Epidemie
Torna la mascherina per i bambini a scuola: basterà un raffreddore

Il 5 agosto l’Istituto Superiore di Sanità ha pubblicato le «Indicazioni strategiche ad interim per preparedness e readiness ai fini di mitigazione delle infezioni da SARS-CoV-2 in ambito scolastico (anno scolastico 2022 -2023)».
Si tratta di un documento «messo a punto da Iss, con i ministeri della Salute e dell’Istruzione e la Conferenza delle Regioni e delle Province autonome» a cui guardare se vogliamo avere una risposta alla domanda fondamentale che via via pressa sempre di più: i nostri figli dovranno portare la mascherina a scuola?
La risposta è: dipende.
Si tratta infatti di «misure standard di prevenzione per l’inizio dell’anno scolastico che tengono conto del quadro attuale, dall’altro, ulteriori interventi da modulare progressivamente in base alla valutazione del rischio e al possibile cambiamento del quadro epidemiologico».
In pratica, di un «doppio livello», dove con l’aggravarsi dell’epidemia percepita nel Paese si implementeranno varie restrizioni, tra cui le «mascherine chirurgiche, o FFP2, in posizione statica e/o dinamica».
Insomma, la porta al mascheramento dei bambini è ancora aperta, così come quella al «distanziamento di almeno 1 m», «somministrazione dei pasti nelle mense con turnazione», «consumo delle merende al banco» etc.
Questo, dicevamo, come «misure ulteriori, da implementare singolarmente o in combinazione».
Nelle «Misure di prevenzione di base attive al momento della ripresa scolastica», invece, abbiamo l’«utilizzo di dispositivi di protezione respiratoria (FFP2) per personale scolastico e alunni che sono a rischio di sviluppare forme severe di COVID-19». Ammettiamo di non capire bene cosa significhi: stanno forse parlando dei bambini non vaccinati?
Nelle misure base spicca anche il ruolo di una non meglio precisata «etichetta respiratoria». Si tratta di un’espressione nuovissima, inedita, ancorché grottesca (il «galateo del respirare»?), la cui piena significazione, pure qui, ci sfugge.
Il bambino, viene scritto, non può stare a scuola con «sintomatologia compatibile con COVID-19, quale, a titolo esemplificativo: sintomi respiratori acuti come tosse e raffreddore con difficoltà respiratoria, vomito (episodi ripetuti accompagnati da malessere), diarrea (tre o più scariche con feci semiliquide o liquide), perdita del gusto, perdita dell’olfatto, cefalea intensa».
Tuttavia, forse sempre nello spirito dell’avveniristica «etichetta respiratoria», veniamo informati che se i sintomi sono deboli, si potrà andare in classe, purché mascherati con la chirurgica o la FFP2.
«Gli studenti con sintomi respiratori di lieve entità ed in buone condizioni generali che non presentano febbre, frequentano in presenza, prevedendo l’utilizzo di mascherine chirurgiche/FFP2 fino a risoluzione dei sintomi, igiene delle mani, etichetta respiratoria» scrive il testo.
Quindi: basterà il banale raffreddore, e vostro figlio dovrà vedersi ridotto l’ossigeno dalla nuova «etichetta respiratoria».
Basterà un naso che cola, ed ecco che il diritto allo studio sarà subordinato alla museruola di Stato, benché dimostrata essere inutile e nociva per il bambino.
«La scuola rappresenta uno dei setting in cui la circolazione di un virus a caratteristiche pandemiche richiede particolare attenzione» dice l’introduzione del documento, che non tiene conto della valanga di studi che attestano il contrario, ad esempio quelle fatte avere al ministero dalla Salute da associazioni come la Rete Nazionale Scuola in Presenza, che ha raccolto tutta la letteratura con le evidenze scientifiche internazionali sull’argomento.
A vincere nelle direttive di Stato è l’idea, costante e strisciante, del bambino come untore. È quello che scriveva, in quel 2019 pre-pandemico, il campione del vaccinismo social Roberto Burioni: «I figli sono gioie, felicità, etc, ma anche maligni amplificatori biologici che si infettano con virus per loro quasi innocui, li replicano potenziandoli logaritmicamente e infine li trasmettono con atroci conseguenze per l’organismo di un adulto».
Soprattutto, il ministero pare non aver nemmeno lontanamente contezza della quantità di materiale riguardo alla dannosità delle mascherine per i bambini.
Lo ha dimostrato, ad esempio, una ricerca pubblicata sulla prestigiosa rivista medica JAMA.
Ne ha parlato, ad esempio, l’Agenzia Tedesca per la difesa dei consumatori, dopo test su una quindicina di modelli.
Ha preso in considerazione la questione almeno un governo, quello irlandese, che l’anno scorso si è espresso contro le mascherine per i piccoli studenti.
Racconti più o meno aneddotici di malattie infantili causate dalle mascherine erano partiti già due anni fa.
Studi sulle microplastiche inalate indossando le mascherine, da adulti e bambini, stanno uscendo in questi mesi.
Inoltre, non possiamo dimenticare la quantità di danni allo sviluppo mentale dei bambini che il mascheramento globale e le altre restrizioni sembrano aver cagionato: bambini con problemi nel linguaggio e nelle relazioni, bambini che non riconoscono i volti, logopedisti intasati, e miriadi di casi di quello che oramai chiamano «ritardo da COVID»
Quella delle mascherine sui bambini, ha scritto il dottor Robert Malone, è «una follia di massa che deve cessare».
Liberiamo i bambini dalle mascherine.
Intanto, Renovatio 21 ha sottotitolato un video che può aiutarvi a capire quanto la protezione delle mascherine sia efficace e necessaria.
Epidemie
L’RNA virale può persistere per 2 anni dopo il COVID-19: studio

Un nuovo studio potrebbe spiegare perché alcune persone che contraggono il COVID-19 non tornano mai alla normalità e sperimentano invece nuove condizioni mediche come malattie cardiovascolari, disfunzioni della coagulazione, attivazione di virus latenti, diabete mellito o quello che è noto come «Long COVID» dopo l’infezione di SARS-CoV-2. Lo riporta Epoch Times.
In un recente studio preliminare pubblicato su medRxiv, i ricercatori hanno condotto il primo studio di imaging con tomografia a emissione di positroni (PET) sull’attivazione delle cellule T in individui che in precedenza si erano ripresi da COVID-19 e hanno scoperto che l’infezione da SARS-CoV-2 può provocare un’attivazione persistente delle cellule T in una varietà di tessuti corporei per anni dopo i sintomi iniziali.
Anche nei casi clinicamente lievi di COVID-19, questo fenomeno potrebbe spiegare i cambiamenti sistemici osservati nel sistema immunitario e in quelli con sintomi COVID di lunga durata.
Va segnalato, ad ogni modo, la maggior parte dei partecipanti era stata vaccinata e lo studio non ha indagato il legame tra l’esistenza dell’RNA virale e la vaccinazione.
Per effettuare lo studio, i ricercatori hanno condotto scansioni PET di tutto il corpo di 24 partecipanti che erano stati precedentemente infettati da SARS-CoV-2 e guariti dall’infezione acuta in momenti che vanno da 27 a 910 giorni dopo l’insorgenza dei sintomi di COVID-19.
Una scansione PET è un test di imaging che utilizza un farmaco radioattivo chiamato tracciante per valutare la funzione metabolica o biochimica di tessuti e organi e può rivelare un’attività metabolica sia normale che anormale. Il tracciante viene solitamente iniettato nella mano o nella vena del braccio e si raccoglie in aree del corpo con livelli più elevati di attività metabolica o biochimica, che possono rivelare la sede della malattia.
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Utilizzando un nuovo agente radiofarmaceutico che rileva molecole specifiche associate a un tipo di globuli bianchi chiamati linfociti T, i ricercatori hanno scoperto che l’assorbimento del tracciante era significativamente più elevato nei partecipanti alla fase post-acuta di COVID-19 rispetto ai controlli pre-pandemia nel tronco cerebrale, nella colonna vertebrale midollo osseo, tessuto linfoide nasofaringeo e ilare, tessuti cardiopolmonari e parete intestinale.
Tra maschi e femmine, i partecipanti maschi tendevano ad avere un assorbimento maggiore nelle tonsille faringee, nella parete rettale e nel tessuto linfoide ilare rispetto ai partecipanti femmine.
I ricercatori hanno specificatamente identificato l’RNA cellulare del SARS-CoV-2 nei tessuti intestinali di tutti i partecipanti con sintomi da Long COVID che si erano sottoposti a biopsia in assenza di reinfenzione, con un range da 158 a 676 giorni dopo essersi inizialmente ammalati di COVID.
Ciò suggerisce che la persistenza del virus nel tessuto potrebbe essere associata a problemi immunologici a lungo termine.
Sebbene l’assorbimento del tracciante in alcuni tessuti sembrasse diminuire con il tempo, i livelli rimanevano comunque elevati rispetto al gruppo di controllo di volontari sani pre-pandemia.
«Questi dati estendono in modo significativo le osservazioni precedenti di una risposta immunitaria cellulare duratura e disfunzionale alla SARS-CoV-2 e suggeriscono che l’infezione da SARS-CoV-2 potrebbe portare a un nuovo stato stazionario immunologico negli anni successivi a COVID-19», scrivono i ricercatori.
I risultati hanno mostrato un «assorbimento leggermente più elevato» dell’agente nel midollo spinale, nei linfonodi ilari e nella parete del colon/retto nei soggetti con sintomi COVID prolungati.
Nei partecipanti con COVID lungo che hanno riportato cinque o più sintomi al momento dell’imaging, i ricercatori hanno osservato livelli più elevati di marcatori infiammatori, «comprese le proteine coinvolte nelle risposte immunitarie, nella segnalazione delle chemochine, nelle risposte infiammatorie e nello sviluppo del sistema nervoso».
Rispetto sia ai controlli pre-pandemia che ai partecipanti che avevano avuto il COVID-19 e si erano completamente ripresi, le persone con Long COVID hanno mostrato una maggiore attivazione delle cellule T nel midollo spinale e nella parete intestinale.
I ricercatori attribuiscono i loro risultati all’infezione da SARS-CoV-2, sebbene tutti i partecipanti tranne uno avessero ricevuto almeno una vaccinazione COVID-19 prima dell’imaging PET.
Per ridurre al minimo l’impatto della vaccinazione sull’attivazione delle cellule T, l’imaging PET è stato eseguito a più di 60 giorni da qualsiasi dose di vaccino, ad eccezione di un partecipante che ha ricevuto una dose di vaccino di richiamo sei giorni prima dell’imaging. Sono stati esclusi gli altri che avevano fatto un vaccino COVID-19 entro quattro settimane dall’imaging, scrive Epoch Times.
I ricercatori hanno affermato che il loro studio presentava diversi altri limiti, tra cui dimensioni ridotte del campione, studi correlati limitati, varianti in evoluzione, lancio rapido e incoerente dei vaccini COVID-19, che hanno richiesto loro di modificare i protocolli di imaging, utilizzando individui pre-pandemici come controlli e l’estrema difficoltà di trovare persone che non fossero mai state infettate dal SARS-CoV-2.
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«In sintesi, i nostri risultati forniscono prove provocatorie dell’attivazione del sistema immunitario a lungo termine in diversi tessuti specifici in seguito all’infezione da SARS-CoV-2, compresi quelli che presentano sintomi COVID lunghi», concludono i ricercatori. «Abbiamo identificato che la persistenza del SARS-CoV-2 è un potenziale motore di questo stato immunitario attivato e mostriamo che l’RNA del SARS-CoV-2 può persistere nel tessuto intestinale per quasi 2 anni dopo l’infezione iniziale».
Come riportato da Renovatio 21, già un anno fa la stampa mainstream aveva cominciato ad ammettere che forse «i vaccini potrebbero non prevenire molti sintomi del Long COVID, come ha scritto il Washington Post.
Nella primavere 2022 il professor Harald Matthes dell’ospedale di Berlino Charité aveva dichiarato di aver registrato 40 volte più «effetti collaterali gravi» delle vaccinazioni contro il COVID -19 rispetto a quanto riconosciuto da fonti ufficiali tedesche.
Matthes aveva delle strutture che sarebbero chiamate a curare i pazienti con complicazioni vaccinali: «Abbiamo già diversi ambulatori speciali per il trattamento delle conseguenze a lungo termine della malattia COVID», spiega il prof. Matthes. «Molti quadri clinici noti da “Long COVID” corrispondono a quelli che si verificano come effetti collaterali della vaccinazione».
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Variante COVID, il governo israeliano ordina agli ospedali test PCR su tutti i nuovi pazienti

Il Ministero della Sanità israeliano ha ordinato agli ospedali di condurre test COVID su tutti i nuovi pazienti, mentre anche nello Stato Ebraico si rincorrono le voci di nuovi lockdown in arrivo.
Secondo un rapporto del Jerusalem Post, il Ministero della Sanità ha dato l’ordine di effettuare test PCR obbligatori a causa dell’aumento del numero di infezioni da COVID-19 e per «monitorare in modo più efficace i tassi di infezione».
Secondo quanto riferito, i funzionari sanitari sono preoccupati per la cosiddetta variante BA.2.86 o «Pirola» che potrebbe diffondersi più rapidamente del previsto. Si suppone che la variante sia «in grado di eludere gran parte dell’immunità fornita da precedenti infezioni e vaccinazioni».
Il Jerusalem Post cita Shay Fleishon, direttore esecutivo dell’organizzazione affiliata al governo BioJerusalm, il quale sostiene che la percezione della diffusione relativamente lenta della variante BA.2.86 potrebbe essere dovuta a «scarsi sforzi di sorveglianza in tutto il mondo e non all’insuccesso della variante».
L’autore dell’articolo del Jerusalem Post, Tzvi Joffre, afferma che la «diminuzione della sorveglianza ha anche reso difficile giudicare con precisione la velocità con cui BA.2.86 si sta diffondendo e sta ponendo difficoltà nel catturare varianti future».
Il ricercatore Ben Murrell del Karolinska Institute di Stoccolma ha fatto eco a questo sentimento, affermando: «il fatto, tuttavia, che si sia verificato un altro evento di emergenza simile a Omicron, con quel ramo a lungo inosservato e la successiva diffusione, dovrebbe metterci in guardia dal rinunciare alla nostra infrastruttura di sorveglianza genomica».
All’inizio della crisi COVID, Israele è stato uno dei primi paesi a introdurre misure restrittive, compresi lockdown su larga scala. In questi mesi sono emersi dati impressionanti sulla pandemia, come il fatto che zero adulti sani sono morti di COVID nel Paese. Anche i dati sulle reazione avverse ai vaccini, che lo Stato Ebraico ha inoculato in massa per tutte le varianti alla popolazione emarginando totalmente i non vaccinati, sono stati definiti «allarmanti e scioccanti».
La reintroduzione dei test PCR obbligatori, che si sono rivelati imperfetti e producono risultati imprecisi, così come le richieste di «maggiore sorveglianza», arrivano tra le voci di lockdown e di obblighi di mascherine che torneranno questo autunno.
Mentre in rete si diffonde lo slogan «we will not comply» («non obbediremo»), molte figure pubbliche, incluso l’ex presidente Donaldo Trump, stanno esortando i cittadini a non rispettare potenziali nuovi lockdown, nuovi obblighi di mascherina, nuovi obblighi vaccinali..
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