Civiltà
Agamben e la casa che brucia

Per chi combatte contro il mondo moderno da ben prima della pandemia, Giorgio Agamben è un bizzarro compagno di strada.
Agamben è uno di quegli italiani che diventano famosissimi in Francia prima che in Italia, come Monica Bellucci e Aldo Maccione.
È stato, per anni, una punta di diamante della parigineria filosofica. Considerando l’eco che essa ha negli atenei di tutto il mondo (da quelli statunitensi a quelli italiani) possiamo dire che egli era a suo modo assiso su un vertice mondiale. Il suo pensiero ha spaziato dall’estetica a – soprattutto – la biopolitica. I cascami autistici di questo sottobosco dorato con i suoi mostri – dall’uxoricida Althuser all’agent provocateur Henry-Levy, dal «pedofilo» Foucault al suicida Deleuze – ci ripugna da che abbiamo capito che le letture che si fanno da ragazzi non è detto che possano avere un qualche ruolo in età adulta. Ma stiamo divagando.
In molti hanno scoperto la figura di Agamben solo l’anno scorso, quando d’un tratto emerse questa voce di filosofo, praticamente unica in Italia e nel mondo, a gridare contro ciò che veniva fatto alla società. Clausura, terrore, mutamento del consorzio umano sin nelle sue forme primarie: degli uomini non si vede più nemmeno la faccia.
In un libro che raccoglie gli articoli del 2020, A che punto siamo (edito da Quodlibet, una casa editrice fondata da suoi allievi), abbiamo letto che vi sono stati grandi giornali nazionali che hanno chiesto un intervento al filosofo per poi, letto quello che scriveva con sincerità, rifiutarsi di pubblicare.
«Quale casa sta bruciando? Il Paese dove vivi o l’Europa o il mondo intero? Forse le case, le città sono già bruciate, non sappiamo da quanto tempo, in un unico immenso rogo, che abbiamo finto di non vedere»
Ecco, questa è la cosa che ci colpisce di più della vicenda di Agamben: il fatto che forse il professore credeva che gli sarebbe stato permesso di esprimersi liberamente – e dire la verità.
Questo smacco, per noi che da anni siamo abituati alle censure e alle derisioni (e, ora, alle delazioni), è significativo. È, a suo modo, un buon segno: il Principe ti mette a tacere solo se dici qualcosa di importante, mentre di tutto il resto – per esempio, la filosofia, la politica, la pornografia – puoi parlare in libertà, perché è intrattenimento narcotico per distogliere la massa dall’unica cosa davvero importante: la vita.
Quest’anno Agamben è uscito con un nuovo libro. Si chiama, molto suggestivamente, Quando la casa brucia.
Si tratta di una sorta di breve scritto poetico-filosofico, compilato in uno stile tutto personale, un po’ solipsistico, un po’ «francese», diremo. Tanto chiaroscuro filosofico. Tanto gergo. Molti concetti coniati per l’occasione. Richiami all’antico. Qua e là, l’odore di Heidegger (l’autore ha una foto assieme al controverso filosofo criptoparafilonazista). L’elogio delle architetture di Carlo Scarpa. Tanti etimi dal latino e dal greco. Perfino qualche giuoco con l’alfabeto ebraico.
Ecco, non possiamo dire che ci sia piaciuto. Non abbiamo più lo stomaco per letture del genere. Perché, appunto, la nostra casa brucia — e se abbiamo il tempo di leggere vogliamo recuperare nel concreto delle tessere del mosaico di questo mondo impazzito. Vogliamo informazioni, analisi, direzioni. Vogliamo chiarezza. Vogliamo ordine.
«Viviamo in caso, in città arse da cima a fondo, come se stessero ancora in piedi, la gente finge di abitarci ed esce per strada mascherata fra le rovina quasi fossero ancora i familiari rioni di un tempo»
Forse abbiamo torto. Perché dentro a questo libricino ci sono parole incredibili, pensieri di lucidità assoluta. C’è il potere totale del pensiero che diventa arte e illumina il buio del mondo.
«Quale casa sta bruciando? Il Paese dove vivi o l’Europa o il mondo intero? Forse le case, le città sono già bruciate, non sappiamo da quanto tempo, in un unico immenso rogo, che abbiamo finto di non vedere. Di alcune restano solo dei pezzi di muro, una parete affrescata, un lembo del tetto, dei nomi, moltissimi nomi già morsi dal fuoco E, tuttavia li ricopriamo così accuratamente con intonachi bianchi e parole mendaci che sembrano intatti. Viviamo in caso, in città arse da cima a fondo, come se stessero ancora in piedi, la gente finge di abitarci ed esce per strada mascherata fra le rovina quasi fossero ancora i familiari rioni di un tempo».
Una descrizione che dipinge nella nostra mente le nostre città piagate dal lockdown, che risulta più vivida di tante foto e video fatti con i droni delle strade deserte nei mesi di confinamento.
«E ora, la fiamma ha cambiato forma e natura, si è fatta digitale, invisibile e fredda, ma proprio per questo è ancora vicina, ci sta addosso e circonda in ogni istante».
Non sapremo definire in modo migliore l’era di sorveglianza bioelettronica di cui il COVID è solo la prima fase di allineamento globale. La «fiamma», di cui parla Agamben, brucia da anni l’intero popolo della Cina Popolare, che si prepara ad esportarla anche da noi.
Il pensiero si fa vertiginoso e totale. Agamben non ha paura di comprendere il problema alla radice, rivolgendosi ad un tema fondamentale per Renovatio 21: la Civiltà.
«E ora, la fiamma ha cambiato forma e natura, si è fatta digitale, invisibile e fredda, ma proprio per questo è ancora vicina, ci sta addosso e circonda in ogni istante»
«Che una civiltà – una barbarie – sprofondi per non più risollevarsi, questo è già avvenuto e gli storici sono abituati a segnare e datare cesure e naufragi. Ma come testimoniare di un mondo che va in rovina con gli occhi bendati e il viso coperto di una repubblica che crolla senza lucidità né fierezza in abiezione e paura? La cecità è tanto più disperata perché i naufraghi pretendono di governare il proprio naufragio, giurano che tutto può essere tenuto tecnicamente sotto controllo, che non c’è bisogno né di un nuovo dio né di un nuovo cielo – soltanto di divieti, di esperti e di medici. Panico e furfanteria».
Panico e furfanteria. Quale definizione migliore per l’ora presente?
E poi sì, riconosciamolo: questo è il momento di chi, con il filosofo Heidegger, si è posto delle domande sul ruolo della tecnica – che oggi chiamiamo tecnologia – nella vicenda umana.
Tecnica è la soluzione alla catastrofe – il vaccino. O almeno, così dicono. (Renovatio 21 crede che il vaccino mRNA sia più che una questione tecnica: è informatica)
Tecnica è con probabilità l’origine della catastrofe – l’Istituto di Virologia di Wuhan e i suoi esperimenti di ingegneria genetica Gain of Function. Questo, invece, non lo dicono, o almeno non tutti, e soprattutto non da subito.
«Da quanto tempo la casa brucia? Da quanto tempo è bruciata? Certamente un secolo fa, fra il 1914 e il 1918, qualcosa è avvenuto in Europa che ha gettato nelle fiamme e nella follia tutto quello che sembrava restare di integro e vivo; poi nuovamente, trent’anni dopo, il rogo è divampato ovunque e da allora non cessa di ardere, senza tregua, sommesso, appena visibile sotto la cenere, ma forse l’incendio è cominciato già molto prima, quando il cieco impulso dell’umanità verso la salvezza e il progresso si è unito alla potenza del fuoco e delle macchine. Tutto questo è noto, e non serve ripeterlo. Piuttosto occorre chiedersi come abbiamo potuto continuare a vivere e pensare mentre tutto bruciava, che cosa restava in qualche modo integro nel centro del rogo o ai suoi margini. Come siamo riusciti a respirare fra le fiamme, che cosa abbiamo perduto, a quale relitto – o a quale impostura – ci siamo attaccati».
«Occorre chiedersi come abbiamo potuto continuare a vivere e pensare mentre tutto bruciava, che cosa restava in qualche modo integro nel centro del rogo o ai suoi margini»
L’incontro dell’umanità con la potenza delle macchine è senz’altro un altro abisso di pensiero che a questo punto diviene inevitabile.
Abbiamo cominciato a pubblicare, in questi mesi, gli scritti di Gunther Anders, il filosofo che per primo si interrogò sul significato della svolta tecnologica che l’umanità aveva intrapreso nel XX secolo con bombe e missili atomici.
Tuttavia, pur evitando l’olocausto termonucleare, la minaccia della tecnologia è divenuta ancora più sottile, onnipervadente.
«Ed ora che non ci sono più fiamme, ma solo numeri, cifre e menzogne, siamo certamente più deboli e soli, ma senza possibili compromessi, lucidi come mai prima d’ora».
Per Agamben la pazzia odierna è il pensiero che un controllo tecnologico – e quindi sanitario e repressivo – sia possibile sulla vita umana.
«È come se il potere cercasse di afferrare a ogni costo la nuda vita che ha prodotto e, tuttavia, per quanto si sforzi di appropriarsene e controllarla con ogni possibile dispositivo, non più soltanto poliziesco, ma anche medico e tecnologico, essa non potrà che sfuggirgli perché è per definizione inafferrabile. Governare la nuda vita è la follia del nostro tempo».
«Ed ora che non ci sono più fiamme, ma solo numeri, cifre e menzogne, siamo certamente più deboli e soli, ma senza possibili compromessi, lucidi come mai prima d’ora»
Emerge qui il concetto, limpidissimo, del mondo-COVID come «dispositivo». Il coronavirus come artificio di controllo.
La domanda abissale, a questo punto, sarebbe: chi è il controllore? Chi ha costruito il dispositivo? Chi lo possiede?
A questa domanda Agamben non sembra rispondere, tuttavia ci dice dell’oggetto del dispositivo: «uomini, ridotti alla loro pura esistenza biologica non sono più umani, governo degli uomini e governo delle cose coincidono».
Sono anche queste parole da meditare in profondità. Il «governo degli uomini e delle cose» è una realtà drammatica e presente. In questo momento, delle «cose», dei microprocessori nutriti ad algoritmi, decidono più di quanto decidano gli uomini – anzi decidono per gli uomini, anzi decidono della sorta degli uomini.
Siamo al compimento di un ideale di tecnocrazia che, pur nel suo modo arruffato e incompleto, era accarezzato dal fondatore di uno dei partiti di governo. Un mondo dove la tecnologia connette e domina gli individui ininterrottamente. Una tecnocrazia dove al potere non ci sono i «tecnici» – come, ad esempio, ai tempi bonari del governo Monti, ma una macchina vera e propria.
È un quadro che conosciamo bene.
«Uomini, ridotti alla loro pura esistenza biologica non sono più umani, governo degli uomini e governo delle cose coincidono»
Così come sappiamo che non è data, né ora né in futuro, la possibilità di toglierci dalla lotta che si prepara.
«Negli anni a venire ci saranno sono monaci e delinquenti. E, tuttavia, non è possibile farsi semplicemente da parte, credere di potersi trar fuori dalle macerie del mondo che ci è crollato intorno. Perché il crollo ci riguarda e ci apostrofa, siamo anche noi soltanto una di quelle macerie e dovremo imparare cautamente a usarle nel modo più giusto, senza farci notare».
Idea post-apocalittica stupenda. Imparare a convivere con le macerie, ché sono anche nostre – con quelle rovine che siamo noi stessi. Nascondere la propria visione, la propria potenza. Ma continuare.
Perché il trauma di questa società divisa in modo nuovo è ancora tutto da elaborare.
«Chi si accorge che la casa brucia, può essere spinto a guardare i suoi simili, che sembrano non accorgersene con disdegno e disprezzo. Eppure non saranno proprio questi uomini che non vedono e non pensano i lemuri cui dovrai rendere conto nell’ultimo giorno? Accorgersi che la casa brucia non ti innalza al di sopra degli altri: al contrario, è con loro che dovrai scambiare un ultimo sguardo quando le fiamme si faranno più vicine. Che cosa potrai dire per giustificare la tua pretesa coscienza a questi uomini così inconsapevoli da sembrare quasi innocenti?».
Quanta onestà. Quanta lucidità.
«Negli anni a venire ci saranno sono monaci e delinquenti. E, tuttavia, non è possibile farsi semplicemente da parte, credere di potersi trar fuori dalle macerie del mondo che ci è crollato intorno»
Tuttavia, a differenza di Agamben, noi sappiamo con esattezza a Chi nell’ultimo giorno dovremo rendere conto.
È proprio per questo che, anche prima del COVID, chi voleva aveva già molte risposte (quando è iniziato tutto questo? Perché? Chi tira le fila di questo processo?).
Ed è proprio per questo che, prima che arrivasse la tempesta, noi eravamo già in battaglia – e prefiguravamo l’avvento di questo nuovo totalitarismo molecolare, lo schiacciamento della penultima sovranità rimastaci, quella biologica.
Non sappiamo se il filosofo può riconoscerlo: della chiesa egli ha – giustamente – l’immagine di Bergoglio. Lo scrive nel libro, lo ha detto varie volte in articoli dello scorso anno: la ritirata del cattolicesimo moderno dinanzi al virus è disarmante perfino per un laico.
Chi è addentro alle cose dello spirito sa perfettamente come vanno le cose: il tempo presente è figlio di una crisi spirituale ingenerata da una crisi della dottrina cattolica. Una crisi ingegnerizzata e inoculata artificialmente da qualcuno, le cui trombosi nel corpo dell’umanità durano da decenni, provocando le innumeri sciagure che stiamo vivendo.
Ecco perché, a dire il vero, non avremo voglia di stare in compagnia di chi in tutti questi anni non lo ha percepito – di chi ben prima del virus non aveva capito che la Civiltà sta davvero disintegrandosi – nella sua materia vivente, in ecatombi e sacrifici umani infiniti –, di chi non ha guardato nell’abisso biotico, e visto il problema alla radice.
Epperò quanto ci allieta vedere che c’è ancora qualche pensatore remoto che, anche senza chiamarla con il suo nome, riesce a vedere la Cultura della Morte e a sbatterci addosso il muso.
La casa brucia, professore. Le fiamme sono quelle dell’Inferno.
Con cosa, quindi, possiamo estinguere questo fuoco?
Il filosofo è disposto ad ammetterlo?
Roberto Dal Bosco
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Civiltà
Professore universitario mette in guardia dall’«imperialismo cristiano europeo» nello spazio

La preside di scienze sociali della Wesleyan University Mary-Jane Rubenstein, una «filosofa della scienza e della religione» (che è anche affiliata al programma di studi femministi, di genere e sessualità della scuola), afferma di aver notato come «molti dei fattori che hanno guidato l’imperialismo cristiano europeo» siano stati utilizzati in «forme ad alta velocità e alta tecnologia».
La Rubenstein si chiede se «pratiche coloniali» come «lo sfruttamento delle risorse ambientali e la distruzione dei paesaggi», il tutto «in nome di ideali quali il destino, la civiltà e la salvezza dell’umanità», faranno parte dell’espansione dell’uomo nello spazio.
Lo sfruttamento degli altri corpi celesti, quantomeno nel nostro sistema solare, è stata considerata in quanto vi è una ragionevole certezza che su altri pianeti vicini non vi sia la vita, nemmeno a livello microbico. Quindi, che importanza ha se aiutiamo a salvare la Terra sfruttando Marte, Mercurio, la fascia degli asteroidi, per minerali e altre risorse?
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Rubenstein nota che il presidente della Mars Society Robert Zubrin ha sostenuto esattamente questo. In un editoriale del 2020, Zubrin ha attaccato un «manifesto» da un gruppo NASA DEI (diversità, equità e inclusione) che aveva sostenuto «dobbiamo lavorare attivamente per impedire l’estrazione capitalista su altri mondi».
Ciò «dimostra brillantemente come le ideologie responsabili della distruzione dell’istruzione universitaria in discipline umanistiche possano essere messe al lavoro per abortire anche l’esplorazione spaziale», ha scritto lo Zubrin.
Lo Zubrin ha osservato che poiché il gruppo DEI non ha alcun senso su base scientifica, deve ricorrere a «una combinazione di antico misticismo panteistico e pensiero socialista postmoderno» – come affermare che anche se non ci sono prove nemmeno dell’esistenza di microbi su pianeti come Marte, «danneggiarli sarebbe immorale quanto qualsiasi cosa sia stata fatta ai nativi americani o agli africani».
Tuttavia la Rubenstein afferma che varie credenze indigene «sono in netto contrasto con l’insistenza di molti nel settore sul fatto che lo spazio sia vuoto e inanimato».
Tra questi vi sono un gruppo di nativi australiani che affermano che i loro antenati «guidano la vita umana dalla loro casa nella galassia» (e che i satelliti artificiali sono un pericolo per questa «relazione»), gli Inuit che sostengono che i loro antenati vivono in realtà su “corpi celesti” e i Navajo che considerano sacra la luna terrestre.
«Gli appassionati laici dello spazio non hanno bisogno di accettare che lo spazio sia popolato, animato o sacro per trattarlo con la cura e il rispetto che le comunità indigene richiedono all’industria», afferma la Rubenstein.
In effetti, in una recensione del libro di Rubenstein Astrotopia: The Dangerous Religion of the Corporate Space Race, la testata progressista Vox ha osservato che «in effetti, alcuni credono che questi corpi celesti dovrebbero avere diritti fondamentali propri».
Quindi, l’ordine degli accademici è che gli esseri umani dessero priorità alle credenze dei nativi nell’esplorazione dello spazio rispetto a quelle dei cristiani europei?
Dovremmo rinunciare all’estrazione di minerali preziosi da asteroidi, comete e pianeti vicini, perché hanno tutti una sorta di Carta dei diritti «mistica panteistica»?
I limiti posti ai programmi di esplorazione spaziale sono da sempre legati a movimenti antiumanisti che odiano la civiltà – in una parola alla Cultura della Morte.
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Lo stesso Zubrin, ex dipendente NASA frustrato dalla mancanza di un programma per la conquista di Marte e il suo terraforming, ne ha scritto in libri fondamentali come Merchants of Dispair (2013), dove spiega come la pseudoscienza e l’ambientalismo siano di fatto culti antiumani.
Lo Zubrin era animatore della Mars Society, un’associazione dedicata alla promozione dell’espansione su Marte, quando nei primi anni Duemila si presentò ad una serata del gruppo uno sconosciuto, che alla fine lasciò in donazione un assegno con una cifra inusitata per la Society, ben 5.000 dollari: si trattava di Elon Musk.
Il quale, marzianista convinto al punto da realizzare razzi che dice ci porteranno sul pianeta rosso tra quattro anni, è anche uno dei più accesi nemici del politicamente corretto, della cultura woke e soprattutto dell’antinatalismo, oltre che una persona che attivamente, negli anni – lo testimonia la sua costante attenzione per la storia della Roma antica – ha dimostrato di aver compreso il valore, e la fragilità, della civiltà umana.
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Civiltà
L’anarco-tirannia uccide: ieri ad Udine, domani sotto casa vostra

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Civiltà
Tecnologia e scomparsa della specie umana: Agamben su progresso e distruzione

Renovatio 21 pubblica questo scritto di Giorgio Agamben apparso sul sito dell’editore Quodlibet su gentile concessione dell’autore.
Quali che siano le ragioni profonde del tramonto dell’Occidente, di cui stiamo vivendo la crisi in ogni senso decisiva, è possibile compendiarne l’esito estremo in quello che, riprendendo un’icastica immagine di Ivan Illich, potremmo chiamare il «teorema della lumaca».
«Se la lumaca», recita il teorema, «dopo aver aggiunto al suo guscio un certo numero di spire, invece di arrestarsi, ne continuasse la crescita, una sola spira ulteriore aumenterebbe di 16 volte il peso della sua casa e la lumaca ne rimarrebbe inesorabilmente schiacciata».
È quanto sta avvenendo nella specie che un tempo si definiva homo sapiens per quanto riguarda lo sviluppo tecnologico e, in generale, l’ipertrofia dei dispositivi giuridici, scientifici e industriali che caratterizzano la società umana.
Questi sono stati da sempre indispensabili alla vita di quello speciale mammifero che è l’uomo, la cui nascita prematura implica un prolungamento della condizione infantile, in cui il piccolo non è in grado di provvedere alla sua sopravvivenza. Ma, come spesso avviene, proprio in ciò che ne assicura la salvezza si nasconde un pericolo mortale.
Gli scienziati che, come il geniale anatomista olandese Lodewjik Bolk, hanno riflettuto sulla singolare condizione della specie umana, ne hanno tratto, infatti, delle conseguenze a dir poco pessimistiche sul futuro della civiltà. Nel corso del tempo lo sviluppo crescente delle tecnologie e delle strutture sociali produce una vera e propria inibizione della vitalità, che prelude a una possibile scomparsa della specie.
L’accesso allo stadio adulto viene infatti sempre più differito, la crescita dell’organismo sempre più rallentata, la durata della vita – e quindi la vecchiaia – prolungata.
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«Il progresso di questa inibizione del processo vitale», scrive Bolk, «non può superare un certo limite senza che la vitalità, senza che la forza di resistenza alle influenze nefaste dell’esterno, in breve, senza che l’esistenza dell’uomo non ne sia compromessa. Più l’umanità avanza sul cammino dell’umanizzazione, più essa s’avvicina a quel punto fatale in cui progresso significherà distruzione. E non è certo nella natura dell’uomo arrestarsi di fronte a ciò».
È questa situazione estrema che noi stiamo oggi vivendo. La moltiplicazione senza limiti dei dispositivi tecnologici, l’assoggettamento crescente a vincoli e autorizzazioni legali di ogni genere e specie e la sudditanza integrale rispetto alle leggi del mercato rendono gli individui sempre più dipendenti da fattori che sfuggono integralmente al loro controllo.
Gunther Anders ha definito la nuova relazione che la modernità ha prodotto fra l’uomo e i suoi strumenti con l’espressione: «dislivello prometeico» e ha parlato di una «vergogna» di fronte all’umiliante superiorità delle cose prodotte dalla tecnologia, di cui non possiamo più in alcun modo ritenerci padroni. È possibile che oggi questo dislivello abbia raggiunto il punto di tensione massima e l’uomo sia diventato del tutto incapace di assumere il governo della sfera dei prodotti da lui creati.
All’inibizione della vitalità descritta da Bolk si aggiunge l’abdicazione a quella stessa intelligenza che poteva in qualche modo frenarne le conseguenze negative.
L’abbandono di quell’ultimo nesso con la natura, che la tradizione filosofica chiamava lumen naturae, produce una stupidità artificiale che rende l’ipertrofia tecnologica ancora più incontrollabile.
Che cosa avverrà della lumaca schiacciata dal suo stesso guscio? Come riuscirà a sopravvivere alle macerie della sua casa? Sono queste le domande che non dobbiamo cessare di porci.
Giorgio Agamben
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