Pensiero
Purgatori e le cospirazioni socialmente accettabili
È morto Andrea Purgatori, giornalista d’inchiesta piuttosto noto tra TV e stampa mainstream. Aveva settant’anni, e praticamente mezzo secolo di reportage alle spalle.
Ora, che sia chiaro: non parleremo qui delle cause della morte, sulla quale si è scatenato, per usare le parole della testata Open lo «sciacallaggio no-vax»: insomma la solita ridda di commenti dopo i decessi repentini di gente famosa, con tanti che lanciano accuse nei confronti di determinati procedimenti medici, un fenomeno inevitabile del popolo non greenpassato che ora tante testate, Libero incluso, definiscono «orrore» – senza spiegare altro.
Per una volta, ci facciamo andare benissimo la formula che stiamo leggendo dappertutto: Purgatori è morto a causa di «una malattia fulminante». Sono le esatte parole ripetute nei loro articoli online il Corriere della Sera, il Messaggero, la Gazzetta dello Sport, il Riformista, La Stampa, Fanpage, Il Tempo, il Quotidiano Nazionale, l’Unità, il Sussidiario. Va bene così. Tanto più che ora ci sarebbero due indagati per omicidio colposo dopo la denuncia sporta dalla famiglia.
Renovatio 21 aveva parlato di Purgatori qualche mese fa. In una delle sue belle, lunghissime trasmissioni su La7, dove la nostalgia per i vecchi misteri italici si tagliava con il coltello per spalmarla su panini per over 50, aveva intercettato un piccolo grande scoop: la sorella di Mino Pecorelli – un uomo la cui morte è uno dei tanti enigmi dell’Italia repubblicana – aveva dichiarato che Papa Luciani sarebbe morto nel giorno in cui gli fu consegnata la lista dei cardinali massoni, la celeberrima, appunto, «lista Pecorelli».
Si tratta di una rivelazione immensa, che andrebbe tutta verificata, perché magari alcune date non coincidono, ma non importa: la fonte regge, il possibile disegno che vi sta dietro pure chiama l’attenzione.
Il sottobosco catto-conservatore non se ne accorse nemmeno: è fatto di una mistura di perdigiorno, imbecilli, ragazzini che si battono il petto gorillescamente, persone problematiche, più l’immancabile contorno di nerd liturgici. Purgatori, per l’informazione cattolica, aveva fatto più che tutto la rete del catto-universo con i suoi blog, newsletter e social (perché non bannano mai chi dice cose perfettamente inutili, cioè utili al mantenimento delle nicchie previste dall’establishment).
Diciamo pure che avevamo messo in cantiere, con qualche appunto critico, un articolo su un’altra mega-trasmissione di Purgatori delle scorse settimane, dove andava ad inoltrarsi nella notte più profonda (stricto sensu) parlando del Mostro di Firenze e l’eversione nera.
Era un volto TV a suo modo notissimo, finanche definibile «di culto»: infatti aveva partecipato, mettendoci la testa e anche la faccia, a opere di Corrado Guzzanti come Il caso Scafroglia, finendo quindi nello sketch, poi divenuto per qualche ragione film, Fascisti su Marte, dove interpretava il camerata Fecchia, giunto anch’egli sul «rosso pianeta bolscevico e traditor». I fan di Boris, altra serie di culto, lo ricordano in vari episodi.
La quantità di trasmissioni RAI da lui realizzate è impressionante, come pure la consistenza con cui ha fatto programmi per La7, comparendo infine anche sulla docu-serie Netflix Vatican Girl, su Manuela Orlandi. Tuttavia va ricordato anche per la carriera cinematografica: Purgatori è stato membro dell’Accademia del Cinema Italiano e dell’Accademia Europea del Cinema, posizione meritatasi probabilmente per i film con Marcello Avallone (come l’horror Spettri del 1986, dove la scoperta di una necropoli antica sotto Roma porta maledizioni a go-go), per il film di Michele Placido su Vallanzasca (dal quale, però, aveva tolto la firma) e soprattutto per Il Muro di Gomma (1991) di Marco Risi (figlio del leggendario Dino Risi e fratello del Claudio Risi de I ragazzi della Terza C) che in pratica racconta la sua vicenda di cronista del Corriere della Sera durante gli anni di indagini sul caso Ustica.
Piccola digressione biografica, forse necessaria: ricordo bene, nei primissimi anni del liceo, che ci portarono a vederlo: tutta la scuola, nel cinema accanto, che era un vero teatro, una sala ancora grandissima, ancora non colpita dalla fissione multisala. Ricordo che del film non ricordo nulla: un protagonista giovane con il capello fastidioso che andava forte in certi filmetti impegnatini di quegli anni (l’attore e cineasta Corso Salani, 1967-2010) e basta. Mi sembra di rammentare ad un certo passai al bagno, dove con un gruppetto interclasse si fumava e si parlava, si sparlava, con estrema probabilità di ragazze.
(Mi sento ingrato rispetto al dono che il mondo trenta anni fa poteva farmi: un film, in pellicola 35 millimetri, su un grande teatro, insieme a quasi un migliaio di compagni – ognuno di questi elementi oggi è una rarità infinita, di cui scrivendo sento di avere nostalgia).
Il fatto è che il film su Ustica, per qualche motivo, anche agli adolescenti semplici, come lo ero io (abbastanza), pareva qualcosa di imposto, di inflitto. Di Ustica avevo sentito parlare infinite volte dai Telegiornali delle otto (magari con la voce bassa e suadente dell’indimenticato Paolo Frajese, lo zio del medico idolo no-vaxo) e, sì, mi ero fatto l’idea che si trattava di un mistero di cui non se ne veniva a capo – era l’ennesimo che la mia mente, pur in apparenza disinteressata, annotava. Ho iniziato a leggere i giornali molto precocemente, e la lista di enigmi di sangue alla quale ero sottoposto ancora minorenne – bombe nelle piazze, nelle stazioni, serial killer anche dietro casa (letteralmente), terrorismo, incidenti di navi, aerei, treni – già intasava tanti cassetti dentro di me, spesso senza che lo sapessi.
Più avanti, avrei realizzato che forse era proprio quello il fine: sovraccaricarmi, di modo da sfibrare la mia morale e mollare, qualora ne avessi, ogni ambizione di comprensione della realtà: dedicati ad altro, alle sigarette e alle ragazze, appunto – magari ad attendere il sabato sera con i primi festini alcolici. Bacci, Tabacci venerisque. È la saggezza antica, tutta romana, di chi mi stava narcotizzando offrendomi in orario di scuola dell’obbligo pure panem et cinemam. E potevo pure rifiutare, infilandomi in bagno con il gruppetto dei discoli, bastava che pensassi ad altro.
Sono passate decadi, e dopo aver scritto tre o quattro libri e messo in piedi Renovatio 21 (con la quantità di conferenza in giro per l’Italia degli anni prepandemici), non posso dire che in seguito io non mi sia interessato di misteri e trame oscure.
Tuttavia, l’effetto che mi fa tutto il film su Ustica di Purgatori, e tutta la narrazione intorno è lo stesso: un senso automatico di rifiuto.
C’è da chiedersi perché: in fondo, il giornalismo d’inchiesta, ritengo, è una delle cose più belle del mondo. E qualcuno che si inoltra nel mistero, nella terra incognita, nell’avventura extra-ordinaria, è, per definizione congiunta di Carl Gustav Jung e Joseph Campbell, un «eroe».
E allora perché non provo passione?
Leggo Wikipedia: Purgatori, che aveva il tesserino di giornalista professionista a poco più di vent’anni e pure un Master alla Columbia University di Nuova York (Ivy League…), si occupava di terrorismo nazionale ed internazionale, di stragismo vario, del caso Moro, dei delitti della mafia, veniva inviato in guerra in Libano, in Iraq-Iran, in Palestina, in Tunisia, in Algeria. Tutti temi che mi interessano grandemente. Eppure non ricordo niente di quello che ha scritto in merito.
In una delle sue ultime trasmissioni, quella su Pecorelli e papa Luciani, l’ho sentito raccontare una cosa illuminante: diceva che quando stava al Corriere della Sera (poco più che ventenne!) e il giovedì arrivava OP, la rivista di Pecorelli strapiena di informazioni incredibili pescate chissà come, lo sentiva come un colpo. In pratica, anche il giovane giornalista che si occupa di piste oscure comprendeva che c’era un livello che il suo lavoro avrebbe dovuto raccontare ma al quale lui non poteva attingere. Ad inizio della puntata, raccontava, come rivendicando una qualche prossimità con il centro della storia, che la sera che ammazzarono Pecorelli lui, per un caso della vita, stava in una pizzeria lì vicino.
È possibile, mi chiedo, comprendere la realtà se si appartiene all’establishment? È possibile scavare fino alla verità se si lavora per un grande giornale? Quando Purgatori ci lavorava, il Corriere della Sera era lì lì per esplodere a causa delle infiltrazioni massoniche ai vertici – la P2 di Licio Gelli, forse l’unica Loggia che davvero è emersa e ha pagato (lo ricordava lo stesso Purgatori con Padellaro in una delle sue ultime trasmissioni).
All’epoca chi voleva andare a fondo delle questioni e delineare il quadro generale sottostante alla realtà repubblicana, con i suoi mandanti democratici, cristiani, comunisti, nazionali ed internazionali, non veniva chiamato «complottista», ma, nel gergo dei giornali di quel tempo, «pistarolo».
Immagino che anche per i più aperti ai pistaroli sarebbe stato difficile sentirsi dire da uno: sai, c’è un tizio che vende materassi fuori Roma, è a capo di una setta segreta che conta i vertici della Repubblica, 119 alti ufficiali tra esercito, Guardia di Finanza, Arma dei carabinieri, 22 dirigenti di Polizia, 59 parlamentari, un giudice costituzionale, 8 direttori di giornali, 4 editori, 22 giornalisti imprenditori, l’imitatore più famoso, il principe erede al trono d’Italia, direttori di giornali, eroi della Resistenza, un cantante celeberrimo, banchieri, medici, faccendieri, editori, tutti i capi dei servizi segreti italiani… E questo signore dei materassi parrebbe avere un potere che va al di là della semplice influenza anche in Sudamerica, in Argentina, in Uruguay, in Brasile… e pensati che per i suoi complotti incontra i suoi iniziati in Autogrill, dove tra un panino «fattoria» e una spremuta decide le sorti delle nostra Nazione e pure di altre (questa dell’Autogrill l’ho letta nel libro di Gianfranco Piazzesi Gelli la carriera di un eroe di questa Italia, 1983).
Ecco, il Gelli i tanti giornalisti d’inchiesta di quegli anni non l’hanno visto arrivare (o forse, qualcosa sapevano, ma non potevano dire nulla, perché lo stipendio, perché la carriera). Nessuno, quanto pare, capiva il potere della massoneria sulla società italiana.
Nessuno, a meno che non avesse letto Il problema dell’ora presente di monsignor Henri De Lassus. Un testo di più di un secolo fa, dove però, come in tanti libri della tradizione cattolica, le cose erano raccontate con precisione profetica. L’infiltrazione della massoneria nella società, il suo vero scopo, i contenuti delle sue azioni… sono cose che non sorprendono il tradizionista, quello combattuto dal mainstream anche oggi come bigotto, razzista, omofobo, «complottista» – insomma uno da escludere dalla vita sociale e pure da quella social.
Sto cercando di dire: ci sono cospirazioni sul quale hanno lasciato, in apparenza la briglia sciolta. Ustica, Piazza Fontana, Agca, Emanuela Orlandi, il Mostro di Firenze, Ilaria Alpi… ettolitri di inchiostro spalmati in oltre mezzo secolo, servizi TV, libri, pellicole cinematografiche (magari realizzate con il contributo finanziario dello Stato), fiction per il pubblico bovino delle prime serate del catodo generalista.
Sono cospirazioni che ci hanno lasciato liberi di credere, di intraprendere in discorsi pure pubblici. Sono le cospirazioni socialmente accettabili.
Nessuna di queste cospirazioni ha trovato davvero conclusione, giornalistica o giudiziaria – e forse anche questo non è troppo casuale. Godono di un lasciapassare immenso: se ti ci dedichi non vieni bollato come «complottista» – nemmeno se capita di dire cose che sono apertamente «complottiste» (abbiamo tanti esempi).
Le cospirazioni socialmente accettabili producono diacronicamente quantità di materiale impressionante, al punto che c’è da pensare che la nostra psiche, la nostra concezione della storia e della cittadinanza, sia in certa parte dovuta al fatto che gli oceani di parole sulle «cospirazioni socialmente accettabili» in verità ci tengono tutti a bagnomaria.
Non voglio qui sembrare ingiusto con il defunto Purgatori – non sto parlando espressamente di lui. Anzi di lui vorrei ricordare un’incursione proprio in uno di quegli ambiti toccato molto, molto raramente nella storia del nostro Paese (e anche quando è emerso il sangue, subito la ferità è stata ricucita, ricoperta, e non se ne è saputo più nulla: non fatemi parlare troppo).
Stiamo parlando della Sanità. Purgatori ebbe il coraggio di parlare di uno dei personaggi fondamentali del comparto, il cardinale Fiorenzo Angelini.
Il giovane reporter lo incontrò nel 1976 in Uganda. «Allora solo vescovo, ma già eminenza grigia della sanità cattolica con le mani in pasta in cinque ospedali di Roma, quattrocento immobili e ottomila ettari di tenute agricole intorno alla capitale. Il Giulio Andreotti del Vaticano, di cui era amico fraterno» scrive Purgatori (che si definiva credente non praticante).
«Sbucò tra le bouganville di un lodge con una camicia, un paio di bermuda color kaki e una cinepresa in mano. Fate conto Alberto Sordi in Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa. Preciso» continua il giornalista descrivendo il futuro cardinale. «E dopo essersi presentato, chiese due informazioni: dove convenisse fare un buon cambio al mercato nero e se l’avorio di contrabbando a trentamila lire al chilo fosse un prezzo accettabile. Sembrava uno scherzo».
«Nel pomeriggio di quel giorno, incontrai un missionario italiano che viveva lì da dieci anni e lo trovai coi capelli dritti in testa, sconvolto. Mi raccontò che il monsignore gli aveva chiesto di battezzare un bambino nero, così, per fare un filmino ricordo insieme ai suoi amici. Allargando le braccia, il missionario gli aveva detto che non c’erano bambini da battezzare. Ma lui non aveva fratto una piega: Embé? Ne ribattezziamo uno già battezzato, magari ci diventa santo».
Angelini, ricordiamo, era detto «Sua sanità». Qualcuno preferiva chiamarlo «il Richelieu delle medicine». Il Fatto nel 2014 riportava un virgolettato di Duilio Poggiolini, «che fu direttore generale del servizio farmaceutico nazionale del ministero della Sanità, coinvolto nell’inchiesta “Mani pulite” e additato come membro della loggia massonica P2», proprio riguardo al porporato incontrato da Purgatori nel Continente Nero: «tutti avevano paura di monsignor Angelini, del suo potere immenso. Raccomandava i suoi, segnalava certi imprenditori farmaceutici, pretendeva per loro un trattamento di riguardo, condizionava, dettava legge, lo faceva attraverso i suoi referenti, nella CUF, la Commissione unica del farmaco, e nel CIP farmaci».
Purgatori lo aveva visto, pure nella sua incarnazione afro-turistica stile Alberto Sordi episcopale. Sapeva del suo potere nel mondo dei farmaci, di cui si poteva intuire l’intima natura. E quindi, ci chiediamo, come mai in questi anni del mondo della farmaceutica, che ha preso decisamente il centro della scena, il giornalista non ha dubitato mai?
«Il vaccino è l’unico orizzonte» disse in TV durante la pandemia.
Aveva difeso lockdown, mascherine. Il vaccino ha dimostrato, dati alla mano, il numero delle persone che finiscono in ospedalizzazione e soprattutto in terapia intensiva» ribadiva in televisione anche con un certo pathos. «Il merito è del vaccino, non è delle cure, non è della Provvidenza, non è delle tante sciocchezze che si sentono, in difesa, di che cosa, del nulla!»
A Paolo Brosio che, bonario e medjugoriano, gli ricordava che questo vaccino non è come quello che «abbiamo fatto da piccoli» diceva infervorato «non mi devi interrompere», ricordando che la Gran Bretagna aveva imposto clausura e mascherine anche perché «avendo fatto la Brexit, aveva problemi sociali enormi».
Nessuna delle trame di cui abbiamo parlato in questo sito negli ultimi terribili anni pareva essere mai entrata nel radar del giornalista. Il laboratorio cinese finanziato dagli americani, Bill Gates, il Congresso americano che vota sull’mRNA poche settimane prima del COVID, le armi biologiche, i vaccini DARPA, le Olimpiadi militari di Wuhan, la geopolitica del siero, Anthony Fauci e il Gain of Function, Christian Drosten e i test PCR, le simulazioni Lockstep, Dark Winter, Clade X, il green pass come viatico alla piattaforma del danaro programmabile che sta per sottometterci.
Niente, quelle rimangono solo a noi, perché, a differenza dello IOR e del Mostro di Firenze, sono cospirazioni non socialmente accettabili.
Mettiamola così: le cospirazioni socialmente accettabili ti aiutano a passare il tempo, sono intrattenimento, sono armi di distrazione di massa. Sono, di fatto, vero gatekeeping. Sono mantenute, e forse pure create, dall’establishment, dal sistema che vuole narcotizzarvi, piegarvi, disintegrarvi.
Le cospirazioni socialmente inaccettabili, invece, possono colpirti fisicamente, farti ammalare, ucciderti.
Sarà che di cose da fare ne abbiamo, e per il tempo libero c’è tanta scelta, ma noi staremo sempre sulle seconde: stiamo sulle storie che riguardano da vicino le nostre esistenze biologiche e spirituali, e quindi il destino della vita e della civiltà terrestri.
Roberto Dal Bosco
Pensiero
Sacerdote tradizionalista «interdetto» dalla diocesi di Reggio: dove sta la Fede cattolica?
Ci risiamo.
A Reggio Emilia, ancora una volta, la Diocesi torna ad esprimersi su due sacerdoti che da qualche anno hanno preso residenza sulle colline di Casalgrande Alto, in un’altura che sormonta e si affaccia su tutto il panorama padano della provincia.
Il settimanale cattolico reggiano La Libertà, nella sua versione online, vero e proprio megafono della Diocesi, rende nota la vicenda riuscendo a sbagliare subito il bersaglio, ovvero pubblicando la foto di un castello presente a Casalgrande Alto e identificandolo, nella didascalia, come «sede della Città della divina misericordia». Peccato che quel castello non sia affatto la sede dei due sacerdoti.
Ma tornando ai due preti, trattasi di don Claudio Crescimanno e don Andrea Maccabiani, già da tempo saliti agli onori della cronaca locale e nazionale a motivo di quella che la stessa Curia ritiene essere una presenza, ma soprattutto un ministero, illecito e non autorizzato dalle gerarchie.
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Cosa fanno di così strano questi due sacerdoti? In sintesi: si limitano a fare i preti, celebrano la Santa Messa, amministrano i sacramenti e assicurano una buona formazione cattolica a ragazzi ed adulti. Insieme a loro, in quella che potremmo tranquillamente definire un’umile dimora, ci sono alcuni animali facenti parte di quella che è un’azienda agricola gestita dagli stessi sacerdoti con l’aiuto di qualche laico.
Nessun clamore. Nessun profilo appariscente o volutamente polemico, sulle colline di Casalgrande si respira piuttosto un certo silenzio e uno stile di vita molto tranquillo, sia per i sacerdoti che per i laici che frequentano la piccola comunità sorta per un semplice e quanto mai pratico motivo – cercare ciò che nelle istituzioni ordinarie ecclesiali ora sembra mancare: la Fede cattolica.
Ebbene si sa che oggi, la categoria più detestata dalla gerarchia ecclesiastica, è proprio quella che nella semplicità della tradizione bimillenaria della Chiesa Cattolica, ricerca la Fede così come sempre è stata insegnata, attraverso il catechismo e la liturgia, quest’ultima vera e propria teologia pregata.
Non potevano, a motivo di quanto appena accennato, passare inosservati due sacerdoti stanchi delle istituzioni ordinarie, stanchi di strutture senza Fede e liturgie protestantizzate («Signore io non sono degno di partecipare alla Tua mensa», recitano in coro tutti coloro i quali continuano a celebrare e a frequentare il Nuovo Rito, ignari, oppure no, di aderire ipso facto ad un protestantesimo velato sotto le mentite spoglie del cattolicesimo), giunti dunque davanti al bivio più importante della loro vita: stare con Dio e con la Chiesa, o prestare obbedienza a chi Dio lo mette sempre al secondo posto, o, addirittura, lo rende «il dio» di tutte le religioni.
Già, perché mentre la Diocesi di Reggio Emilia nei giorni scorsi stilava, per poi renderla pubblica magari anche con la lettura nelle chiese della provincia durante la Messa domenicale, la lettera che vede infliggere la pena dell’interdetto per don Claudio Crescimanno (per «interdetto» s’intende la pena che impedisce non solo di amministrare tutti i sacramenti, i sacramentali, di partecipare a qualsiasi forma di culto liturgico, ma anche l’impossibilità di ricevere ciascune delle cose elencate), papa Francesco a Giacarta, recando grande scandalo per la partecipazione ad un incontro interreligioso e la visita alla moschea di Istiqlal, non contendo, incontrando i giovani di Schola Occurrentes appartenenti alle più svariate «fedi» impartiva loro una «benedizione» interreligiosa, dove è mancato programmaticamente il segno della croce.
«Vorrei impartire una benedizione (…) Qui voi appartenete a religioni diverse, ma noi abbiamo un solo Dio, è uno solo. E in unione, in silenzio, pregheremo il Signore e io darò una benedizione per tutti, una benedizione valida per tutte le religioni». Forse per la prima volta, un papa ha benedetto qualcosa senza fare il segno della croce.
Nihil sub sole novum, è tutto già visto e rivisto in seno ai predecessori di Bergoglio, che in particolare da Assisi ‘86 in poi hanno consolidato la pratica — poiché la teoria fonda le sue radici nel Concilio Vaticano II e nei suoi stessi documenti — di un sincretismo da coltivare e, appunto, «benedire».
Nessun commento tuttavia su questa ennesima riprova di quanto la Fede cattolica da oltre cinquant’anni sia messa a forte rischio e abbia smarrito la retta via e la retta ragione, ma si trova piuttosto il tempo e la volontà di prendere seri provvedimenti verso due sacerdoti che sul cocuzzolo della montagna rispondono semplicemente alla richiesta dei fedeli che chiedono aiuto.
Suppliscono, cioè, alle mancanze dei tanti confratelli e degli stessi vescovi impegnati a riempirsi la bocca di parole come «unità», «comunione ecclesiale» e tanto altro ancora salvo poi minarla continuamente con il pieno appoggio o ancora peggio con il silenzio rispetto ad una chiesa ormai fondata su valori — o sarebbe meglio dire disvalori — che nulla hanno a che vedere con Cristo.
Sarebbe interessante, e pure molto avvincente, evidenziare tutte le possibili lacune e le imprecisioni presenti nel comunicato che vede infliggere la pena a don Crescimanno, ma non è questo l’intento. Vorrei qui invece sottolineare quella che io ritengo personalmente essere la totale impossibilità, secondo ragione e secondo logica, di ricevere, accogliere e ritenere queste pene valide.
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Se è vero che riconoscendo l’autorità gli si dovrebbe riconoscere anche il comando e, quindi, l’eventuale divieto e pena, la situazione di grave crisi nella Chiesa obbliga vescovi, sacerdoti e fedeli ancora cattolici a scegliere sé obbedire ciecamente a guide che, seppur con il carattere di guide, sono guide cieche, oppure sé ricorrere ai mezzi opportuni per salvare l’anima e salvare anime.
Dio o gli uomini. La propria anima, le anime dei fedeli, o l’obbedienza sproporzionata e non ancorata alla Verità a chi non propone più i veri mezzi della Salvezza, non proponendo più, in sintesi, Gesù Cristo ed il Suo estremo Sacrificio sulla Croce, che si ripete in modo incruento sull’Altare.
La questione, aldilà di ogni discussione di diritto canonico, è più semplice che mai, e ci obbliga, non tanto per superficialità quanto piuttosto per capacità di cogliere le priorità, ad una scelta immediata per conservare la Fede, visto la grave crisi in cui da oltre mezzo secolo versa la Santa Chiesa, costringendoci ad invocare un altrettanto e quanto mai reale stato di necessità per tante anime in pericolo poiché senza veri pastori.
Davanti a questi reali fatti, davanti allo scempio che, nei contenuti identici a chi ha preceduto ma in una forma ancor più evidente e rapida, non c’è più spazio per mezze misure, non c’è più tempo per cantilene conservatrici, oramai sepolte come polvere sotto al tappeto, spazzate via seguendo la sorte di chi, stando sempre in mezzo, viene o ingoiato da una parte o sputato via dall’altra, seguendo le coordinate di Bussole rotte, Gruppi (in)Stabili e Timoni senza più un timoniere.
Oltre a quelle già presenti e strutturate, forse è tempo di piccole minoranze pronte a sorgere ed insorgere, per combattere la propria piccola battaglia al servizio di Dio.
Forse è il tempo di ricreare quel rapporto interrotto da quella diabolica rivoluzione francese, che come insegnava il compianto Agostino Sanfratello, aveva interrotto, per sempre, quel rapporto più semplice e più genuino fra clero e popolo, nelle campagne, nelle parrocchie vere.
Casomai il vescovo di Reggio Emilia, monsignor Giacomo Morandi, dovesse perdersi su un sentiero di montagna durante una camminata od un’escursione, troverà forse la consapevolezza che, cercando nuove vie potrebbe smarrirsi; tornando indietro, invece, sulla strada principale già percorsa, potrebbe ritrovare la giusta via.
Chi ha orecchie, intenda.
Cristiano Lugli
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Geopolitica
Zakharova e le sanzioni ai media russi: gli USA stanno diventando una «dittatura neoliberista»
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Pensiero
JFK: perché le vere repubbliche odiano la censura e necessitano una stampa libera
Renovatio 21 pubblica il discorso tenuto dal presidente John Fitzgeraldo Kennedy il 27 aprile 1961 davanti all’American Newspaper Publishers Association. Il significato di queste parole pronunziate oramai 63 anni fa è, con ogni evidenza, ancora piuttosto valido per l’ora presente.
La stessa parola «segretezza» è ripugnante in una società libera e aperta; e noi siamo un popolo intrinsecamente e storicamente contrario alle società segrete, ai giuramenti segreti e ai procedimenti segreti.
Abbiamo deciso molto tempo fa che i pericoli di un occultamento eccessivo e ingiustificato di fatti pertinenti superavano di gran lunga i pericoli citati per giustificarlo.
Anche oggi è poco utile opporsi alla minaccia di una società chiusa imitandone le restrizioni arbitrarie. Anche oggi, ha poco valore nel garantire la sopravvivenza della nostra nazione se le nostre tradizioni non sopravvivono insieme ad essa. E c’è il grave pericolo che l’annunciata necessità di maggiore sicurezza venga colta da coloro che sono ansiosi di espanderne il significato fino ai limiti della censura e dell’occultamento ufficiali.
Ciò non intendo permetterlo nella misura in cui è sotto il mio controllo. E nessun funzionario della mia amministrazione, di alto o basso rango, civile o militare, dovrebbe interpretare le mie parole qui stasera come una scusa per censurare le notizie, soffocare il dissenso, coprire i nostri errori o nasconderci alla stampa e ai media rendere pubblici i fatti che meritano di conoscere. (…)
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Perché in tutto il mondo ci si oppone una cospirazione monolitica e spietata che si basa principalmente su mezzi segreti per espandere la propria sfera di influenza: sull’infiltrazione invece che sull’invasione, sulla sovversione invece che sulle elezioni, sull’intimidazione invece che sulla libera scelta, sulla guerriglia notturna invece degli eserciti di giorno.
È un sistema che ha reclutato vaste risorse umane e materiali nella costruzione di una macchina compatta e altamente efficiente che combina operazioni militari, diplomatiche, di intelligence, economiche, scientifiche e politiche. (…)
I suoi preparativi sono nascosti, non pubblicati. I suoi errori sono sepolti, non messi in evidenza. I suoi dissidenti vengono messi a tacere, non elogiati. Nessuna spesa viene messa in discussione, nessuna voce viene stampata, nessun segreto viene rivelato. Conduce la Guerra Fredda, in breve, con una disciplina di guerra che nessuna democrazia spererebbe o desidererebbe mai eguagliare. (…)
Non solo non ho potuto soffocare le polemiche tra i vostri lettori, ma le accolgo con favore. Questa Amministrazione intende essere sincera riguardo ai propri errori; poiché, come disse una volta un uomo saggio: «un errore non diventa un errore finché non rifiuti di correggerlo». Intendiamo accettare la piena responsabilità dei nostri errori; e ci aspettiamo che tu li indichi quando ci mancano. (…)
Senza dibattito, senza critiche, nessuna amministrazione e nessun Paese può avere successo e nessuna repubblica può sopravvivere. Ecco perché il legislatore ateniese Solone decretò che fosse un crimine per qualsiasi cittadino sottrarsi alle controversie. Ed è per questo che la nostra stampa è stata protetta dal Primo Emendamento – l’unica attività in America specificamente protetta dalla Costituzione – non principalmente per divertire e intrattenere, non per enfatizzare il banale e il sentimentale, non semplicemente per «dare al pubblico ciò che vuole» – ma per informare, suscitare, riflettere, dichiarare i nostri pericoli e le nostre opportunità, indicare le nostre crisi e le nostre scelte, guidare, plasmare, educare e talvolta anche far arrabbiare l’opinione pubblica.
«Ciò significa una maggiore copertura e analisi delle notizie internazionali, perché non sono più lontane e straniere ma vicine e locali. Vuol dire maggiore attenzione ad una migliore comprensione delle notizie così come ad una migliore trasmissione. E significa, infine, che il governo, a tutti i livelli, deve adempiere al proprio obbligo di fornirvi la massima informazione possibile al di fuori dei limiti più ristretti della sicurezza nazionale (…)
E così è alla macchina da stampa – a colui che registra le azioni dell’uomo, custode della sua coscienza, corriere delle sue notizie – che cerchiamo forza e assistenza, fiduciosi che con il tuo aiuto l’uomo sarà ciò per cui è nato: essere libero e indipendente.
John F. Kennedy
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