Pensiero
Telegram e la Francia vettore del Nuovo Ordine

Non crediamo sia un caso che proprio a Parigi abbiano arrestato Pavel Durov, il fondatore di Telegram di origini russe residente negli Emirati. Egli, ricordiamolo, dal 2021 è anche cittadino francese. Il suo aereo, atterrato all’aeroporto di Le Bourget e diretto a Dubai, era partito da Baku, Azerbaigian, dove qualche giorno fa per combinazione si trovava anche il presidente Putin (ma non ci sono ancora elementi concreti per ricamarci sopra qualcosa).
Di Durov non si sa molto. Raramente ha concesso interviste, ma nell’aprile di quest’anno si è confessato davanti alle telecamere di Tucker Carlson. Ha raccontato, tra l’altro, di essere cresciuto a Torino e che suo fratello andò in TV da Mike Bongiorno per dimostrare che un bambino può risolvere un’equazione di terzo grado.
Sapevamo che l’Europa gliela aveva giurata, accusando Telegram di mentire sul numero dei suoi utenti per non essere sottoposto alla mannaia del Digital Service Act (DSA), l’eurolegge che di fatto apre alla censura totale della rete. A promuoverla forsennatamente è, guarda caso, un commissario francese, Thierry Breton, che, dopo mesi di minacce, è arrivato pochi giorni fa a mandare una lettera di avvertimento a Elon Musk per la sua intervista con Trump su X – una lettera, pare incredibile, che non aveva prima condiviso con la Commissione Von der Leyen. Musk, di suo, ha dichiarato che la UE gli aveva offerto sottobanco un accordo segreto sulla censura e che lo avrebbe rifiutato in nome della libertà di parola.
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Ora sul capo di un altro social piuttosto libero piovono le accuse: Telegram complice dei pedofili, dei riciclatori di danaro e dei narcotrafficanti. Sono le medesime accuse che venivano mosse a tutta internet – cioè, alla rete in sé come fenomeno – a metà negli anni Novanta, quando il sistema non aveva ancora trovato il modo di inglobarla.
Soprattutto, sono le medesime accuse rivolte contro Facebook-Meta, e non solo dai giornali, ma dalle procure di Stati Americani, con relative udienze al Congresso dove Zuckerberg è interrogato e umiliato, sì, ma mai arrestato. Il doppiopesismo è evidente a chiunque.
Elon Musk se lo spiega in grande tranquillità: alla domanda sul perché non perseguano il capo di Meta per lo spazio concesso ai predatori di bambini, risponde «perché ha già ceduto alle pressioni della censura. Instagram ha un enorme problema di sfruttamento minorile, ma nessun arresto per Zuck, poiché censura la libertà di parola e fornisce ai governi un accesso backdoor ai dati degli utenti».
Because he already caved into censorship pressure.
Instagram has a massive child exploitation problem, but no arrest for Zuck, as he censors free speech and gives governments backdoor access to user data. https://t.co/RTTGIaD0gA https://t.co/iPb5NIxIJN
— Elon Musk (@elonmusk) August 25, 2024
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Durov aveva dichiarato a Carlson di essere fuggito dagli USA quando le pressioni delle agenzie di sicurezza erano divenute fortissime, al punto da entrargli in casa al mattino mentre faceva colazione, o di avvicinare i suoi collaboratori per tirarli dalla loro parte: volevano una «backdoor», la possibilità di entrare in Telegram e spiarne ogni dato. Di fatto, pretendevano di controllare la piattaforma e le persone che ne fanno uso.
Perché allora colpire Durov adesso, dopo aver lasciato che per anni Telegram divenisse una piazza, oltre che una fonte, fondamentale per chi si opponeva alla follia pandemica prima, alla pazzia antirussa poi? La risposta può essere sconcertante, ma vale la pena di darsela: perché adesso devono fare la guerra davvero.
Telegram è sopravvissuto a proposte di bando in Germania e in Ucraina, a sospensioni e vere e proprie chiusure in Paesi come Spagna e Somalia. Ora viene attaccato alla radice, con l’incarcerazione della sua stessa mente. È evidente che la sacca di libertà rimasta deve essere rimossa, perché in guerra funziona così – le comunicazioni del nemico vanno azzerate. Non è solo questione di propaganda, va proprio vietata la circolazione di qualsiasi idea diversa da quelle che servono al potere per sostenere lo sforzo al conflitto.
Non si tratta di illazioni, ma di semplice strategia militare. La guerra è iniziata da un decennio almeno.
Secondo Mike Benz, ex funzionario dell’amministrazione Trump esperto del sistema di censura informatico-informativa, tutta la questione della sorveglianza sui social sarebbe nata ben prima della pandemia: corrisponderebbe a una decisione adottata nei centri di potere almeno nel 2014, con l’annessione della Crimea, poi rafforzata con la Brexit nel 2016. Già a quel punto si era capito come i social, foraggiati dalla CIA nella Silicon Valley sin dai loro albori e utilizzati con destrezza nelle cavalcate delle Primavere Arabe del 2011, non rispondessero più ai comandi.
Ecco che Benz parla di una ridefinizione dell’intero sistema su impulso della NATO, al fine di portare il mondo a vivere sotto una vera «military rule», di fatto sotto legge marziale. Quello che è concesso o vietato dire, insomma, lo decidono i generali.
A Parigi, pochi mesi fa, il top generale della Francia macroniana, Pierre Schill, aveva affermato che il conflitto nell’Europa orientale ha «cambiato le dinamiche del combattimento» perché, oltre ai progressi chiave sul campo di battaglia – come un uso più ampio di droni e l’adattamento militare delle tecnologie civili –, la crisi ha dimostrato come il flusso di informazioni debba essere controllato «per influenzare l’opinione pubblica nazionale e internazionale».
«L’esercito svolge un ruolo cruciale nel dominio dell’informazione», aveva ammesso il generale Schill. «Senza la capacità di convincere e contrastare l’influenza avversa, qualsiasi impegno militare può fallire. L’emergere dei social network ha rafforzato questa nozione e ha notevolmente accelerato la diffusione delle informazioni, vere o false, aumentandone il volume, la portata e la risonanza».
Schill è lo stesso generale che gestiva la tanto strombazzata operazione ucraina di Macron, il quale, come si ricorderà, di punto in bianco pochi mesi fa prese a minacciare Mosca di un intervento diretto nel teatro di guerra, con qualche velleità, si disse, di inviare truppe NATO ad Odessa. Il generale fece sapere pubblicamente che il suo esercito era pronto alla guerra (tra Paesi, rammentiamolo, muniti di testate termonucleari).
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Avevamo tentato di dare risposte metafisiche all’improvvisa fregola pantoclastica di Marcon. Dopo la costituzionalizzazione dell’aborto (primo Paese al mondo!), il presidente sembrava ossessionato dal dover far detonare la Terza Guerra Mondiale. Perché?
Il motivo forse lo abbiamo visto stampato in mondovisione alle Olimpiadi non olimpiche, celebrate peraltro in assenza del nemico russo e bielorusso.
Quel teatro è stato scelto per manifestare urbi et orbi che a Parigi regna un potere anticristiano, antiumano, sadico e ossesso, satanico davvero. Nella cerimonia di apertura si sono visti bambini imbarcati con una sorta di Caronte e portati nelle catacombe. Si è vista la parodia blasfema dell’Ultima Cena con transessuali e lesbiche obese (e, in mezzo, sempre bambini), tra rimandi pagani multilivello.
Si è vista la decapitazione di una regina cattolica, la cui testa tagliata canta un canto sanguinario sanculotto, mentre cascate di sangue scendono dalle finestre del palazzo in cui era rinchiusa.
Si è visto un cavaliere dell’apocalisse che cammina sulle acque della Senna e consegna la bandiera olimpica a un drappello militare. E a margine, abbiamo appreso di atleti costretti a mangiare vermi, a trascorrere notti insonni per mancanza di climatizzazione, e di ragazze picchiate da maschi, di nuotatori costretti a gareggiare in acque putride, ed ammalarsene seriamente.
In pratica, la Francia si presenta oggi come il vettore principale del Nuovo Ordine, il paziente zero del Regno dell’anticristo. La dimensione spirituale ha un riflesso immediato nella geopolitica: la Russia, ultima nazione a difendere la morale cristiana (la morale umana), va attaccata e abbattuta.
E così accusano Durov di complicità nella pedofilia nel Paese dove lo stesso presidente, mesi fa, si spese personalmente contro la censura di un’«opera d’arte» accusata di significanze pedofile.
È curioso soprattutto considerato il caso specifico: qualche commentatore d’Oltralpe ancora se lo chiede, come sia possibile che al potere, senza che la stampa proferisca parola, sia finito un giovane (secondo la narrativa) sedotto dalla sua insegnante di liceo. La realtà forse è più complessa di così, secondo alcuni che indagano la materia, ma la questione rimane: cosa è stato davvero intronato con l’elezione di Emmanuel Macron?
Se Telegram sparirà per mano francese è perché Parigi ora è l’epicentro del regno di Satana in fase di caricamento. Un regno che non è solo dissoluzione estrema, sadismo e pederastia: è anche morte e devastazione. Di portata globale, nucleare.
Roberto Dal Bosco
Elisabetta Frezza
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Pensiero
La metamorfosi di Trump tra l’Iran e Israele: spietata, sanguinaria arte del deal

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Oggi la faccenda è molto cambiata. Trump ha maltrattato Israele e il suo premier, al punto da suggerire, con l’idea bislacca di Gaza resa paradisiaco resort mediterraneo, l’idea che lo Stato Giudaico non avrà mai il controllo della striscia necessaria al compimento del disegno del «Grande Israele». Con evidenza, tuttavia, ha lasciato mano libera, intuendo una debolezza attuale attorno all’Iran. La Russia e la Cina interverranno a favore di Teheran? Il potere dell’ayatollah sulla popolazione è così saldo? Sono calcoli che deve aver fatto, mentre diviene chiaro a cosa sia servito il viaggio in Arabia dello scorso mese, e quel lungo, denso discorso sulla fine della politica neocon – quindi, per paradosso, la fine della bava alla bocca contro l’Iran. A Riyadh, e negli altri regni del Golfo, Trump ha riprogrammato, deal dopo deal, l’asse del Medio Oriente, orientandolo più verso la Mecca che verso la Repubblica Islamica (che, fuori da regno dei Sauditi, tra i sunniti, godeva comunque di una presa non indifferente).Officials in #Iran have released a 3D animated video depicting the targeting of former President Donald Trump at his Mar-A-Lago golf course. This sequence is in revenge for killing IRGC General Qasem Soleimani. pic.twitter.com/2h1giUrlFx
— Jake Hanrahan (@Jake_Hanrahan) January 13, 2022
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Pensiero
Referendum sul divorzio 2025: quello di sindacati e compagni dalla realtà

Il referendum sul lavoro dipendente e l’invasione migratoria è fallito, tuttavia quello sul divorzio 2025 è riuscito: possiamo dire, senza ombra di dubbio, che non andando a votare gli italiani hanno ratificato il divorzio dalla realtà di istituzioni, enti, corpi sociali, vescovadi ed interi partiti politici.
Il mondo reale, ora è certificato democraticamente, è separato totalmente dai cascami sovietici della grande mangiatoia repubblicana: nessuno ha votato per i loro quesiti. Anzi andiamo oltre: nessuno sapeva davvero quali fossero.
Non è stato captato interesse, nessuno davvero, per il referendum – e questo al di là del fine settimana al mare. Attorno a me, non solo non c’è una persona che sia andata a votare, ma nemmeno che sapesse per cosa si votasse.
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Ognuno ha capito, senza bisogno di tante spiegazioni, che erano fisime sul feticcio del lavoro, cose di un mondo che sul serio non esiste più: mentre la gente arranca nella rovina post-industriale, ci parlano di licenziamenti illegittimi, giudici che decidono le indennità di licenziamento per le piccole imprese, contratti a tempo determinato, responsabilità di appaltatori e pure committenti sugli infortuni sul lavoro. Poi la ciliegina: 5 anni di residenza in Italia acciocché gli immigrati divengano cittadini italiani a tutti gli effetti.
Non uno di questi temi – e son dovuto andare a guardarmeli ora, ad urne chiuse, perché anche io ci ero volato sopra serenissimo – pare avere attinenza con la realtà. Non uno sembra essere allineato con il sentimento non solo della classe produttiva (compresi i dipendenti) ma del cittadino quivis de populo: rendiamo gli immigrati che stanno mettendo a ferro e fuoco le città subito italiani?
Maranza al voto? Sì: così poi però, invece che il Partito Maranza, ci troviamo il Partito Islamico – chiunque può fare questo pensiero, chiunque è finito per sentire ed ammettere, e in tutto il pianeta (FPO primo partito in Austria, Le Pen rampante in Francia, AfD in vetta in Germania… e Trump alla Casa Bianca) che la migrazione massiva è un problema da risolvere, non da facilitare.
Tutti lo sanno, tranne la sinistra e i sindacati. I quali, per fare bella figura e spingere sempre più gente a votare, hanno pensato bene pure di farsi vedere che litigano a sangue. Il che vuol dire, il divorzio ce lo hanno anche loro, infra: la parte piddina oramai metamorfosata in partito neoliberale e neoradicale di massa mai poteva votare per l’abrogazione del Jobs act.
Personalmente, mi impressiona non poco la questione dei sindacati. Ininfluenti sul piano politico (il referendum lo sancisce incontrovertibilmente), invisibili sul piano sociale (quante persone conoscete che sono state aiutate da un sindacato?), sono tuttavia realtà ricchissime, dove la cornucopia diviene sempre più visibile sullo sfondo di una società in sfacelo.
Voglio raccontarvi un angolo della mia città, quello dove svetta il palazzotto del principale sindacato, tetro ed eloquente con la sua colata di cemento grigio e il logo rosso che spunta in cielo: poco più avanti, c’era un’edicola, ora c’è uno dei quei buchi pieni di distributori automatici con dentro tutto: bibite, preservativi, cartucce per le sigarette elettroniche, latte, cioccolatini, olio da massaggio (che in realtà ipotizziamo serva agli invertiti, e non per massaggiarsi), cracker, e su tutto le casseforti cibernetiche che fanno da casella postale Amazon, grande simbolo del lavoro in Italia.
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A pochi metri, c’era un negozio di giocattoli e cartotecnica, durato decadi, con il nome di una famiglia cimbra: un posto eccezionale, che conoscevo da bambino, e in cui credo di aver fatto in tempo qualcosa anche per il primo figlio. Ora, invece, c’è una succursale del sindacato – la cui sede, ripetiamo, è lì a trenta metri – ci fanno dentro non so cosa, dalle vetrine si vede un bell’ufficio modernissimo, illuminato anche di notte, con il cartellino «Open» alla porta, neanche fosse un diner americano stile Happy Days.
In breve: il tessuto produttivo italiano è andato, da mo’, in malore: ma il sindacato proprio no. Anzi: può approfittare ed espandere il suo raggio. Ciò non vale solo per le quisquilie immobiliari. Il sindacato, in realtà, da diversi ha lanciato una vera e propria espansione morale. Ecco la crociata al Consiglio d’Europa per cancellare l’obiezione di coscienza sull’aborto in Italia.
Ecco la sollecitudine sui vaccini, che come abbiamo rilevato su Renovatio 21, è iniziata ben prima della pandemia, con ad esempio gli appelli ai pensionati (si allargano proprio: sono lavoratori, i pensionati?) a fare il vaccino antinfluenzale, nonostante in quegli anni ogni tanto sui giornali c’era qualche timido articolo sulla possibilità di qualche lotto assassino… per non parlare dei vaccini pediatrici (anche i bambini non sono lavoratori, ma pazienza), dove quando entrò in vigore la legge Lorenzin nel 2017 ad esempio a Palermo i sindacati lanciarono l’allarme sul fatto che c’erano pochi vaccinatori, bisognava assumere.
Insomma: come da piramide di Maslow, il sindacato è talmente ricco da aver soddisfatto tutti gli strati inferiori (bisogni fisiologici, bisogni di sicurezza, di appartenenza, di stima) e fluttua al vertice, dove può perseguire il fine dell’autorealizzazione: creatività, spiritualità moralità. Non c’è da ridere: questa è la sola spiegazione scientifica che trovo se penso al sindacato che si occupa di libero feticidio e sierizzazioni – e di concertoni rock, i quali, come detto dal poeta oramai lustri anni fa, in effetti hanno un po’ «rotto i coglioni».
Il sindacato è come un vecchio aristocratico, un nobile di quelli stile Gattopardo: il mondo è cambiato totalmente, e in teoria ti rifiuta pure, ma tu sai che invece starai lì, hai la sicurezza della tua ricchezza, e quindi può permetterti di correre dietro al superfluo, le amanti, le speculazioni di pensiero, etc.
Dobbiamo capire che tale nobiltà parassita ha in Italia un colpevole precipuo: la Costituzione. La quale essendo nata da comunisti e da democristiani (cioè, la specie creata in laboratorio da massoni e angloamericani per lasciare libero il passaggio a comunisti e liberali), è leggermente «sovietica», amava dire Silvio Berlusconi, al punto da mettere l’idolatria del lavoro in testa alla Carta stessa, e poi a dettagliare il goscismo istituzionali in altri articoli.
Come l’articolo 39: «L’organizzazione sindacale è libera. Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge. È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica. I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce».
In pratica, dice la Costituzione più bella dello mondo, sindacato libero! Sindacati per tutti! Ma allora, perché sono così pochi? Perché non sono usciti nuovi sindacati a fare concorrenza a quelli divorziati dalla realtà? Magari ci sono pure: ma non prendiamoci in giro, sappiamo tutti che siamo dinanzi a logiche di feudo, un feudo ultramiliardario, inscalfibile, intoccabile, invincibile.
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Vediamo, tuttavia, che a potersi permettere il divorzio dal reale: ecco che la Carta sovietica d’Italia prevede addirittura la creazione di un ente che talmente tante persone potrebbero definire inutile da farci sopra un referendum – anche quello fallito, forse a causa del giovane borioso premier-genio che aveva accluso il voto per abolire il Senato. Parliamo, ovviamente, del CNEL.
Articolo 99 della Costituzione della Repubblica Italiana: «Il Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro è composto, nei modi stabiliti dalla legge, di esperti e di rappresentanti delle categorie produttive, in misura che tenga conto della loro importanza numerica e qualitativa». Ebbene sì, il CNEL ha copertura costituzionale. Noi, confessiamo apertamente, non abbiamo idea di cosa faccia, e crediamo di non essere gli unici: ma, sapete, nella nostra Repubblica basta la parola «lavoro» e si può fare tutto, tranne obiettare i sieri genici sperimentali.
Un vecchio amico – nel senso, un signore anziano, che dal suo incarico per una grande azienda ne ha viste molte – mi diceva di un conoscente che, per ragioni a caso, era stato messo a fine carriera al CNEL, ed era felicissimo, perché neanche lui capiva bene quale fosse questo lavoro, ma lo stipendio arrivava. Non siamo in grado di verificare questa notizia, tuttavia, un po’ come per i quesiti del referendum 2025, come una immane porzione di popolazione italica non sentiamo l’impulso ad approfondire. Un altro ente, un altro turbine di leggi, uffici, salari, lontani anni luce dalla mia libertà, dalla difficoltà di tirare avanti la carretta tutti i mesi: ma chi davvero ha la forza per pensarci?
È quindi con questa mesta rassegnazione che registro come il divorzio in Italia sia stato approvato per referendum una seconda volta: il divorzio tra le istituzioni sociali – mica scordiamo l’ente sociale chiamato CEI, con il cardinale Zuppi che aveva invitato a recarsi alle urne – e la società stessa, che non vuole più saperne di loro e delle loro proposte, che non sono solo irrilevanti, sono con evidenza nocive, contrarie in tutto e per tutto alla percezione attuale del bene comune.
Lo sappiamo: la rassegnazione non va bene. Ma capiteci: abbiamo paura di dire qualsiasi cosa.
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Il sindacato può comunicare apertis verbis di non voler difendere i lavoratori (per il vaccino mRNA, e magari i soldini del Recovery Fund), può cambiare volti di leader che non ci colpiscono esattamente per il pensiero (il tizio con il diastema, il baffotto bianco, l’occhio mandorlato che scrive le prefazioni dei romanzi di Philip Dick, l’orsetto democristiano, la tizia flemmatica che fuma, quello professorale con gli occhiali spessi e la pelle tra il diafano e il rosso, il sindacalista metalmeccanico professionista), travasandoli poi in larga parte, autista e scorta e quant’altro, alle elezioni politiche per il voto feudale automatico dei soliti partiti della sinistra postcomunista e democristiana.
Come tutto questo non inorridisca i lavoratori, non sappiamo dirlo, ma tuttavia ora sappiamo che inorridisce assai gli elettori. I quali elettori, che non sono principi e conti che possono vivere di rendite politico-costituzionali, dalla realtà non vogliono divorziare, altri, loro non possono.
Come non possono permettersi di avere, a decidere per loro, qualcuno che, come Landini due anni fa, comizia letteralmente a favore del «Nuovo Ordine Mondiale». Cioè ciò che, con nel silenzio se non nel tifo del sindacato stesso, ha distrutto il loro lavoro, la loro famiglia, la loro esistenza.
Roberto Dal Bosco
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Immagine di Maritè Toledo via Flickr pubblicata su licenza CC BY-NC-ND 2.0
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