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È morto Berlusconi. Viva Silvio, la pace e la vita umana

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È morto Silvio Berlusconi, e la notizia è per chiunque scioccante – perché per un trentennio si era preso il centro della scena politica italiana, e quindi anche della nostra vita.

 

Riteniamo di scriverne subito, senza aspettare, anche perché quello che pensiamo del personaggio lo abbiamo ripetuto varie volte, anche di recente.

 

Berlusconi muore, ma rappresentava proprio la vita contro la morte.

 

Berlusconi era l’uomo che più di ogni altro, oggi come venti anni fa, incarnava lo slancio verso la pace mondiale. Per questo, cerchiamo di capirlo una volta per tutte, è stato attaccato, massacrato fatto divorziare dalla politica e dalla scena internazionale – e forse pure dalla moglie.

 

Per chi per decadi lo ha stupidamente combattuto come il male incarnato, non può essere un momento di soddisfazione. L’Italia, grande laboratorio politico dell’umanità, ha già portato chiunque oltre lo shock del miliardario incontenibile che scende in politica, e con il passare degli anni senza di lui, con i Monti, i Renzi, i Conte, i Draghi, deve essere apparso chiaro pure a molti antiberlusconisti viscerali che poteri ben più oscuri operavano dietro l’esistenza del cittadino – e contro Silvio Berlusconi.

 

L’America non è così fortunata: in queste ore Trump, miliardario televisivo populista sceso in campo pure, riceve una ulteriore raffica di accuse, che lo porteranno ancora in tribunale, per motivi non sempre comprensibili, nel tentativo di azzoppare la sua inarrestabile corsa elettorale. La sinistra USA, forte di un blocco fatto dei grandi media (e dei social media) e dell’Intellighentsja tutta – dove è che avevano già visto questa cosa? – soffre di quella che si chiama Trump Derangement Syndrome, sindrome del disturbo Trump. In Italia non siamo stati così bravi da trovare una definizione simile, ma è esattamente quello che è accaduto per decenni: un Paese ostaggio di isterici malati della Berlusconi Derangement Syndrome.

 

«Giustizia ad orologeria»: era una delle sue espressioni preferite. Era stato un lungo countdown: per anni era uscito intonso dai processi, ma alla fine proprio i giudici riuscirono a estrometterlo definitivamente. Prima il colpo lo diede il fatale 2011, dove forze oscure angloamericane e francesi avevano trucidato Gheddafi – l’uomo da cui Berlusconi aveva tratto accordi assai vantaggiosi per l’Italia (contratti, gas, petrolio, zero migranti), finendo pure impresso, nell’immagine della storica stretta di mano con il rais di Tripoli, nei passaporti libici.

 

Il lettore forse potrebbe non ricordare, ma dopo Gheddafi e Berlusconi, tentarono di disarcionare pure Putin, in campagna elettorale per il voto del 2012 che lo avrebbe riportato alla presidenza. Cioè: un asse alternativo al potere Atlantico, che si era creato abbracciando tre continenti e tante, tante risorse – era stato demolito.

 

Merkel e Sarkozy risero di Berlusconi davanti ai giornalisti. Draghi, con una lettera recapitata dalla BCE di cui era presidente, diede una mano: rammenterete la panzana dello spread, arma economica di distrazione di massa. Dall’altra parte dell’Oceano c’era Obama, un tizio forse infiltrato alla Casa Bianca dalla CIA (che odia Berlusconi come nient’altro, sin dal 1994, quando ruppe le uova nel paniere dei nuovi beneficiari ex-comunisti dell’affetto del Deep State), che da Senatore si era rifiutato di applaudire Berlusconi quando questi parlò al congresso americano.

 

Tutto il complotto fu ammesso dall’ex segretario del Tesoro USA Geithner. Berlusconi disse che lo avevano fatto fuori perché contrastava la Germania. L’odio per lui, tuttavia, ha radici ben più profonde, radici metastoriche, metapolitiche, apocalittiche, che si fondono con quelle dell’odio per la Russia che stiamo vedendo mostruosamente all’opera ora, a costo delle vite di centinaia di migliaia di ragazzi ucraini.

 

Misero al suo posto Monti, un alieno scelto direttamente dalla tecnocrazia. Di lì fu l’inizio di un declino inesorabile. Sino a Giorgia Meloni – che votò Monti, come pure suoi attuali scherani come Mantovano et similia – possiamo tranquillamente dire che non c’è stato un premier eletto dopo averci messo la faccia in campagna elettorale. L’ultimo è stato, appunto, Berlusconi.

 

Ora, ci fa schifo vedere soloneggiare le scorregge giornalistico-politiche, che lo hanno schifato per anni su ordine dei loro padroni – editori che avevano interesse diretto a mettere in difficoltà lui e le sue aziende, e poi forze più oscure che si sono pian piano palesate.

 

Ci fa schifo, perché nessuno avrà mai il coraggio di dire, ora, che con Berlusconi la situazione sarebbe assai diversa.

 

Non parliamo solo dell’inutile strage ucraina, che certo non potrebbe andare avanti se un membro della NATO e della UE si mettesse coraggiosamente di mezzo – e soprattutto, non inviasse le armi. Teniamo presente che Silvio fu il solo a dire che se armiamo Kiev significa che siamo in guerra con Mosca. Per questo fu attaccato dal regime Zelens’kyj.

 

Vogliamo dire anche del fatto che il nostro Paese, basato sulla manifattura, mai avrebbe accettato di perdere la più stabile ed economica fornitura di gas possibile – una scelta suicida che sta strangolando definitivamente la nostra economia produttiva, come da imperativo dell’oligarcato che vuole la decrescita, cioè la povertà e lo sterminio per le nostre famiglie.

 

L’amicizia con Putin era vera. Non si spiega, altrimenti non solo la ridda di voci (il tunnel per attraccare i sottomarini sotto villa Certosa è una fake news, vero?), ma episodio incontrovertibili. Berlusconi che prende la parola ad una conferenza stampa a due rispondendo lui ad una domanda sugli scontri in Georgia nel 2008, difendendo a spada tratta il presidente russo lì al suo fianco (da Wikileaks avremo saputo quanto questa cosa avesse irritato gli USA). Putin che si presenta nella villa in Sardegna appena dopo le elezioni, prima che Berlusconi entrasse in carica: in pratica la conferenza della vittoria elettorale, Silvio la fece con Putin… a casa sua!

 

Diremo di più: era vero che Berlusconi aveva conquistato, all’Italia, la simpatia non solo della Russia, ma di tutte le Russie. E oltre.

 

A inizio 2009 chi scrive si trovava a Mosca. C’era un immane evento di partnership tra Russia e Italia, la più grande missione ICE mai organizzata prima. Dovevano partecipare Putin e Berlusconi, ma venne solo il presidente russo: Berlusconi restò in Italia perché in quelle ore vi fu il tremendo terremoto umbro – ogromnaja tragedja, immensa tragedia, disse Putin al pubblico italo-russo, mentre Silvio saliva in elicottero per dirigersi immediatamente nelle zone del sisma.

 

Il fatto è che dell’assenza di Berlusconi a Mosca – dove si prevedevano irresistibili siparietti pubblici con Putin – lo appresi da un tassista, cioè un uomo qualsiasi, perché a Mosca per farsi portare da qualche parte basta alzare la mano in strada e contrattare con la persona a caso che si è fermata quanto costa il passaggio (Uber, levati). Il signore russo mi descrisse per filo e per segno cosa era successo in Italia, e sembrava pure dispiaciuto. Quando parlava di Berlusconi, mi rendevo conto, parlava di una figura che conosceva bene, e che apprezzava moltissimo.

 

L’attacco definitivo a Berlusconi, osservò qualcuno, iniziò lì: il terremoto lo rese enormemente popolare, dicevano i sondaggi. Di lì parti tutta la storia delle ragazze. I giornali pubblicarono improvvisamente le foto di Berlusconi al compleanno di una ragazza napoletana; poi spuntarono fuori escort varie che, chissà perché, improvvisamente volevano raccontare la loro storia sessuale con Berlusconi – senza che vi fosse un reato, o un comportamento immorale da parte del presidente del consiglio, anzi.

 

Qualche tempo dopo, in un viaggio differente, attraversavo via terra il confine tra Iran e l’ex repubblica sovietica del Turkmenistan, ora Stato indipendente dove si parla russo e vi sono molti russi. I doganieri, dopo averci visto i documenti, parlottarono fra loro e ci sorrisero: «noi amiamo Silvio Berlusconi», dissero i funzionari turkmeni armati, e con grande sincerità. Con me c’erano dei compagni di viaggio (sbagliati) drogati dall’onnipervadente stampa debenedettiana, quindi con sindrome antiberlusconica: non capivano, non poterono capire, si scandalizzarono. Una bella insopportabile ragazza di sinistra che era con me voleva pure rispondere e protestare, poi guardò le pistole e i fucili dei soldati, e cambiò idea.

 

Con evidenza, Berlusconi aveva conquistato pure il Turkmenistan. Sì: Berlusconi, a Est, era una superpotenza di soft power. E il valore di ciò è rimasto incomprensibile a una porzione immensa d’Italia divenuta tossica di propaganda, portata all’odio cieco verso l’uomo.

 

Me lo ripeté a Madrid, un’amica spagnola, direi pure di sinistra, ma talmente felice e libera – nelle sue passeggiate, nelle sue risate, nelle sue performance di contastorie – da non occuparsi troppo di politica. Mi disse che, nell’appartamento studentesco dove viveva, ad un certo punto era arrivato un ragazzo italiano, e, vedendo che lui insisteva sempre su quel tasto, gli chiese d’improvviso di spiegarle perché Berlusconi non andasse bene. «Parlò per venti minuti. Alla fine non fui capace di capire davvero quale fosse il motivo. Non c’era un argomento che fosse uno. Nada».

 

Era impossibile allora spiegare alle persone che se odiavano Berlusconi era perché c’era un quadro globale – geopolitico, ma non solo – in cui Silvio, come tanti altri privi di tutti i fili che servano ai burattinai – non poteva trovare un posto.

 

Dire loro che, sin dal 1994, l’odio antiberlusconiano coinvolgeva questioni americane e più avanti russe (nel senso: sempre americane, ma in ottica antirussa), e quindi equilibri di superpotenze atomiche e altre trame non visibili ma chiarissime, non avrebbe sortito effetto alcuno. Ricordare che nel 2002 Berlusconi era riuscito a portare la Russia nella NATO, con l’accordo di Pratica di Mare – un qualcosa che oggi pare un’allucinazione! – sarebbe servito a qualcosa.

 

E neanche ora, in cui il disegno è dolorosamente evidente, siamo sicuri che potrebbero capire: sono stati manipolati pavlovianamente, la bava gli esce dalla bocca, abbaiano ogni volta che sentono quel nome. La propaganda, del resto, serve a quello. A creare le basi per deviare il potere. I colpi di palazzo, pure. La pax eurasiatica di cui Berlusconi aveva gettato le fondamenta è ora disintegrata.

 

Cosa accadrà ora, non è dato sapere. L’inguardabile suo partito, Forza Italia, inizierà una diaspora – o, direbbe qualcuno, un mercato delle vacche – che altererà qualche equilibrio. Magari è già stato tutto calcolato, pure con qualche accordo. Un fatto rimane: politicamente, oltre che umanamente, era insostituibile. Questa è una scossa sistemica che non sarà immediatamente attutita.

 

Berlusconi è morto al San Raffaele, l’ospedale che, curiosamente, aveva detto durante una visita in Russia di aver finanziato, ai tempi di Don Verzè, per progetti di allungamento della vita.

 

Perdoniamo pure il transumanismo berlusconiano, perché era guidato da qualcosa di facilmente distinguibile: Silvio amava la vita. Amare la vita, per un uomo, può significare amare la prosperità, e pure le belle donne: capita. Non è, bisogna dirlo, un cattivo segno.

 

Una certa parte della popolazione, potete esserne sicuri, preferirebbe ancora oggi le «cene eleganti» con le olgettine alle dark room dove magari si infilano tanti politici che sfilano ai gay pride, o non sfilano, ma nelle dark room magari ci vanno lo stesso — luoghi non esattamente «eleganti» dove non si celebra la bellezza femminile né gli impulsi, pur discutibili, ma naturali.

 

Qualcuno ha suggerito che fosse un bipolare che conosceva però solo la fase manica: tuttavia, a differenza di chiunque altro, realizzava i suoi propositi altissimi, creava imperi immobiliari, editoriali, finanziari, saliva ai vertici del potere politico, vinceva campionati e Coppe dei Campioni (la squadra, si racconta, la faceva davvero lui).

 

È vero che, ogni tanto, andava giù – spariva per un po’, parlavano di malattie, come nel 1996, forse ammalarsi fisicamente era il suo cambio di fase, da cui però tornava più forte, e quasi subito, inarrestabile: dichiarazioni, barzellette, incontri, sorrisi, teatrini, risate… Era un’entità irrefrenabile, e qualcuno che ce lo ha avuto a fianco per qualche ora mi dice che il fenomeno era talmente vero che sembrava avesse dentro di se una centrale atomica, una fonte inesauribile e misteriosa di energia, tanto che la tua sembrava sparire al suo cospetto, trascinata via dalle sue radiazioni implacabili.

 

È il ritratto, in realtà, di un uomo che viveva per amare la vita in tutte le sue forme.

 

Sì, Berlusconi era un alfiere dell’apollineo, della beltà visibile, dell’esistenza umana e dei suoi appetiti naturali, in un momento in cui il mondo moderno cominciava a piombarci nello ctonio e nella Cultura della Morte.

 

Pace all’anima tua, Silvio. Hai amato la vita, è una dote rarissima oggi.

 

Hai amato la pace. Hai amato la verità.

 

Hai difeso come hai potuto l’Italia e l’interesse dei suoi cittadini, e hai pagato per questo.

 

Noi non lo dimenticheremo. Mai.

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

 

 

Immagine di European People’s Party via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic (CC BY 2.0)

 

 

 

 

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Elezioni USA 2020, un elettore per corrispondenza su cinque ha ammesso la presenza di frode elettorale: sondaggio

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Un quinto degli elettori che hanno votato per corrispondenza durante le elezioni presidenziali del 2020 ha ammesso di aver commesso almeno un tipo di frode elettorale, secondo i risultati di un recente sondaggio condotto da Rasmussen Reports e The Heartland Institute.

 

Tucker Carlson ha fatto uscire nelle ultime ore una sconvolgente intervista con Just in Haskins, direttore del Centro di ricerca sul socialismo presso l’Heartland Institute, in cui quest’ultimo ha spiegato come un sondaggio condotto insieme a Rasmussen Reports ha rivelato una diffusa attività elettorale illegale tra gli elettori per corrispondenza durante le elezioni del 2020.

 

Il sondaggio è stato pubblicato per la prima volta nel dicembre 2023.

 

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Agli intervistati che hanno indicato di aver votato per posta alle elezioni del 2020 sono state poste una serie di domande che indagavano su attività illegali e fraudolente, sebbene le domande non etichettassero esplicitamente queste attività come «frode».

 

«Ad esempio, abbiamo chiesto alle persone: “Hai votato in uno Stato in cui non risiedi più legalmente? Se non risiedi permanentemente in uno stato, non puoi votare lì. Il 17% delle persone, quasi una su cinque, ha detto di sì», ha detto Haskins a Carlson.

 

Ha inoltre condiviso che il 21% degli elettori per corrispondenza ha ammesso di aver compilato una scheda elettorale per conto di qualcun altro, un’altra attività illegale, e il 17% ha ammesso di aver falsificato una firma per conto di qualcun altro, «con o senza il suo permesso».

 

«Quindi, tutto sommato, almeno una scheda elettorale su cinque ha coinvolto qualche tipo di attività fraudolenta», ha detto Haskins.

 

Di tutti gli elettori intervistati – sia quelli che hanno votato per posta che quelli che hanno votato di persona – il 10% ha affermato che «un amico, un familiare, un collega o un altro conoscente» ha ammesso di aver votato per posta in uno stato diverso da quello in cui sono registrati come stato di residenza permanente.

 

«I risultati di questo sondaggio sono a dir poco sorprendenti», ha osservato Haskins dopo i risultati del sondaggio. «Negli ultimi tre anni, agli americani è stato ripetutamente detto che le elezioni del 2020 sarebbero state le più sicure della storia. Ma se i risultati di questo sondaggio riflettono la realtà, è vero esattamente il contrario. Questa conclusione non si basa su teorie del complotto o su prove sospette, ma piuttosto sulle risposte fornite direttamente dagli elettori stessi».

 

«Una repubblica democratica non può sopravvivere se le leggi elettorali consentono agli elettori di commettere facilmente frodi, e questo è esattamente ciò che è accaduto durante le elezioni del 2020», ha continuato. «Sebbene siano stati compiuti alcuni progressi in più di una dozzina di stati dalla conclusione delle elezioni del 2020, è necessario molto più lavoro nella maggior parte delle regioni degli Stati Uniti. Se le leggi elettorali americane non miglioreranno presto, elettori e politici continueranno a mettere in dubbio la veridicità e l’equità di tutte le future elezioni».

 

Il Carlson ha sottolineato che le affermazioni secondo cui i risultati delle elezioni presidenziali del 2020 sarebbero basati su voti fraudolenti sono ora considerate un «reato penale» negli Stati Uniti, almeno nella misura in cui «quel crimine sembra costituire la base di una delle accuse pendenti di Trump». L’accusa in questione afferma che Trump ha utilizzato «false accuse di frode elettorale per ostacolare la funzione del governo federale mediante la quale tali risultati vengono raccolti, conteggiati e certificati».

 

Sono emerse numerose prove di frodi nelle elezioni generali del 2020, ma ciò è stato ampiamente ignorato dai media mainstream.

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Ad esempio, nel 2022, un articolo sottoposto a revisione paritaria dell’esperto economista ed ex ricercatore senior del Dipartimento di Giustizia (DOJ), John Lott, ha compilato prove statistiche di frode elettorale nelle elezioni del 2020, in particolare, di circa «255.000 voti in eccesso, forse fino a 368.000, per Joe Biden in sei Stati indecisi dove Donald Trump ha presentato accuse di frode».

 

La notte delle elezioni sono stati segnalati gruppi di voti che sono stati conteggiati in modo sospetto e schiacciante per Biden, invertendo un precedente vantaggio di Trump in stati come Pennsylvania e Wisconsin. E prima delle elezioni, Project Veritas aveva pubblicato un video che mostra gli elettori corrotti e persuasi a votare per i democratici, anche modificando i loro voti nella scheda elettorale.

 

Come riportato da Renovatio 21, truccare qualsiasi elezione, negli USA, non è un lavoro difficile, come ha attestato la testimonianza di un frodatore elettorale al New York Post. L’operativo della politica, in forza ai Democratici, aveva detto che la frode è più la regola che l’eccezione. «Questa è una cosa reale. E ci sarà una cazzo di guerra in arrivo il 3 novembre su questa roba» aveva dichiarato in riferimento alle elezioni in arrivo nel 2020.

 

Gli Stati Uniti – Paese occidentale che guida la trasformazione della società verso un incubo di sorveglianza tecnocratica – sono altresì teatro della demenziale – ma provvidenziale, per i frodatori elettorali – mancanza di obbligo di esibire qualsiasi documento quando si va a votare.

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Mai così tanti deputati cattolici a Seoul: 80 su 300 nel nuovo Parlamento

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Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.   Il numero maggiore nel Partito Democratico uscito vincitore dal voto del 10 aprile. Nel Paese i cattolici sono l’11,3% della popolazione. I vescovi avevano esortato i laici a non trascurare le proprie responsabilità rispetto alla cura del bene comune. Un tema emerso anche nelle commemorazioni del decennale della strage del traghetto Sewol rimasta senza colpevoli.   La nuova Assemblea nazionale di Seoul – che si insedierà il prossimo 30 maggio – avrà ben 80 cattolici su un totale di 300 deputati. È il risultato del voto del 10 aprile che ha segnato l’affermazione del Partito Democratico, con la sconfitta del Partito del Potere Popolare del presidente Yoon Suk-yeol.   Si tratta della quota più alta di deputati cattolici mai registrata nel parlamento di Seoul, più del doppio rispetto all’11,3% che secondo i dati diffusi dall’ufficio statistico della Chiesa coreana è la percentuale dei cattolici oggi tra i 52,62 milioni di abitanti.   Va peraltro ricordato che la Corea del Sud ha già avuto nella sua storia anche due presidenti cattolici: Kim Dae-jung tra il 1998 e il 2003 e Moon Jae-in tra il 2017 e il 2022. Tra i cattolici che siederanno nel nuovo parlamento 16 sono stati eletti tra i conservatori del Partito del Potere Popolare, 53 nel Partito Democratico e 11 nel Nuovo Partito Riformista.

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Prima del voto la Conferenza Episcopale Cattolica della Corea aveva inviato a tutti partiti un questionario di 43 domande chiedendo loro di esprimersi sulle principali questioni dell’agenda politica del Paese. Diffondendo le risposte ricevute lo scorso 28 marzo i vescovi avevano ricordato che «la Chiesa cattolica ha sempre insegnato che i laici non dovrebbero mai rifiutarsi di partecipare alla politica, ma sono chiamati a promuovere in maniera organizzata e nelle istituzioni il bene comune in tenti settori: economico, sociale, legislativo, amministrativo, culturale e altro».   Un’occasione per ricordare che cosa questo significhi è stata anche la recente commemorazione delle vittime del disastro del traghetto Sewol che nel 2014 costò la vita ad oltre 300 persone. In questa occasione i vescovi sudcoreani hanno esortato il governo a porre la vita e la sicurezza dei cittadini coreani come «priorità assoluta», al fine di evitare tragedie come il disastro del traghetto Sewol del 2014, che ha ucciso oltre trecento persone.   «Questo ricordo non può e non deve finire finché non sarà attuata una riforma fondamentale» che affronti davvero le cause della tragedia, hanno dichiarato in una dichiarazione congiunta pubblicata durante una Messa commemorativa tenutasi nella cattedrale di Sanjeong-dong dell’arcidiocesi di Gwangju il 15 aprile.   Come ha ricordato infatti lo stesso governatore della provincia di Gyeonggi Kim Dong-yeon in un’altra commemorazione tenuta allo Hwarang Public Garden di Ansan, nessun funzionario di alto livello sia stato ritenuto responsabile del fallimento della risposta al disastro: «gli alti funzionari hanno preferito insabbiare la verità. Purtroppo la nostra realtà non è cambiata rispetto a 10 anni fa».   Alla commemorazione di Ansan del 16 aprile hanno partecipato anche alti funzionari del PPP al governo e del DP all’opposizione, tra cui il leader del partito al governo Yun Jae-ok e il leader dell’opposizione Hong Ihk-pyo, oltre a leader e funzionari dei partiti minori di opposizione in Corea del Sud.   Invitiamo i lettori di Renovatio 21 a sostenere con una donazione AsiaNews e le sue campagne. Renovatio 21 offre questo articolo per dare una informazione a 360º. Ricordiamo che non tutto ciò che viene pubblicato sul sito di Renovatio 21 corrisponde alle nostre posizioni.

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  Immagine di Dmthoth via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported
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I servizi segreti USA si preparano a proteggere Trump in prigione

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I servizi segreti americani, che hanno il compito di proteggere i presidenti attuali ed ex presidenti degli Stati Uniti, stanno valutando come procedere se Donald Trump finisse dietro le sbarre, hanno riferito fonti al New York Times.

 

Martedì scorso il giudice Juan Merchan ha rinviato la decisione se ritenere Trump in oltraggio alla corte per presunte violazioni dell’ordinanza di silenzio durante il suo processo. Le udienze riguardano l’accusa di falsificazione di documenti aziendali per nascondere il rimborso di un pagamento in denaro nascosto alla pornoattrice Stormy Daniels prima delle elezioni presidenziali del 2016.

 

Non è immediatamente chiaro quando Merchan annuncerà una sentenza. Il NYT ha sottolineato in un articolo di martedì che il giudice probabilmente emetterà un avvertimento o imporrà una multa prima di fare il «passo estremo» di incarcerare il presunto candidato repubblicano alla presidenza per un mese in una cella di detenzione nel tribunale.

 

I pubblici ministeri, che sostengono che Trump abbia attaccato testimoni e altre persone associate al suo caso almeno dieci volte sui social media questo mese in violazione di un ordine di silenzio, stanno attualmente chiedendo una multa per il 77enne.

 

Tuttavia, la settimana scorsa funzionari dei servizi segreti e di altre forze dell’ordine hanno tenuto un incontro, incentrato su come spostare e proteggere Trump se il giudice alla fine gli ordinasse di essere rinchiuso nella cella di detenzione del tribunale, hanno detto al giornale due persone a conoscenza della questione.

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La questione di come incarcerare in sicurezza l’ex presidente se la giuria lo ritiene colpevole e viene mandato in una vera prigione «deve ancora essere affrontata direttamente», secondo dozzine di funzionari di vari livelli, che hanno parlato con il NYT. Il documento sottolinea che, se ciò dovesse accadere, diventerà una «sfida scoraggiante» e un «incubo logistico» per tutte le agenzie coinvolte.

 

Trump, che è il primo presidente in carica o ex presidente degli Stati Uniti ad essere processato, potrebbe rischiare fino a 136 anni di carcere a seguito di quattro procedimenti penali contro di lui.

 

Secondo i funzionari, se l’ex capo di Stato fosse effettivamente imprigionato, dovrebbe essere tenuto separato dagli altri detenuti, e tutto il suo cibo e altri oggetti personali sarebbero sottoposti a controlli. Per raggiungere questo obiettivo, un gruppo di agenti dovrebbe lavorare 24 ore su 24, 7 giorni su 7, entrando e uscendo dalla struttura, hanno affermato. Le armi da fuoco sono severamente vietate nelle carceri statunitensi, ma questi agenti «sarebbero comunque armati», secondo le fonti.

 

Un portavoce dei servizi segreti ha confermato al NYT che l’agenzia sorveglia gli ex presidenti, ma ha rifiutato di discutere eventuali «operazioni di protezione» specifiche.

 

Immagine di pubblico dominio CCo via Flickr

 

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