati dai propri programmi, manipolino simboli e narrazioni per portare avanti i propri obiettivi».   Sulla base del lavoro di Donald Hodges Intellectual Foundations of the Nicaraguan Revolution (2014), dopo il Congresso anarchico tenutosi a Londra nel 1881, l’anarco-comunismo emerse come l’ideologia dominante all’interno del movimento anarchico internazionale. L’anarco-sindacalismo, una fusione di anarchismo e sindacalismo che ebbe origine in Francia durante gli anni Novanta dell’Ottocento, si diffuse rapidamente in Spagna e alla fine attraversò l’oceano.   Gli ideologi spagnoli d’avanguardia associati ad organizzazioni come CNT (Confederazione Nazionale del Lavoro), IAT (Associazione Internazionale dei Lavoratori) e FAI (Federazione Anarchica Iberica) hanno svolto un ruolo cruciale nell’adattare l’anarco-comunismo al mondo industrializzato e hanno sottolineato l’importanza dei sindacati come punto focale della lotta di classe e nucleo per stabilire un nuovo ordine sociale. Giunto nelle Americhe, trovò terreno fertile nelle maggiori città industriali degli Stati Uniti e soprattutto nel Messico rivoluzionario, grazie soprattutto all’opera di Ricardo Flores Magon.    La Confederazione Nazionale del Lavoro (CNT), il primo esempio istituzionalizzato di anarcosindacalismo, fu fondata nel 1910 e arrivò successivamente nel Messico rivoluzionario, dove nel 1912 fu fondata la Casa del Obrero Mundial (COM).   

Battaglioni rossi della Casa del Obrero Mundial (1915). CC0 via Wikimedia

  Secondo l’INEHRM, Istituto Nazionale di Studi Storici delle Rivoluzioni del Messico, le fonti indicano che la bandiera rossa e nera era sconosciuta in Messico fino al 1° maggio 1913, quando la Casa del Obrero Mundial (Casa del Lavoratore del Mondo) venne esposta una bandiera rossa con una striscia nera. L’attivista Jacinto Huitrón sostiene addirittura di aver introdotto lui stesso il simbolo al proletariato internazionale.    Nel 1921, una bandiera rossa e nera fu posta nella Cattedrale Metropolitana in occasione della commemorazione del 1° maggio. In risposta, il governo di Álvaro Obregón proibì l’esposizione di stemmi e simboli che contraddicessero «l’insegnamento nazionale» negli edifici pubblici.     Anche se l’intervento del governo non è riuscito a sradicare la bandiera rossa e nera, ha portato all’incorporazione della bandiera messicana nelle espressioni pubbliche del movimento operaio, senza causare un conflitto tra nazionalismo e internazionalismo. Nel simbolismo della Casa del Obrero Mundial messicana, la fascia rossa rappresentava la lotta economica della classe operaia contro le classi dominanti, mentre la fascia nera simboleggiava la loro lotta insurrezionale per la liberazione. 

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L’opera di Neill MacAulay The Sandino Affair (1998) racconta come la bandiera rossonera incontrò Augusto Cesar Sandino nel Messico post-rivoluzione a Tampico.   Figlio di un proprietario terriero fervente liberale, fuggì dal Nicaragua dopo aver manifestato le sue idee politiche antimperialiste. Dopo un lungo girovagare trovò un lavoro stabile nella zona di Tampico, importante centro petrolifero molto vicino geograficamente e culturalmente agli Stati Uniti. Lavorò in un centro di estrazione petrolifero per alcuni anni e prese parte ai grandi movimenti sindacalisti della città. Cominciò a frequentare diversi circoli culturali e sperimentò idee anche molto eterogenee tra loro: dall’anarchismo magonista alla massoneria, dalla teosofia allo yoga.  

Augusto Sandino. Immagine CC0 via Wikimedia

  Al suo ritorno in Nicaragua, dopo aver fomentato una rivolta di minatori in una miniera dove aveva trovato impiego, iniziò ad aggregarsi alla lotta dei liberali contro i conservatori appoggiati dagli Stati Uniti. Non aderì al compromesso tra le fazioni in guerra e cominciò una guerriglia nelle montagne utilizzando la bandiera rossonera dei lavoratori anarchici come suo vessillo. In un secondo viaggio in Messico, in cerca di fondi per la sua causa, incontrò le idee spiritiste di Joaquin Trincado e divenne un adepto della sua Escuela Magnetico-Espiritual de la Comuna Universal.   Al ritorno nelle montagne del Nicaragua cominciò a mettere in pratica la sua particolare interpretazione del mondo attraverso una disciplinatissima visione patriottica fondata sull’identità culturale indigeno-spagnola e votata alla lotta antimperialista. Quando divenne condottiero di uomini nelle giungle delle montagne nicaraguensi non si separò più dalla bandiera che per lui rappresentava la difesa dei lavoratori della classe subalterna.   La propensione ad un comunismo utopico di Sandino derivava probabilmente dall’eredità culturale familiare liberale di piccoli proprietari terrieri e dall’idea di una società fondata sulla fraternizzazione e sulla comunizzazione proposta da Trincado ne Los cinco amores (1963) e vicina a Pëtr Alekseevič Kropotkin in Il mutuo appoggio: un fattore dell’evoluzione (1902).    Alla morte di Sandino i reduci del suo esercito confluirono nella Legione Caraibica dove l’istruttore Alberto Bayo, militare della Repubblica spagnola sconfitta da Franco, ne raccolse le testimonianze orali e successivamente scrisse un manuale sulla guerriglia dedicato al nicaraguense.   Attraverso le sue interazioni con i sopravvissuti dell’esercito di Sandino, che erano riusciti a fuggire in Costa Rica, Bayo diventò il custode delle loro storie ed esperienze. Tra i suoi contributi degni di nota ci fu la pubblicazione di un manuale sulla guerriglia intitolato 150 preguntas a un guerrillero (1955) tradotto in Italia come Teoria e pratica della guerra di guerriglia. 150 consigli ai guerriglieri.   Questa guida completa divenne ampiamente riconosciuta e venerata come una risorsa preziosa, fungendo da riferimento pratico per coloro che erano impegnati in attività rivoluzionarie. Il manuale di Bayo, permeato dello spirito dell’indomabile resistenza di Sandino, occupò un posto speciale nel cuore di coloro che furono coinvolti nella lotta per la liberazione. Era dedicato ai gloriosi guerriglieri emersi dalla scuola immortale di Sandino, riconoscendo a Sandino lo status di eroe venerato su scala globale.   Attraverso i suoi meticolosi sforzi per documentare e diffondere l’eredità della resistenza del leader nicaraguense, Bayo ha svolto un ruolo cruciale nel preservarne la memoria e i principi. Il suo lavoro non solo ha dotato i rivoluzionari di conoscenze tattiche, ma ha anche perpetuato lo spirito di Sandino, ispirando le generazioni future a lottare per la giustizia e la liberazione nonostante le avversità.   Fu Bayo nel ’56 in Messico ad esercitare gli esuli cubani di Castro e a trasmettere le tattiche militari e il mito del sacrificio patriottico di Sandino. Castro diventò presidente di Cuba ed incarnò il mito della rivoluzione vittoriosa del ventunesimo secolo. L’enorme esposizione mediatica che ne ricevette, in un periodo di grande contrasto globale per la guerra fredda in atto, trasformò l’esempio di Cuba in un nuovo paradigma che tenterà di venire replicato in un notevole numero di occasioni.

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La bandiera rossonera del sindacalismo anarchico diventerà attraverso il Movimiento 26 de Julio di Castro uno dei simboli dei movimenti rivoluzionari marxisti in America Latina.   In rapida successione dall’arrivo di Castro all’Avana, dal ’59 in poi, si avranno movimenti replicati in serie lungo tutto l’arco andino: Venezuela (1960), Nicaragua (1961), Perù (1962), Bolivia, (1963), Colombia, (1964), Cile (1965), Panama (1970) e nell’Angola sovvenzionato da Cuba (1975).   La rivoluzione cubana ebbe un debito fortissimo con l’operato di Sandino ma gli ideali che vennero realmente trasmessi furono l’esempio di lotta patriottica contro l’imperialismo statunitense e la ricostruzione a partire dalla dignità di razza indigeno-spagnola, una base riutilizzata in chiave marxista dai futuri movimenti rivoluzionari latino-americani. Non rimase traccia invece del pensiero spirituale di Sandino, suo vero motore ideologico. I movimenti rivoluzionari seguirono uno schema molto simile a quello proposto da Castro a Cuba, ma nessuno ebbe però altrettanta fortuna tranne, fatalità, quello dei Sandinisti in Nicaragua.   Nel 1959 Il pupillo di Bayo, Ernesto «Che» Guevara, aveva organizzato un’invasione del Nicaragua dando vita al Movimiento 21 de Setembro. L’invasione fallì ma uno dei partecipanti, il nicaraguense Daniel Fonseca, portò avanti la lotta cominciando a recuperare gli scritti di Sandino.  

Murales nicaraguense che ritrae Fonseca (a sinistra con gli occhiali) CC0 via Wikimedia

  Ignorò, anche lui, la parte più spiritista, mantenne l’ideale politico più vicino all’esperienza rivoluzionaria cubana e fondò nel 1961 un nuovo movimento di liberazione nazionale ispirato a Sandino, il Frente Sandinista de Liberacion Nacional (FSNL). Che Guevara era diventato il tramite tra l’eredità orale di Bayo e il lavoro testuale di Fonseca, la stessa bandiera rossonera divenne di nuovo simbolo di un movimento di liberazione nazionale ma anche in questo caso il significato aveva mutato inquadramento ideologico.    L’estrema destra messicana e il complotto giudeo-massonico emergono nelle opere di Traian Romanescu, come La Gran Conspiración Judía pubblicata a Città del Messico nel 1961, e Traición a Occidente. Entrambe le copertine del libro, Traición a Occidente e un’altra opera intitolata Amos y esclavos del siglo XX, presentano un disegno grafico distinto: una divisione dei colori rosso e nero in due fasce, con il titolo del libro in bianco al centro.   Questa scelta grafica deliberata non può essere liquidata come casuale, poiché racchiude in sé il concetto di lotta di liberazione nazionale, unendo uno spirito combattivo che trascende le affiliazioni politiche che possono essere percepite come contrastanti con quelle viste finora. Si ritiene che Traian Romanescu, una figura spesso menzionata nei resoconti storici, non sia mai esistito e fosse semplicemente uno pseudonimo.   Scavando più a fondo in questa intrigante narrazione, ci imbattiamo nel nome Carlos Cuesta Gallardo, che non solo ha svolto un ruolo significativo come uno dei fondatori dell’Università Autonoma di Guadalajara, ma aveva anche legami con un’organizzazione clandestina di estrema destra nota come Tecos.   Tuttavia, non è solo il suo coinvolgimento in queste imprese a suscitare curiosità, ma piuttosto un fatto storico che fa luce sulle sue attività in quel periodo. È noto che Carlos Cuesta Gallardo intraprese un viaggio nella Germania nazista, dove cercò di stabilire legami con il movimento nazionalsocialista tedesco. Questa mossa solleva domande e speculazioni sulla natura della sua visita e sull’accoglienza che ha ricevuto. È ragionevole supporre che gli siano state riservate attenzioni e considerazioni particolari, vista l’importanza che Adolf Hitler attribuiva al Messico per la sua immediata vicinanza agli Stati Uniti d’America.   L’intreccio tra la presenza di Carlos Cuesta Gallardo nella fondazione dell’università, il suo coinvolgimento con la società segreta Tecos e le sue interazioni con il regime nazionalsocialista in Germania aggiungono strati alla storia enigmatica che circonda la presunta inesistenza di Traian Romanescu. Questi collegamenti storici e le loro implicazioni alimentano il dibattito e gli intrighi in corso che circondano questo argomento a Guadalajara.  

Ricostruzione della Bandiera delle forze sandiniste di Muago CC BY-SA 4.0 via Wikimedia

  La corrente cristiana di sinistra chiamata teologia della Liberazione, sviluppatasi in seguito al Concilio Vaticano II, si schierò a favore della rivoluzione. La vittoria finale si ottenne solamente con la popolazione cristiana che aderì in massa all’organizzazione rivoluzionaria allo scopo di mettere fine alla dittatura della famiglia Somoza. Ma Sandino, quando era ancora in vita, voleva diventare, invece, il riassunto del pensiero proposto da Trincado: «l’uomo completo […] il comunista-spiritista».   L’immagine che verrà riproposta di Sandino durante la Rivoluzione sandinista non terrà mai conto di questo aspetto che invece fu sempre una delle variabili scatenanti della sua volontà di azione. A maggior ragione non venne mai diffuso il feroce anticlericalismo che aveva assorbito e fatto suo dalla lettura dei testi di Trincado. La trasmissione della storia di Sandino divenne, per omissione, una menzogna politica orchestrata con l’obiettivo di creare un mito fondatore che potesse legittimare l’operato dei rivoluzionari.    Tomás Borge, fondatore dell’FSLN, poeta e guerrigliero, scrive in uno dei suoi libri: «i cristiani autentici credono che l’uscita dalla tomba non si riduca al semplice ritorno alla vita, ma comprenda un processo di rinascita e trasformazione. Ed è per questo motivo che si realizza l’integrazione del cristianesimo liberazionista con la rivoluzione all’interno della nostra rivoluzione nazionale: «Per lottare per la pace, Compagni cristiani, dobbiamo essere pronti a impegnare la nostra stessa vita. Dobbiamo essere pronti a dichiarare senza esitazione: Patria libera o morte».

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Borge, un appassionato comunista e devoto seguace di Castro, abbracciò con tutto il cuore la crescente ondata di fervore religioso, rendendosi conto del ruolo fondamentale che le masse cristiane giocavano nella realizzazione degli obiettivi della rivoluzione. Nella sua astuta comprensione, riconobbe che la fusione della rivoluzione comunista e della teologia della liberazione non solo era compatibile ma si rafforzava anche a vicenda.   Durante gli anni del Sandinismo al potere, Daniel Ortega fu prima rappresentante nella Junta de Gobierno de Reconstrucción Nacional, organo di governo transitorio, e in seguito vinse le elezioni del 1984 diventando Presidente del Nicaragua. Nel 1990 vennero indette nuovamente le elezioni e ne uscì sconfitto dalla coalizione UNO, capitanata da Violeta Chamorro, sostenuta dagli ambienti favorevoli al ritorno di una politica vicina al mondo statunitense. Dopo la sconfitta, Ortega rimase all’opposizione fino al 2006 quando riuscì ad ottenere una importante vittoria elettorale e a riportare la sua bandiera rosso nera al governo.  

Daniel Ortega. Immagine di Cancilleria Ecuador CC BY-SA 2.0 via Wikimedia

  La visione politica di Ortega si dimostrò decisamente differente rispetto a quella del suo primo mandato negli anni rivoluzionari. Assieme alla sua compagna Rosario Murillo, avversaria politica del prete e poeta Ernesto Cardenal, Ministro della cultura all’epoca della rivoluzione e principale esponente della teologia della liberazione in Nicaragaua, cominciò un avvicinamento ai rappresentanti della destra cristiana e agli interessi della classe imprenditoriale nicaraguense. Il cardinale Miguel Obando y Bravo, uno dei maggiori avversari dei Sandinisti all’epoca della rivoluzione, officiò il loro matrimonio nel 2005, l’anno delle elezioni vinte. Da molti osservatori quell’occasione venne vista come l’accordo di Ortega con i poteri filostatunitensi.   Nel giorno 22 dicembre 2014, Ortega aprì la cerimonia dell’inizio del cantiere che avrebbe portato alla costruzione di un canale interoceanico grazie alla concessione dell’appalto ad un fondo di investimenti cinese. Questa operazione diede il via a una enorme ondata di proteste antigovernative indirizzate, paradossalmente, a liberare il Nicaragua dal Fronte Sandinista di Liberazione Nazionale.   Il nuovo canale interoceanico non vide mai l’inizio dei lavori e il miliardario cinese Wang Jing, a capo del Hong Kong Nicaragua Development Corporation (HKNDC) finì per chiudere la compagnia per bancarotta.   Come descritto nell’opera di Russell White Nicaragua Grand Canal (2015), la famiglia Ortega è stata accusata di utilizzare il progetto del Canale come mezzo per consolidare il proprio potere politico. Similmente alla dinastia Somoza, la famiglia Ortega ha acquisito un controllo significativo sulle infrastrutture commerciali del Nicaragua e ha ricevuto aiuti dal Venezuela per acquistare aziende locali.   L’approfondimento della parabola della bandiera rosso nera vuole mostrare come il significato, insito nel simbolo utilizzato come schema aggregante nelle diverse situazioni descritte, cambi ad ogni passaggio. L’appropriazione di Sandino della bandiera del sindacalismo anarchico come suo vessillo porterà alla trasmissione della stessa con significati sempre differenti.

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La morte di Sandino nel ’34 creò un martire e in seguito i suoi reduci riunitesi nelle Legione caraibica consentirono a Bayo di apprendere le storie di Sandino direttamente dai loro racconti orali. La distanza venutasi a creare con la morte di Sandino venne in aiuto a Castro nel costruire il mito fondativo della bandiera rosso nera inneggiante al M 26 7, il movimento dal quale la Rivoluzione cubana ebbe inizio. Il ritorno della figura di Sandino in Nicaragua avvenne soprattutto attraverso l’influenza culturale del movimento cubano.   Il lavoro sui testi fatto da Fonseca, infine, lo cristallizzò spogliato della sua profondità più spirituale ma in una forma più utile politicamente a coagulare al suo interno le correnti presenti nella popolazione. L’ulteriore sconvolgimento del significato della bandiera è in atto ancora oggi con il governo di Ortega che dimostra di aver riportato il Nicaragua vicino al punto contro il quale aveva combattuto da giovane.   Il mito fondativo di Sandino campeggia presente ovunque in Nicaragua anche se ormai il suo significato è stravolto.   Scriveva Tacito: «Fingunt, simul creduntque». Fingono, «hanno immaginato o hanno costruito?», ma al tempo stesso ci credono. L’importanza del saper mantenere il controllo sul popolo dopo aver vinto una rivoluzione passa attraverso anche i simboli aggregatori che lo fanno diventare il più possibile coeso verso un obiettivo comune.   Maggiore sarà la distanza dall’origine del significato utilizzato come mito, più difficile sarà riuscire a verificarne la veridicità. In questo modo il racconto politico che ne deriverà potrà sempre utilizzare il mito fondatore, la bandiera rosso nera o Sandino stesso, nel modo che si dimostrerà più utile e adatto alla situazione.   Coloro che guidano il popolo e che hanno la responsabilità di traghettare un’intera nazione, come in questo particolare esempio centramericano, hanno per primi l’obbligo di credere alla costruzione della loro stessa menzogna per poterla trasmettere con sicurezza.    Marco Dolcetta Capuzzo  

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Pensiero

Dugin parla di rivoluzione nella destra americana

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Il filosofo e politologo russo Aleksandr Dugin spera che le sanzioni statunitensi vengano presto revocate, così da poter visitare il Paese e sperimentare quello che ritiene sarà un cambiamento politico storico sotto la guida del presidente eletto Donald Trump.

 

La scorsa settimana il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti ha annunciato sanzioni contro il Center for Geopolitical Expertise (CGE) con sede a Mosca, un think tank fondato da Dugin, accusandolo di «alimentare tensioni socio-politiche e influenzare l’elettorato statunitense durante le elezioni statunitensi del 2024», affermando che il CGE ha utilizzato deepfake e strumenti di intelligenza artificiale per diffondere falsità, agendo su richiesta dell’agenzia di intelligence militare russa (GRU). Mosca ha costantemente negato di essersi intromessa nelle elezioni statunitensi.

 

Reagendo alle ultime restrizioni, il filosofo ha detto sabato: «Spero che nel 2025 mi tolgano le sanzioni. Voglio visitare gli Stati Uniti. Ci sono molti buoni amici lì».

 

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Lo stesso Dugin è stato sottoposto a sanzioni dagli Stati Uniti dal 2015 per quello che Washington vede come il suo ruolo in azioni che «minacciano l’integrità territoriale dell’Ucraina». La designazione è arrivata dopo il colpo di Stato sostenuto dall’Occidente a Kiev nel 2014, che ha scatenato una potente rivolta nel Donbass, ora parte della Russia, che Dugin ha sostenuto.

 

Dugin ha continuato dicendo che «gli piace la bro-revolution e la svolta woke di destra», definendo così l’arrivo di una certa aria da «fraternità» scolastica che spira nella destra, divenuta al contempo intransigente come il neogoscismo detto woke. «Sono molto curioso del nuovo saeculum e della First Turn». Il filosofo si riferiva apparentemente all’idea che dopo la rielezione di Trump, l’America è entrata in un nuovo ciclo storico, del genere che capita una volta ogni diverse generazioni, una teoria elaborata dai politologi Neil Howe e William Strauss nel libro del 1997 The Fourth Turning e portata avanti in particolare da Steve Bannon – il quale è apertamente nemico di Elon Musk (il bro per eccellenza del nuovo trumpismo).

 

Dugin ha descritto la vittoria di Trump sulla democratica Kamala Harris come una «vera rivoluzione ideologica» che alla fine aprirà la strada all’America per liberarsi dall’iper-individualismo, dalla cultura della cancellazione e dall’odio per il proprio retaggio.

 

Dugin è noto come fervente difensore dei valori tradizionali, falco della politica estera e ideologo dell’«Eurasiatismo», l’idea di un blocco geopolitico che unisca Europa e Asia per respingere il progressismo occidentale. I media occidentali spesso si riferiscono a lui come al «cervello di Putin», a causa della sua presunta influenza sul presidente russo. Tuttavia, classifica sui maggiori pensatori geopolitici ascoltati dal Cremlino non lo vedono ai primi posti: secondo alcuni, l’idea di Dugin vicino a Putin serve dunque, soprattuto, alla propaganda antirussa.

 

Come riportato da Renovatio 21, due anni fa i libri di Dugin sparirono improvvisamente da Amazon. Se ne accorse, mesi dopo, anche il giornalista televisivo americano Tucker Carlson.

 

Il filosofo l’anno scorso diede una lunga, densissima intervista allo stesso Carlson, mostrando la profondità del suo pensiero storico-filosofico nell’analisi della situazione dell’ora presente riguardo all’imperio del liberalismo omotransumanista.

 

Dugin ha pagato il prezzo più alto possibile per le sue idee, un prezzo persino superiore alla morte: come noto, la figlia Darja Dugina è stata uccisa da un’autobomba a Mosca due anni fa. Secondo i servizi segreti americani la giovane è stata uccisa dagli ucraini.

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Immagine di Fars Media Corporation via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International; immagine tagliata

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