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Il papato di Cthulhu

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Il problema è che tutti si sono concentrati sulla questione del dogma climatico, sorvolando su dettagli più inquietanti.

 

Punto 11 dell’esortazione apostolica Laudate Deum: «L’origine umana – “antropica” – del cambiamento climatico non può più essere messa in dubbio». Il papa è infastidito riguardo al fatto che riguardo al cambiamento climatico ci sia anche solo discussione. Non c’è nulla da discutere: è dogma. Roma locuta, causa finita.

 

Il nuovo peccato originale, l’impronta carbonica, è pronto per essere lanciato dal Sacro Palazzo, in sostituzione di quello dell’Eden. A partire da quello, l’intera religione cattolica sta per essere riscritta, fin dalle sue linee di codice fondamentali.

 

«Francesco dogmatizza il clima e relativizza i dogmi della fede» si sente dire in giro. Pare proprio così, in effetti.

 

Un sacerdote con fine mente teologica mi dice che, in realtà, Laudate Deum non contiene grosse novità rispetto a Laudato sii. Mi spiega che elementi di vero cambiamento della religione erano presenti lì: i semi del panteismo, cioè del ritorno di un paganesimo che divinizza la natura, era gettati con evidenza nell’Enciclica del 2015 che Laudate Deum dovrebbe aggiornare. Chi non comprende quello che stiamo dicendo, pensi alla Pachamama, l’idolo pagano della Terra portato in Vaticano.

 

Quindi: nihil novum sub solis. Non ci sono grandi innovazioni rispetto all’eco-enciclica otto anni fa.

 

C’è tuttavia un particolare che mi ha fatto sobbalzare, aprendomi la mente verso scenari mostruosi – letteralmente, programmaticamente mostruosi.

 

Al punto 66 il linguaggio del documento si mostra sempre cervellotico ed un po’ oscuro: «Dio ci ha uniti a tutte le sue creature. Eppure, il paradigma tecnocratico può isolarci da ciò che ci circonda e ci inganna facendoci dimenticare che il mondo intero è una “zona di contatto”».

 

Cosa significa che Dio ci ha «uniti» alle altre creature? Come può il papa che ha spinto l’intera popolazione dei fedeli verso l’alterazione via tecnologia genica mRNA parlare di rifiuto della «tecnocrazia»? Cosa significa «zona di contatto»?

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La nota al termine del periodo spiega tutto. E ci fa saltare dalla sedia. Il papa cita direttamente un libro Donna Haraway.

 

Pochi sanno di chi si tratta. Qualcuno che seguiva le cose filosofico-editoriali degli anni Novanta può averne un vago ricordo, anche se si tratta di un personaggio che credevamo dimenticato.

 

La Haraway è considerata capofila di un pensiero che – cercate di non ridere – si definiva «ciberfemminista», «ecofemminista» o perfino «femminismo post-umano», «post-genderismo». Non è sbagliato ritenere che la cifra del suo lavoro – un attacco feroce all’antropocentrismo – è estendere la teoria del gender alle questioni tecnologiche (come la modificazione del corpo umano) e oltre, fino al regno animale.

 

Zoologa e filosofa, ha perfezionato gli studi a Yale (la prestigiosa università della loggia Skull and Bones con i suoi membri eletti presidenti USA), da cui è stata pure  premiata come grande ex-studentessa. Va ricordato che è cresciuta con una madre cattolica e la scuola delle suore del Colorado: un particolare che permette di comprendere alcune cose delle pazzesche teorie che ha promosso durante la sua fortunata carriera accademica. Citiamo anche il fatto che prese una borsa di studio Fulbright – secondo alcuni, un sistema di cooptazione di individui promettenti da tutto il mondo per mandare avanti l’agenda dell’establishment angloamericano – per andare a Parigi a studiare filosofia dell’evoluzione alla Fondazione Teilhard de Chardin.

 

La popolarità della pensatrice statunitense cominciò nel 1985, quando pubblico sulla rivista Socialist Review il suo «Manifesto per i cyborg: scienza, tecnologia e femminismo socialista negli anni ’80», divenuto poi semplicemente Manifesto Cyborg pubblicato in Italia da Feltrinelli nel 1995. Si tratta di un saggio considerato una pietra miliare nel nuovo femminismo, che di fatto negando in ultima analisi anche l’identità della donna, si pone in contrapposizione al vecchio femminismo.

 

La Haraway predica un superamento dei dualismi sociali e biologici: critica la struttura binaria della cultura occidentale che ha generato divisioni tra categorie come uomo/donna e naturale/artificiale. Questi dualismi, afferma la Haraway, «sono stati tutti sistematici nelle logiche e nelle pratiche di dominio delle donne, delle persone di colore, della natura, dei lavoratori, degli animali… tutti costituiti come altri».

 

Viene quindi introdotto, come sintesi liberatoria, il concetto del cyborg, un’entità che rappresenta una fusione tra organico e tecnologico, oltrepassando le tradizionali distinzioni di genere e natura. Il cyborg sfida l’idea della natura umana immutabile, poiché sempre più persone utilizzano tecnologie per estendere le proprie capacità: protesi, by-pass, apparecchi acustici, persino le dentiere possono indicare che l’uomo-macchina è già realtà.

 

Il concetto di cyborg rappresenta un rifiuto dei confini rigidi, in particolare quelli che separano «umano» da «animale» e «umano» da «macchina».

 

«Il cyborg non sogna una comunità sul modello della famiglia organica, questa volta senza il progetto edipico. Il cyborg non riconoscerebbe il Giardino dell’Eden; non è fatto di fango e non può sognare di ritornare polvere» scrive il manifesto della Haraway.

 

Il cyborg evidenzia la fluidità e la complessità delle identità umane, mettendo in discussione le concezioni binarie e aprendo la strada a una visione proteiforme dell’umanità: uomo e macchina, maschio e femmina, umano ed animale… l’identità stessa dell’essere umano va messa in discussione.

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Come può capire il lettore, siamo davanti ad una delle teoriche principali del transumanismo, che passa per il femminismo, il transessualismo e perfino l’animalismo.

 

La questione degli animali esce fuori con decisione nel libro del 1990 Primate Visions: Gender, Race, and Nature in the World of Modern Science («Visioni dei primati: genere, razza e natura nel mondo della scienza moderna») dove si parla – anche qui, tratteniamo le risatine – di «primatologia femminista», e si attacca lo studio «maschilista» delle scimmie, che ha una tendenza a mascolinizzare le storie sulla «competizione riproduttiva e sul sesso tra maschi aggressivi e femmine ricettive [che] facilitano alcune e precludono altri tipi di conclusioni».

 

Scimmie e cyborg si ritrovano anche nell’altro suo libro seminale, Simians, Cyborgs and Women: The Reinvention of Nature («Scimmie, cyborg e donne: la reinvenzione della natura») dove la Haraway torna ad usare la metafora del cyborg per spiegare come le contraddizioni fondamentali nella teoria e nell’identità femminista dovrebbero essere congiunte, piuttosto che risolte, in modo simile alla fusione tra macchina e organismo nei cyborg. Nel testo la Haraway cristica il capitalismo rivelando come gli uomini abbiano sfruttato il «lavoro riproduttivo» delle donne, di modo che esse non raggiungessero la piena uguaglianza nel mercato del lavoro.

 

Mettere al mondo un figlio, quindi, è una grande minaccia per la tua vita di donna carriera: studi sulle scimmie e teorie cyborg alla fine portano alla semplice conclusione a cui sono portate quasi tutte le femmine del pianeta, e l’aborto di massa è l’effetto di questo pensiero qualunquista.

 

La filosofa ha premuto su questo punto su un testo più recente chiamato Making kin. Fare parentele, non popolazioni, scaturito da un gruppo di lavoro con altre cinque pensatrici femministe. Il succo del discorso è che non bisogna fare bambini (un atto inquinante, che genera anche altri problemi), ma riorganizzare in senso «famigliare» le persone che già esistono: un qualcosa che sta tra la ritribalizzazione della società, viene da pensare, e il tentativo di creare surrogati della famiglia, come avviene per quelli che invece dei figli hanno cani e gatti o perfino bambole iperrealistiche.

 

«Fare bambini è diverso che regalare ai bambini una buona infanzia» scrive il libro, forse una vetta dell’antinatalismo più spudorato e disperato in circolazione. Il tema ambientale, tanto caro a Bergoglio, è presente, visto che è ripetuta la storia dei problemi tra l’incremento della popolazione e le conseguenze sull’ambiente, cioè l’origine «antropica» della crisi climatica di cui parla il papa.

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Anche qui, ci stupiamo poco o niente. L’agenda di riduzione della popolazione e delle nascite – un tempo argomento di attacco perenne dell’universo ONU contro la Santa Sede – è stata abbracciata dal Vaticano al punto da resuscitare personaggi che pensavano dimenticati se non morti. È il caso di Paul Ehrlich, un altro biologo (un entomologo, per l’esattezza) che si rese famoso per la teoria della «bomba demografica», con previsioni catastrofiche di fame e guerra causate dall’aumento della popolazione che, come vi è evidente, non si sono avverate. Ehrlich, come sappiamo, viene ora invitato nel Sacro Palazzo a seguire lavori delle Pontificie Accademie.

 

Il ripescaggio di Donna Haraway non è differente: un personaggio antitetico totalmente alla dottrina cattolica, che predica un transumanismo sessualoide apocalittico, con inclusa negazione della specificità umana, finisce in bocca al papa. Un personaggio che pensavamo oramai consegnato all’oblio: chi scrive ricorda come a metà degli anni Novanta il Manifesto Cyborg faceva la gioia di giovani lesbiche e femministe del ceto medio riflessivo; era chiaro, forse persino all’ora, che si trattava di un capitolo corposo dell’OPA che la teoria del gender stava lanciando su tutta la società, con pubblicazione presso editori mainstream e con articoloni su giornali mainstream.

 

Guardando indietro, mi sembra chiaro ora che la questione è più grande del gender. In quegli anni, appena crollato il muro, si avvertiva come una pulsione sempre più chiara delle arti verso il male. Lo chiamavano «post-umano»: c’era un’«artista» francese che si faceva impiantare dai chirurghi gobbe sulla fronte (corna, tipo) e altre cose deformanti; un altro, che si faceva appendere dai grattacieli con ganci sotto la pelle, si era creato un terzo arto robotico – farlocchissimo, ma il messaggio era chiaro. Altri ancora facevano cose sempre più disgustose: chi scrive ricorda il conato di vomito vero che ebbe quando ad una conferenza di una «storica dell’arte» venne mostrato il VHS di una famosa compagnia teatrale spagnola, dove mi era parso di vedere una scena che indicava la bestialità – eccolo, un altro confine umano da abbattere, verso la distruzione totale dell’identità degli esseri, verso la Necrocultura realizzata.

 

L’arte moderna, con la sua attitudine riconosciuta e socialmente accettata della popolazione, era il vettore ideale per far entrare nella società il nuovo messaggio del padrone del vapore, che dopo il muro non aveva più bisogno della religione, anzi la vedeva di intralcio. Anche lì, l’influenza della Haraway è riconosciuta: nel 2017 ArtReview ha nominato Haraway la terza persona più influente nel mondo dell’arte contemporanea, affermando che il suo lavoro «è diventato parte del DNA del mondo dell’arte».

 

Ma non ci sono solo le gallerie d’arte e le loro speculazioni. L’ondata del male era percepibile ovunque. È in quegli anni che il BDSM, cioè il sadomasochismo organizzato, cominciava a mostrarsi pubblicamente: ecco le persone con la tuta di lattice, le fruste, i bavagli fatti con la pallina in bocca. Nelle discoteche cominciavano ad apparire personaggi così conciati, così come pure qualche travestito – allora soggetti rarissimi, invisibili – assunto come «vocalist» della serata (ripetevano, dalla console che martellava la techno, frasi senza senso: «voglio fare il maestro di sci… voglio fare il maestro di sci…»). Il ragazzo di campagna che ballava con gli amici si ritrovava davanti questi segni pensando che si trattasse di orpelli della serata dionisiaca. Non era così.

 

Nei film, se rammentate, negli anni Novanta vi fu una fiammata improvvisa di storie di serial killer. Questi però non erano più dei mostri assassini, ma degli esseri dalla psicologia complessa (Il silenzio degli Innocenti) capaci perfino di prodursi in una densa critica della società (Seven). Di lì a poco gli assassini psicopatici sarebbero divenuti protagonisti, come ora accade tranquillamente in varie serie televisive.

 

Scristianizzata la società, il Male poteva essere pensato e distribuito in tranquillità, senza timori di censure o altro – pensate alla differenza con Ultimo Tango a Parigi, per la cui famosa scena del burro vi furono processi (Marlon Brando condannato in Italia) e roghi della pellicola indetti da qualche sacerdote.

 

Quando vediamo il nome di Donna Haraway, pensiamo a tutto questo. Vedere il suo nome in un’esortazione apostolica ci riempie di sgomento. Davvero, cosa legge il papa? O meglio: a quale cultura si riferiscono quelli che scrivono per il papa? Perché non fanno più nemmeno la fatica di nasconderlo?

 

La risposta forse va cercata sempre fra i libri della Haraway amati dai neocattolici. In Italia ne è apparso uno con un titolo eccezionale: Cthulucene.

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Per chi non lo sapesse, Cthulu è una sorta di enorme divinità terrifica della fantasia letteraria dello scrittore H.P.Lovecraft. Si tratta di un essere gigantesco e mostruoso, con la pelle verde, le ali di pipistrello e la testa di polpo che emana tentacoli, che vive in fondo al mare, in attesa di essere risvegliato ad una determinata congiunzione astrale, pronto per distruggere e sottomettere l’umanità.

 

Nei romanzi e racconti di Lovecraft si sostiene che esiste un libro che lo descrive, il Necronomicom, e che un culto segreto di Cthulu esista ancora in diverse parti della Terra, pronto a celebrare il ritorno di tale bestia che vien dal mare (massì, usiamo pure questa espressione della Rivelazione) e la catastrofe che porterà con sé. Uomini che pregano per la fine dell’umanità: dove l’abbiamo già sentita questa?

 

La Haraway scrive di un’era, lo Chtulucene, che bisognerà attraversare una fase per salvarsi dal disastro dell’antropocene (cioè, letteralmente, «l’era degli uomini»), segnato dalla sovrappopolazione.

 

«Cosa succede quando il genere umano, dopo aver irrimediabilmente alterato gli equilibri del pianeta Terra, smette di essere il centro del mondo? E nel pieno della crisi ecologica, che relazioni è possibile recuperare non solo tra individui umani, ma tra tutte le specie che il pianeta lo abitano?» si chiede il libro. La risposta, dice la Haraway, è attuare in questo pianeta infetto un pensiero «tentacolare», un cambio di paradigma dove, come spiegato sopra, invece di generare figli si creano «parentele» con «decisioni intime e personali per creare vite fiorenti e generose senza mettere al mondo bambini».

 

Se tutto questo vi sembra mostruoso è perché lo è, e vuole esserlo, vuole pure sembrarlo.

 

La chiesa ha abbracciato la Necrocultura fino nelle sue manifestazioni può orripilanti e grottesche, dove si slatentizzano le fantasie dei grandi mostri – i titani, come Gaia – che distruggono la civiltà e sterminano gli esseri umani. È una chiesa teriomorfa, una chiesa pantoclastica, godzillista, post-umana, post-zoica, chtulucenica. È il papato di Cthulu.

 

Pensavate si sarebbero fermati alla Pachamama e alla messa Maya, eccovi invece Cthulu il Grande, Cthulu il Terrificante. Era inevitabile.

 

Bergoglio ha già cambiato il Padre Nostro, e come sapete lavora alacremente per distruggere ciò che rimane della Messa in latino. Non è impensabile che le prossime preghiere che promuoverà saranno in un’altra lingua antica, l’aklo, l’idioma segreto dei culti del Male di Lovecraft.

 

«Ph’nglui mglw’nafh Cthulhu R’lyeh wgah’nagl fhtagn». Cioè: «Nella sua dimora a R’lyeh il morto Cthulhu attende sognando».

 

Ripetete: «Cthulhu fhtagn».

 

«Cthulhu fhtagn».

 

Roberto Dal Bosco

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Ecco la «Onniguerra»: «militarizzazione di tutti i diversi sistemi, cibo, sanità, finanza»

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Catherine Austin Fitts è di sicuro una delle voci da seguire in questo nostro tempo. Già Segretario assistente per l’edilizia abitativa e lo sviluppo urbano per l’edilizia abitativa per l’amministrazione Bush, i lettori possono ricordarla quando a Milano, in piena pandemia, si palesò in conferenza con Robert F. Kennedy jr. per parlare di moneta digitale in correlazione al green pass.   Dopo una persecuzione legale legata alle sue idee, ha fondato il Solari Report, una pubblicazione ricca di informazioni fondamentali non certo disponibili a tutti e analisi di profondità abissale.   La Fitts ha idee precise, e talvolta spiazzanti, su molte cose – come quando un mese fa ha sconvolto Tucker Carlson e milioni di ascoltatori dicendo che l’élite ha fatto sparire diecine di trilioni di dollari per creare le infrastrutture (sotterranee, o spaziali) per una «breakaway civilization», ossia per una civiltà separata che sopravvivrà ad una qualche apocalisse prevista o programmata ma taciuta alle masse.   Renovatio 21 l’anno passato ha pubblicato la sua tirata contro i codici QR, che a suo giudizio non andrebbero usati «mai». La signora è nemica giurata delle CBDC, le monete elettroniche da banca centrale – come l’euro digitale – che ritiene essere, più che denaro, un «control grid», cioè una rete di controllo degli esseri umani.

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Ora Catherine ha pubblicato Omniwar («onniguerra»), dove si asserisce che l’umanità è sotto attacco da ogni parte, e non solo per controllarci, ma anche per ucciderci.   «La guerra omnicomprensiva è la militarizzazione di ogni cosa» scrive la Fitts utilizzando una parola usatissima nel gergo inglese, «weaponization» (cioè, l’«uso come arma») difficilmente traducibile in italiano. «Si tratta della militarizzazione di tutti i diversi sistemi che utilizziamo, tra cui cibo, sanità e finanza…»   «Esistono letteralmente iniezioni che sono armi biologiche, e questa è la militarizzazione del nostro sistema sanitario» dice in un’intervista a USAWatchdog, alludendo chiaramente alla vaccinazione di massa. «Faccio uno screening per un fondo comune di investimento, e una delle società di pompe funebri è un titolo azionario, il cui valore è più che raddoppiato o quasi raddoppiato da quando l’abbiamo acquistata. Quindi, abbiamo un titolo di un’assicurazione sanitaria che di recente è sceso del 40%, mentre le imprese di pompe funebri stanno salendo significativamente».   «La gente se ne è accorta perché questa non è la prima compagnia assicurativa a crollare a causa del calo dell’aspettativa di vita e dell’accelerazione dei decessi» afferma l’ex funzionaria del governo Bush jr.   Il veleno che stiamo ricevendo ci viene somministrato di proposito, suggerisce: è altamente tecnologico, e non si trova solo nelle iniezioni COVID.   «Stiamo ingerendo queste nanoparticelle o nanobot. Abbiamo rilasciato interviste su Solari sui misteriosi ingredienti presenti nel cibo. Quindi, sono presenti nelle iniezioni, negli spray e nel cibo. Questa è una delle cose che credo causi tutte queste malattie (…) Tutto questo fa parte del grande avvelenamento» spiega la Fittsa. «Ho abbonati che sono al corrente di tutto questo da più di un decennio. Capiscono che il grande avvelenamento è in atto. Sono in guerra, è una guerra totale, e hanno iniziato a intervenire su come organizzare la loro salute, il loro cibo e le loro finanze. (…) Lo so, è deprimente».   In Omniwar, la Fitts affronta i numerosi fronti di guerra. Analizza a fondo la griglia di controllo in continua espansione. Lo scrittore David Hughs descrive il fenomeno di Omniwar come «una guerra in ogni ambito concepibile condotta da una classe dirigente transnazionale contro il resto dell’umanità». La Fitts racconta come gli esseri umani vengano riprogettati con la biologia sintetica.   L’indomita attivista mostra come reagire a questo scenario con una «lista di azioni da controllare».   In chiusura dell’intervista, la direttrice del Solari Report sottolinea perché è ancora ottimista sull’oro: «uno dei motivi per cui sono rialzista sull’oro è ciò che l’amministrazione Trump farà con le stablecoin (…) faranno sì che molte grandi banche e altre aziende lavorino per creare filiali per emettere stablecoin. È molto simile a una CBDC, ma più pericolosa… Il primo obiettivo delle stablecoin è convincere le persone che non usano il dollaro a passare al dollaro (…) Credo che molti Paesi con grossi problemi di debito passeranno al dollaro».

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«L’obiettivo è costruire un nuovo, vasto mercato per i titoli del Tesoro. Ci sarà un’esplosione, o uno tsunami, di stablecoin e di credito. Potrebbe essere uno dei più grandi eventi di iperinflazione al mondo. Questo potrebbe dare un significato completamente nuovo al termine “helicopter money“, perché sarà globale».   «Pensate ai pallet di denaro contante iracheni» dice, ricordando un episodio emerso durante l’occupazione americana dell’Iraq. «Questi sono i pallet di denaro contante iracheni in formato digitale. Stiamo semplicemente diffondendo dollari in tutto il mondo».   «Questo potrebbe dare altri 10-15 anni al dollaro come valuta di riserva… I beni reali brilleranno. Questo significa oro, e questo significa argento… C’è una forte spinta a monetizzare l’oro».   Come sempre, quando si ascolta la Fitts si rimane a bocca aperta. L’intervista completa, in inglese, è visibile su Rumble.  
 

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Bombardata la parrocchia cattolica di Gaza. Quando finirà il privilegio distruttore israeliano?

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Alle 10 di questa mattina, ora italiana, bombe israeliane hanno colpito la chiesa cattolica della Sacra Famiglia a Gaza.

 

Fonti sanitarie dell’ospedale Al-Ahli di Gaza City riportano almeno due vittime: Saad Issa Kostandi Salameh, portinaio della parrocchia, e Foumia Issa Latif Ayyad, una fedele anziana. Nove persone sono rimaste ferite, alcune gravemente. La comunità dopo il 7 ottobre 2023 conta solo 500 persone: in pratica è stata dimezzata.

 

Il parroco, padre Gabriel Romanelli, ha subito una ferita a una gamba ed è stato curato in ospedale prima di rientrare in comunità.

 

 

I lettori di Renovatio 21 non sentono per la prima volta il suo nome: il parroco cattolico di Gaza in questi anni è stato al centro delle grida di angoscia che arrivano – contrariamente a quello che fa sembrare la propaganda goscista filoislamica – anche dai cristiani, stritolati dall’angoscia del bagno di sangue dietro l’angolo.

 

La chiesa, che ospita circa 500 sfollati a causa della guerra, ha riportato danni materiali.

 

 

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Vanno registrate le reazioni dal nostro Paese e dalla sfera cattolica.

 

La Conferenza Episcopale Italiana: «apprendiamo con sgomento dell’inaccettabile attacco alla chiesa della Sacra Famiglia di Gaza. Esprimiamo vicinanza alla comunità della parrocchia colpita, con un particolare pensiero a coloro che soffrono e ai feriti, tra i quali padre Gabriel Romanelli. Nel condannare fermamente le violenze che continuano a seminare distruzione e morte tra la popolazione della Striscia, duramente provata da mesi di guerra, rivolgiamo un appello alle parti coinvolte e alla comunità internazionale affinché tacciano le armi e si avvii un negoziato, unica strada possibile per giungere alla pace».

 

La premier Giorgia Meloni: «i raid israeliani su Gaza colpiscono anche la chiesa della Sacra Famiglia. Sono inaccettabili gli attacchi contro la popolazione civile che Israele sta dimostrando da mesi. Nessuna azione militare può giustificare un tale atteggiamento».

 

Il ministro della Difesa Guido Crosetto (che dovrebbe avere ancora il dente avvelenato per l’attacco israeliano di mesi fa ai nostri soldati dell’UNIFIL in Libano): «oggi, come ieri, come una settimana fa, come il mese scorso e tre mesi fa, sono morti altri palestinesi innocenti, uomini, donne, bambini, che non fanno parte di Hamas ma semmai ne sono prigionieri e ostaggi. La loro sola colpa è essere nati in una terra straziata dall’odio, in un tempo drammatico nel quale la ragione si è addormentata. Noi assistiamo ormai da mesi a qualcosa di disumano, straziante, orribile»

 

Trova, abbastanza ineditamente, parole di condanna netta pure il ministro degli Esteri di Forza Italia Antonio Tajani: «Gli attacchi dell’esercito israeliano contro la popolazione civile a Gaza non sono più ammissibili. Nel raid di questa mattina è stata colpita anche la Chiesa della Sacra Famiglia a Gaza, un atto grave contro un luogo di culto cristiano. Tutta la mia vicinanza a Padre Romanelli, rimasto ferito durante il raid. È tempo di fermarsi e trovare la pace».

 

Anche il vertice del mondo cattolico sarebbe turbato. Telegramma del segretario di Stato vaticano Pietro Parolin: «Sua Santità Papa Leone XIV è profondamente addolorato nell’apprendere la perdita di vite e di feriti causati dall’attacco militare alla chiesa cattolica della Sacra Famiglia a Gaza e assicura al parroco, don Gabriel Romanelli e a tutta la comunità parrocchiale la sua vicinanza spirituale affidando le anime dei defunti all’amorevole misericordia di Dio. Il papa rinnova il suo appello per un immediato cessate il fuoco ed esprime la sua profonda speranza di dialogo, riconciliazione e pace durevole nella regione».

 

Il cardinale Pierbattista Pizzaballa, sino a poco fa custode della Terra Santa nonché porporato papabile, che ha partecipato con gli altri patriarchi l’altro giorno ad una manifestazione pubblica contro le violenze dei coloni israeliani: «Noi cerchiamo sempre di raggiungere Gaza in tutti i modi possibili, direttamente e indirettamente. Adesso è presto per parlare di tutto questo, bisogna capire cosa sia accaduto, cosa si deve fare, soprattutto per proteggere la nostra gente, naturalmente cercare di verificare che queste cose non accadono più e poi si vedrà come proseguire, ma certamente non li lasceremo mai soli».

 

 

Tutti, apparentemente sconvolti. Nessuno però che riesce ad andare oltre alle parole di condanna circostanziata. Nessuno fa la domanda: da dove arriva questa strage?

 

Israele ha attribuito l’attacco a un «errore di tiro». Il solito. Perfino alcuni giornali della stampa mainstream hanno cominciato, finalmente, a definire ridicole affermazioni come questa. Israele riesce a centrare, come il mese scorso, un appartamento con dentro i massimi generali israeliani, beccando esattamente la stanza in cui si trovano. Poi fa errori di tiro e colpisce le chiese. Non è, il lettore di Renovatio 21 lo sa, la prima chiesa ad essere colpita: distrussero, con la gente dentro, San Porfirio, la chiesa più antica di Gaza, ora degli ortodossi.

 

Ora, ci vogliono dire che Hamas si nascondeva in parrocchia? E ricordiamo anche le due signore cattoliche trucidate da cecchini israeliani mentre camminavano per strada ad inizio conflitto: anche quelli, errori? Oppure nella borsa della spesa si nascondeva anche lì un virgulto di Hamas, cresciuto a pane, jihadismo e finanziamenti israeliani?

 

La realtà è che Israele ha il privilegio (lo abbiamo chiamato così in un precedente articolo) di dire e fare quel che vuole – e di uccidere chi vuole. Nessuno, la storia lo insegna, ha mai davvero reagito. Rapiscono Eichmann in una periferia argentina in barba ad ogni legge, lo portano in Israele dove lo processano con le loro leggi (di uno Stato che nemmeno esisteva ai tempi del reato) e poi lo uccidono. Uccidono un cameriere a Lillehammer, in Norvegia convinti che fosse il terrorista palestinese Salameh, ma è solo un uomo innocente. A Roma rapiscono lo scienziato atomico Mordechai Vanunu, che voleva dire al mondo del programma atomico israeliano, e lo mettono al gabbio per decenni.

 

Le bombe nucleari di Sion sono in effetti l’esempio definitivo di quello che stiamo dicendo: tutti lo sanno, ma il protocollo prevede che si faccia spallucce – perfino quando ciclicamente riemerge che forse è quello il motivo per cui hanno ucciso John Kennedy, e quindi indovinate da chi. Lo Stato Ebraico tira dritto, anzi, proietta l’accusa sugli altri: no, l’Iraq, la Libia, l’Iran non possono avere l’atomica.

 

Sappiamo che c’è una parola ebraica per questo tipo di tracotanza: chuzpah. La stiamo vedendo in questi mesi nel suo massimo splendore. Lo Stato creato con la giustificazione morale fondante del genocidio subito, è ora accusato, in tribunale, di praticare un genocidio – anzi, qualcuno ha detto «genocidio robotico di massa». I suoi soldati uccidono a casa, torturano e stuprano, mettono i video sui canali Telegram e vengono pure difesi dai loro parlamentari (arrivati a dire pubblicamente della legittimità di sodomizzare con un bastone un prigioniero palestinese). I loro droni, quando non uccidono, emettono versi di bambini che piangono per far uscire le persone e poi sparare loro. Hanno armi ad Intelligenza Artificiale (definita come «fabbrica di assassinii di massa»), lanciano cadaveri dai palazzi, usano bulldozer automatici che spianano tutto, e cantano canzoni sul destino della Striscia di venire spianata per fare un bel parcheggio che arriva fino al mare.

 

È la chuzpah di Binyamin Netanyahu, il cui vero nome di famiglia potrebbe essere Mileikowsky (Polonia, Ucraina), già noto in USA negli anni Settanta e Ottanta come Ben Nitay – ora capite il motivo per cui Renovatio 21 si permette di chiamarlo Beniamino: anche noi ci prendiamo un po’ di libertà con i nomi – il quale è andato in visita da Trump e, invece che dargli un cercapersone assassino come la volta precedente (allucinante) lo ha vellicato dicendo che gli avrebbe fatto vincere il premio Nobel per la pace.

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Fateci capire: l’uomo accusato all’Aia di crimini di guerra e genocidio può parlare degli esiti della Commissione del premio Nobel per la Pace? Vengono certi pensieri sui legami tra ebrei e massoni (che controllano il premio nordico da sempre, chiedete a Carducci), ma andiamo oltre.

 

La scenetta di Bibi che promette il Nobel a Trump è avvenuta durante il recente incontro tra i due a Washington. Fateci caso: lo stesso giorno che vede Netanyahu Trump getta sotto il tram tutta la base MAGA cominciando a sproloquiare dicendo che il caso Esptein è chiuso e non vedremo più niente. Cosa sia successo, non lo sappiamo. È lecito pensare, a questo punto, qualsiasi cosa.

 

Specie se si pensa che accanto ad Epstein c’era Ghislaine Maxwell, figlia del controverso miliardario britannico Robert Maxwell (vero nome Jan Ludvik Hyman Binyamin Hoch, ebreo boemo) che fu, secondo quanto ritenuto da tanti, una potentissima atomica israeliana, con tutti i vertici del Mossad e dello Stato Giudaico a presenziare alla cerimonia di interramento in Israele del suo cadavere. Come dire: intrighi, bombe atomiche, ricatti – gli ingredienti sono sempre gli stessi. Ora la Maxwell, unica in carcere, sembra che abbia sempre avuto voglia di vuotare il sacco parlando in audizione a Washington, ma nessuno (strano) l’ha mai invitata…

 

Il privilegio della chuzpah distruttrice potrebbe, però, essere arrivato al capolinea. Non è più possibile reggere l’evidenza. Ci hanno infilato intesta la crudeltà nazista della legge del taglione alla fine della guerra: da ammazzare per ogni soldato tedesco ucciso. La logica, il senso comune saltano fuori: di fronte alle forse 50.000 vittime di Gaza, che proporzione fare con il migliaio di morti dell’attacco del 7 ottobre? Una legge per il taglione 1:50? Cinque volte la barbarie hitlerista?

 

Gaza verrà spianata totalmente, forse ne faranno davvero un resort, come vuole Trump forse inzigato dal vermilinguo genero, figlio di un palazzinaro criminale ricattatore ebreo ortodosso eterno sostenitore di Netanyahu. Quella, tuttavia, diverrà dinanzi al mondo la prova definitiva ed incontrovertibile della violenza annientatrice sionista, e quindi l’erosione del privilegio olocaustico, quello per cui tutti i nostri politici, e neanche solo loro, hanno dovuto per anni sottomettersi alla gita in sinagoga e allo Yad Vashem con la kippah e baciare la pantofola della ragione morale per l’esistenza dello Stato di Israele: lo sterminio, di cui però ora gli ebrei sono chiaramente accusati.

 

Ci sono altri timori tuttavia, specie tra i giudei. C’è, per esempio, la storia della «maledizione dell’ottava decade».

 

Il primo Stato ebraico, istituito dal re Davide, raggiunse traguardi notevoli e mantenne l’unità per 80 anni. Nell’81º anno, divisioni interne causarono la frammentazione del regno della Casa di Davide nei regni di Yehuda e Yisrael, avviando il suo declino. Durante questo processo, milioni di membri delle Dieci Tribù andarono perduti, e Rabbi Akiva affermò che non sarebbero mai tornati.

 

Il secondo Stato ebraico, il regno asmoneo dell’epoca del Secondo Tempio, durò 77 anni come entità unita e indipendente. Nella sua ottava decade, però, conflitti interni lo divisero, spingendo i leader delle fazioni rivali per il trono a chiedere l’intervento di Pompeo in Siria, offrendosi come vassalli di Roma. Di conseguenza, il regno asmoneo perse la sua sovranità, diventando un protettorato romano privo dell’orgogliosa indipendenza ebraica.

 

Ora, all’ottantesimo compleanno dello Stato di Israele mancano pochi mesi. Si tratta di un’idea piuttosto apocalittica. Stiamo assistendo alle ultime ore di questa edizione del Regno di Giudea? E perché gli israeliani lo temono davvero che stiamo vedendo tale feroce annientatrice?

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E poi, la domanda abissale, che nessuno, nemmeno quando piovono le bombe sulle chiese, osa fare: chi deve custodire davvero la Terra Santa? Chi può farlo? Chi può, deve, portare la pace nei luoghi dove nacque, visse e morì nostro Signore?

 

Tra uno Stato Ebraico e una miriade limitrofa di versioni di Stato Islamico, ci sarà mai uno Stato Cristiano – uno Stato Crociato – in grado di riportare il logos nell’inferno che dal Medio Oriente arriva a bruciare anche noi?

 

La risposta a questa domanda, riteniamo, è fondamentale: non solo per i cristiani sopravvissuti allo Stato moderno, ma per la Civiltà stessa. Al punto da arrivare alla vertigine ultima: senza una Gerusalemme pacificata nel nome di Cristo nessuno Stato Cristiano è possibile.

 

Non sappiamo se il concetto, mentre i nostri sacerdoti vengono bombardati, è chiaro abbastanza.

 

«Gli orecchi per udire li avete, ma non volete capire, avete gli occhi per vedere, ma non volete intendere» (Is 6,9).

 

Roberto Dal Bosco

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Immagine da Twitter; modificata

 

 

 

 

 

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Pensiero

Quando il giornalismo è divenuto conformismo. Intervista a Giorgio Terruzzi

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Giorgio Terruzzi è l’iconico giornalista che da decenni si occupa di motori, in ispecie di Formula Uno. Cresciuto nella «Milano da bere» degli anni Ottanta, ne ha assimilato lo spirito, la sagacia, la sottile e pungente elitaria ironia che si respirava in quel decennio così edonistico, ma allo stesso tempo così guascone e sincero.   La sua preparazione, la sua cultura, il suo essere una persona vera, rendono il suo modo di fare giornalismo un esempio che andrebbe preservato per le generazioni a venire. Persona disponibile, garbata e preparata, ci ha rilasciato questa interessante intervista a margine di una sua conferenza tenuta qualche giorno fa a Borgo a Buggiano, paese nell’entroterra toscano.   Tu hai studiato al DAMS di Bologna. Quegli anni universitari bolognesi, prima di entrare nel mondo del giornalismo, immagino siano stati particolarmente vivaci, essendo un decennio, quello degli anni Settanta, abbastanza turbolento. Mi sono iscritto nel 1977 e ho terminato il mio percorso di studi nel 1980. Erano anni durissimi perché c’era Lotta Armata e la situazione era di grande tensione. Io sono stato salvato da un pool di professori strepitosi. Scelsi questa facoltà già con l’idea di scrivere e di occuparmi di comunicazione.   Ho avuto docenti quali Umberto Eco, Gianni Celati che insegnava inglese, Paolo Fabbri comunicazione di massa, Piero Camporesi italiano, Luciano Nanni estetica, Luigi Squarzina regia… un pool di professori di grande qualità. Questo mi ha salvato, perché non potevo star lì a cazzeggiare, dovevo studiare e finire. Mi ha salvato anche da certe derive di violenza, che erano vicinissime, e oltretutto non ho mai pensato che sia possibile offendere fisicamente una persona che la pensa diversamente da me   Era una situazione di grandissima tensione che cambiò dopo il sequestro e la morte di Aldo Moro con un giro di vite intellettualistico fin troppo rilevante. Sono stati anni importanti, perché molti di questi professori avevano una visione laterale. Erano veramente anni di formazione dentro un periodo che a sua volta è cambiato moltissimo. Conoscevo molte persone, anche amici miei, che pensavano che ci potesse essere una concreta possibilità eversiva. Anche se era un’utopia, loro ci pensavano seriamente.   Dopodiché c’è stata una virata sull’eroina che ha falcidiano molti giovani. Erano anni difficili. Io per fortuna avevo una bussola, avevo bisogno di finire e ero molto interessato alle cose che studiavo, per cui ho trovato una corrispondenza in un sacco di validi insegnanti, e ciò è stato profondamente formativo. Poi ho cominciato subito a lavorare col Beppe Viola, per cui ancora prima di discutere la tesi, avevo già iniziato a lavorare.   Ho avuto molta fortuna, in un tempo in cui fare questo mestiere era molto più semplice. Avevi la possibilità di farlo molto di più rispetto ad oggi. Adesso il giornalista è un mestiere quasi finito. Lo dico pensando ai ragazzi che mi scrivono dicendomi che vogliono fare i giornalisti; devi avere alle spalle una famiglia che ti sostiene per molto tempo, perché sennò fai fatica a guadagnare uno stipendio. È molto diverso da allora.

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La Milano di inizio anni Ottanta, per un giovane come te che muoveva i primi passi nel mondo del giornalismo, che ambiente era? Milano è la città dei giornali. Io sono stato fortunato perché avevo Beppe Viola che è stato come un babbo per me.   Prematuramente scomparso poco più che quarantenne. Aveva solo quarantadue anni. É morto troppo presto. Lui aveva quattro figlie femmine e a me, di fatto, mi ha adottato. Io avevo vent’anni. Lui era molto serio e severo sul lavoro, ma poi la sera mi portava in giro con lui e girare la Milano con lui era come andare in un parco giochi. C’era dentro il cabaret, le scommesse all’ippodromo, San Siro, il bar Gattullo e in più una fauna di personaggi incredibili. Era veramente una goduria. È stato un tempo formativo anche quello.   Milano poi è cambiata e quelli erano gli ultimi fuochi. C’era un’energia in quegli anni lì ancora molto forte, una sorta di trasversalità per cui potevi incontrare grandi intellettuali, grandi designer e malavitosi o gente che non si capiva bene cosa facesse, o saltimbanchi [ride]. C’era una situazione molto promiscua, ma promiscua nell’energia, nella vivacità. È stato un bel tempo quello, nonostante la morte di Beppe che fu un dolore e un dispiacere fortissimo.   Il bar, all’epoca, era vissuto come fosse una seconda casa. Molti bar erano seconde case. C’erano i tavoli da biliardo dove si giocava spesso, c’era un’abitudine a trovarsi lì senza appuntamento. C’era la consuetudine a trattare questo luogo di condivisione come una zona di conforto, dove parlavi di politica o di cazzi tuoi. Non è come adesso. Adesso è un tempo di solitudine.   Sostengo che il bancone del bar è il posto più democratico del mondo. Al bancone non si fa distinzione di censo, classe sociale o posizione lavorativa. Si è tutti uguali al cospetto del barista. Certo! C’è una cosa in più: io ho avuto sempre rapporti col mondo del rugby, col mio club, che a sua volta è un posto dove condividi tutto. Non era soltanto il bar, ma c’era un’abitudine a condividere la tua vita, gli affetti, le gioie e i dolori con gli altri. Era molto più facile condividere le cose rispetto all’oggi. E c’era molto meno fuffa. C’era più individualità, più sé, più interiorità trasferita agli altri. Più chi sono, chi sei, mia moglie, i problemi, i figli… parlavi delle cose che erano veramente rilevanti. Adesso mi pare più difficile che succeda.   Il mestiere del giornalista è cambiato profondamente. Quali sono stati, per sommi capi, i cambiamenti più significativi di questo lavoro? Ho tre figlie e vedo che è cambiato tutto. Le generazioni dei giovani di oggi sono generazioni che hanno una cultura sul vedere, non sul leggere. È un po’ diverso. Io non vedo nessun ragazzo con in mano un giornale. Con in più un incremento di velocità e di mordi e fuggi. Dai uno sguardo a un titolo o a due righe al massimo e non leggi l’articolo. Questo ha determinato una serie di cambiamenti, una serie di complicanze economiche.   Io lavoro per il Corriere della Sera da molti anni e tu lo trovi tutti i giorni in ogni paese d’Italia. È uno sforzo logistico enorme, nonostante si stampi in più posti. In ogni piccola località trovi il Corriere portato lì ogni notte. Una volta ne portavi cinquanta copie e ne vendevi quarantotto, adesso ne porti una decina e ne vendi due. È cambiato tutto. È cambiata la fruizione, il modo di guardare il mondo, il modo di sapere le cose del mondo, perché vedi tutto. Hai notizie in circolo ovunque.   La narrazione è il fascino di questo mestiere, ma è il fascino anche del lettore che scopre, attraverso una narrazione, un luogo, una storia. Adesso hai tutto e subito. Io che ho fatto tanti anni di Formula Uno, una volta si parlava con i piloti, andavi a cena con loro. Adesso questi postano sui social e non è uguale. Io non sono uno che dice che ai miei tempi era meglio, però era diverso. Se faccio un post dove dico che sono a Bangkok, invece sono a casa, per tutti sono a Bangkok e non parlo con te, ma ti comunico che. È tutto diverso.   Il fatto poi di non leggere non migliora il linguaggio di chi scrive, non c’è niente da fare. Non c’entra un cazzo essere boomer e non è un problema generazionale, ma per migliorare il proprio linguaggio, e quindi la propria qualità di scrittura, si deve leggere.   Probabilmente è una tematica che riguarda noi che siamo più grandi, mentre forse ai giovani non gliene frega niente di questo argomento, perché è diversa la fruizione. È inutile star qui a menarla, i cambiamenti sono sotto gli occhi di tutti.

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Gli ultimi anni, in particolare dal 2020 in avanti, abbiamo visto che il mondo del giornalismo e della comunicazione ha attraversato un momento delicato. L’informazione è stata, a volte, non aperta a un dibattito ampio su macro tematiche che, giocoforza, hanno coinvolto tutta la popolazione. Penso alla pandemia, alla guerra in Ucraina e via discorrendo. Il tutto è sempre avvolto da una cappa di politicamente corretto. Questo è un altro tema importante. C’è un conformismo che non ho mai visto.   Il cosiddetto politically correct ha pervaso ogni aspetto del giornalismo. È una questione culturale. È una cifra di questo tempo. Ripeto, mai visto un conformismo così. Io ho una malattia che si chiama morbo di Crohn, di cui nessuno sa un cazzo. Ho un medico che non è affatto un no vax, ma che durante la pandemia mi ha detto: «Giorgio, aspetta un attimo, perché abbiamo avuto dei riscontri un po’ complessi sul vaccino». Non potevo parlarne. Se tu parlavi con i tuoi amici di questa cosa qua e gli dicevi: «No, io ancora non mi sono vaccinato», ti etichettavano come un no vax che spaccava le vetrine. E non è così.   Oppure se tu dicevi all’inizio del conflitto russo-ucraino: «Ma certo che anche Zelens’kyj però…», eri immediatamente un putiniano convinto. Per non parlare del tema maschilismo-donne. Io ho tre figlie femmine, se sbagli un verbo – e sanno benissimo come sono io e che non me ne frega niente – sei una merda. Poi alla sera guardiamo tutti le veline e nessuno dice niente.   Questo politically correct ha rotto i coglioni, è una sorta di convenzione che non è mai messa in discussione, non ha mai dentro un momento di verità. Tu puoi discutere su certi aspetti di un tema, senza per forza diventare immediatamente l’opposto di chi sostiene il contrario. C’è sempre una zona grigia. Questo c’è anche nel giornalismo. Se io dico: «Quel personaggio lì non mi convince per questa cosa», non sto dicendo che è un disgraziato, un bandito. No. Sto discutendo su un tema. Poi il web rilancia quello.   Ho molte esperienze di interviste a persone che conosco, che proteggo io, perché se io faccio un’intervista a te e mi dici che sei fidanzato con la figlia del tuo vicino di casa, è la figlia del tuo vicino di casa che determina il titolo del rilancio sul web. Cosa che non c’entra niente con l’intervista che faccio a te. Questa cosa determina tutta una serie di diffidenze, anche giustificate, perché c’è una sorta di speculazione continua sul clamore. È così.   Bisogna per forza adattarsi a questi cambiamenti? Tu ti adatti, io ho sessantasette anni e posso anche fregarmene.

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Faccio fatica anche io a concepire questa situazione. Detto questo, il mondo dei motori è stato il tuo pane quotidiano per anni e tutt’ora lo è. Prima di passare alla Formula Uno, ci sono due manifestazioni molto affascinanti quali la Parigi – Dakar e il campionato del mondo Rally. Due tipologie di corse molto impegnative e altamente spettacolari. Ho fatto una Dakar, un Rally dei Faroni e un po’ di rally. Il mondo dei rally è un mondo bellissimo, anche perché è più lontano dai media. È più difficile da seguire, perché non è un circuito e ha tutta una serie di complicanze, ma conserva di più un’atmosfera e una sua genuinità. La Parigi – Dakar, che adesso è un’altra cosa, era una vera follia. Io ho avuto sempre un grande affetto per Fabrizio Meoni [motociclista italiano, ndr], morto vent’anni fa oramai.   Ho dato una mano al documentario [Nel nome del padre, ndr] che ha fatto recentemente suo figlio. Tante tragedie alla Dakar. Era una roba inumana, molto faticosa e molto pericolosa. Sono andato in macchina con Ari Vatanen, lui guidava una Peugeot, e anche se non hai la paura che hai quando vai in strada – perché in mezzo al deserto non hai riferimenti come le case o i lampioni – però ti accorgi che quando vedi un sasso lungo in tuo percorso sulla sabbia, te lo ritrovi già sotto la vettura. È molto pericoloso.   Gli anni d’oro della Dakar erano un tempo in cui l’esplorazione del mondo era ancora in parte da scoprire se vogliamo. Quando scoppiò la guerra del Golfo pensai che fosse la fine per la Parigi – Dakar perché il deserto adesso lo vedevi con la guerra e la questione cambia. Non più macchine, camion e moto che sfrecciano tra le dune desertiche per una gara, ma ora avevi l’idea che il circo fosse finito. È cambiato moltissimo il rapporto con l’ignoto, con l’esplorazione, con l’estremo. È stata una stagione, la Dakar, piena di morti, troppi secondo me.   Le gare motoristiche spesso sono scosse dalla morte improvvisa dei piloti, perché sono sport dove si va sempre al limite e oltre. Per un giornalista sportivo, che di fatto segue degli eventi che fanno parte dell’intrattenimento e del divertimento, quando ci si scontra improvvisamente con una morte in pista, come ci si sente? Questo è stato il tema fondamentale del mio lavoro. Le gare automobilistiche non sono come il tennis o come il calcio. Hai a che fare con gente che può morire e qualche volta muore. Non ci pensi, perché vivi con questi qua, sei in giro sempre con loro e ti dimentichi. Invece ogni tanto ti arriva questo schiaffone qua. È un mondo molto interessante per me, lo è sempre stato.   A me interessano le persone, non mi interessa la tecnica. E questa scelta di mettere in gioco la propria vita mi ha sempre incuriosito ed è un mistero, perché i piloti non ne parlano mai, perché sennò vanno a casa [ride]. È il tema dell’esistenza, del senso dell’esistenza, che è una tematica che ci riguarda tutti. Mi interessa moltissimo star dentro quella linea di confine che è fatta di coraggio, ma non solo, di talento, ma non solo, di avventatezza, ma non solo, di scelleratezza, ma non solo. È una zona di straordinario interesse, se sei interessato alle persone e a come funzionano le persone.   Per intenderci è come avere a che fare con uno spettacolo di acrobati che non hanno la rete di protezione. Questo aspetto mi ha sempre colpito e mi ha anche ferito. È tutto ad alta intensità e anche se fai il giornalista, questa sensazione, questa esperienza ti prende e ti tira dentro.   Hai parlato di persone e allora ti chiedo se ci sono stati piloti che oltre ad essere grandi campioni in pista, sono stati anche un esempio, un modello di vita fuori dalle competizioni? Gli esempi sono quelli che, pur sapendo fare tanto, pur avendo un grande talento, si alzano al mattino con la voglia sempre di migliorarsi. Mettono da parte quello che sanno fare bene, che è tanta roba, e s’impegnano a migliorare dove non sono bravi abbastanza. Se lo fa uno così lo posso fare anch’io, o no? È veramente un buon esempio. Tu, nel tuo lavoro, nelle tue giornate, dai il massimo o no? Tutto ciò è interessante, perché ti suggerisce di fare un po’ meglio. Ti mette un po’ di umiltà, cosa che tra giornalisti è difficile, perché è una categoria di montati. Prova a migliorare, prova a perseguire degli obiettivi. È molto bello tutto ciò e questo è quello che insegna lo sport.   Permettimi un paragone: visto che il calcio è diventato lo sport mainstream per eccellenza con i tanti cambiamenti di questi ultimi lustri, secondo te i calciatori hanno lo stesso valore etico e morale di atleti di altre discipline? Io non mi occupo di sport minori, quindi del calcio non me ne frega niente. Non ho interesse per uno sport che tratta i simulatori come normali, che tratta gente che protesta con l’arbitro come normale, oppure gli allenatori che fanno continuamente queste scene a bordo campo inutili. Aggiungo anche che i rapporti tra alcuni uomini di calcio e gli ultras mi fanno schifo.   È uno sport che non si modernizza. Se un presidente fosse veramente evoluto, ogni suo giocatore che prende un’ammonizione per proteste dovrebbe pagare cinquecento mila euro di multa, vedrai poi che non succede più. Ognuno che simula, cento mila euro di multa. Ma purtroppo ciò non accade, siamo sempre lì con la gente che parla, che protesta… che palle!   È una bellissima risposta, che peraltro condivido in pieno. Torniamo in ambito motoristico. Donne e motori sono stati sempre un binomio imprescindibile. È così a tutt’oggi credo. I piloti hanno il fascino dell’eroe, cazzo! Il fascino di uno che fa cose eccezionali, ma non solo i piloti. Tutti i grandi atleti, e non solo, hanno delle gran belle ragazze di fianco. A differenza dei giornalisti che non le hanno, perché non possono, in quanto hanno delle facce da somari e lavorano mentre gli altri broccolano le ragazze [ride]!   Spesso in Formula Uno gli ordini di scuderia sono imprescindibili. Se un pilota lotta per il titolo il compagno di squadra a volte è costretto a lasciarlo passare avanti. Lo ricorda anche Riccardo Patrese nel suo libro F1 backstage. Storie di uomini in corsa, dove tu sei co-autore. Quando c’è in ballo un titolo le scuderie dettano gli ordini. È un po’ una regola. Non ci sono quasi mai delle ingiustizie a priori. A Patrese andò storta un po’ di volte, è vero, però gli andò storta con Nelson Piquet e Nigel Mansell, due fenomeni che in quel momento lì erano messi meglio di lui. Capita.   La famosa ruota di Eddie Irvine ai box nel 1999? Di fatto, per quell’errore, il ferrarista perse il titolo mondiale. Questa storia è un libro. È una storia molto lunga e molto complessa. Però insomma, non possiamo discutere Michael Schumacher.   Le pagelle di Giorgio Terruzzi sono sempre un appuntamento immancabile per gli appassionati. Le pagelline! Il diminutivo è importante, perché è una presa per il culo di quelli che le fanno sul serio. La Formula Uno è uno sport dove è difficile comprendere certe dinamiche. Non sai se un pilota che arriva sesto, con una macchina di quint’ordine, fa una prestazione di guida migliore di uno che vince con una macchina perfetta.   Non lo sai, per cui non ha senso fare le pagelle e quindi faccio le pagelline. È un gioco ironico rispetto a uno sport dove è difficile capire certe questioni. Nel calcio se uno sbaglia uno stop lo vedi, è palese. Nel nuoto uno che arriva quarto è visibilmente andato più piano di quelli che hanno vinto. Nelle corse è più complicato.

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Ci sono sport che godono di visibilità nelle reti mainstream televisive a corrente alternata. Ogni tanto spariscono. Penso ad esempio alla boxe. Oggi è difficile trovare un incontro in tv. Vista la tua carriera in Mediaset, come mai avvengono questi cambi di palinsesti? È come il discorso che abbiamo fatto sul giornalismo. Non c’è più la boxe, ma ci sono un sacco di quei combattimenti dove si menano selvaggiamente. È stato scollinato un mondo. è come l’estremo; una volta c’era soltanto qualcosa, gli alpinisti per esempio, i piloti… adesso ci sono ragazzi che si buttano giù con la tuta alare da ogni montagna. Tutto è molto cambiato e appare quasi normale che il pugilato, come arte ottocentesca, sia soppiantato da altro, da un combattimento dove succede di tutto.   Ti ho fatto questo esempio, perché a volte i cosiddetti sport minori, fanno veramente fatica a ottenere visibilità e attenzione in televisione. Ci sono alcuni sport che hanno una vita perenne. La scherma, ad esempio, è uno di quelli e non è cambiata tanto. L’atletica, grazie a Dio, non è cambiata tanto. Alcuni sport invece sono cambiati tanto.   Va da sé che in una disciplina sportiva quando emerge un campione come Alberto Tomba per lo sci o Valentino Rossi per le moto, ecco che i riflettori si accendono su quello sport. Oggi c’è Sinner e se vai in un bar tutti parlano di tennis, come se facessero tre volée al giorno. Come quando ci fu Luna Rossa, l’imbarcazione che ci ha fatto sognare nell’America’s Cup. Ci sono dei cicli che sono legati ai campioni e il campione del tuo paese trascina il suo sport.   C’è un nuovo Giorgio Terruzzi oggi? Spero di sì, ma pure meglio! Non mi considero niente di speciale. Ho avuto la fortuna di fare il mestiere che desideravo fare. Penso che ogni opportunità vada onorata, per cui mi faccio il culo ancora adesso, perché credo sia doveroso per fare in modo che le cose siano fatte bene. Credo che il successo nella vita sia quello di andare a letto sereni, come sostiene sempre un mio caro amico.   Io mi sento in imbarazzo quando mi viene fatto un complimento, perché penso che faccio semplicemente il mio lavoro, che fanno in tanti, in campi diversi. Non c’è nulla di eccezionale. Spero che ci siano tanti ragazzi che abbiano l’opportunità di fare i giornalisti e che si facciamo il culo per farlo bene.   Grazie! Grazie a te   Francesco Rondolini

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