Pensiero
L’Europa e il Nuovo Ordine Mondiale secondo il cardinale Ratzinger

Renovatio 21 pubblica il testo del discorso che Joseph Ratzinger, allora cardinale prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede, pronunziò a Cernobbio l’8 settembre 2001, tre giorni prima della distruzione delle Torri Gemelle.
Questo scritto – destinato al noto evento dell’élite italiana e mondiale sul Lago di Como – circola da anni in rete, e mostra con evidenza le differenze ravvisabili tra il Ratzinger cardinale e il Ratinger papa, per non parlare del Ratzinger «papa emerito», condizione inflitta dal tedesco alla cristianità con la sua rinuncia nel 2013, forse a seguito di complotti indicibili che, pure usciti come scoop, il mondo pare essersi dimenticato.
Nel testo è chiaro come il cardinale Ratzinger avesse presente la questione dei programmi mondialisti di riduzione della popolazione (qui accennata con l’espressione «numerus clausus») e l’ascesa del gender, di cui già allora le menti cattoliche rimaste lucide potevano vedere la portata.
Tuttavia, è necessario sottolineare come le conferenze ONU del Cairo e di Pechino, che del gender furono trampolini di lancio (nonché, come raccontava monsignor Schooyans ne Il complotto ONU contro la vita, ripetuto esercizio di tiro al piccione contro il cattolicesimo, lo Stato Vaticano e i suoi rappresentanti) non siano perentoriamente condannate dal cardinale bavarese, che pare anche piuttosto benigno nei confronti dell’UE – c’è da capire che erano gli anni in cui il papato woytyliano, di cui il Ratzinger era grande stakeholder teologico-filosofico, brigava per ottenere da Bruxelles la famosa inserzione del cristianesimo come radice dell’Europa in documenti e dichiarazioni. Ratzinger, da cardinale, aveva espresso determinate posizioni definite dalla stampa come «intransigenti» – sulla Turchia in Europa, sul rapporto con le chiese scismatiche – sulle quali poi ha fatto 180° da papa. Divenuto Benedetto XVI, Ratzinger avrebbe in altre occasioni accennato al Nuovo Ordine Mondiale – cosa che inquieta anche chi ricorda le parole di estrema lucidità che negli anni aveva pronunciato sull’Apocalisse e la possibile manifestazione «numerica» moderna.
L’idea esposta al seminario degli abbienti di Cernobbio secondo cui la dignità umana – concetto che è possibile ritenere politicamente fondamentale per un cristiano – costituisca un «assoluto» – quando assoluto, per logica, è solo Iddio – costituisce uno scivolamento verso l’antropocentrismo tipico del pensiero post-conciliare, che avvicinò la chiesa sempre più al «dirittoumanismo» tipico dell’ONU, una tendenza che ci ha portati dritti all’era Bergoglio con la chiesa trasformata in una mega-ONG che si occupa, più che della dignità data all’uomo da Dio, di immigrazione e «diritti» vari, sempre più spesso quelli genderisti.
Realtà che costituivano grandi avversari del papato, come l’ONU, ora sono entrati in sovrapposizione totale con la Santa Sede. Si tratta del senso finale di una cospirazione che va avanti da secoli: uccidere Dio, innalzare l’uomo. Per poi, ovviamente, uccidere anche l’uomo – perché esso, invariabilmente, è Imago Dei, immagine del Signore.
RDB
Cosa è l’Europa? Cosa può e deve essere nel quadro complessivo della situazione storica, nella quale ci troviamo all’inizio del terzo millennio cristiano? Dopo la Seconda Guerra Mondiale la ricerca di una identità comune e di una meta comune per l’Europa è entrata in una nuova fase.
Dopo le due guerre suicide, che nella prima metà del ventesimo secolo avevano devastato l’Europa e coinvolto il mondo intero, era divenuto chiaro, che tutti gli Stati europei erano perdenti in questo terribile dramma e che si doveva fare qualunque cosa per evitare la sua ulteriore ripetizione.
L’Europa era sempre stata in passato un continente di contrasti, sconvolto da molteplici conflitti. Il secolo diciannovesimo aveva poi portato con sé la formazione degli Stati nazionali, i cui interessi contrastanti avevano dato una dimensione nuova alla contrapposizione distruttiva.
L’opera di unificazione europea era determinata essenzialmente da due motivazioni.
Di fronte ai nazionalismi che dividevano e di fronte alle ideologie egemoniche, che avevano radicalizzato la contrapposizione nella Seconda Guerra Mondiale, la comune eredità culturale, morale e religiosa dell’Europa doveva plasmare la coscienza delle sue nazioni e dischiudere come identità comune di tutti i suoi popoli la via della pace, una via comune verso il futuro.
Si cercava una identità europea, che non doveva dissolvere o negare le identità nazionali, ma unirle invece a un livello di unità più alto in una unica comunità di popoli.
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La storia comune doveva essere valorizzata come forza creatrice di pace. Non vi è alcun dubbio che presso i padri fondatori dell’unificazione europea l’eredità cristiana era considerata come il nucleo di questa identità storica, naturalmente non nelle forme confessionali; ciò che è comune a tutti i cristiani sembrava comunque riconoscibile al di là dei confini confessionali come forza unificante dell’agire nel mondo.
Non sembrava neppure incompatibile con i grandi ideali morali dell’illuminismo, che avevano per così dire messo in risalto la dimensione razionale della realtà cristiana e al di là di tutte le contrapposizioni storiche sembrava senz’altro compatibile con gli ideali fondamentali della storia cristiana dell’Europa.
Nei singoli particolari questa intuizione generale non è mai stata ben chiarita del tutto con evidenza; in questo senso sono rimasti qui dei problemi, che esigono di essere approfonditi. Nel momento degli inizi tuttavia la convinzione della compatibilità fra le grandi componenti dell’eredità europea era più forte dei problemi, che esistevano al riguardo.
A questa dimensione storica e morale, che stava all’inizio della unificazione europea, si univa però anche una seconda motivazione.
Il dominio europeo sul mondo, che si era espresso soprattutto nel sistema coloniale e nelle conseguenti connessioni economiche e politiche, con la fine della Seconda guerra mondiale era definitivamente concluso: in questo senso l’Europa come insieme aveva perduto la guerra.
Gli Stati Uniti d’America campeggiavano ora sulla scena della storia mondiale come potenza dominatrice, ma anche il Giappone sconfitto divenne una potenza economica di pari livello, e finalmente l’Unione Sovietica rappresentava con i suoi Stati satelliti un impero, sul quale soprattutto gli Stati del Terzo Mondo cercavano di appoggiarsi in contrapposizione all’America e all’Europa occidentale.
In questa nuova situazione i singoli Stati europei non potevano più presentarsi come interlocutori di pari livello. L’unificazione dei loro interessi in una struttura europea comune era necessaria, se l’Europa voleva continuare ad avere un peso nella politica mondiale.
Gli interessi nazionali dovevano unirsi insieme in un comune interesse europeo. Accanto alla ricerca di un’identità comune derivante dalla storia e creatrice di pace, si poneva l’autoaffermazione di interessi comuni, vi era quindi la volontà di divenire una potenza economica, ciò che rappresenta il presupposto della potenza politica.
Nel corso dello sviluppo degli ultimi cinquant’anni questo secondo aspetto dell’unificazione europea è divenuto sempre più dominante, anzi, quasi esclusivamente determinante. La moneta comune europea è l’espressione più chiara di questo orientamento dell’opera di unificazione europea: l’Europa si presenta come un’unità economica e monetaria, che come tale partecipa alla formazione della storia e reclama un suo proprio spazio.
Karl Marx ha proposto la tesi secondo cui le religioni e le filosofie sarebbero solo sovrastrutture ideologiche di rapporti economici. Ciò non corrisponde totalmente alla verità, si dovrebbe piuttosto parlare di un’influenza reciproca: atteggiamenti spirituali determinano comportamenti economici, situazioni economiche influenzano poi e loro volta retroattivamente modi di vedere religiosi e morali.
Nell’edificazione della potenza economica Europa – dopo gli inizi di orientamento più etico e religioso – era determinante in modo sempre più esclusivo l’interesse economico. Ma ora si rivela nondimeno in modo sempre più chiaro che all’edificazione di strutture e di imprese economiche si accompagnano anche decisioni culturali, che all’inizio sono presenti in modo quasi irriflesso, ma poi esigono con forza di essere chiarificate in modo esplicito.
Le grandi conferenze internazionali come quelle del Cairo e di Pechino sono espressione di una tale ricerca di criteri comuni dell’agire, sono qualcosa di più che una manifestazione di problemi. Le si potrebbero definire come una sorta di concili della cultura mondiale, nel corso delle quali dovrebbero venire formulate certezze comuni ed essere elevate a norme per l’esistenza dell’umanità.
La politica della negazione o della concessione di aiuti economici è una forma di imposizione di tali norme, al riguardo delle quali ci si preoccupa soprattutto del controllo della crescita della popolazione mondiale e dell’obbligatorietà universale dei mezzi previsti per questo scopo.
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Le antiche norme etiche della relazione fra i sessi, come vigevano in Africa nella forma delle tradizioni tribali, nelle grandi culture asiatiche come derivate dalle regole dell’ordine cosmico e nelle religioni monoteistiche a partire dal criterio dei dieci comandamenti, vengono dissolte attraverso un sistema di norme, che da una parte si fonda sulla piena libertà sessuale, dall’altra però ha come contenuto fondamentale il «numerus clausus» della popolazione mondiale e i mezzi tecnici predisposti allo scopo. Una tendenza analoga si riscontra nelle grandi conferenze sul clima.
In entrambi i casi l’elemento che spinge a ricercare norme è il timore di fronte al carattere limitato delle riserve dell’universo. In entrambi i casi si tratta da una parte di difendere la libertà del rapporto umano con la realtà, ma dall’altra di arginare la conseguenza di una libertà illimitata.
Il terzo tipo di grandi conferenze internazionali, l’incontro delle potenze economiche dominanti per la regolazione dell’economia divenuta globale è diventato il campo di battaglia ideologico dell’era postcomunista. Mentre da una parte tecnica ed economia sono intese come veicolo della libertà radicale degli uomini, la loro onnipresenza con le norme ad essa inerenti viene ora avvertita come dittatura globale e combattuta con una furia anarchica, nella quale la libertà della distruzione si presenta come un elemento essenziale della libertà umana.
Che cosa significa tutto questo per il problema dell’Europa? Significa che il progetto orientato unilateralmente alla costruzione di una potenza economica ora di fatto produce da se stesso una specie di nuovo sistema di valori, che deve essere collaudato per saggiarne la sue capacità di durata e di creare futuro.
La Charta europea recentemente approvata potrebbe essere caratterizzata come un tentativo di trovare una via di mezzo fra questo nuovo canone di valori e i valori classici della tradizione europea.
Come una prima indicazione sarà certamente di aiuto. Ambiguità in punti importanti mostrano nondimeno in modo evidente la problematicità di un tale tentativo di mediazione. Una discussione di fondo sulle questioni soggiacenti non potrà essere evitata. Ciò non è possibile naturalmente nel quadro di questa relazione. Vorrei soltanto cercare di precisare un po’ meglio i problemi che si tratterà di affrontare.
I padri dell’unificazione europea dopo la Seconda guerra mondiale – come abbiamo visto – erano partiti da una fondamentale compatibilità dell’eredità morale del cristianesimo e dell’eredità morale dell’illuminismo europeo. Nell’illuminismo la concezione biblica di Dio era stata mutata in una duplice direzione sotto l’influsso della ragione autonoma: il Dio creatore e sostentatore, che continuamente sostiene e guida il mondo, era divenuto colui che semplicemente aveva dato inizio all’universo. Il concetto di rivelazione era stato abbandonato.
La formula di Spinoza «Deus sive natura» potrebbe essere considerata per molti aspetti come caratteristica della visione dell’illuminismo. Ciò significa però pur sempre che si credeva ad una specie di natura divinamente plasmata e alla capacità dell’uomo di comprendere questa natura e anche di valutarla come istanza razionale.
Il marxismo aveva invece introdotto una rottura radicale: l’attuale mondo è un prodotto dell’evoluzione senza una sua razionalità; il mondo ragionevole l’uomo deve solo farlo emergere dal materiale grezzo irragionevole della realtà.
Questa visione – unita alla filosofia della storia di Hegel, al dogma liberale del progresso e alla sua interpretazione socio-economica – condusse all’attesa della società senza classi, che doveva apparire nel progresso storico come prodotto finale della lotta delle classi e così divenne l’idea morale normativa ultimamente unica: è buono ciò che serve all’avvento di questa condizione di felicità, è cattivo ciò che vi si oppone.
Oggi ci troviamo in un secondo illuminismo, che non solo ha lasciato dietro di sé il «Deus sive natura», ma ha anche smascherato come irrazionale l’ideologia marxista della speranza e al suo posto ha postulato una meta razionale del futuro, che porta il titolo di nuovo ordine mondiale e ora deve divenire a sua volta la norma etica essenziale. Resta in comune con il marxismo l’idea evoluzionistica di un mondo nato da un caso irrazionale e dalle sue regole interne, che pertanto – diversamente da quanto prevedeva l’antica idea di natura – non può contenere in sé nessuna indicazione etica.
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Il tentativo di far derivare dalle regole del gioco dell’evoluzione anche regole del gioco per l’esistenza umana, quindi una specie di nuova etica, è in verità assai diffuso, ma poco convincente.
Crescono le voci di filosofi come Singer, Rorty, Sloterdijk, che ci dicono che l’uomo avrebbe ora il diritto e il dovere di costruire un mondo nuovo su base razionale. Il Nuovo Ordine Mondiale, della cui necessità non si potrebbe dubitare, dovrebbe essere un ordine mondiale della razionalità. Fin qui tutti sono d’accordo.
Ma cosa è razionale? Il criterio di razionalità viene assunto esclusivamente dalle esperienze della produzione tecnica su basi scientifiche. La razionalità è nella direzione della funzionalità, dell’efficacia, dell’accrescimento della qualità della vita.
Lo sfruttamento della natura, che vi è connesso, diviene sempre più un problema a motivo dei disagi ambientali che stanno divenendo drammatici. Con molta maggiore disinvoltura avanza frattanto la manipolazione dell’uomo su di se stesso.
Le visioni di Huxley divengono decisamente realtà: l’essere umano non deve più essere generato irrazionalmente, ma prodotto razionalmente. Ma dell’uomo come prodotto dispone l’uomo. Gli esemplari imperfetti vanno scartati, per tendere all’uomo perfetto, sulla via della pianificazione e della produzione.
La sofferenza deve scomparire, la vita essere solo piacevole. Tali visioni radicali sono ancora isolate, per lo più in molte maniere attenuate, ma il principio di comportamento, secondo cui è lecito all’uomo fare tutto ciò che è in grado di fare, si afferma sempre di più. La possibilità come tale diviene un criterio per sé sufficiente. In un mondo pensato in modo evoluzionistico è anche di per sé evidente che non possano esistere valori assoluti, ciò che è sempre cattivo e ciò che è sempre buono, ma la ponderazione dei beni rappresenta l’unica via per il discernimento di norme morali. Ciò però allora significa che scopi più elevati, presunti risultati ad esempio per la guarigione di malattie, giustificano anche lo sfruttamento dell’uomo, se solo il bene sperato appare abbastanza grande.
Ma così nascono nuove oppressioni, e nasce una nuova classe dominante. Ultimamente, del destino degli altri uomini, decidono coloro che dispongono del potere scientifico e coloro che amministrano i mezzi. Non restare indietro nella ricerca diviene un obbligo cui non ci si può sottrarre, che decide esso stesso la sua direzione.
Quale consiglio si può dare all’Europa e al mondo in questa situazione? Come specificamente europea in questa situazione appare oggi proprio la separazione da ogni tradizione etica e il puntare solo sulla razionalità tecnica e le sue possibilità.
Ma non diverrà in realtà un ordine mondiale con questi fondamenti un’utopia dell’orrore?
Non ha forse bisogno l’Europa, non ha forse bisogno il mondo proprio di elementi correttivi e partire dalla sua grande tradizione e dalle grandi tradizioni etiche dell’umanità?
L’intangibilità della dignità umana dovrebbe diventare il pilastro fondamentale degli ordinamenti etici, che non dovrebbe essere toccato.
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Solo se l’uomo si riconosce come scopo finale e solo se l’uomo è sacro e intangibile per l’uomo, possiamo avere fiducia l’uno nell’altro e vivere insieme nella pace. Non esiste nessuna ponderazione di beni che giustifichi di trattare l’uomo come materiale di esperimento per fini più alti.
Solo se noi vediamo qui un assoluto, che si colloca al di sopra di tutte le ponderazioni di beni, noi agiamo in modo veramente etico e non per mezzo di calcoli.
Intangibilità della dignità umana – ciò significa allora anche che questa dignità vale per ogni essere umano, che questa dignità vale per ciascuno che abbia un volto umano e appartenga biologicamente alla specie umana. Criteri di funzionalità non possono qui avere alcun valore. Anche l’essere umano sofferente, disabile, non ancora nato è un essere umano.
Vorrei aggiungere che a questo deve essere unito anche il rispetto per l’origine dell’uomo dalla comunione di un uomo e di una donna. L’essere umano non può divenire un prodotto. Egli non può essere prodotto, può solo essere generato. E perciò la protezione della particolare dignità della comunione fra uomo e donna, sulla quale si fonda il futuro dell’umanità, deve essere annoverata fra le costanti etiche di ogni società umana.
Ma tutto questo è possibile solo, se acquisiamo anche un senso nuovo per la dignità della sofferenza. Imparare a vivere significa anche imparare a soffrire. Perciò è richiesto anche rispetto per il sacro. La fedeltà nel Dio creatore è la più sicura garanzia della dignità dell’uomo. Non può essere imposta a nessuno, ma poiché è un grande bene per la comunità, può avanzare la pretesa del rispetto da parte dei non credenti.
È vero: la razionalità è un contrassegno essenziale della cultura europea. Con questa, da un certo punto di vista, essa ha conquistato il mondo, perché la forma di razionalità sviluppatasi innanzitutto in Europa informa oggi la vita di tutti i continenti. Ma questa razionalità può divenire devastante, se essa si separa dalle sue radici e innalza a unico criterio la possibilità tecnica di poter fare. Il legame con le due grandi fonti del sapere – la natura e la storia – è necessario.
Ambedue gli ambiti non parlano semplicemente di per sé, ma da entrambi può derivare un’indicazione di cammino. Lo sfruttamento della natura, che si ribella a un utilizzo indiscriminato, ha messo in movimento nuove riflessioni circa le indicazioni di cammino, che derivano dalla natura stessa.
Dominio sulla natura nel senso del racconto biblico della creazione non significa utilizzazione violenta della natura, ma la comprensione delle sue possibilità interiori ed esige così quella forma accurata di utilizzazione, nella quale l’uomo si mette al servizio della natura e la natura a servizio dell’uomo. L’origine stessa dell’uomo è un processo insieme naturale ed umano: nella relazione fra un uomo e una donna l’elemento naturale e quello spirituale si uniscono nello specificamente umano, che non si può disprezzare senza danno.
Così anche le esperienze storiche dell’uomo, che si sono riflesse nelle grandi religioni, sono fonti permanenti di conoscenza, di indicazioni per la ragione, che interessano anche colui che non può identificarsi con nessuna di queste tradizioni. Riflettere prescindendo da esse e vivere senza prenderle in considerazione, sarebbe una presunzione, che alla fine lascerebbe l’uomo disorientato e vuoto.
Con tutto questo non si è data nessuna risposta conclusiva all’interrogativo circa i fondamenti dell’Europa. Si è voluto semplicemente tracciare le linee del compito, che ci sta davanti. Lavorarci è urgente.
Joseph Ratzinger
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Pensiero
Voi che uccidete Dio. E noi che lo permettiamo

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Pensiero
Il re della morte parla in Parlamento. La democrazia italiana applaude

È una tremenda verità rivelata, quasi per isbaglio, da un kolossal non riuscitissimo di una ventina di anni di fa.
Ricordate? Il futuro imperatore, adepto del Lato Oscuro, si presentava a camere galattiche unite per proclamare la «riorganizzazione» della Repubblica e, implicitamente, l’avvento di un impero totalitario sotto il suo comando.
«Così muore la democrazia, tra scroscianti applausi» commentava la senatrice che aveva capito il piano diabolico.
La frase non è esattamente questa – forse il film di Giorgio Lucas diceva «libertà» invece che «democrazia», ma sappiamo come nel fondale di cartapesta dello Stato moderno queste parole sono intercambiabili. La verità contenuta in questa battuta, tuttavia, la riteniamo incontrovertibile.
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Specie dopo aver visto lo spettacolo allucinante del Re britannico che pontifica nel cuore della sedicente democrazia italiana, il Parlamento. Di certo, un’esperienza rivelatoria, su tanti, troppi livelli. Perché il discorso che ha fatto, con tutti i tasti politici, geopolitici, metapolitici toccati con decisione, ha un’importanza storica di conferma sia del rapporto di sudditanza occulta tra Roma e Londra sia del ruolo metafisico che Albione e gli Windsor hanno nella storia del mondo.
Notate come i giornali, e gli ebeti che si fanno riempire la testa delle loro menzogne, abbiano sottolineato, nel discorso di re Carlo, il fatto che abbia citato Dante e persino «parlato», per qualche secondo, in Italiano. Cioè: ha letto da un foglio. Applausi.
Come se il re parlasse davvero la nostra lingua, con la tranquillità di utilizzare il connettivo «peraltro», che i parlamentari di interi partiti italiani mai pronunciato in vita loro, ammesso che sappiano che esistano gli avverbi.
Certo, voleva fare il figurone, come, peraltro, lo aveva fatto a Parigi due anni fa: Renovatio 21 ne parlò, il repubblicano Macron gli organizzò un festone, con quantità di divi veri (da Mick Jagger in giù) a… Versailles, luogo che ovviamente oggi ha un suo significato preciso. Lì, nel più totale disprezzo della plebe che venivano da mesi in erano stati proibite perfino i pranzi di Pasqua in famiglia e da costi energetici insostenibili, tra banchetti e sfarzo assoluto, il Carlo aveva dimostrato di parlare un francese ottimo, come una volta usava nell’Inghilterra che studiava.
Cost of living crisis? That’s just for the plebs. Meanwhile at the Palace of Versailles, King Charles, President Macron and various celebrities and politicians indulged in a lavish State Banquet back in 2023.pic.twitter.com/CmjkjvRAbM
— James Melville 🚜 (@JamesMelville) September 6, 2024
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Carlo nel lusso di Versailles, ospite dei figli della Rivoluzione francese. Era come dire: i re rimangono re, se sono dalla nostra parte.
Ci viene in mente, tuttavia, che la poliglossia dei reali britannici ci aveva fornito, in passato, un’altra visione, secondo alcuni (quelli che non conoscono la storia dell’aristocrazia europea, e degli Windsor) inquietante: il principe Filippo, padre di Carlo, che parla un tedesco ultrafluente. Gli Windsor, dove Filippo ha appeso il cappello, sono in realtà una famiglia della nobiltà germanica, i Sassonia Coburgo-Gotha, e Windsor è un nome preso da un paesino di campagna a caso (un rebranding si direbbe nel marketing) per sembrare più inglesi.
È proprio lui, il principe di Edimburgo, consorte della regina Elisabetta: quello che aveva giurato di volersi reincarnare in un patogeno in grado per uccidere milioni di persone. Come sa il lettore di Renovatio 21, l’ambientalismo, cioè l’antiumanismo, è una costante degli Windsor, vera famiglia della morte, e viene trasmesso, a quanto sembra, geneticamente.
E l’antiumanismo ereditario è tornato anche nel discorso di Roma, con i nostri rappresentanti a spellarsi le mani: quando con il secondo avvento di Trump pare essere cominciato il tramonto dell’ambientalismo di Stato e dei suoi dogmi, ecco che il re proclama l’emergenza del Cambiamento Climatico (argomento da cui, abbiamo visto, pare guadagnarci…), con tutte le solite storielle ripetute a pappagallo: le tempeste che ora sono ogni anno invece che ogni generazione, etc. Piove, governo ladro, avrebbe detto i mazziniani – che del resto erano pagati e programmati proprio dagli inglesi.
Anche questo, incredibilmente, è stato detto dal re nel suo discorsone: l’importanza del supporto inglese a Garibaldi, che poi andava ospite dagli inglesi. Chi conosce la vera storia dell’Italia unita non può che sorridere, nell’amarezza più profonda: il re sbatte in faccia agli italiani il fatto che, con il Risorgimento (fiancheggiato e ideato dai britannici), la penisola è divenuta uno Stato vassallo di Londra.
Si tratta di un momento di sincerità storica che, infine, va apprezzato, anche se un pat-pat – di quelli che operano sui loro amati cagnolini – in testa a qualche rappresentante democratico italiano avrebbe completato il quadretto in modo consono.
Poi, l’Ucraina: il messaggio è lo stesso, sempre. Tre anni fa lo aveva detto agli italiani anche Boris Johnson prima di mollare Downing Street: fate il governo che volete, ma continuate ad armare e sostenere Kiev.
Il re britannico ordina all’Italia di immolarsi nella sua guerra, quella che Londra porta avanti da almeno duecento anni: il «Grande Gioco» dello scontro di Albione, potenza talassocratica, con la Russia, potenza tellurica, per il controllo del mondo. La teoria della Heartland del pioniere della geopolitica Alfred Mackinder – l’idea per cui chi controlla il centro dell’Eurasia controlla il mondo – è venuta dopo, quando già Londra combatteva una guerra occulta con i russi nell’India, Pakistan, Afghanistan di Kipling.
L’enormità storica e metastorica del discorso di Carlo si fa, per noi, intollerabile. Ma, che volete farci, da queste parti si ha una visione delle cose di un certo tipo. Non possiamo pensare che gli altri la pensino come noi… oppure sì?
Perché, effettivamente, l’immagine più significativa offerta da Carlo in Parlamento riguarda chi era al suo lato. Da una parte, il presidente della Camera Ignazio La Russa, un uomo cresciuto nel MSI e ora militante in FDI, partiti che definiscono post-fascisti, dove la fiamma contenuta nel loro simbolo, raffigurerebbe la fiaccola che arde sulla tomba di Benito Mussolini a Predappio.
Benito Mussolini, quello che la giovane Meloni definiva come «statista», e che aveva diffuso quell’espressione chiarissima: «la perfida Albione».
Come non farsi venire in mente l’impressionante manifesto di Gino Boccasile (1901-1952) che celebrava la distruzione di Londra da parte dei V2 tedeschi.
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Insomma: chi è cresciuto nella destra italiano aveva della Gran Bretagna una certa idea. Almeno fino a Fini, che, notate, prima di essere mandato a Gerusalemme con la kippah, aveva fatto i suoi giri di sdoganamento a Londra – dove peraltro, altro mistero, ad una certa hanno cominciato a rifugiarsi gli estremisti neri che avevano la Giustizia italiana alle calcagna…
La Russa sorride e batte le mani sul fianco destro del re della «perfida Albione». Sul fianco sinistro un’altra figura che, in teoria, proviene da una cultura non esattamente anglofila il tradizionalismo cattolico. Un giro che legge la storia britannica, e le sue ramificazioni mondiali, in modo un po’ diverso da come viene presentata: dal tradimento di Enrico VIII all’assassinio del cattolico Guido Fawkes, eroe fatto squartare dal re per aver cospirato per il ritorno del cattolicesimo in terra anglica, dalla follia della Chiesa anglicana alla decadenza dei costumi recenti proveniente dalla swinging london, dalla massoneria alle persecuzioni dei cattolici nei secoli.
E niente, anche da parte cattolica: sorrisi e applausi.
E sì che, anche senza essere integristi con il pallino della storia del mondo, da cattolici ci sarebbe tanto da dire al re, anzi, basterebbe fare qualche nome: Alfie Evans, Charlie Gard, Indi Gregory… e tanti altri bambini trucidati da Giudici della Corona e dal sistema sanitario del Regno votato all’utilitarismo più mostruoso e assassino del «best interest».
Rammentiamo: all’epoca i partiti pseudocattolici si mossero per dare ad Alfie la cittadinanza italiana, di fatto per togliere il bambino dalla condanna a morte del Regno sul cui trono ora siede il Carlo.
Come abbiamo scritto su Renovatio 21, il mancato intervento della famiglia reale in questi tragici casi – che smuovevano anche laggiù masse di persone, con miriadi di persone in lacrime che circondavano gli ospedali in preghiera, e gli ultras delle curve a cantare allo stadio a favore dei bambini in procinto di essere massacrati – non è un caso, non è una svista: è una feature precisa della famiglia, la cui consonanza con la Necrocultura è un dato storico, dalle proto-vaccinazioni dei reali con i relativi danni, all’uccisione del re per eutanasia di re Giorgio (bisnonno di Carlo), dai sospetti di fecondazione artificiale ante-litteram da cui sarebbe nata Elisabetta, all’ambientalismo stragista di Filippo (che, tenetelo sempre a mente, ha fondato il WWF, organizzazione ora proibita in Russia…), dai discorsi di Guglielmo figlio di Carlo sulla sovrappopolazione, agli attacchi contro gli USA che defederalizzano l’aborto fatti da principe Enrico dallo scranno ONU… la lista è pressoché infinita, e davanti a tutto questo cadono le illazioni su Jack lo Squartore o i milioni consegnati a Carlo in buste della spesa dai famigli di Bin Laden, il rapporto con il controverso miliardario russo-americano Armand Hammer, o i rapporti sporadici con i nazisti, il ritratto inquietante saltato fuori mesi fa…
La verità è che la materia inquietante non è in superficie, non è chiacchiera da rotocalco, né misfatto dietro le quinte: pare essere nella struttura stessa del casato.
Perché, ribadiamo, quella degli Windsor è una dinastia della morte, come ve ne sono, ai vertici mondiali, altre, anche non coronate, ad esempio i Rockefeller. Giornali e politicanti non solo non condividono questa prospettiva, ma la occultano con l’arma di distrazione di massa del gossip. Anni a parlarci delle vicende della Casa Reale, come se ciò avesse qualche importanza per noi. La famiglia media che mangia dinanzi al televisore magari non sa nulla di Alfie Evans e Guy Fawkes, ma sa tutto delle avventure amorose di Guglielmo ed Enrico, che per qualche ragione ora, a differenza di Carlo, vengono chiamati nelle loro lingua (i principi «William» ed «Henry»: sudditi, abituatevi all’inglese, è l’era CLIL).
Abbiamo visto l’arma di distrazione di massa sparata anche nel discorso romano del re. Carlo si è riferito alla «regina», e la cosa ha fatto un certo effetto: Camilla, i TG ci hanno insegnato a chiamarla così, ora in effetti è regina. Il re ha amorevolmente detto che era il ventesimo anniversario di matrimonio. Applausi.
Ma come? Camilla? Per anni i giornali ce l’avevano definita come la homewrecker reale, la spacca famiglia di Corte, con ogni storia a suo favore amplificata a più non posso: ecco i commenti animali sul suo aspetto fisico, ecco la questione del figlio birichino che potrebbe avere una cattiva influenza sull’erede al trono (e futuro fratellastro).
Nessuno pare avercela più con Camilla: i giornali del resto servono a questo, ti dicono cosa devi pensare, e poi ti fanno dimenticare, per farti pensare altro. Ecco che la love story di Carlo e Camilla da prurigine grottesca diventa evento da applaudire a Camere riunite.
Perché poi, scusate, avete scordato Diana? Avete scordato cosa il quivis de populo, britannico come italiano, dice della morte della principessa sotto il tunnel dell’Alma a Parigi? Tutti quei servizietti ammiccanti che talvolta potevano far capolino brevemente nella stampa mainstream… Tutto è perdonato.
Dimenticate tutto. Tanto a ricordarvi le vostre priorità ci pensa il capo di quel Regno che trucida i bambini malati e ti arresta per un tweet o una preghiera fatta nella tua mente. Carlo, con gli italiani, è stato chiaro, e sincero: vivete nello Stato creato dal nostro agente Garibaldi, ora sottomettevi del tutto al dogma climatico, e continuate a sostenere la guerra contro la Russia.
Scroscianti applausi.
Questa è la realtà della «democrazia» in Italia.
Roberto Dal Bosco
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Perché non stupirsi se Mattarella premia Burioni

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