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Pensiero

Le idee di Luc Montagnier vivranno per tutto il XXI secolo

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Luc Montagnier è morto, ma le sue idee vivranno per tutto il XXI secolo, e anche oltre.

 

C’è stata esitazione nell’avere conferma della morte. Alla fine la notizia l’ha data France Soir, il quotidiano che ospita spesso pensieri disallineati rispetto alla narrazione COVID, forse per questo degradato dal Corriere in questi giorni a semplice «sito», quando invece si tratta di un quotidiano di grande rilevanza nato nel 1944.

 

Quindi, non fidandosi di France Soir perché troppo di parte, i giornalisti del mondo intero hanno aspettato che la notizia la scavasse il giornale goscista Libération, che si è fatta dare dal comune di Neully notizie sul certificato di morte.

 

Il silenzio, che ha generato la ridda di notizie che si rincorrevano, è probabilmente dovuto al fatto che Montagnier e famigliari con i giornalisti non volevano avere più niente a che fare. Le diffamazioni, gli insulti, le calunnie di questi anni – a partire da decenni prima della pandemia – hanno lasciato il segno anche in una persona di calma olimpica come pareva essere il Nobel francese.

Da un lato abbiamo avuto Montagnier che per due anni ha frantumato la narrazione mainstream (dicendo che il virus era artificiale, parlando di effetti avversi dei vaccini, etc.). dall’altro lato, a tessere le fila di tutta l’architettura pandemica c’è una sua vecchia conoscenza, con il cui socio aveva duellato per anni: Anthony Fauci

 

Perché non dimentichiamo che, se da un lato abbiamo avuto Montagnier che per due anni ha frantumato la narrazione mainstream (dicendo che il virus era artificiale, parlando di effetti avversi dei vaccini, etc.) dobbiamo ricordare che dall’altro lato dello scacchiere, a tessere le fila di tutta l’architettura pandemica c’è una sua vecchia conoscenza, con il cui socio aveva duellato per anni: Anthony Fauci.

 

Fauci, che è come lo definisce Robert Kennedy jr. il tessitore della narrazione pandemica era anche il socio di Robert Gallo, l’altro virologo connesso alla scoperta dell’AIDS. Montagnier e Gallo si disputarono la scoperta e la scienza dell’AIDS per anni. Anche in un ambiente non prono alle scenate, come quello dell’alta medicina, fu uno spettacolo poco edificante, tenuto in piedi anche da Fauci, che secondo alcuni ha favorito come ha potuto – con il potere sanitario che già accumulava – il socio Gallo. Alla fine, a risolvere furono, addirittura, i presidenti di USA e Francia, che siglarono una pace per le pretese scientifiche e soprattutto le questioni di brevetti e proprietà intellettuale.

 

Su Fauci, e il suo ruolo nefasto riguardo l’AIDS (che fino al COVID era il suo lavoro principale, la grande vacca cui mungere miliardi del contribuente USA) Renovatio 21 ha pubblicato vari articoli, ricordando le fake news che diffondeva come il disprezzo che di lui aveva parte della comunità gay colpita dall’HIV, così come gli esperimenti mortali condotti su orfani ridotti a cavie.

 

Il destino ha voluto che, ancora una volta, abbiamo avuto ai due estremi del discorso, Montagnier e Fauci. La ricerca scientifica contro l’opportunismo politico. Lo scienziato contro il trafficone. Il coraggio contro la menzogna.

 

Non è quindi un enigma il modo in cui è stato trattato Montagnier nel biennio pandemico. A prepararne la maledizione sono stati anni e anni di battaglie.

Montagnier lo avevamo incontrato ben prima del COVID. Se ad un certo punto ti veniva un dubbio sull’efficacia dei vaccini, e sulla natura della loro politica sanitaria, in qualche modo finivi dalle parti di Montagnier. Imparavi a conoscerne l’espressione buona, il tono sensato, la capacità di spiazzare, di comunicare quello che si pensa in linea retta

 

Noi lo avevamo già visto. Perché Montagnier lo avevamo incontrato ben prima del COVID. Se ad un certo punto ti veniva un dubbio sull’efficacia dei vaccini, e sulla natura della loro politica sanitaria, in qualche modo finivi dalle parti di Montagnier. Imparavi a conoscerne l’espressione buona, il tono sensato, la capacità di spiazzare, di comunicare quello che si pensa in linea retta. Qualcosa di impossibile nel mondo della medicina, dove interessi plurimiliardari e consorterie di ogni tipo tengono in piedi farse infinite.

 

Per questo, era divenuto un obbiettivo dell’establishment del sistema medico, e dei tanti suoi volonterosi carnefici. Perché ad attaccarlo non erano solo colleghi con grandi curriculum, che tuttavia il Nobel non lo avevano.

 

Lo avevamo visto quando ancora esisteva la pagina Facebook di Renovatio 21: a tentare di buttare fango su Montagnier erano dottorini della mutua, con i soliti due o tre argomenti ebetissimi (forse c’era un bigliettino che facevano passare gli informatori farmaceutici), e con un livore senza fine. I peggiori, come sempre, erano gli studentelli di medicina: non ricordiamo più quanti risolini, quanti sfottò da parte degli sbarbati in attesa di divenire burocrati sanitari dello Stato, pronti ad incassare per sempre un lauto stipendio (che gli passiamo noi) e l’automatico rispetto che si deve al camice.  Forse per questo, l’idea di un ricercatore medico che pensa da solo, per i feti medici universitari è intollerabile.

 

Ricordiamo volentieri anche un altro episodio, e cioè quando un  virologo TV (ma le ossa se le era fatte sui social, insultando chi non voleva vaccinare la prole come da legge Lorenzin) ci commentò in pagina, dimostrando così di essere lettore di Renovatio 21. Gli chiedemmo allora se avrebbe accettato un incontro organizzato da noi in cui lo avremmo posto a confronto con un medico o un ricercatore di tesi opposta riguardo i vaccini. Renovatio 21 ne ha organizzati diversi, tutti svoltisi con estrema cortesia e civiltà verso tutte le parti (vabbè, era prima del green pass, dell’apartheid biotica, del mondo incattivito all’inverosimile…).

 

Il famoso virologo web-catodico ci pensò, poi diede delle condizioni: lo avrebbe fatto solo se 1) il suo contendente, disse, doveva essere del suo «livello» (usò, ci pare di ricordare, proprio un’espressione del genere) e 2) avrebbe dovuto essere… italiano.

 

Ci facemmo una risata: quest’ultima, inaspettata richiesta non poteva che tradire la paura che forse avremmo potuto fargli trovare davanti Montagnier, o almeno, questa è la nostra ipotesi per l’inspiegabile pretesa xenofoba. La cosa, fosse come da ipotesi, ci fornirebbe un pensiero non banale sui comportamenti di chi detiene la narrazione sanitaria. Invece che dire sai che bello se mi capitata di parlare sul palco con un Nobel? Solo io e lui? Comunque vada, sai che avventura? Che colpaccio per la mia reputazione? E che divertimento, poi! Magari poi si va a cena fuori insieme… E poi, cosa ho da temere, se credo in quello che dico? Ecco, probabilmente costoro non ragionano così. Così ragionate voi. Non loro.

 

Poi è venuta l’era del fact checking. E fu bellissimo vedere che non si capisce bene così – ragazzini in una cameretta, pagati da Facebook – davano del falso ad un premio Nobel.  Tra i primi contenuti che cominciarono a censurarci furono le interviste di Montagnier in cui parlava dell’origina laboratoriale del COVID – l’idea che, abbiamo appreso, Fauci ha complottato (sì, complottato) per sabotare da subito, anche perché danaro del contribuente americano, che passava dal suo impero di sanità pubblica, aveva finanziato quegli esperimenti di bioingegneria sui virus dei chirotteri che hanno sconvolto il mondo.

 

Montagnier rivelò qualcosa di ancora più indicibile: disse che alla base del coronavirus poteva esserci la bioingegneria di un vaccino anti-AIDS.

 

I fact checker si scatenarono. A quel tempo, i social non buttavano fuori la gente, non ancora, ma praticavano censure visive sui contenuti postati giudicati inaffidabili – anche quando a parlare era un premio Nobel.

 

Di queste prime censure abbiamo conservato qualche screenshot. Guardate che bella, la scritta «Informazioni parzialmente false» piazzata sulla bocca di Montagnier. Dovete ammetterlo. Sono semplicemente eccezionali, sono opere d’arte, dovremmo venderle all’asta come NFT.

 

 

Ma torniamo a prima della pandemia. A quando Montagnier scandalizzava semplicemente per ciò che diceva sui vaccini comuni, soprattutto i vaccini pediatrici.

Montagnier aveva osato l’inosabile. Era perfino apparso nel film scandalo del decennio, Vaxxed

 

Montagnier aveva osato l’inosabile. Era perfino apparso nel film scandalo del decennio, quello che neppure Robert De Niro, padrone del Festival di Tribeca, riuscì a far proiettare in casa sua: Vaxxed, il documentario del 2016 del dottor Andrew Wakefield, il gastroenterologo divenuto vittima sacrificale del vaccinismo perché ebbe il coraggio di scrivere, nel lontano 1998, dire che la correlazione tra autismo e vaccino MPR forse meritava di essere indagata (tutto qua: il famoso studio ritirato diceva in pratica solo questo).

 

In Vaxxed Montagnier parla per qualche minuto appena, ma già la sua presenza, e la messa in dubbio dei programmi di vaccinazione mondiali, bastava a rendere il film ancora più pericoloso.

 

Il defunto senatore Bartolomeo Pepe organizzò una proiezione in Senato, ma venne annullata, tra le proteste di ministri e di associazioni mediche. Ci fu quindi la gara a noleggiare le sale in tutta Italia per proiettarlo, pagando direttamente il gestore del cinema. In molti rifiutarono. Alcuni accettarono. Alcuni rifiutarono dopo aver accettato. La pressione attorno a questo film, che aveva Montagnier dentro, era pazzesca.

 

Visto che ci siamo, tanto per capire che la storia antivaccinismo lo abbiamo vissuta nel decennio precedente ai lockdown,  e tanto per restare nella scia dello spirito di elezione presidenziale appena passata, ricorderemo anche che negli stessi giorni dell’autunno 2016 in cui la faccenda delle proiezioni italiani di Vaxxed tenevano banco, il presidente Mattarella, pur senza fare nomi, tuonò che «occorre contrastare con decisione gravi involuzioni, come accade, ad esempio, quando vengono messe in discussione, sulla base di sconsiderate affermazioni, prive di fondamento, vaccinazioni essenziali per estirpare malattie pericolose e per evitare il ritorno di altre, debellate negli anni passati». Insomma avete capito.

 

Montagnier nel 2012 aprì il convegno di AutismOne, un gruppo antivaccinista. Nel necrologio del Washington Post, che è anche più tenero del previsto, è segnalato come il Nobel fosse finito fotografato in cattedra di conferenze con Jenny McCarthy, un’ex modella di Playboy, attrice e presentatrice di discreto successo, divenuta attivista antivaccinista dopo aver visto gli effetti dei sieri su suo figlio. Nel nuovo mondo del puritanesimo vaccinale, essere fotografati con l’indomita bionda curvacea McCarthy, insomma, è un marchio di infamia, dal quale i Nobel dovrebbero guardarsi.

Lo vogliamo ricordare per tutte quelle ricerche per cui lo hanno deriso e ostacolato. Quelle ricerche al limite dell’incredibile, ma che erano basate sulla scienza, e avevano come fine sempre il benessere umano

 

Il risultato degli sforzi di Montagnier fu che 106 accademici scrissero una lettera aperta per castigarlo, magari suggerendo in maniera sottile di togliergli il Nobel: «Noi, accademici di medicina, non possiamo accettare che uno dei nostri colleghi stia usando il suo premio Nobel per diffondere messaggi pericolosi sulla salute al di fuori del suo campo di conoscenza». Se vi suona famigliare, è perché quello che stiamo vivendo ora è partito molto prima del pipistrello OGM di Wuhano.

 

Tuttavia, per quanto possa sembrarvi strano, non è per la storia dei vaccini che vogliamo ricordare Montagnier.

 

Lo vogliamo ricordare per tutte quelle ricerche per cui lo hanno deriso e ostacolato. Quelle ricerche al limite dell’incredibile, ma che erano basate sulla scienza, e avevano come fine sempre il benessere umano.

 

Per esempio, l’idea che il DNA abbia caratteristiche elettromagnetiche. Secondo il paper pubblicato da Montagnier in maniera indipendente,  il DNA diluito da specie batteriche e virali patogene è in grado di emettere onde radio specifiche che sarebbero «associate a “nanostrutture” nella soluzione acquosa che potrebbero essere in grado di ricreare il patogeno».  Jeff Reimers dell’Università di Sydney ha affermato che, se le sue conclusioni sono vere, «questi sarebbero gli esperimenti più significativi eseguiti negli ultimi 90 anni, che richiedono una rivalutazione dell’intero quadro concettuale della chimica moderna».

Si tratta del famoso studio sulla «memoria dell’acqua» che è usato da chi voleva zittirlo o prenderlo in giro. Per studiare questo tema, arrivò a lavorare con l’università di Shanghai Jiao Tong, che considerava più «aperta di mente».

In pratica, Montagnier stava cercando di rivoluzionare la virologia, la microbiologia, la medicina tutta: non più agendo a livello biochimico o biomolecolare, ma biofisico.  Un cambio di paradigma. La mutazione futura di tutte le cure della materia vivente.

 

Lo vogliamo ricordare quando, ad un incontro del 2010 in Germania con 60 premi Nobel e 700 scienziati per discutere le innovazioni in medicina, chimica e fisica, sconvolse tutti presentando metodi di rilevamento di infezioni virali che sembravano essere paralleli a quelli dell’omeopatia. Molti dei colleghi Nobel lasciarono la sala scuotendo la testa, ma lui andò avanti, con un coraggio che pochi hanno: quello di andare contro la massa e le sue opinioni precostituite.

 

Era difficile per il mondo capire dove stava andando a parare avvicinando il suo pensiero all’omeopatia. «Non posso dire che l’omeopatia sia giusta in tutto» aveva dichiarato in u n’intervista. «Quello che posso dire ora è che le diluizioni elevate sono giuste. Le diluizioni elevate di qualcosa non sono niente. Loro sono strutture dell’acqua che imitano le molecole originali. Scopriamo che con il DNA non possiamo lavorare alle diluizioni estremamente elevate utilizzate in omeopatia; non possiamo andare oltre una diluizione 10-18, o perdiamo il segnale. Ma anche a 10-18 , puoi calcolare che non è rimasta una sola molecola di DNA, eppure rileviamo un segno».

 

In pratica, Montagnier stava cercando di rivoluzionare la virologia, la microbiologia, la medicina tutta: non più agendo a livello biochimico o biomolecolare, ma biofisico.  Un cambio di paradigma. La mutazione futura di tutte le cure della materia vivente.

 

Nel suo studio contestato, Montagnier aveva dimostrato come la radiazione elettromagnetica a bassa frequenza all’interno della parte di onde radio dello spettro fosse emessa dal DNA batterico e virale e come tale luce fosse in grado sia di modificare la forma dell’acqua sia di trasmettere informazioni.

 

Montagnier aveva quindi ipotizzato che l’impronta del DNA fosse in qualche modo impressa nella struttura stessa dell’acqua stessa, risultando in una forma di «memoria dell’acqua».

 

Vi sarebbe quindi, attorno alla materia vivente, come un campo biofisico intelligente.

«Il giorno in cui ammetteremo che i segnali possono avere effetti tangibili, li useremo. Da quel momento in poi saremo in grado di curare i pazienti con le onde. Si tratta di un nuovo campo della medicina che le persone temono, ovviamente. Soprattutto l’industria farmaceutica… un giorno saremo in grado di curare i tumori utilizzando le onde di frequenza»

 

«L’esistenza di un segnale armonico proveniente dal DNA può aiutare a risolvere interrogativi di vecchia data sullo sviluppo cellulare, ad esempio come l’embrione è in grado di compiere le sue molteplici trasformazioni, come se fosse guidato da un campo esterno. Se il DNA può comunicare le sue informazioni essenziali all’acqua tramite radiofrequenza, allora le strutture non materiali esisteranno nell’ambiente acquoso dell’organismo vivente, alcune delle quali nascondono i segnali della malattia e altre coinvolte nel sano sviluppo dell’organismo».

 

Montagnier aveva scoperto che molte delle frequenze delle emissioni elettromagnetiche da un’ampia varietà di DNA microbico si trovano anche nel plasma sanguigni di pazienti affetti da influenza A, epatite C e anche molte malattie neurologiche non comunemente considerate come influenzate da batteri come Parkinson, sclerosi multipla, artrite reumatoide e Alzheimer.

 

Quindi, se il problema erano le onde magnetiche generate dal DNA di germi, e rimaste nel corpo anche dopo la loro sparizione, quale cura sarebbe possibile?

 

«Il giorno in cui ammetteremo che i segnali possono avere effetti tangibili, li useremo. Da quel momento in poi saremo in grado di curare i pazienti con le onde. Si tratta di un nuovo campo della medicina che le persone temono, ovviamente. Soprattutto l’industria farmaceutica… un giorno saremo in grado di curare i tumori utilizzando le onde di frequenza».

 

Qui i lettore capisce perché tanto odio contro Luc. Perché stava andando verso una medicina senza farmaci, quindi senza Big Pharma. Una medicina che cura davvero. Un’intera industria miliardaria completamente resa obsoleta, disrupted.

«Se curiamo con frequenze e non con farmaci diventa estremamente conveniente per quanto riguarda la quantità di denaro speso. Spendiamo un sacco di soldi per trovare le frequenze ma, una volta trovate, trattarle non costa nulla»

 

Un mutamento che ha implicazioni immani, anche per gli Stati stessi, per i cittadini e le loro tasse.

 

«Se curiamo con frequenze e non con farmaci diventa estremamente conveniente per quanto riguarda la quantità di denaro speso. Spendiamo un sacco di soldi per trovare le frequenze ma, una volta trovate, trattarle non costa nulla».

 

Ora capite meglio anche il perché dell’opposizione frontale di Montagnier alla vaccinazione mRNA.

 

Per il COVID, di fatto, Montagnier aveva un’altra idea.

 

«Penso che possiamo creare onde di interferenza che sono dietro le sequenze di RNA in grado di eliminare quelle sequenze con le onde e, di conseguenza, fermare la pandemia».

Curare il mondo, senza più farmaci, senza più chimica. Curare il mondo con le onde magnetiche, che sono il linguaggio, per noi ancora segreto, della materia vivente

 

Curare il mondo, senza più farmaci, senza più chimica. Curare il mondo con le onde magnetiche, che sono il linguaggio, per noi ancora segreto, della materia vivente.

 

La ricerca non può che andare in questa direzione, tuttavia sappiamo che faranno qualsiasi cosa per impedirlo.

 

Pazienza, se si desidera il Bene dell’uomo, alla lotta bisogna abituarsi. Andare avanti a testa bassa e lavorare, sapendo che la verità e la vita sono dalla tua parte. L’esistenza terrena di Luc Montagnier ci ha parlato proprio di questo.

 

Luc Montagnier è morto, ma le sue idee vivranno per tutto il XXI secolo, e oltre. I loro frutti guariranno l’umanità, l’aiuteranno a sopravvivere a quelle forze che ora la vogliono intossicare e distruggere.

 

Requiescat in Pace.

 

Professore, l’umanità ti è già tanto grata.

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

 

 

Immagine di Prolineserver via Wikimedia pubblicata su licenza e GNU Free Documentation License, Version 1.2; immagine tagliata

 

 

 

Pensiero

Renovatio 21 saluta Giorgio Armani. Dopo di lui, il vuoto che inghiottirà Milano e l’Italia

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È morto quello che si può definire il più grande stilista vivente, e al contempo un gigante, imprenditoriale e finanche morale, dell’Italia moderna e della sua immagine. È il caso di dire pure, cercando di dimostrarlo nelle prossime righe, che la sua morte apre gli occhi su un vuoto pericoloso che potrà inghiottirsi la moda, Milano, l’Italia.

 

Quindi non scriviamo il solito coccodrillo, per quello ci sono gli altri giornali, anche internazionali. Vogliamo salutare Giorgio Armani con alcuni flash personali che testimoniano come la sua semplice grandezza era tale che, anche senza conoscerlo di persona, ha attraversato giocoforza le nostre vite.

 

Le testimonianze che posso raccogliere sono tante: ho un amico di ottant’anni, praticamente spesi tutti nella moda, che mi racconta che sì, vero, faceva il vetrinista alla Rinascente, lo aveva conosciuto così, fino a che non era arrivato a scoprirlo il biellese Nino Cerruti (1930-2022). Ho in testa altre storie che mi arrivavano da amici di famiglia che lo avevano conosciuto, sempre lavorando nel tessile, agli albori, quando passava per Valdagno. Impossibile verificare: sono tutti morti, e quelle storie sono andate via con loro…

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Un primo flash: ho diciannove anni, e ho messo via i soldi per comprare un completo Armani (di brand minore dell’impero, certo, non «Le Collezioni»), con il quale, non solo nelle occasioni importanti, rifiutare il conformismo coetaneo di t-shirt e scarpe da ginnastica. Ricordo la sensazione di appagamento che dava quel vestito, come cascava bene sulle spalle, sui fianchi, ricordo come mi piaceva indossarlo anche con una maglia a maniche corte sotto, con le braccia accarezzate dal fodero in seta.

 

L’eleganza era possibile. Era diffusa, distribuita. Un’eleganza che non era ostentosa. Era decisa, precisa. Era reale.

 

Un secondo flash: decido di prendere un altro vestito Armani per appagare il mio desiderio di arrivare al matrimonio di mia sorella, in centro all’Africa, con un completo bianco, come Klaus Kinski nella giungla amazzonica di Fitzcarraldo. Il piano ebbe un effetto collaterale: l’aereo da Londra tardò enormemente su Johanessburg, facendomi perdere la coincidenza per Livingstone, e inserendo uno stop imprevisto in un hotel della città più violenta del mondo. Quando uscii dalla porta del ritiro bagagli dell’aeroporto sudafricano mi ritrovai di fronte ad una muraglia umana di autoctoni nerissimi (più un albino, epperò geneticamente nero anche lui) che aspettano un turista straniero a caso per spennarlo portandogli la valigia: si videro innanzi l’icona di un colonizzatore in abiti firmati, non ci credettero, e mi inseguirono per tutta l’aviosuperficie per un’oretta buona. (Storia da raccontare un’altra volta)

 

Vi fu poi la festa notturna delle nozze di mia sorella, dove partecipava una varietà impressionante di personaggi, tra cui uno zoccolo durissimo di allevatori di crocodilus niloticus, una delle attività della zona. Uno in particolare, che si era presentato non esattamente elegantissimo e a cui certo inizialmente non stavo simpatico, cominciò a chiamarmi «Armani», come fosse un insulto. Bizzarro: avevo, sì, un ulteriore abito armaniano, quindi aveva indovinato, al contempo nella sua zoticheria esibita stava di fatto ammettendo che il vertice della monda mondiale era anche per lui, farmer di coccodrilli dello Zambia, Giorgio Armani. (Se non credete che esista, ho una foto di quest’uomo paonazzo a tavola con quella che sarebbe divenuta la moglie di un sindaco di una grande città del Nord Italia, purtroppo mancata mesi fa. Ciao, A.)

 

Ricordo antico: ho si è no sei anni, i miei genitori mi porta in vacanza a Pantelleria, allora non ancora luogo di jet-set euroamericano ed architetti omosessuali, ma isola selvaggia tra mare blu, segni di attività vulcanica e tombe fenicie che spuntavano in mezzo ai boschi. C’era un posto, chiamato arco dell’elefante, dove una colata lavica copiosa e antichissima si era solidificata gettandosi in mare e creando, appunto, l’immagine di una proboscide. Lì vicino, una nave affondata a pochi metri dalla riva, dalla quale giovani facevano tuffi acrobatici. Per arrivarci si scendeva un pendìo scoseso, tra le terre brulle tipiche dell’isola.

 

È lì che appariva, d’un tratto, una casetta stupenda. Non era enorme, non era una reggia, eppure sprigionava un tale buon gusto – che mai cadeva nello sforzo – che era leggibile persino a me, bambino piccolo: vedevo che aveva il giardino a prato inglese, cioè aveva l’erba verde a differenza del resto del giallo pantesco, in un’isola dove l’acqua, mi raccontavano, arrivava in nave – e non si poteva bere dal rubinetto. Lui probabilmente, mi diceva mio padre, utilizzava quella del mare, fatta risalire sulla scogliera e ripulita con l’osmosi… un esempio, anche qui, più che di lusso, di gusto e ingegnosità, di organizzazione.

 

Anni dopo ricordo un’apparizione dell’uomo a pochi metri da me: oramai due decadi fa, erano gli ultimi anni della fabbrica di famiglia, e amici che erano già fornitori del gruppo ci avevano combinato un breve appuntamento con qualcuno delle vendite… avevamo escogitato dei braccialetti eccezionali oro e schiena di coccodrillo (fornito da mia sorella, che allora viveva presso il più grande allevamento di niloticus al mondo, in Zambia).

 

Dall’incontro con la gentile signora che ci accolse non cavammo nulla, tuttavia ricordo con nitore quando appena fuori dalla sede del gruppo in via Borgonuovo comparve una manipolo di persone (bodyguard? Collaboratori? Troppo veloci per capire) con al centro lui, piccolino, ma con il passo rapidissimo, e questa chioma canuta luminescente da aristocratico ricchissimo… Non trasmetteva, tuttavia, le vibrazioni che davano gli aristocratici e i ricchissimi, anzi: era, in chiarezza, uno che stava facendo delle cose.

 

A dire il vero, Armani di persona lo aveva già veduto: quando ancora esisteva il cinema in centro a Milano, c’era in corso Vittorio Emanuele, nella galleria dove era anche Palazzo Colla, una sala chiamata Pasquirolo. Lì si poteva intravedere in tranquillità Armani il mercoledì, nel giorno del cinema a prezzo scontato. Più avanti, lo avrei rivisto, sempre senza gorilli e bodyguardie varie, in un cinema sopravvissuto all’olocausto delle sale attorno al Duomo, l’Eliseo: si accompagnava con una donna tra i quaranta e i cinquanta chissà da che Paese, bellissima, elegantissima, che sorrideva come lui.

 

Al cinema, alla storia del cinema, lui aveva partecipato attivamente, vestendo i personaggi indimenticabili dei maestri cineasti di Nuova York (American Gigolo di Paul Schrader, poi tanto Scorsese, che gli dedicò un documentario introvabile, Made in Milan), eppure eccotelo lì, che andava ritualmente al cinematografo il mercoledì, come tanti, come tutti.

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Tutto questo per dire: non solo era una persona concreta, umana, ma era un milanese. E qui si innesta un discorso meno personale, e più serio, se non terrificante.

 

Armani, piacentino, era in realtà il milanese quintessenziale, l’uomo che amava Milano, la conosceva, la aiutava, non vi fuggiva, mai.

 

Lo proposero brevemente come sindaco, ma lui – che di fatto andava d’accordo con tutti – non accettò. Il suo senso civico si espresse, se posso dire, con la sponsorizzazione della squadra basket di Milano, dove lo vedevi tifare in prima fila tutte le domeniche di campionato. Capito: non scappava, nel weekend, ma stava con il popolo urlante a tifare per la squadra della città. Facciamo i conti – in diciassette anni come proprietario dell’Olimpia, Armani ha conquistato quindici trofei: sei campionati, quattro Coppe Italia e quattro Supercoppe italiane. Un vincente. Con la città che vince con lui.

 

Mi rammento poi di quando riaprirono, dopo tanti lavori, il Piccolo Teatro di Milano. Il suo dominus, il celebratissimo Giorgio Strehler, era morto da poco, era probabilmente attorno al 1997. Tra i VIP convenuti al vernissage, la TV intervistò Armani, che disse che gli pareva che ci fosse solo una persona che mancava… comprendevo quindi che Armani conosceva, frequentava pure Strehler – elementi della scena milanese che hanno attraversato tante ere, gli anni di piombo, i socialisti craxiani, la «Milano da bere» tangentopoli, lavorando e sopravvivendovi, e prosperandovi.

 

La milanesità vissuta integralmente. La comparazione con il presente è terrificante: qualche tempo fa emerse che, durante un podcast, Fedez – personaggio forse egemone della scena «culturale» milanese attuale – non sapeva chi fosse Strehler, quasi non avesse mai preso la metrò, dove il nome del regista è stampigliato sempre vicino alla fermata Lanza (Piccolo Teatro).

 

Il vuoto per Milano è anche di altro tipo. La moda dopo Armani, cosa sarà? Beh, lo sappiamo. Negli anni, quando la città ha finito per identificarsi sempre più con la fashion week, gli «stilisti» hanno portato, con le loro perversioni di ogni livello, un mondo di degrado e di disperazione – se non di Necrocultura vera e propria – sotto la Madonnina. Si tratta di un argomento su cui ho dovuto ragionare, specie guardando la quantità di amiche che sono state di fatto sterilizzate dal sistema della moda, degenerato in modo invincibile negli ultimi 25 anni. (Ne scriverò più avanti)

 

Armani, al contrario dei «colleghi» che ora calcano le scene, non ha mai imposto le sue inclinazioni agli altri, non ne ha fatto spettacolo, notizia, rivendicazioni estetica o politica. Viveva con l0understatement di chi lavora davvero, e non perde tempo come i traffici.

 

Come quando, sempre negli anni Novanta, le forze dell’ordine di Parigi bloccarono una sua sfilata a Saint-Germanin-des-Pres, cuore della capitale francese che aveva perso concretamente lo scettro di regina del modismo: «Armani go home» gridavano frotte di sciovinisti francesi mentre davanti a loro si consumava lo spettacolo di modelle in ghingheri fermate da gendarmi. Non fece un plissé, si rifiutò di dare la colpa alla polizia, che eseguiva ordini dall’alto della Prefettura di Parigi (dove, immaginiamo, abbia la tessera della massoneria anche quello che pulisce i pavimenti).

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La cifra dell’italianità nell’impresa: ecco, gestire tutto in famiglia, circondato da nipoti, è già un capolavoro, e se aggiungiamo la resistenza alla lusinga dei megagruppi transalpini (Arnault-Pinault) capiamo che siamo oltre, siamo davanti ad un esempio da scolpire nel marmo milanese, quello non occupato dalle bombolette dei graffitari leoncavallari o dalle orine dei maranza, se ne è rimasto.

 

La morte di Giorgio Armani non solo priva il mondo del suo equilibrio, ma va letto come ennesimo episodio dell’imbarbarimento di Milano: che siano ragazzini criminali marocchini o stilisti gay, il vuoto che stiamo vedendo crearsi, in mancanza di esempi e di virtù, minaccia di inghiottirsi tutta la metropoli, e poi, come sempre, il resto d’Italia, ridotta a bolo dell’anarco-tirannia.

 

La soluzione, abbiamo cercato di dirlo tante volte su Renovatio 21, non può essere che il ritorno ad Ambrogio, il santo che scacciò gli eretici e unì la città – il santo che probabilmente ancora oggi la protegge dalla sua distruzione definitiva, mentre anche gli ultimi pezzi della Milano per bene, la Milano bella, elegante, benevola se ne vanno senza poter essere sostituiti.

 

Roberto Dal Bosco

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Immagine di Bruno Cordioli via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic

 

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Bizzarria

Ecco la catena alberghiera dell’ultranazionalismo revisionista giapponese

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Per chi è stato in viaggio in Giappone il nome APA hotels potrebbe risultare familiare. La catena di alberghi dalla caratteristica insegna arancione è onnipresente nel Paese del Sol Levante, possiede circa 900 strutture alberghiere e in alcune zone urbane la loro densità è incredibile: così a memoria direi che ce ne sono almeno 5 nella zona tra Asakusa e Asakusabashi (due fermate di metro o mezz’ora scarsa a piedi).   La catena ha anche già iniziato la sua espansione nell’America settentrionale, con 40 strutture tra Stati Uniti e Canada.   Di recente ho avuto l’occasione di provare per la prima volta un hotel APA a Kanazawa, dove la catena è nata nei primi anni ottanta. Il giudizio complessivo è positivo: pulito, molto pratico da usare, al netto di stanze piuttosto anguste (ma nella norma nipponica) non posso dire che mi sia mancata alcuna comodità.         Anzi, le stanze dispongono del «bottone buonanotte» (oyasumi botan) cioè un pulsante vicino al comodino che spegne tutte le luci in un colpo solo. Di questo sono particolarmente grato perché mi ha risparmiato la classica caccia agli interruttori che contraddistingue le serate passate negli alberghi meno recenti qui in Giappone – in alcuni ryokan ci sono persone che si rassegnano a dormire con le luci accese per la disperazione, spossati dalla caccia all’interruttore nascosto.      

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Un’altra caratteristica degli hotel APA è l’onnipresenza dell’effigie della presidentessa dell’azienda, la buffa Fumiko Motoya, sempre accompagnata da uno dei suoi vistosissimi cappelli (la sua collezione ne conta circa 240).  

Fumiko Motoya, di hirune5656 via Wikimedia CC BY 3.0

  Insegne, pubblicità, bottiglie di acqua minerale, confezioni di curry liofilizzato: non c’è posto da cui non spunti il sorriso della nostra Fumiko, il tutto ha una lieve sfumatura di culto della personalità da regime totalitario.     Ma quello che porta ripetutamente questa azienda al centro di aspre polemiche non sono i vistosi copricapo del suo presidente, né tanto meno la folle varietà di ristoranti ospitati dagli alberghi APA (a seconda della località mi è capitato di vedere ristoranti italiani, indiani, singaporiani, coreani, caffè in stile europeo, letteralmente la qualsiasi). Si tratta, invece, della cifra politica della catena alberghiera.   Ogni stanza d’albergo ha in dotazione almeno un paio di copie degli scritti del fondatore dell’azienda, Toshio Motoya, storico e ideologo di orientamento decisamente patriottico.   Gli scritti in questione innescano periodicamente polemiche furibonde: il picco era stato raggiunto tra 2016 e 2017, quando il volume che si trovava nelle stanze degli alberghi conteneva una revisione storica del massacro di Nanchino (1937). Apriti cielo: il clima allora era meno liberticida di adesso, si era agli albori dei social media totalitari come li conosciamo oggidì, ma le polemiche in Asia e occidente furono furibonde.   Il bello è che l’autore e l’azienda hanno fatto quello che oggi nessuno fa: nessun passo indietro, nessuna scusa, soltanto ribadire le proprie ragioni in maniera più articolata. In un mondo come quello in cui viviamo, in cui la gogna internettiana ha reso tutti ominicchi, quaquaraquà e, d’altronde love is love, un po’ invertiti, un atteggiamento del genere si può forse definire eroico.   Cotale attitudine mi ha ricordato l’epoca d’oro del movimento ultrà italiano, quando ancora dalle curve, allora libere da qualsiasi controllo da parte di partiti politici, malavita e istituzioni, si alzava il coro liberatorio: «Noi facciamo il cazzo che vogliamo!».   La pagina in inglese dell’azienda usa uno stile revisionistico che in Europa sarebbe ragione sufficiente per arresto, condanna e detenzione. Ve la ricordate la libertà, voi europei? Pensate che brivido trovare in albergo letteratura che rivede il dogma riguardo agli eventi accaduti nei primi anni quaranta tra Polonia, Germania e Austria…   Di fronte alle furiose contestazioni, l’azienda continua imperterrita a fare trovare in ogni camera delle copie di Theoretical modern history (理論近現代文学), i volumi che raccolgono gli scritti del fondatore della catena Motoya. Durante il mio soggiorno a Kanazawa ho avuto modo di leggere alcuni articoli che mi hanno dato una prospettiva diversa della storia giapponese.      

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L’insegnamento della storia nel Giappone post bellico ha frequentemente preso l’aspetto di una forma di autoflagellazione (sotto la guida dell’occupante statunitense). Questa colpevolizzazione del paese a scapito di tutte le altre forze coinvolte nel conflitto mondiale raggiunge picchi disturbanti nelle prefetture più sinistrorse del Paese, le così dette H2O (Hiroshima, Hokkaido, Oita).   Ci sono stati casi di genitori che hanno protestato dopo avere sentito che ai figli veniva insegnato che «le bombe atomiche ce le siamo meritate». Dopo decenni di scuse a capo chino, non c’è da stupirsi che parte del Paese inizi a manifestare insofferenza verso questo clima culturale e a volersi riconciliare con la propria storia, senza intenti necessariamente autoassolutori.   L’articolo che riporto nella foto riguardo al pilota suicida (quelli che l’occidente chiama kamikaze, ma che in Giappone sono tokkoutai, 特攻隊、le squadre speciali d’assalto), mi ha ricordato il manifesto elettorale del partito Sanseito, in cui due piloti «kamikaze» sono raffigurati abbracciati e con le lacrime agli occhi, un’immagine dei cosiddetti kamikaze diversa da quella che solitamente ci viene mostrata.     Passare una notte all’APA hotel è stata l’occasione per capire una volta di più che al popolo del Giappone, come a quelli d’Europa, è stato messo sulle spalle il giogo di un senso di colpa che impedisce loro di esistere in quanto tali, costringendoli ad abiurare sé stessi quotidianamente.   Adesso basta, noi facciamo il katsu che vogliamo.   Taro Negishi Corrispondete di Renovatio 21 da Tokyo

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Geopolitica

«L’era dell’egemonia occidentale è finita»: parla un accademico russo

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Farhad Ibragimov, docente presso la Facoltà di Economia dell’Università RUDN e docente ospite presso l’Istituto di Scienze Sociali dell’Accademia Presidenziale Russa di Economia Nazionale e Pubblica Amministrazione, ha pubblicato il 1° settembre sulla testata governativa russa in lingua inglese Russia Today un interessante editoriale sulla recente riunione dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), intitolato «L’Occidente ha avuto il suo secolo. Il futuro appartiene ora a questi leader».

 

Lo scritto tratta il tema della decadenza del potere planetario occidentale.

 

«Il vertice della Shanghai Cooperation Organization in Cina si è già affermato come uno degli eventi politici più significativi del 2025» ha scritto l’Ibragimov. «Ha sottolineato il ruolo crescente della SCO come pietra angolare di un mondo multipolare e ha evidenziato il consolidamento del Sud del mondo attorno ai principi di sviluppo sovrano, non interferenza e rifiuto del modello occidentale di globalizzazione. Ciò che ha conferito all’incontro un ulteriore livello di simbolismo è stato il suo collegamento con la prossima parata militare del 3 settembre a Pechino, che celebra l’80° anniversario della vittoria nella guerra sino-giapponese e la fine della Seconda Guerra Mondiale».

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«Parate di questo tipo sono una rarità in Cina – l’ultima si è tenuta nel 2015 – a sottolineare quanto questo momento sia eccezionale per l’identità politica di Pechino e il suo tentativo di proiettare sia la continuità storica che l’ambizione globale. L’ospite principale sia al vertice che alla prossima parata è stato il presidente russo Vladimir Putin» continua il professore. «La sua presenza ha avuto non solo un peso simbolico, ma anche un significato strategico. Mosca continua a fungere da ponte tra i principali attori dell’Asia e del Medio Oriente, un ruolo che conta ancora di più sullo sfondo di un ordine di sicurezza internazionale frammentato».

 

Il Programma di Sviluppo della SCO, adottato al vertice, è una «roadmap volta a definire il percorso strategico dell’organizzazione per il prossimo decennio e a trasformarla in una piattaforma a tutti gli effetti per il coordinamento di iniziative economiche, umanitarie e infrastrutturali», continua l’articolo. «Altrettanto significativo è stato il sostegno di Mosca alla proposta cinese di istituire una Banca di Sviluppo della SCO. Un’istituzione del genere potrebbe fare di più che finanziare progetti congiunti di investimento e infrastrutture; aiuterebbe anche gli Stati membri a ridurre la loro dipendenza dai meccanismi finanziari occidentali e ad attenuare l’impatto delle sanzioni, pressioni che Russia, Cina, Iran, India e altri paesi affrontano a vari livelli».

 

L’evento, ha affermato il professor Ibragimov, «ha confermato l’esistenza di un ordine mondiale multipolare, un concetto che Putin promuove da anni. La multipolarità non è più una teoria. Ha assunto una forma istituzionale nella SCO, che si sta espandendo costantemente e sta acquisendo autorevolezza in tutto il Sud del mondo».

 

L’ampia partecipazione delle nazioni arabe, aggiunge l’accademico, «sottolinea che un nuovo asse geoeconomico che collega l’Eurasia e il Medio Oriente sta diventando realtà e che la SCO sta emergendo come un’alternativa interessante ai modelli di integrazione incentrati sull’Occidente».

 

La SCO «non è più una struttura regionale, ma un centro di gravità strategico nella politica globale. Unisce paesi con sistemi politici diversi, ma con una determinazione condivisa a difendere la sovranità, promuovere i propri modelli di sviluppo e rivendicare un ordine mondiale più equo».

 

«L’era dell’egemonia occidentale è finita» conclude lo studioso. «Il multipolarismo non è più una teoria: è la realtà della politica globale, e la SCO è il motore che la spinge avanti».

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L’idea della fine della primazia dell’Occidente sul mondo circola da diverso tempo in ambienti accademici e diplomatici. Essa è stata ripetuta più volte, negli scorsi mesi, dal premier ungherese Vittorio Orban. Il ministro degli esteri russo Sergio Lavrov due anni fa ha parlato del termine del «dominio di 500 anni» da parte dell’Ovest.

 

Putin in questi anni ha ribadito, in discorsi che puntavano il dito contro le élite occidentali», che «il mondo unipolare è finito».

 

Come riportato da Renovatio 21, all’incontro SCO di Tianjin della settimana passata lo stesso presidente Xi Jinpingo ha parlato di resistenza «all’egemonismo e alla politica di potenza», cioè di sfida vera e propria al predominio occidentale. Subito dopo, a Pechino, ha mostrato armi di nuovo tipo (come i razzi ipersonici) nella colossale parata in Piazza Tian’anmen, nonché ha esibito gli apparati della triade nucleare (aerei, missili balistici, sommergibili) a disposizione della Repubblica Popolare Cinese.

 

Discorsi sul declino occidentale da parte di studiosi russi erano scivolati, come nel caso del politologo Sergej Karaganov, in ipotesi di lanci nucleari contro le città europee.

 

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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)

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