Geopolitica
In Palestina cambia il paradigma
Renovatio 21 pubblica questo articolo di Réseau Voltaire. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.
Il sanguinoso conflitto iniziato nella Palestina geografica sopravviene dopo 75 anni di ingiustizie altrettanto cruente. Dal punto di vista del Diritto internazionale i palestinesi hanno il diritto e il dovere di resistere all’occupazione israeliana, così come gli israeliani hanno di diritto e il dovere di replicare all’attacco che subiscono. È responsabilità di tutti contribuire alla risoluzione delle ingiustizie di cui entrambe le parti sono vittime; ciò non significa sostenere la crudele vendetta di alcuni di loro.
Il sanguinoso conflitto iniziato nella Palestina geografica sopravviene dopo 75 anni di ingiustizie altrettanto cruente. Dal punto di vista del Diritto internazionale i palestinesi hanno il diritto e il dovere di resistere all’occupazione israeliana, così come gli israeliani hanno di diritto e il dovere di replicare all’attacco che subiscono. È responsabilità di tutti contribuire alla risoluzione delle ingiustizie di cui entrambe le parti sono vittime; ciò non significa sostenere la crudele vendetta di alcuni di loro.
Il Medio Oriente è un universo instabile ove numerosi gruppi si scontrano per sopravvivere. L’Occidente, uso a semplificare, crede che la popolazione mediorientale sia costituita da ebrei, cristiani e mussulmani. La realtà è invece molto più complessa. Ogni religione comprende una moltitudine di confessioni. Per esempio, in Europa e nel Maghreb sappiamo che i cristiani si dividono in Chiesa cattolica, Chiesa ortodossa e Chiese protestanti; in Medio Oriente invece ci sono decine e decine di Chiese differenti. Altrettanto dicasi delle religioni ebraica e mussulmana.
Ogni volta che sullo scacchiere si muove una pedina, gli altri gruppi devono riposizionarsi, sicché gli alleati di oggi saranno forse i nemici di domani e i nemici di oggi, ieri erano nostri alleati. Nel corso dei secoli tutti sono stati, secondo le circostanze, vittime o carnefici. Gli stranieri che vanno in Medio Oriente si riconoscono a priori nelle persone che hanno la loro stessa cultura, che professano la loro confessione; tuttavia ne ignorano la storia e non sono preparati ad accettarla.
Se vogliano promuovere la pace non dobbiamo ascoltare solo chi ci è affine. Dobbiamo ammettere che la pace presuppone la risoluzione delle ingiustizie che subisce, non solo chi ci è vicino, ma anche i nostri nemici. Ma non ci viene spontaneo farlo. Infatti in Francia nei mesi scorsi abbiamo potuto ascoltare solo il punto di vista di alcuni ucraini riguardo ai russi, di alcuni armeni riguardo agli azeri, e adesso di alcuni israeliani sui palestinesi.
Infine, tra le molteplici fonti cui possiamo fare riferimento dobbiamo discernere quelle che difendono i propri interessi immediati da quelle che difendono la loro patria, nonché da quelle che difendono dei principi. Ma le cose sono rese ancora più complicate dalla presenza di gruppi che non sono religiosi, bensì teocratici. Ossia che non difendono principi, ma ricorrono a un linguaggio religioso per vincere.
Fatte queste premesse veniamo ai fatti.
Hamas ha attaccato Israele il 7 ottobre 2023 alle sei del mattino, proprio nel giorno del 50° anniversario della «Guerra di ottobre 1973», in Occidente nota con il nome israeliano di «Guerra del Kippur». All’epoca, l’Egitto e la Siria attaccarono a sorpresa Israele per aiutare i palestinesi. Ma Tel Aviv, informata da Amman e sostenuta da Washington, annientò le forze armate degli arabi. Anwar al-Sadat tradì i suoi e la Siria perse il Golan.
L’operazione in corso è una combinazione di lanci di razzi, destinati a saturare la Cupola di ferro, e di attacchi terrestri in territorio israeliano. In Palestina i lanci di razzi hanno per la prima volta colpito centri di comando israeliani per favorire le azioni di commandos, ufficialmente finalizzate a catturare ostaggi da scambiare con i 1.256 palestinesi detenuti in prigioni di alta sicurezza. Le incursioni sono avvenute via terra, via mare, nonché dal cielo con gli ULM [deltaplani].
La preparazione dell’operazione, la raccolta di informazioni da parte dell’Intelligence, l’addestramento di un migliaio di commandos e il trasferimento del materiale bellico hanno richiesto mesi, se non anni, di lavoro. Ma accecati dalla nostra sicumera non ce ne siamo accorti. L’operazione è stata architettata da Mohammed Deif, comandante operativo di Hamas, sparito dai radar due anni fa e riapparso a fianco del portavoce di Hamas, «Abu Obaida».
Israele è riuscito a intercettare i razzi ma non è stato capace di distruggerli tutti: 3.000 dei 7.000 lanciati sono andati a segno. I social network e le televisioni arabe hanno mostrato che Hamas ha preso diversi carrarmati israeliani e occupato almeno la postazione di confine a occidente della Banda di Gaza. Ha inoltre attaccato un rave party al kibbutz Re’im, violentando e massacrando almeno 280 partecipanti. Ha sequestrato ovunque moltissimi ostaggi, tra cui alcuni generali. I commandos di Hamas sono riusciti a penetrare in diverse località israeliane sparando con mitragliette agli abitanti. Si contano almeno 900 morti e 2.600 feriti gravi tra gli israeliani, il doppio tra i palestinesi.
È la più importante azione palestinese degli ultimi cinquant’anni.
Quanto sta accadendo è esito di 75 anni di oppressione e di violazione del Diritto internazionale. Israele ha violato impunemente decine di risoluzioni del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite. Israele è uno Stato al di fuori della legge, che senza farsi scrupoli ha corrotto o assassinato quasi tutti i dirigenti politici palestinesi. Ha deliberatamente impedito lo sviluppo economico dei Territori, favorendo la nascita di uno Stato separato di cui ha il parziale controllo.
La frustrazione e le sofferenze accumulate in 75 anni si manifestano in comportamenti violenti e crudeli di taluni palestinesi, consci che la Comunità internazionale li ha abbandonati da molto. Ma i tempi cambiano. La maggioranza dei membri delle Nazioni Unite, constatata la sconfitta militare degli Occidentali e la vittoria della Russia in Siria e in Ucraina, non è più disposta ad abbassare la testa davanti agli Stati Uniti.
In occasione dell’anniversario dell’autoproclamazione dell’indipendenza d’Israele, nonché del massacro e dell’espulsione dei palestinesi (la Nakba), l’Assemblea generale ha ribadito che il Diritto internazionale non è dalla parte degli israeliani, ma dei palestinesi. Ma questo non è bastato a impedire ad Hamas di compiere crimini di guerra.
L’attuale situazione è senza via d’uscita per entrambi i campi. Dopo tre quarti di secolo di crimini, Israele non può più avanzare grandi pretese. La sua popolazione è divisa. Negli ultimi mesi i «sionisti negazionisti», ossia i discepoli dell’ucraino Vladimir Jabotinsky, propugnatori del suprematismo ebraico, hanno preso il potere a Tel Aviv, nonostante l’opposizione di una seppur minima maggioranza della popolazione e gigantesche manifestazioni. I giovani israeliani, che aspirano a vivere in pace e si rifiutano di prestare servizio nelle forze armate per brutalizzare gli arabi, si sono comunque mobilitati per difendere le proprie famiglie che amano e il Paese in cui non credono.
Secondo il diritto, i palestinesi hanno costituito uno Stato che ha ottenuto lo statuto di osservatore delle Nazioni Unite. Alla morte di Yasser Arafat, il capo di Al Fatah, Mahmoud Abbas è stato eletto presidente. Tuttavia, dopo la vittoria di Hamas alle elezioni legislative del 2007 e l’impossibilità di fare accettare agli Occidentali un suo governo, i palestinesi hanno iniziato una guerra civile.
La Cisgiordania è governata da Al Fatah, il partito laico fondato da Arafat; Abbas e i suoi sono finanziati da Stati Uniti, Unione Europea e Israele.
La Striscia di Gaza è invece nelle mani di Hamas, ossia del ramo palestinese della Confraternita dei Fratelli Mussulmani; è governata da individui per i quali l’Islam non è un’istanza spirituale, ma un’arma di conquista. Sono finanziati principalmente da Regno Unito, Qatar, Israele, Turchia e Unione Europea. Da 16 anni entrambe le parti si oppongono a nuove elezioni. I loro dirigenti vivono in un lusso da mafiosi che fa a pugni con le miserevoli condizioni di vita dei palestinesi.
Quando nacque, Hamas era finanziato dal Regno Unito. I servizi segreti israeliani lo sostennero per indebolire Al Fatah di Arafat. In seguito Israele lo combatté e ne assassinò il leader religioso, sceicco Ahmed Yassin.
Israele usò nuovamente Hamas, questa volta per eliminare i dirigenti della Resistenza palestinese marxista. Così, agli inizi della guerra contro la Siria, combattenti di Hamas addestrati da agenti del Mossad e dagli jihadisti di Al Qaeda attaccarono il campo palestinese di Yarmuk (1). Ma oggi Hamas combatte di nuovo contro l’alleato di ieri, Israele.
Mohammed Deif è conosciuto come fondatore delle brigate Izz al-Din al-Qassam. Come tutti i Fratelli Mussulmani è un suprematista islamico. Si ispira a Izz al-Din al-Qassam (1882-1935), oppositore al mandato francese in Libano e al mandato britannico in Palestina. Quindi non è in rapporto con l’ex mufti di Gerusalemme alleato dei nazisti, Amin al-Husseini, sebbene ne condivida l’antisemitismo.
Nel 2020 Deif scriveva: «Le Brigate Izz al-Din al Qassam… sono meglio preparate per continuare sulla nostra specifica via cui non c’è alternativa: la via della jihad e della lotta contro i nemici della nazione e dell’umanità mussulmana… Diciamo ai nostri nemici: siete sulla strada dell’estinzione (zawal) e la Palestina resterà nostra, anche Al Qods (Gerusalemme), Al Aqsa (moschea), le sue città e i suoi villaggi, dal mare (Mediterraneo) al fiume (Giordania), da nord a sud. Non avete diritto nemmeno a un palmo del suo territorio».
Dief non è un militare, è uno specialista nel sequestro di ostaggi. L’operazione in corso è concepita a questo scopo, non per liberare la Palestina.
La salute del presidente Mahmoud Abbas peggiora e Al Fatah è diviso in tre fazioni militari:
• quella di Fathi Abou al-Ardate, capo della sicurezza nazionale;
• quella di Mohammad Abdel Hamid Issa (alias Lino), comandante del Kifah al-Moussallah (la lotta armata); ruota nell’orbita di Mohamed Dallan, ex capo dell’Intelligence palestinese (…), e oggi è sostenuta dagli Emirati Arabi Uniti;
• quella di Munir Maqdah, ex capo militare di Al Fatah, avvicinatosi ad Hamas, Qatar, Turchia e Iran.
Il mese scorso ci sono stati scontri tra queste fazioni e quelle degli islamisti di Hamas, nonché con quelle di Jund el-Cham e al-Chabab al-Moslem, due gruppi jihadisti che hanno combattuto a fianco della Nato e Israele contro la Repubblica Araba Siriana. Ci sono stati violenti combattimenti nel campo di Aïn el-Heloué (Sidone, Libano meridionale). Dapprima li ho interpretati alla luce di quelli di Nahr el-Bared (Libano settentrionale) del 2007 (2); in seguito mi sono reso conto che erano legati all’agonia di Mahmoud Abbas (3).
Per 75 anni Tel Aviv ha fatto tutto ciò che era in suo potere per rifiutare l’uguaglianza fra tutti, sia ebrei sia arabi. Anzi, dall’Appello di Ginevra promuove la «soluzione a due Stati», ossia il piano coloniale dell’ultima chance di lord William Peel, che i britannici non riuscirono a imporre né sul terreno, nel 1937, né alle Nazioni Unite, nel 1948, e che oggi invece riscuote consenso. Ormai solo i marxisti del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (FPLP) predicano nel deserto proponendo uno Stato unico in cui palestinesi ed ebrei siano su un piano di parità (4).
Davanti a ciò che considera un’invasione palestinese — ma che da un punto di vista palestinese non è che un ritorno a casa — il primo ministro Benjamin Netanyahu ha promesso la vittoria. Ma che vittoria sarà? Uccidere tutti i combattenti di Hamas non cancellerà 75 anni d’ingiustizia: i loro figli riprenderanno il testimone, come loro hanno preso quello dei propri genitori.
Per conseguire l’obiettivo, Netanyahu deve innanzitutto riunire gli israeliani che ha diviso. Seguendo l’esempio di Golda Meir durante la Guerra dei Sei Giorni, deve far entrare nel governo l’opposizione. Infatti ha incontrato Yair Lapid e il generale Benny Gantz. Il primo però ha posto come condizione che i suprematisti ebrei Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir escano dal governo, ossia che il primo ministro abbandoni il progetto politico suo e dei suoi sponsor attuali (5), gli straussiani dell’amministrazione Biden (6).
I dirigenti di Hamas hanno rivolto un appello ai rifugiati palestinesi all’estero, invitando tutti gli arabi e tutti i mussulmani a unirsi alla loro lotta. Appellarsi ai rifugiati palestinesi significa esortare la maggioranza della popolazione giordana e i rifugiati del Libano. Appellarsi agli arabi significa rivolgersi allo Hezbollah libanese e alla Siria, due potenze che negli ultimi mesi hanno riannodato i rapporti con Hamas. Rivolgersi ai mussulmani significa esortare l’Iran e la Turchia.
Per il momento solo la Jihad islamica, ossia l’Iran, e i diversi gruppi di resistenza della Cisgiordania hanno raccolto l’invito di Hamas.
Diversamente da quanto sostiene il Wall Street Journal, Hamas non è pilotato dall’Iran. Sostenere il contrario significa dimenticare l’accordo tra Hassan El-Banna, fondatore dei Fratelli Mussulmani, e Ruhollah Khomeini, fondatore della Repubblica islamica d’Iran, per spartirsi il mondo mussulmano con l’impegno reciproco di astenersi dall’intervenire in modo rilevante nella sfera d’influenza dell’altro. Teheran ribadisce continuamente e rumorosamente il proprio sostegno ai palestinesi, ma la sua azione concreta in Palestina si limita alla Jihad islamica.
I leader politici di Hamas abitano in Turchia, protetti dai servizi segreti. In realtà c’è Ankara dietro Hamas e l’operazione «Diluvio di Al Aqsa».
Domenica 8 ottobre, inaugurando una chiesa ortodossa siriaca, il presidente Recep Tayyip Erdogan, mellifluo, ha dichiarato: «La conquista della tranquillità, l’instaurazione di una pace duratura e la conquista della stabilità nella regione attraverso la soluzione della questione palestinese, in conformità del diritto internazionale, è la priorità assoluta su cui ci concentriamo quando incontriamo i nostri omologhi (…) Sfortunatamente i palestinesi e gli israeliani, come l’intera regione, pagano il prezzo del ritardo nell’amministrazione della giustizia (…) Versare benzina sul fuoco non avvantaggerà nessuno, a maggior ragione i civili di entrambe le parti. La Turchia è pronta a fare la propria parte usando al meglio le sue capacità per far finire i combattimenti il più rapidamente possibile e smorzare l’accresciuta tensione dovuta ai recenti incidenti».
La scelta di Ankara di scatenare questa guerra immediatamente dopo l’annientamento della Repubblica di Artsakh, in Azerbaijan, e mentre invia materiale bellico alla Russia in violazione delle misure coercitive unilaterali statunitensi, fa capire che i diplomatici turchi non temono più Washington, nonostante nel 2016 gli USA abbiano tentato di assassinare il presidente Erdogan. Terminata l’operazione in corso, ne seguirà un’altra contro i kurdi, in Siria e in Iraq.
Se lo Hezbollah entrasse in scena, Israele non riuscirebbe da solo a respingere l’attacco. Potrà continuare a esistere solo con il sostegno militare degli Stati Uniti. Ma l’opinione pubblica statunitense non sostiene più Israele e il Pentagono non ha più i mezzi per difenderlo. Quel che sta accadendo è una conseguenza della guerra in Ucraina. Washington non riesce a produrre munizioni sufficienti a soddisfare le esigenze degli alleati ucraini. È stato costretto addirittura a prelevarne dalle scorte in Israele. I suoi arsenali sono vuoti.
Nelle prime ore del conflitto lo Hezbollah ha lanciato qualche razzo sulle fattorie di Chebaa, ossia su un territorio conteso da Libano e Israele, dimostrando così di sostenere la Resistenza palestinese, secondo la retorica della «unità dei fronti». Ma non è entrato in guerra perché diffida di Hamas, contro cui ha combattuto in Siria e di cui non condivide l’ideologia ispirata ai Fratelli Mussulmani.
Tutti i dirigenti occidentali hanno affermato di condannare le azioni terroristiche di Hamas e di sostenere Israele. Ma se in passato non hanno fatto nulla per rimediare alle ingiustizie in Palestina, queste posizioni di principio dimostrano che a maggior ragione non lo faranno adesso. La Russia e la Cina invece, rifiutando di schierarsi con i palestinesi o gli israeliani, hanno esortato al rispetto del Diritto internazionale e non delle regole occidentali.
Ci troviamo in una situazione in cui tutti i protagonisti hanno deliberatamente sabotato in anticipo qualunque soluzione, sicché è ormai pressoché impossibile evitare che tutto finisca in un bagno di sangue.
Thierry Meyssan
NOTE
1) «Agenti del Mossad tre le unità di al-Qaida che hanno attaccato il campo di Yarmouk», Rete Voltaire, 4 gennaio 2013.
2) «Scontri tra palestinesi in Libano», Voltaire, attualità internazionale n° 52, 16 settembre 2023.
3) «La successione di Mahmoud Abbas», Voltaire, attualità internazionale n° 54, 29 settembre 2023
4) «Georges Habache et la Résistance palestinienne», di Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 27 gennaio 2008.
5) «Il colpo di Stato degli straussiani in Israele», di Thierry Meyssan, Traduzione Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 7 marzo 2023.
6) Leo Strauss era al tempo stesso un ebreo fascista tedesco e un sionista revisionista. Incontrò il proprio idolo, Vladimir Jabotinsky, a New York con Benzion Netanyahu, padre di Benjamin, NdR.
Articolo ripubblicato su licenza Creative Commons CC BY-NC-ND
Fonte: «In Palestina cambia il paradigma», Traduzione Rachele Marmetti, Rete Voltaire, 10 ottobre 2023.
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Geopolitica
Dopo l’incidente d’auto, il ministro israeliano Ben Gvir si è già ripreso e minaccia di far cascare Netanyahu se non entra a Rafah
🚨🇮🇱 ISRAELI National Security Minister Ben Gvir car accident.
It is reported he has neck injuries. pic.twitter.com/Ejpjll7zMG — Jackson Hinkle 🇺🇸 (@jacksonhinklle) April 26, 2024
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L’Itamar, dimesso, ha già chiesto ed ottenuto un incontro con il premier Netanyahu in cui ha preteso l’invasione di Rafah.עסקה מופקרת = פירוק הממשלה
— איתמר בן גביר (@itamarbengvir) January 30, 2024
סיימתי עם ראש הממשלה פגישה לבקשתי.
— איתמר בן גביר (@itamarbengvir) April 30, 2024
הזהרתי את ראש הממשלה אם חלילה ישראל לא תיכנס לרפיח, אם חלילה נסיים את המלחמה, אם חלילה תיהיה עסקה מופקרת.
ראש הממשלה שמע את הדברים, הבטיח שישראל נכנסת לרפיח, הבטיח שלא מסיימים את המלחמה והבטיח שלא תהיה עסקה מופקרת.
אני מברך על הדברים הללו.… pic.twitter.com/aRP0sqxvrS
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Il messianismo sionista si basa sulla teoria apocalittica del Terzo Tempio, che ha diversi sostenitori anche nel protestantesimo americano. Tali idee religiose sulla fine del mondo sono riaffiorate poche settimane fa quando un gruppo sionista ha domandato di portare sulla spianata delle Moschee – cioè il Monte del Tempio degli ebrei – una giovenca rossa, che, sacrificata come prescritto nei Libro dei numeri, darebbe ceneri con cui purificare i rabbini necessari ai riti per la venuta del messia degli ebrei, che per i cristiani, secondo varie vulgate, sarebbe esattamente l’anticristo. Come riportato da Renovatio 21, anche la settimana scorsa alcuni giovani ebrei sono stati arrestati mentre tentavano di trafugare sul Monte del tempio alcuni capretti da offrire in sacrificio, un atto che è sia una provocazione nei confronti dei palestinesi musulmani, sia un procedimento inserito all’interno di un sistema di riti apocalittici.Menteri2 Zionis, Ben Gvir & Shlomo Karhi, menari di sebuah konvensi yg diadakan komunitas “pemukim” (settler) bertajuk “Konferensi Kemenangan Israel – Kembalinya Jalur Gaza & Samaria Utara.” (Target mrk: Gaza full diduduki org2 Zionis)#FreePalestine pic.twitter.com/4lUEaMeqq0
— Dina Sulaeman (@dina_sulaeman) January 28, 2024
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Geopolitica
Netanyahu: Israele invaderà Rafah con o senza accordo sugli ostaggi
Israele invierà truppe nella città di Rafah indipendentemente dal fatto che raggiunga o meno un accordo di cessate il fuoco e di rilascio degli ostaggi con Hamas, ha detto martedì il primo ministro Benjamin Netanyahu. Lo riporta RT.
Il ministro degli Esteri israeliano Israel Katz aveva precedentemente promesso di annullare la controversa operazione in cambio dei prigionieri.
Situata al confine meridionale di Gaza con l’Egitto, Rafah ospita attualmente circa 1,4 milioni di palestinesi fuggiti dalle zone settentrionali dell’enclave. Da ottobre, Israele ha effettuato attacchi aerei regolari a Rafah contro quelli che ritiene siano obiettivi di Hamas, e Netanyahu ha minacciato per mesi di lanciare un’invasione di terra della città, nonostante le obiezioni di Stati Uniti e Nazioni Unite.
«L’idea che fermeremo la guerra prima di raggiungere tutti i suoi obiettivi è fuori discussione», ha detto Netanyahu in una dichiarazione dal suo ufficio. «Entreremo a Rafah ed elimineremo lì i battaglioni di Hamas – con o senza un accordo, per ottenere la vittoria totale».
Il Ministro degli Esteri Katz aveva detto sabato al Canale 12 israeliano che Israele avrebbe «sospeso l’operazione» se Hamas avesse acconsentito a rilasciare alcuni dei circa 130 ostaggi israeliani ancora prigionieri a Gaza.
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Mentre Katz parlava, Hamas stava studiando una proposta israeliana di cessate il fuoco che vedrebbe i combattimenti temporaneamente sospesi in modo che diverse dozzine di ostaggi possano essere scambiati con prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane.
Il segretario di Stato americano Antony Blinken, che arriverà in Israele per discutere l’accordo più tardi martedì, ha definito i suoi termini «straordinariamente generosi» e ha invitato i militanti a «decidere rapidamente» e ad accettarlo.
Non è chiaro come i commenti di Netanyahu influenzeranno la decisione di Hamas. Il gruppo militante ha precedentemente respinto i termini di Israele, insistendo sul fatto che qualsiasi tregua deve includere un percorso verso un cessate il fuoco permanente e un completo ritiro israeliano da Gaza.
I partner intransigenti della coalizione di Netanyahu, tuttavia, hanno chiesto che il primo ministro proceda con l’operazione Rafah. Qualsiasi compromesso, ha detto domenica il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich, equivarrebbe a una «resa umiliante» per Israele. Durante un discorso di lunedì, Smotrich ha affermato che Israele dovrebbe cercare «l’annientamento totale» dei suoi nemici, hanno riferito i media israeliani.
Il ministro della Sicurezza nazionale Itamar Ben-Gvir ha affermato martedì che Netanyahu gli aveva promesso «Israele entrerà a Rafah, ha promesso che non fermeremo la guerra e che non ci sarà un accordo sconsiderato».
Come riportato da Renovatio 21, il premier israeliano potrebbe essere oggetto di un mandato di arresto da parte della Corte Penale Internazionale già questa settimana.
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Immagine del 2009 di RafahKid via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 2.0 Generic.
Geopolitica
La Corte Penale Internazionale potrebbe emettere un mandato di arresto per Netanyahu questa settimana
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