Civiltà
Agamben e la casa che brucia
Per chi combatte contro il mondo moderno da ben prima della pandemia, Giorgio Agamben è un bizzarro compagno di strada.
Agamben è uno di quegli italiani che diventano famosissimi in Francia prima che in Italia, come Monica Bellucci e Aldo Maccione.
È stato, per anni, una punta di diamante della parigineria filosofica. Considerando l’eco che essa ha negli atenei di tutto il mondo (da quelli statunitensi a quelli italiani) possiamo dire che egli era a suo modo assiso su un vertice mondiale. Il suo pensiero ha spaziato dall’estetica a – soprattutto – la biopolitica. I cascami autistici di questo sottobosco dorato con i suoi mostri – dall’uxoricida Althuser all’agent provocateur Henry-Levy, dal «pedofilo» Foucault al suicida Deleuze – ci ripugna da che abbiamo capito che le letture che si fanno da ragazzi non è detto che possano avere un qualche ruolo in età adulta. Ma stiamo divagando.
In molti hanno scoperto la figura di Agamben solo l’anno scorso, quando d’un tratto emerse questa voce di filosofo, praticamente unica in Italia e nel mondo, a gridare contro ciò che veniva fatto alla società. Clausura, terrore, mutamento del consorzio umano sin nelle sue forme primarie: degli uomini non si vede più nemmeno la faccia.
In un libro che raccoglie gli articoli del 2020, A che punto siamo (edito da Quodlibet, una casa editrice fondata da suoi allievi), abbiamo letto che vi sono stati grandi giornali nazionali che hanno chiesto un intervento al filosofo per poi, letto quello che scriveva con sincerità, rifiutarsi di pubblicare.
«Quale casa sta bruciando? Il Paese dove vivi o l’Europa o il mondo intero? Forse le case, le città sono già bruciate, non sappiamo da quanto tempo, in un unico immenso rogo, che abbiamo finto di non vedere»
Ecco, questa è la cosa che ci colpisce di più della vicenda di Agamben: il fatto che forse il professore credeva che gli sarebbe stato permesso di esprimersi liberamente – e dire la verità.
Questo smacco, per noi che da anni siamo abituati alle censure e alle derisioni (e, ora, alle delazioni), è significativo. È, a suo modo, un buon segno: il Principe ti mette a tacere solo se dici qualcosa di importante, mentre di tutto il resto – per esempio, la filosofia, la politica, la pornografia – puoi parlare in libertà, perché è intrattenimento narcotico per distogliere la massa dall’unica cosa davvero importante: la vita.
Quest’anno Agamben è uscito con un nuovo libro. Si chiama, molto suggestivamente, Quando la casa brucia.
Si tratta di una sorta di breve scritto poetico-filosofico, compilato in uno stile tutto personale, un po’ solipsistico, un po’ «francese», diremo. Tanto chiaroscuro filosofico. Tanto gergo. Molti concetti coniati per l’occasione. Richiami all’antico. Qua e là, l’odore di Heidegger (l’autore ha una foto assieme al controverso filosofo criptoparafilonazista). L’elogio delle architetture di Carlo Scarpa. Tanti etimi dal latino e dal greco. Perfino qualche giuoco con l’alfabeto ebraico.
Ecco, non possiamo dire che ci sia piaciuto. Non abbiamo più lo stomaco per letture del genere. Perché, appunto, la nostra casa brucia — e se abbiamo il tempo di leggere vogliamo recuperare nel concreto delle tessere del mosaico di questo mondo impazzito. Vogliamo informazioni, analisi, direzioni. Vogliamo chiarezza. Vogliamo ordine.
«Viviamo in caso, in città arse da cima a fondo, come se stessero ancora in piedi, la gente finge di abitarci ed esce per strada mascherata fra le rovina quasi fossero ancora i familiari rioni di un tempo»
Forse abbiamo torto. Perché dentro a questo libricino ci sono parole incredibili, pensieri di lucidità assoluta. C’è il potere totale del pensiero che diventa arte e illumina il buio del mondo.
«Quale casa sta bruciando? Il Paese dove vivi o l’Europa o il mondo intero? Forse le case, le città sono già bruciate, non sappiamo da quanto tempo, in un unico immenso rogo, che abbiamo finto di non vedere. Di alcune restano solo dei pezzi di muro, una parete affrescata, un lembo del tetto, dei nomi, moltissimi nomi già morsi dal fuoco E, tuttavia li ricopriamo così accuratamente con intonachi bianchi e parole mendaci che sembrano intatti. Viviamo in caso, in città arse da cima a fondo, come se stessero ancora in piedi, la gente finge di abitarci ed esce per strada mascherata fra le rovina quasi fossero ancora i familiari rioni di un tempo».
Una descrizione che dipinge nella nostra mente le nostre città piagate dal lockdown, che risulta più vivida di tante foto e video fatti con i droni delle strade deserte nei mesi di confinamento.
«E ora, la fiamma ha cambiato forma e natura, si è fatta digitale, invisibile e fredda, ma proprio per questo è ancora vicina, ci sta addosso e circonda in ogni istante».
Non sapremo definire in modo migliore l’era di sorveglianza bioelettronica di cui il COVID è solo la prima fase di allineamento globale. La «fiamma», di cui parla Agamben, brucia da anni l’intero popolo della Cina Popolare, che si prepara ad esportarla anche da noi.
Il pensiero si fa vertiginoso e totale. Agamben non ha paura di comprendere il problema alla radice, rivolgendosi ad un tema fondamentale per Renovatio 21: la Civiltà.
«E ora, la fiamma ha cambiato forma e natura, si è fatta digitale, invisibile e fredda, ma proprio per questo è ancora vicina, ci sta addosso e circonda in ogni istante»
«Che una civiltà – una barbarie – sprofondi per non più risollevarsi, questo è già avvenuto e gli storici sono abituati a segnare e datare cesure e naufragi. Ma come testimoniare di un mondo che va in rovina con gli occhi bendati e il viso coperto di una repubblica che crolla senza lucidità né fierezza in abiezione e paura? La cecità è tanto più disperata perché i naufraghi pretendono di governare il proprio naufragio, giurano che tutto può essere tenuto tecnicamente sotto controllo, che non c’è bisogno né di un nuovo dio né di un nuovo cielo – soltanto di divieti, di esperti e di medici. Panico e furfanteria».
Panico e furfanteria. Quale definizione migliore per l’ora presente?
E poi sì, riconosciamolo: questo è il momento di chi, con il filosofo Heidegger, si è posto delle domande sul ruolo della tecnica – che oggi chiamiamo tecnologia – nella vicenda umana.
Tecnica è la soluzione alla catastrofe – il vaccino. O almeno, così dicono. (Renovatio 21 crede che il vaccino mRNA sia più che una questione tecnica: è informatica)
Tecnica è con probabilità l’origine della catastrofe – l’Istituto di Virologia di Wuhan e i suoi esperimenti di ingegneria genetica Gain of Function. Questo, invece, non lo dicono, o almeno non tutti, e soprattutto non da subito.
«Da quanto tempo la casa brucia? Da quanto tempo è bruciata? Certamente un secolo fa, fra il 1914 e il 1918, qualcosa è avvenuto in Europa che ha gettato nelle fiamme e nella follia tutto quello che sembrava restare di integro e vivo; poi nuovamente, trent’anni dopo, il rogo è divampato ovunque e da allora non cessa di ardere, senza tregua, sommesso, appena visibile sotto la cenere, ma forse l’incendio è cominciato già molto prima, quando il cieco impulso dell’umanità verso la salvezza e il progresso si è unito alla potenza del fuoco e delle macchine. Tutto questo è noto, e non serve ripeterlo. Piuttosto occorre chiedersi come abbiamo potuto continuare a vivere e pensare mentre tutto bruciava, che cosa restava in qualche modo integro nel centro del rogo o ai suoi margini. Come siamo riusciti a respirare fra le fiamme, che cosa abbiamo perduto, a quale relitto – o a quale impostura – ci siamo attaccati».
«Occorre chiedersi come abbiamo potuto continuare a vivere e pensare mentre tutto bruciava, che cosa restava in qualche modo integro nel centro del rogo o ai suoi margini»
L’incontro dell’umanità con la potenza delle macchine è senz’altro un altro abisso di pensiero che a questo punto diviene inevitabile.
Abbiamo cominciato a pubblicare, in questi mesi, gli scritti di Gunther Anders, il filosofo che per primo si interrogò sul significato della svolta tecnologica che l’umanità aveva intrapreso nel XX secolo con bombe e missili atomici.
Tuttavia, pur evitando l’olocausto termonucleare, la minaccia della tecnologia è divenuta ancora più sottile, onnipervadente.
«Ed ora che non ci sono più fiamme, ma solo numeri, cifre e menzogne, siamo certamente più deboli e soli, ma senza possibili compromessi, lucidi come mai prima d’ora».
Per Agamben la pazzia odierna è il pensiero che un controllo tecnologico – e quindi sanitario e repressivo – sia possibile sulla vita umana.
«È come se il potere cercasse di afferrare a ogni costo la nuda vita che ha prodotto e, tuttavia, per quanto si sforzi di appropriarsene e controllarla con ogni possibile dispositivo, non più soltanto poliziesco, ma anche medico e tecnologico, essa non potrà che sfuggirgli perché è per definizione inafferrabile. Governare la nuda vita è la follia del nostro tempo».
«Ed ora che non ci sono più fiamme, ma solo numeri, cifre e menzogne, siamo certamente più deboli e soli, ma senza possibili compromessi, lucidi come mai prima d’ora»
Emerge qui il concetto, limpidissimo, del mondo-COVID come «dispositivo». Il coronavirus come artificio di controllo.
La domanda abissale, a questo punto, sarebbe: chi è il controllore? Chi ha costruito il dispositivo? Chi lo possiede?
A questa domanda Agamben non sembra rispondere, tuttavia ci dice dell’oggetto del dispositivo: «uomini, ridotti alla loro pura esistenza biologica non sono più umani, governo degli uomini e governo delle cose coincidono».
Sono anche queste parole da meditare in profondità. Il «governo degli uomini e delle cose» è una realtà drammatica e presente. In questo momento, delle «cose», dei microprocessori nutriti ad algoritmi, decidono più di quanto decidano gli uomini – anzi decidono per gli uomini, anzi decidono della sorta degli uomini.
Siamo al compimento di un ideale di tecnocrazia che, pur nel suo modo arruffato e incompleto, era accarezzato dal fondatore di uno dei partiti di governo. Un mondo dove la tecnologia connette e domina gli individui ininterrottamente. Una tecnocrazia dove al potere non ci sono i «tecnici» – come, ad esempio, ai tempi bonari del governo Monti, ma una macchina vera e propria.
È un quadro che conosciamo bene.
«Uomini, ridotti alla loro pura esistenza biologica non sono più umani, governo degli uomini e governo delle cose coincidono»
Così come sappiamo che non è data, né ora né in futuro, la possibilità di toglierci dalla lotta che si prepara.
«Negli anni a venire ci saranno sono monaci e delinquenti. E, tuttavia, non è possibile farsi semplicemente da parte, credere di potersi trar fuori dalle macerie del mondo che ci è crollato intorno. Perché il crollo ci riguarda e ci apostrofa, siamo anche noi soltanto una di quelle macerie e dovremo imparare cautamente a usarle nel modo più giusto, senza farci notare».
Idea post-apocalittica stupenda. Imparare a convivere con le macerie, ché sono anche nostre – con quelle rovine che siamo noi stessi. Nascondere la propria visione, la propria potenza. Ma continuare.
Perché il trauma di questa società divisa in modo nuovo è ancora tutto da elaborare.
«Chi si accorge che la casa brucia, può essere spinto a guardare i suoi simili, che sembrano non accorgersene con disdegno e disprezzo. Eppure non saranno proprio questi uomini che non vedono e non pensano i lemuri cui dovrai rendere conto nell’ultimo giorno? Accorgersi che la casa brucia non ti innalza al di sopra degli altri: al contrario, è con loro che dovrai scambiare un ultimo sguardo quando le fiamme si faranno più vicine. Che cosa potrai dire per giustificare la tua pretesa coscienza a questi uomini così inconsapevoli da sembrare quasi innocenti?».
Quanta onestà. Quanta lucidità.
«Negli anni a venire ci saranno sono monaci e delinquenti. E, tuttavia, non è possibile farsi semplicemente da parte, credere di potersi trar fuori dalle macerie del mondo che ci è crollato intorno»
Tuttavia, a differenza di Agamben, noi sappiamo con esattezza a Chi nell’ultimo giorno dovremo rendere conto.
È proprio per questo che, anche prima del COVID, chi voleva aveva già molte risposte (quando è iniziato tutto questo? Perché? Chi tira le fila di questo processo?).
Ed è proprio per questo che, prima che arrivasse la tempesta, noi eravamo già in battaglia – e prefiguravamo l’avvento di questo nuovo totalitarismo molecolare, lo schiacciamento della penultima sovranità rimastaci, quella biologica.
Non sappiamo se il filosofo può riconoscerlo: della chiesa egli ha – giustamente – l’immagine di Bergoglio. Lo scrive nel libro, lo ha detto varie volte in articoli dello scorso anno: la ritirata del cattolicesimo moderno dinanzi al virus è disarmante perfino per un laico.
Chi è addentro alle cose dello spirito sa perfettamente come vanno le cose: il tempo presente è figlio di una crisi spirituale ingenerata da una crisi della dottrina cattolica. Una crisi ingegnerizzata e inoculata artificialmente da qualcuno, le cui trombosi nel corpo dell’umanità durano da decenni, provocando le innumeri sciagure che stiamo vivendo.
Ecco perché, a dire il vero, non avremo voglia di stare in compagnia di chi in tutti questi anni non lo ha percepito – di chi ben prima del virus non aveva capito che la Civiltà sta davvero disintegrandosi – nella sua materia vivente, in ecatombi e sacrifici umani infiniti –, di chi non ha guardato nell’abisso biotico, e visto il problema alla radice.
Epperò quanto ci allieta vedere che c’è ancora qualche pensatore remoto che, anche senza chiamarla con il suo nome, riesce a vedere la Cultura della Morte e a sbatterci addosso il muso.
La casa brucia, professore. Le fiamme sono quelle dell’Inferno.
Con cosa, quindi, possiamo estinguere questo fuoco?
Il filosofo è disposto ad ammetterlo?
Roberto Dal Bosco
PER APPROFONDIRE
Abbiamo parlato di
In affiliazione Amazon
Civiltà
Chiediamo l’abolizione degli assessorati al traffico
Renovatio 21 propone una soluzione apparentemente drastica, ma invero assai realistica, ad uno dei problemi che affligge l’uomo moderno: il traffico.
Non si parla di una questione da niente, e ci rendiamo conto che essa pertiene propriamente alla catastrofe del mondo odierno, e proprio per questo serve una modifica radicale di carattere, soprattutto, istituzionale.
Lo aveva capito il genio di Marshall McLuhan: «La strada è la fase comica dell’era meccanica (…) Il traffico è l’aspetto comico della città» (Gli Strumenti del comunicare, 1964). Il culmine comico dell’era dell’industria: la civiltà costruisce strade ed automobili per muoversi in libertà e rapidità, e si ritrova imbottigliata per ore, innervosita, massacrata da miriadi di leggi, restrizioni, multe.
Il traffico è un fenomeno generatore di caos e dolore, di isterie e sprechi – il tutto subito sulla nostra pelle, ogni singolo giorno – al quale nessuno sembra trovare soluzione, soprattutto quanti sarebbero preposti a risolverlo. Costoro sembrano invece, consapevoli o no, impegnati nell’aggravarsi del dramma.
Davanti a noi abbiamo la degradazione continua, inarrestabile della mobilità urbana. È difficile trovare qualcuno che possa dire che il traffico è migliorato, o che una soluzione azzeccata adottata su una qualche strada non sia stata poi azzerata da una scelta successiva, calata, come tutte, dall’alto, sul cittadino schiavo inerme.
Crediamo che uno dei motivi di tale regressione diacronica ed ubiqua sua l’esistenza dei cosiddetti assessorati al traffico, che si chiamano in vari modi (uffici mobilità, dipartimento dei trasporti, direzione viabilità), ma che sono tutti costruiti attorno ad uno assunto semplice: spendere un determinato budget per cambiare le strade.
Sostieni Renovatio 21
Probabilmente la questione è davvero così semplice: nell’impossibilità di non spendere l’ammontare di danaro assegnato (grande tabù per qualsiasi ente pubblico: i soldi che risparmi non generano un premio, ma una diminuzione della cifra che arriva l’anno dopo) gli assessori e i loro scherani non possono che mettere mano ovunque, con decisioni a volte incomprensibili, a volte ideologiche, e quasi sempre dannosissime.
Ecco che, perché l’assessorato deve fare qualcosa, invertono un senso unico, cagionando il disorientamento totale del cittadino automunito, che d’un tratto si trova non solo multato, ma anche al centro di un pericolo per sé e per gli altri. Ricordiamo le tecniche dei missionari: cambiare la forma del villaggio è aprire la mente dell’indigeno all’altro, qui tuttavia non c’è il Vangelo a dover essere diffuso, ma il nulla di una decisione burocratica stupida e gratuita – gratuita per modo di dire, perché anche per un’inezia del genere vi è un costo non indifferente per il contribuente.
Ecco che, perché l’assessore deve finire sui giornali, l’area viene pedonalizzata: ZTL laddove prima potevi passare per portare i figli a scuola o fermarti nel negozietto (che ne patirà, ovvio, le conseguenze). Sempre considerando che le ZTL sono da vedersi come riserve indiane degli elettori dei partiti di sinistra, gli unici che possono permettersi di vivere in centro.
Ecco che, perché l’assessore deve far carriere nel partitello con le fisime ecologiche, laddove c’erano due corsie ce ne troviamo una sola, con una, perennemente vuota, riservata ad autobus che fuori dalle ore di scuola sono oramai solo utilizzati da immigrati che con grande probabilità non pagano il biglietto e in caso potrebbero pure picchiare il controllore (succede, lo sapete). Il risultato è, giocoforza, un imbottigliamento ancora più ferale, un’eterogenesi dei fini per politica ecofascista che è, in ultima analisi, solo una mossa di PR inutile quanto oscena.
Ecco la sparizione di parcheggi gratuiti – grande segno della fine della Civiltà – così da scoraggiare, come da comandamento di Aurelio Peccei, l’uso dell’auto che produce anidride carbonica, orrenda sostanza per qualche ragione alla base della chimica organica e quindi della vita stessa, soprattutto quella umana. Chi va all’Estero – non in Giappone, ma in un Paese limitrofo come l’Austria – sogna vedendo la quantità di parcheggi sotterranei creati attorno alle cittadine, senza tanti problemi per gli scavi al punto che, con recente politica, il rampollo Porsche si è fatto il suo tunnel che lo porta da casa al centro di Salisburgo in un batter d’occhio.
Il superamento del traffico attraverso la dimensione infera è stato compreso, con la solita mistura di genio e concretezza, da Elon Musk con la sua Boring Company: se vuoi migliorare la tragedia del traffico l’unico modo di farlo è andando verso il basso, anche se sembrerebbe che il prossimo misterioso modello di Tesla, la Roadster, potrebbe poter operare verso l’alto. Noi, tuttavia, non abbiamo Elone, abbiamo gli assessori al traffico.
E poi, i capolavori – sempre trainati da ideologia verde, interessi cinesi impliciti e tagli di nastro sul giornale – della «micromobilità», con i monopattini e le bici «free-floating» rovinate, abbandonate e utilizzate, in larghissima parte, dalle masse di eleganti africani, che magari con esse si spostano con più agilità per certe loro attività, come lo spaccio di droga: massì, vuoi non pagargli, oltre che vitto-alloggio-acqua-gas elettricità-internet-telefonino-avvocato-sanità-bei vestiti alla moda anche dei mezzi di trasporto con cui, appunto, possono evitare il traffico? Tipo: un inseguimento di una gazzella della Polizia nel traffico contro un criminale in monopattino, come finisce? L’eterogenesi dei fini qui non è nemmeno comica, è tragicomica, o tragica e basta.
Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21
Potremmo continuare con la lista. Laddove c’era una rotonda che funzionava meglio di un semaforo (ogni tanto, qualcuna la devono azzeccare, ma non dura) ecco che te la cancellano e ci mettono cordoli, fiori, pianticelle, magari perfino un monumento orrendo o una fontana lercia.
Laddove c’era una strada larga, eccotela divorata da un nuovo mega-marciapiede che non usa nessuno, se non i ciclofascisti zeloti, i quali tuttavia divengono presto vittime della follia viabilitaria, con sensi unici e corsie di trenta centimentri anche per i velocipedi.
Laddove c’era una strada dritta che in 50-100 metri ti portava allo snodo, loro, per farti arrivare al medesimo punto, ti costruiscono una deviazione di mezzo chilometro che ti manda sotto un supermercato, un tribunale, una palestra, una pizzeria, appartamenti di lusso e uffici pubblici – insomma un bel progetto di complessone che qualcuno deve aver costruito e in qualche modo venduto, con tutti incuranti del fatto che se all’esame di urbanistica all’Università proponevi una cosa del genere venivi bocciato seduta stante.
Laddove devono costruire una tangenziale, magari con decenni di ritardo, ti rendi conto che si dimenticano di fare le uscite nei comuni che attraversa e ci fanno l’immissione con uno stop invece di una corsia di accelerazione, con il risultato che entri a 0 km/h in una strada dove da sinistra ti arriva uno che viaggia ufficialmente a 70-90 km/h, che poi divengono sempre 100-120 km/h se non, nel caso del tizio con l’Audi in leasing, cinque vaccini e chissà cos’altro in corpo, perfino di più.
E non parliamo dei casi di corruzione che saltano fuori in quegli uffici – dove ci sono appalti, ci sono mazzette, uno pensa. Ma non è nemmeno questo il punto: nel disastro, gli effetti della malizia possono essere indistinguibili da quelli dell’ebetudine conclamata dei soggetti e del sistema.
È difficile, davvero, trovare qualcosa di positivo in quello che fanno quanti sono politicamente preposti al miglioramento della mobilità – cioè dell’esistenza – dei cittadini. Il motivo, lo ripetiamo, è strutturale: gli assessorati sono macchine strutturate per modificare, cioè complicare, le cose. In pratica, sono l’essenza stessa della burocrazia, con effetti fisici però immediati e devastanti.
Iscriviti al canale Telegram ![]()
La soluzione a tutto questo potrebbe essere davvero facile-facile: abolizione completa degli assessorati al traffico. Con essa, si perderebbe l’incentivo strutturale a cambiare sempre e comunque tutto, e a valutare con più responsabilità le innovazioni.
Immaginiamo che se la viabilità fosse fra le mansioni dirette del sindaco, cioè se la responsabilità fosse la sua, le decisioni sulla mobilità sarebbero più dosate e sensate, perché esposte al popolo con il quale il primo cittadino ha certo un rapporto più diretto, nonché mediato dal voto, passato e soprattutto futuro.
È una proposta che non sappiamo se sia già stata fatta. Certo si possono valutare cose anche più radicali: come la punizione per quanti complicano e distruggono la viabilità delle nostre città. Lo sappiamo, è la mancanza di castigo che crea aberrazioni ed orrori, con la devastazione di tanta parte d’Italia dovuta a questo principio di irresponsabilità della casta politico-burocratica.
La realtà è che, per ottenere qualcosa, il cittadino sincero-democratico automunito deve arrabbiarsi molto di più. Non basta ringhiare al bar, o imprecare dentro l’abitacolo, magari pure, a certe latitudini, suonando il clacsone. Non serve alimentare un sistema che, alla fine, continua a produrre assessori al traffico, e traffico.
No, serve davvero di più. Perché l’auto è davvero un mezzo di libertà, e aggiungiamo, di vita – l’auto è uno strumento della famiglia. Chi vuole togliervela – come quelli di Davos, le cui idee percolano poi giù giù fino al vostro assessorino – odia la vita, odia voi e i vostri figli.
Chiedere l’abolizione degli assessorati al traffico ci sembra il minimo che possiamo fare se vogliamo sul serio lottare per la Civiltà.
Roberto Dal Bosco
Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21
Civiltà
«Pragmatismo e realismo, rifiuto della filosofia dei blocchi». Il discorso di Putin a Valdai 2025: «la Russia non mostrerà mai debolezza o indecisione»
Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21
Sostieni Renovatio 21
Iscriviti al canale Telegram ![]()
Aiuta Renovatio 21
Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21
Sostieni Renovatio 21
Aiuta Renovatio 21
Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21
Civiltà
La lingua russa, l’amicizia fra i popoli, la civiltà
Lo scorso 20 settembre l’ambasciatore della Federazione Russa in Italia, Alexey Paramonov, ha aperto le porte della sua residenza romana agli studenti italiani di lingua e letteratura russa presso la scuola della Casa Russa.
Io c’ero. Eravamo in tanti, dall’estremo Nord della penisola fino alla Sicilia.
Dell’accoglienza, impeccabile, nella splendida cornice di Villa Abamelek, ha colpito sopratutto ciò che è andato oltre i canoni della diplomazia: ci hanno conquistati la cordialità e il calore con cui l’ambasciatore si è rivolto a noi che, attraverso la via maestra della lingua, mostriamo il desiderio di avvicinarci alla sensibilità e alla cultura di un popolo la cui storia in parte parla anche italiano.

In un tempo in cui i codici comunicativi tendono inesorabilmente a immiserirsi, omologarsi, imbarbarirsi, intraprendere lo studio di un idioma identitario dalla straordinaria ricchezza espressiva – anche perché flesso e quindi più che mai duttile – e avventurarsi nei suoi meandri stilistici e nelle sue sonorità arcane, implica essere attratti dalla civiltà che ne è nutrita. Una civiltà, infatti, vive dentro la sua lingua – dentro la lingua che le fa da madre.
Per molte ragioni, sondate e insondate, il richiamo è reciproco. Sono rimasta ammirata, in questi anni, dalla conoscenza profonda che tanti russi vantano del nostro patrimonio artistico e letterario e dalla curiosità inesausta con cui continuano a esplorarlo.
Ancor più, sono rimasta stupita dall’affetto che, nonostante tutto, essi continuano a manifestare per l’Italia e per gli italiani.
Come per me, così per altri studenti con cui ho avuto modo di confrontarmi, cominciare a scoprire questa lingua dalle infinite suggestioni è stata sì una scelta figlia della passione per la cultura lussureggiante che ne è intessuta, ma non solo: discende anche da una reazione istintiva alla demonizzazione illogica, innaturale, assurda, di tutto quanto proviene da una nazione legata all’Italia da un rapporto di scambio e di amicizia radicato nei secoli. Vuole essere un modo concreto per tendere la mano a un popolo che non ci è mai stato ostile.
Davanti alla mono-narrazione mediatica che ci è imposta senza soluzione di continuità, impermeabile alle fonti e a ogni voce alternativa; davanti a decisioni sciagurate di amministrazioni sciagurate giunte fino a impunemente bandire concerti di musicisti russi, gare di atleti russi, conferenze su grandi autori russi, siamo in tanti a sentire la necessità e il dovere di alzarci e dire: non in mio nome.
Elisabetta Frezza
Sostieni Renovatio 21
Renovatio 21 pubblica il discorso tenuto il 20 settembre agli studenti e amici della lingua russa dall’ambasciatore della Federazione Russa in Italia Aleksey Paramonov. Il discorso è stato pubblicato sul sito del ministero degli Esteri di Mosca.
Cari amici!
È proprio così che mi rivolgo a Voi, poiché chi è amico della lingua russa lo è anche della Russia e dell’Ambasciata russa in Italia. Vi do il benvenuto qui a Villa Abamelek, luogo dove si parla russo già da oltre 120 anni.
La lingua è strettamente legata alla mentalità e allo spirito di ciascun popolo. Sotto questo aspetto, la lingua russa è molto vicina a quella italiana. Nella vostra lingua, infatti, si riflette tutta la profondità storica che è propria di una civiltà romanza. Anche la lingua russa, così come la vostra lingua italiana, è l’articolata, pluridimensionale manifestazione di una civiltà, e non soltanto uno strumento atto a consentire la comunicazione. Non intendo certo offendere nessuno, ma ai nostri giorni la lingua inglese, anziché farsi mezzo di espressione culturale, si tramuta sempre più in uno strumento vuoto e privo di anima.
Per noi russi, la lingua e la cultura hanno un valore a sé. Noi appoggiamo l’istanza secondo cui l’identità etnica e culturale di ciascun individuo debba essere rispettata e debba trovare realizzazione nella libera interazione con altri individui. Noi promuoviamo l’importanza di quei valori che sono fondamentali ed eterni, e difendiamo il loro primato sui dettami legati al profitto e alle logiche del mercantilismo. Ci opponiamo fermamente a ogni tentativo di sfruttare la lingua, lo sport, la cultura e l’arte, così come altri aspetti dell’attività umana, come strumento per raggiungere scopi di carattere geopolitico. Tanto più se il fine è quello di dare prova della propria superiorità ed esclusività.
Oggi, per noi la cosa più importante è che quanti più individui possibile abbiano accesso a conoscenze oggettive sulla Russia, che la percepiscano e la accolgano nella sua completezza e in tutta la sua molteplicità. Noi non ci chiudiamo né ci nascondiamo da nessuno, al contrario dell’Unione Europea. Certo, potremmo non essere ancora un «Giardino dell’Eden», ma di sicuro non siamo la giungla. Il nostro è un «Giardino dei ciliegi». I «giardinieri» di Bruxelles non ci servono.
In occasione della recente presentazione del Concorso Musicale Intervision, il ministro degli Affari Esteri della Federazione Russa Sergej Lavrov si è espresso in modo molto chiaro: «Se osserviamo [l’attuale] contesto globale, la comunicazione tra le persone più diverse si rende necessaria adesso più che mai. Stanno cercando di dividerci, di costruire nuovi “muri”, stanno imponendo sanzioni e inasprendo le normative sui visti per tagliare fuori i russi dall’Occidente. In tali circostanze, la comunicazione saprà consolidare quelle naturali tendenze positive che spingono l’umanità a perseguire una sua evoluzione; umanità che, peraltro, in generale desidera soltanto vivere in pace e in prosperità, nonché avere la possibilità di comunicare e di farsi partecipe delle culture degli altri popoli».
Perciò, comunichiamo. Noi siamo sempre pronti e disposti alla comunicazione.
Ma parliamo adesso di ciò che riguarda il bello. Il grande scrittore russo Nikolaj Gogol’, originario dell’Ucraina, in una lettera indirizzata al suo amico Sergej Aksakov nel dicembre 1844, seppe descrivere con grande accuratezza la ricchezza della lingua russa: «di fronte a Voi si estende la vastità: è la lingua russa! E allora un profondo piacere Vi chiama, il piacere di immergerVi in tutta la sua immensità e di comprenderne le meravigliose leggi …».
Anche lo scrittore russo Konstantin Paustovskij seppe esprimersi in maniera accurata e concisa sulla lingua russa: «con la lingua russa si possono fare miracoli. Non esiste nulla, nella vita così come nella nostra coscienza, che non possa trovare espressione attraverso le parole russe. Le sonorità della musica, lo splendore dei colori in tutto il loro spettro cromatico, i giochi di luce, i rumori e le ombre nei giardini, quella vaghezza sperimentata in sogno, il grave brontolio del temporale, il bisbigliare dei bambini, fino allo scalpiccio generato dalla ghiaia sul mare. Non esistono suoni, colori, immagini o pensieri per i quali nella nostra lingua non vi sia già un’espressione ben precisa».
Dal bello, passiamo adesso al lato pratico. Al giorno d’oggi, la lingua russa è parlata da 255 milioni di persone in tutto il mondo. La lingua russa si trova al quinto posto tra le lingue più parlate. Il russo è lingua ufficiale o di lavoro in ben 15 organizzazioni internazionali. Da questo punto di vista, la lingua russa occupa la quarta posizione dopo l’inglese, il francese e lo spagnolo.
Il sistema di istruzione in Russia, nel quale rientra anche l’insegnamento della lingua russa, è aperto a tutti. La Russia si colloca tra i primi 10 Paesi al mondo per numero di studenti stranieri. Si stima che quest’anno il numero di studenti stranieri nelle università russe supererà le 400 mila unità, mentre si prevede che entro il 2030 tale cifra raggiungerà le 500 mila unità.
Ahimé, amici miei, questo lo si deve perlopiù all’incremento del numero di studenti provenienti dai Paesi dell’Africa, dell’America Latina, dell’India e del Medio Oriente.
Tuttavia, anche per gli italiani che desiderano studiare in Russia, la via di accesso alle nostre università è sempre aperta. Gli studenti italiani possono studiare nelle principali università russe gratuitamente, dopo aver superato una selezione che permette loro di ottenere una borsa di studio statale. Di tale procedura si occupa la Casa Russa a Roma. Già da questi giorni sarà possibile presentare la domanda, che potrà pervenire fino alla scadenza del 15 gennaio 2026. Non lasciatevi sfuggire questa opportunità. La quota di domande pervenute da studenti stranieri si distribuisce su tutte le specializzazioni e su tutti i programmi di studio sulla base dei medesimi requisiti stabiliti per i cittadini russi.
Sebbene in Italia il russo non sia la lingua più studiata, essa comunque occupa una nicchia importante; e la sua importanza è in crescita in una situazione caratterizzata da un ordine mondiale in rapida evoluzione, dal rafforzamento, al suo interno, del multipolarismo e dall’avvento dei BRICS e dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai sul proscenio globale, nonché dal processo di creazione delle basi fondanti di quel Grande Partenariato Eurasiatico dal quale non siano esclusi neppure i Paesi situati sull’estremità più occidentale del continente eurasiatico. E diviene quindi ancor più prezioso il vostro contributo, cari amici, al consolidamento della tendenza legata allo studio della lingua russa in Italia. A frequentare i corsi della Casa Russa a Roma siete già in più di 600. Continuate così!
Desidero altresì esprimere la mia più sincera gratitudine dei confronti dei docenti di lingua e letteratura russa delle università di Catania, Venezia, Firenze, Roma e delle altre città italiane per il costante supporto mostrato nei confronti delle nostre iniziative, nonché per il fatto che, persino nel complesso momento attuale, sapete restare fedeli alla vostra missione. State portando avanti quel nobile lavoro, iniziato ormai più di 500 anni fa, atto ad avvicinare la Russia e l’Italia.
Il grande scrittore classico Ivan Turgenev, nel suo poema in prosa del 1882, che appunto si intitola «Lingua russa», scrisse: «Nei giorni del dubbio, nei giorni segnati dalla difficile e dolorosa riflessione sul destino della mia patria, tu sola sei per me di appoggio e di supporto, oh grande, potente, veritiera, libera lingua russa!».
Per questo motivo desidero rivolgermi a tutti coloro che in Italia parlano, leggono, scrivono, riflettono, amano e creano in lingua russa, o che soltanto adesso si apprestano ad immergersi nel meraviglioso mondo russo. Non lasciatevi cogliere da alcun dubbio! Sappiate che qui voi non siete soli! Le porte dell’Ambasciata della Federazione Russa in Italia e della Casa Russa a Roma rimarranno sempre aperte per Voi, per le Vostre iniziative e per i Vostri progetti, e accoglieranno sempre ogni opportunità di cooperazione culturale e umanistica. Perché dopotutto siamo amici, non è forse così?
Vi ringrazio per l’attenzione!
Alexej Paramonov
Iscriviti alla Newslettera di Renovatio 21
Immagini da Telegram
-



Autismo2 settimane faIl più grande fattore di rischio per l’autismo? Bombardare i bambini piccoli con vaccini multipli
-



Vaccini2 settimane faI gravi effetti avversi del vaccino nei tribunali tedeschi
-



Misteri2 settimane faHalloween festa di sangue: lista aggiornata dell’orrore
-



Necrocultura2 settimane faLa generazione perduta nel suo egoismo
-



Salute1 settimana faI malori della 44ª settimana 2025
-



Ambiente6 giorni faLe mucche danesi crollano dopo l’aggiunta al mangime del prodotto anti-peti al metano
-



Fertilità1 settimana faI leggings stanno facendo diventare le donne sterili?
-



Civiltà1 settimana faChiediamo l’abolizione degli assessorati al traffico









