Pensiero
Berlusconi ha difeso la vita umana più dell’arcivescovo che ne ha celebrato il funerale
Permettetemi di definire oscena l’omelia di monsignor Delpini, l’arcivescovo di Milano che ha celebrato il funerale di Silvio Berlusconi.
Qualcuno ha detto che era ambigua, che poteva leggersi in vari modi. A me invece è sembrato che tutto fosse chiarissimo. E drammatico, errato, insolente, disperante.
L’arcivescovo di Milano ha fatto la sua predica, che per qualche ragione è circolata immediatamente pure via Whatsapp in PDF, sfogliando e leggendo a testa china: ci rendiamo conto di vivere nell’era in cui chiedere ad un vescovo di parlare a braccio ad un funerale di Stato sia troppo.
È bizzarro: sappiamo come le omelie funebri dopo il Concilio siano divenute delle santificazioni per direttissima del caro estinto, al punto che a fine messa invitano pure qualche conoscente a caso a dire quanto era buono il defunto. Eulogi, cabaret funebre. Etc.
Non sembra essere questo il caso. Il Delpini ha tenuto tutt’altra linea.
«Quando un uomo è un uomo d’affari, allora cerca di fare affari. Ha quindi clienti e concorrenti. Ha momenti di successo e momenti di insuccesso. Si arrischia in imprese spericolate. Guarda ai numeri a non ai criteri. Deve fare affari. Non può fidarsi troppo degli altri e sa che gli altri non si fidano troppo di lui. È un uomo d’affari e deve fare affari».
Si dice che qui un famigliare abbia scosso la testa. Siamo d’accordo Ma di cosa sta parlando lo zucchetto?
Chiunque sa che nelle sue aziende molto raramente si veniva licenziati. Quando per lavoro anni fa passai per Cologno Monzese, trovai dei dipendenti che dicevano che sì, oramai quel posto era un ministero, e che forse c’era personale in eccesso, ma che importa: tutti quelli che ho visto erano felici di lavorare lì. Erano sicuri, protetti, in pace.
E poi, come anche solo suggerire che Berlusconi non si fidava troppo degli altri, e che gli altri non si fidavano di lui? Fiducia e gratitudine erano una cifra evidente del personaggio. Come può Delpini non aver presente l’abnorme, talvolta eccessiva gratitudine verso le persone che hanno lavorato con lui? Mike Bongiorno, Sandra e Raimondo, Iva Zanicchi messi ad vitam su Rete4, forse per riconoscenza per aver creduto in lui agli esordi… e uscendo dalla TV, come non aver presente Ennio Doris (che da sconosciuto presentò un’idea a Berlusconi intercettandolo a Portofino, e fu ascoltato), Marco Van Basten (che gli mandava telegrammi alle vittorie rossonere: «milanista per sempre»), Sacchi, Capello, Maldini, Costacurta e pure figure intellettuali come Antonio Martino, Gianni Baget Bozzo, Marcello Pera, Lucio Colletti che aderirono al suo progetto politico?
«Quando un uomo è un uomo politico, allora cerca di vincere. Ha sostenitori e oppositori. C’è chi lo esalta e chi non può sopportarlo. Un uomo politico è sempre un uomo di parte» ha proseguito l’arcivescovo. «Quando un uomo è un personaggio, allora è sempre in scena. Ha ammiratori e detrattori. Ha chi lo applaude e chi lo detesta».
Qui cominciamo a capire dove vuole andare a parare. Il prelato riconosce che il personaggio è «divisivo», aggettivo che piace a quella CEI affiliata da lustri al PD e al network democristiano che ha portato l’Italia al collasso morale e biologico. Monsignore riconosce che davanti a sé ha un pubblico che potrebbe non amare un discorso che, come si usa nella modernità della Chiesa in uscita, parli solo bene dell’illustrissimo defunto.
Eppure, guardiamo i volti fra le navate del Duomo, e ci rendiamo conto che davvero pochi lì non debbano la loro carriera, o scatti di essa, alla sua presenza, alla sua azione diretta o indiretta. La Meloni fu lanciata come ministro nel governo Berlusconi, e fece parte del suo partito il PDL. Draghi, che pure si racconta l’aveva silurato nel 2011 con la famosa letterina che la BCE recapitò a Silvio per spianare la strada al tecnocrate Monti, è stato premier perché Forza Italia lo ha (purtroppo) votato. E poi quanti calciatori e allenatori (vincitori di sfide straordinarie, campioni veri), quanti giornalisti, starlettes, vedettes, manager assortiti e creature del sottobosco presenti alle esequie gli devono tutto – ma proprio tutto?
C’è il presidente della Repubblica, quello a fianco dell’emiro del Qatar al-Thani (uno, nonostante la montagna di morti dei mondiali di calcio, da tenersi buono, visto che l’Italia – antiberlusconianamente – si è privata del gas russo: anche se Doha ci ha già ripetuto varie volte che non c’è trippa per gatti). Non possiamo dire Mattarella che sia lì grazie a Silvio, e non sappiamo neppure se sia legale pensarlo. Tuttavia nell’ultima elezione presidenziale ebbe i voti del partito di Berlusconi, come di tutta la restante palude parlamentare. È però l’episodio della rielezione del predecessore, che vorremmo ricordare: quando venne rieletto Napolitano, con una manovra che scongiurò l’ascesa al Colle dell’eterno avversario Prodi, appena dopo gli applausi di rito, partì un coro tra i Parlamentari: «Sil-vio, Sil-vio…». Fu una sua manovra, una sua vittoria.
Ecco, Delpini sta parlando considerando loro. I Draghi, i Gentiloni, le Schlein presenti in Duomo. Quei personaggi messi lì e gonfiati da giornali e potentati che, monsignore forse lo sa, non sono esattamente di estrazione cattolica. Diciamo così, e fermiamoci qui.
Non pare, invece, che l’arcivescovo si voglia rivolgere alla famiglia, ai figli presenti, composti e addolorati. Questi ragazzi, a questo punto va scritto, danno un’immagine rara, rarissima: ciascuno con le loro peculiarità sono tutti solidi, decorosi, decenti – pure belli da vedere. Questo a evidente differenza dei rampolli di altre famiglie industriali, quelle dell’oligarcato profondo del Paese, che rappresentano plasticamente disperazione e decadenza, degrado e demenza (cosa che possiamo dire per i figli di papà imprenditori zonali molto, molto meno abbienti di Berlusconi).
La prima moglie, Carla dall’Oglio, lo ha scritto nel suo necrologio sul Corriere: è stato un papà eccezionale. Tutti possono vederlo, ma forse non l’arcivescovo, che nella sua omelia non pare toccare la questione della famiglia (che è cattolicamente delicata, per il divorzio) o anche solo della discendenza, della quantità di esseri umani che si porta dietro: oltre ai figli, 16 nipoti, e un bisnipote. Tanta robba. Questa nota positiva in fondo allo spartito, la persistenza della persona tramite i suoi eredi, colpisce noi, ma, si vede, non lo zucchetto sul pulpito.
Tuttavia non di queste mancanze che vogliamo parlare davvero. Ci ha infastidito, più di tutti, il discorso sulla «vita».
«Vivere. Vivere e amare la vita. Vivere e desiderare una vita piena» è stato l’attacco della predica di monsignore, stile film di Kurosawa. «Vivere e desiderare che la vita sia buona, bella per sé e per le persone care. Vivere e intendere la vita come una occasione per mettere a frutto i talenti ricevuti. Vivere e accettare le sfide della vita. Vivere e attraversare i momenti difficili della vita…»
Insomma, l’arcivescovo, con un fiume di stile retorico, vuole parlarci della vita. Una parola, ripetuta quasi nemmeno come in un tema di liceo, a cui l’omelia assegna un significato preciso: la vita, qui, è l’esistenza individuale, è ciò che ti accade – la vita è un fenomeno soggettivo.
Abbiamo tuttavia le prove che Berlusconi, oltre che amare la vita, amasse la Vita: e cioè la vita umana come forza sacra che esiste al di fuori di noi, che sostiene il cosmo degli uomini, che permette la continuazione dell’universo – la Vita come fenomeno oggettivo. La vita non come questione personale, ma come realtà cosmica.
Ciò divenne chiaro all’altezza degli ultimi giorni di Eluana Englaro.
Maurizio Sacconi, allora sottosegretario, gli propose un decreto legge per salvare Eluana. Berlusconi, secondo quanto ha raccontato il suo deputato veneto, accettò senza nemmeno chiedergli dei sondaggi, che sapeva potevano essere ostili. Perché gli parve chiaro che quello che stava accadendo non era un attacco alla «vita da vivere» di cui parla Delpini, ma alla Vita che ci abita ma che sta al di fuori di noi, alla vita come dono sacro sceso sulla Terra. Si sarebbe messo contro il presidente Napolitano e un largo strato del suo stesso partito, la fazione liberale che poteva tranquillamente starsene con Pannella o col PD.
Quando all’epoca ne parlò, Berlusconi aggiunse qualcosa che sconvolse tutti – compresi i sedicenti cattolici, i sedicenti pro-vita, oramai privi totalmente degli strumenti per capire la portata di quelle parole. Eluana non poteva essere lasciata morire, perché Eluana poteva ancora essere madre. Si era detto, all’epoca, che nei 17 anni di coma, in cui era assistita dalle suore Misericordine, aveva continuato ad avere le mestruazioni.
Disse proprio così: «Eluana potrebbe generare un figlio».
Questa dichiarazione è stata ricordata, con orrore, anche in questi giorni dai vari commentatori liberali.
Come poteva il primo ministro dire una cosa così abominevole? Una donna in coma che può far figli? Un figlio, per l’utenza moderna, è qualcosa che deve essere programmato, voluto, preparato – insomma, letteralmente «planned parenthood» – da cui partono l’aborto e la prole prodotta in provetta. Un figlio, oggidì, è un desiderio, un fatto soggettivo – e mai una realtà biologica, un fatto oggettivo.
Con evidenza, non era il mondo di Berlusconi. Non era il modo in cui pensava alle donne, alla riproduzione, all’umanità, alla vita e alla morte: se una donna può biologicamente generare un figlio, allora è viva. E ciò e logico e vero.
Non crediate che tale bigotto pensiero non abbia basi scientifiche – e mistiche. Ogni singolo ovulo che una donna ha in sé è generato ancora prima che nasca. Ciò vuol dire che tutte le cellule uovo che saranno utilizzati per i figli già esistono quando ancora la madre è un feto, dentro la madre. Tutti noi siamo stati generati da ovuli che esistevano dentro a nostra nonna, quando aspettava nostra madre. Se vostra madre è del 1950, l’ovulo con cui siete stati plasmati era già apparso magari perfino nel 1949, a seconda del mese in cui la mamma è nata.
È la matrioska della vita umana, custodita dal mistero assoluta della femmina. Chi ammette la legge naturale, chi è in contatto sincero con il proprio cuore, comprende nel profondo, automaticamente, come questo miracolo vada difeso – e come il mondo moderno lo voglia distruggere: predazione degli ovuli (a fine commerciali, ma pure scientifici e «sociali» – magari col cancro come conseguenza), congelamento, bioingegneria, affitto di organi riproduttivi, distruzione della femminilità tramite il transessualismo (dove è in divenire il trapianto di utero da donna a uomo).
Una donna che può generare, grazie a questo diritto divino, è una donna viva. Berlusconi comprendeva questa realtà oggettiva, la realtà di base della Vita umana che si espande e si tramanda. E si schierava per difenderla.
Alcuni lettori ci hanno scritto: Renovatio 21 deve ricordare la storia di Berlusconi ed Eluana, perché la sua difesa vale tutta la sua presidenza (la più lunga della Storia d’Italia). È vero. La comprensione della sacralità della Vita vale più di qualsiasi altra cosa, vale più delle manovre economiche, più dei trattati tra la NATO e la Russia.
Certo, la difesa della Vita in Berlusconi non fu un fatto completo. Perché comprendere la Vita in questi termini significa lottare contro l’aborto e la fecondazione in vitro. Significa, in termini molto pratici, opporsi con ogni forza ai trapianti di organi a cuor battente: perché se una donna in coma è viva perché i suoi organi possono tecnicamente ancora generare figli, allora anche un uomo è vivo finché gli batte il cuore.
Ma diciamo pure che oggi ci accontentiamo. Anche perché, c’è a questo punto da chiedersi cosa Delpini abbia fatto per difendere la Vita.
Visto che si parla di eutanasia e dintorni, ci sovviene un caso preciso, quello di DJ Fabo, il ragazzo milanese tetraplegico che accompagnato da un politico andò in Svizzera per trovare la morte volontaria.
Il 10 marzo 2017 nella parrocchia di Sant’Ildefonso fu organizzato un evento chiamato sul sito dell’arcidiocesi «Una preghiera per DJ Fabo». La parrocchia, apprendiamo, «ha accolto il desiderio della madre di Fabo di pregare per suo figlio morto – sottolinea don Davide Milani, responsabile dall’Ufficio comunicazioni sociali della Diocesi di Milano. Quello di venerdì sera sarà un momento di preghiera, non un funerale. Il giudizio della Chiesa sull’eutanasia e sul fine vita non cambia».
Eccerto. Il giudizio non cambia, tutto il resto sì, e di conseguenza. I religiosi non devono mai aver sentito parlato di piano incrinato, slippery slope, rana bollita, Finestra di Overton, etc. Non devono aver mai pensato che la celebrazione può spingere in alcuni l’idea della liceità dell’atto – il motivo per cui ai giornalisti l’Ordine dice che dei suicidi devono parlare con estrema cautela… ma del resto, se ai suicidi la chiesa conciliare offre senza problema funerali pubblici… perché prendersela con chi sceglie l’eutanasia?
Delpini all’epoca era Vicario generale di Milano. Poche settimane dopo, Delpini sarebbe divenuto arcivescovo di Milano. Ci furono polemiche per la scelta della curia dell’evento di preghiera, tuttavia abbiamo cercato, ma non abbiamo trovato dichiarazioni in merito fatte da monsignore.
Tuttavia forse abbiamo rinvenuto in una vecchia intervista su La Stampa un indizio. «L’arcivescovo di Milano Angelo Scola è d’accordo con l’iniziativa di Don Antonio?» chiede al responsabile comunicazione della Diocesi don Davide Milani l’intervistatore – che altri non è che Andrea Tornielli, attuale direttore editoriale del Dicastero per la comunicazione della Santa Sede.
Risposta: «il parroco ha condiviso la sua decisione di celebrare questo momento di preghiera prima con il vicario generale e poi con il cardinale, che è d’accordo».
Lo vedete anche voi. C’è un abisso.
Non che ci sorprendiamo: siamo nell’epoca in cui alcuni discorsi di Putin – l’uomo che più di ogni altro avrebbe meritato di farsi una spremuta d’occhi in Duomo, ma a frapporsi a questa amicizia sono stati i veri padroni del mondo – al Club Valdai sono più rilevanti e corretti, spiritualmente, delle devastanti encicliche che scrivono per l’ultimo papa.
Del resto, Delpini è quel non-cardinale che, forse pensando genuinamente di essere simpatico, fece una serie di battute che vennero interpretate come un attacco diretto al papa. Berlusconi, pur in una volgarità che via via si faceva più parossistica, con battute e barzellette lo stracciava di sicuro. E non ne ripetiamo nemmeno mezza.
Delpini è tecnicamente erede del Santo Ambrogio, l’uomo che per vox populi fu acclamato vescovo dai milanesi, quando lui, magistrato di origine tedesca, neppure era battezzato. Ora, Berlusconi sicuramente non era un santo, tuttavia come testimoniano le immagini di Piazza Duomo, è stato acclamato dai milanesi, o per lo meno dai milanisti – ancora, la gratitudine… – e pure, incredibile dictu, da una vasta porzione di interisti, come ad esempio il sottoscritto.
Perché il suo amore per la Vita è lontano dalla macchietta equilibrista che ne ha dato l’arcivescovo nella sua oscena omelia.
Il suo amore per la Vita era concreto, oggettivo, materiale – e potente, debordante.
Quanto vorremmo dire lo stesso della gerarchia cattolica odierna.
Roberto Dal Bosco
Immagine screenshot da YouTube
Pensiero
Trump e la potenza del tacchino espiatorio
Il presidente americano ha ancora una volta dimostrato la sua capacità di creare scherzi che tuttavia celano significati concreti – e talvolta enormi.
L’ultima trovata è stata la cerimonia della «grazia al tacchino», un frusto rito della Casa Bianca introdotto nel 1989 ai tempi in cui vi risiedeva Bush senior. Il tacchino, come noto, è l’alimento principe del giorno del Ringraziamento, probabilmente la più sentita ricorrenza civile degli americani, che celebra il momento in cui i Padri Pellegrini, utopisti protestanti, furono salvati dai pellerossa che indicarono ai migranti luterani come a quelli latitudini fosse meglio coltivare il granturco ed allevare i tacchini. Al ringraziamento degli indiani indigeni seguì poco dopo il massacro, però questa è un’altra storia.
Fatto sta che il tacchino, creatura visivamente ripugnante per i suoi modi sgraziati e le sue incomprensibili protuberanze carnose, diventa un simbolo nazionale americano, forse persino più importante dell’aquila della testa bianca, perché il rapace non raccoglie tutte le famiglie a cena in una magica notte d’inverno, il tacchino sì. Tant’è che ai due fortunati uccelli di quest’anno, Gobble e Waddle (nomi scelti online dal popolo statunitense, è stata fatta trascorrere una notte nel lussuosissimo albergo di Washington Willard InterContinental.
🦃 America’s annual tradition of the Presidential Turkey Pardon is ALMOST HERE!
THROWBACK to some of the most legendary presidential turkeys in POTUS & @FLOTUS history before the big moment this year. 🎬🔥 pic.twitter.com/QT2Oal12ax
— The White House (@WhiteHouse) November 24, 2025
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Da più di un quarto di secolo, quindi, eccoti che qualcuno vicino alla stanza dei bottoni si inventa che il commander in chief appaia nel giardino delle rose antistante la residenza e, a favore di fotografi, impartista una grazia al tacchino, salvandolo teoricamente dal finire sulla tavola – in realtà ci finisce comunque suo fratello, o lui stesso, ma tanto basta. Non sono mancati i momenti grotteschi, come quando il bipede piumato, dinanzi a schiere di alti funzionari dello stato e giornalisti, ha scagazzato ex abrupto e ad abundantiam lasciando puteolenti strisce bianche alla Casa Bianca.
Non si capisce cosa esattamente questo rituale rappresenti, se non la ridicolizzazione del potere del presidente di comminare grazie per i reati federali, tema, come sappiamo quanto mai importante in quest’ultimo anno alla Casa Bianca, visti le inedite «grazie preventive» date al figlio corrotto di Biden Hunter, al plenipotenziario pandemico Anthony Fauci, al generale (da alcuni ritenuto golpista de facto) Mark Milley. Sull’autenticità delle firme presidenziali bideniane non solo c’è dibattito, ma l’ipostatizzazione del problema nella galleria dei ritratti dei presidenti americani, dove la foto di Biden, considerato in istato di amenza da anni, è sostituita da un’immagine dell’auto-pen, uno strumento per automatizzare le firme forse a insaputa dello stesso presidente demente.
Ecco che Donaldo approffitta della cerimonia del pardon al tacchino per lanciare un messaggio preciso: appartentemente per ischerzo, ma con drammatico valore neanche tanto recondito.
Trump si mette a parlare di un’indagine approfondita condotta da Bondi e da una serie di dipartimenti su di « una situazione terribile causata da un uomo di nome Sleepy Joe Biden. L’anno scorso ha usato un’autopsia per concedere la grazia al tacchino».
«Ho il dovere ufficiale di stabilire, e ho stabilito, che le grazie ai tacchini dell’anno scorso sono totalmente invalide» ha proclamato il presidente. «I tacchini conosciuti come Peach and Blossom l’anno scorso sono stati localizzati e stavano per essere macellati, in altre parole, macellati. Ma ho interrotto quel viaggio e li ho ufficialmente graziati, e non saranno serviti per la cena del Ringraziamento. Li abbiamo salvati al momento giusto».
La gente ha iniziato a ridere. Testato il meccanismo, Trump ha continuato quindi ad usare i tacchini come veicoli di attacco politico.
«Quando ho visto le loro foto per la prima volta, ho pensato che avremmo dovuto mandargliele – beh, non dovrei dirlo – volevo chiamarli Chuck e Nancy», ha detto il presidente riguardo ai tacchini, facendo riferimento ai politici democratici Chuck Schumer e Nancy Pelosi. «Ma poi ho capito che non li avrei perdonati, non avrei mai perdonato quelle due persone. Non li avrei perdonati. Non mi importerebbe cosa mi dicesse Melania: ‘Tesoro, penso che sarebbe una cosa carina da fare’. Non lo farò, tesoro».
Dopo che il presidente ha annunciato che si tratta del primo tacchino MAHA (con tanto di certificazione del segretario alla Salute Robert Kennedy jr.), l’uso politico del pennuto è andato molto oltre, nell’ambito dell’immigrazione e del terrorismo: «invece di dar loro la grazia, alcuni dei miei collaboratori più entusiasti stavano già preparando le carte per spedire Gobble e Waddle direttamente al centro di detenzione per terroristi in El Salvador. E persino quegli uccelli non vogliono stare lì. Sapete cosa intendo».
Tutto bellissimo, come sempre con Trump. Il quale certamente non sa che l’uso del tacchino espiatorio non solo non è nuovo, ma ha persino una sua festa, in Alta Italia.
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Parliamo dell’antica Giostra del Pitu (vocabolo piementose per il pennuto) presso Tonco, in provincia di Asti. La ricorrenza deriverebbe da usanze apotropaiche contadine, dove, per assicurarsi il favore celeste al raccolto, il popolo scaricava tutte le colpe dei mali che affligevano la società su un tacchino, che rappresentava tacitamente il feudatario locale. Secondo la leggenda, questi era perfettamente a conoscenza della neanche tanto segreta identificazione del tacchino con il potere, e lasciava fare, consapevole dello strumento catartico che andava caricandosi.
Tale mirabile festa piemontese va vanti ancora oggi, anticipata da un corteo storico che riproduce la visita dei nobili a Gerardo da Tonco, figura reale del luogo e fondatore dell’Ordine ospedaliero di San Giovanni in Gerusalemme, poi divenuto Sovrano Militare Ordine di Malta.
Subito dopo il gruppo che accompagna Gerardo avanza il carro su cui troneggia il tacchino vivo, autentico protagonista della celebrazione. Seguono quindi i giudici e i carri delle varie contrade del paese, che mettono in scena, con grande realismo, momenti di vita contadina tradizionale. Il passaggio del tacchino è tra ali di folla che non esitano ad insultare duramente il pennuto sacrificale.
Il clou dell’evento è il cosiddetto processo al Pitu, arricchito da un vivace botta-e-risposta in dialetto piemontese tra l’accusa pubblica e lo stesso Pitu, il quale tenta inutilmente di difendersi. Dopo la inevitabile condanna, il Pitu chiede come ultima volontà di fare testamento in pubblico, dando vita a un nuovo momento di ilarità.
Durante la lettura del testamento, infatti, egli si vendica della sentenza rivelando, sempre in stretto dialetto, vizi grandi e piccoli dei notabili e dei personaggi più in vista della comunità. Fino al 2009, al termine del testamento, un secondo tacchino (già macellato e acquistato regolarmente in macelleria, quindi comunque destinato alla tavola) veniva appeso a testa in giù al centro della piazza. Dal 2015, purtroppo, il tacchino è stato sostituito da un pupazzo di stoffa, così gli animalisti sono felici, ma il tacchino in zona probabilmente lo si mangia lo stesso.
Ci sarebbe qui da lanciarsi in riflessioni abissali sulla meccanica del capro espiatorio di Réné Girard, ma con evidenza siamo già oltre, siamo appunto al tacchino espiatorio.
Il tacchino espiatorio diviene il dispositivo con cui è possibile, se non purificare, esorcizzare, quantomeno dire dei mali del mondo.
Ci risulta a questo punto impossibile resistere. Renovatio 21, sperando in una qualche abreazione collettiva, procede ad accusare l’infame, idegno, malefico tacchino, che gravemente nuoce a noi, al nostro corpo, alla nostra anima, al futuro dei nostri figli.
Noi accusiamo il tacchino di rapire, o lasciare che si rapiscano, i bambini che stanno felici nelle loro famiglie.
Noi accusiamo il tacchino di aver messo il popolo a rischio di una guerra termonucleare globale.
Noi accusiamo il tacchino di praticare una fiscalità che pura rapina, che costituisce uno sfruttamento, dicevano una volta i papi, grida vendetta al cielo.
Noi accusiamo il tacchino di essere incompetente e corrotto, di favorire i potenti e schiacciare i deboli. Noi accusiamo il tacchino di essere mediocre, e per questo di non meritare alcun potere.
Noi accusiamo il tacchino di aver accettato, se non programmato, l’invasione sistematica della Nazione da parte di masse barbare e criminali, fatte entrare con il chiaro risultato della dissoluzione del tessuto sociale.
Noi accusiamo il tacchino di favorire gli invasori e perseguitare gli onesti cittadini contribuenti.
Noi accusiamo il tacchino di aver degradato la religione divina, di aver permesso la bestemmia, la dissoluzione della fede. Noi accusiamo il tacchino di essere, che esso lo sappia o meno, alleato di Satana.
Noi accusiamo il tacchino di operare per la rovina dei costumi.
Noi accusiamo il tacchino per la distruzione dell’arte e della bellezza, e la sua sostituzione con bruttezza e degrado, con la disperazione estetica come via per la disperazione interiore.
Noi accusiamo il tacchino di essere un effetto superficiale, ed inevitabilmente tossico, di un plurisecolare progetto massonico di dominio dell’umanità.
Noi accusiamo per la strage dei bambini nel grembo materno, la strage dei vecchi da eutanatizzare, la strage di chi ha avuto un incidente e si ritrova squartato vivo dal sistema dei predatori di organi.
Noi accusiamo il tacchino del programa di produzione di umanoidi in provetta, con l’eugenetica neohitlerista annessa.
Noi accusiamo il tacchino di voler alterare la biologia umana per via della siringa obbligatoria.
Noi accusiamo il tacchino di spacciare psicodroghe nelle farmacie, che non solo non colmano il vuoto creato dallo stesso tacchino nelle persone, ma pure le rendono violente e financo assassine.
Noi accusiamo il tacchino per l’introduzione della pornografia nelle scuole dei nostri bambini piccoli. Noi accusiamo il tacchino per la diffusione della pornografia tout court.
Noi accusiamo il tacchino per l’omotransessualizzazione, culto gnostico oramai annegato nello Stato, con i suoi riti mostruosi di mutilazione, castrazione, con le sue droghe steroidee sintetiche, con le sue follie onomastiche e istituzionali.
Noi accusiamo il tacchino di voler istituire un regime di biosorveglianza assoluta, rafforzato dalla follia totalitaria dell’euro digitale.
Noi accusiamo il tacchino, agente inarrestabile della Necrocultura, della devastazione inflitta al mondo che stiamo consegnando ai nostri figli.
Tacchino maledetto, i tuoi giorni sono contati. Sappi che ogni giorno della nostra vita è passato a costruire il momento in cui, tu, tacchino immondo, verrai punito.
Roberto Dal Bosco
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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia
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Eutanasia
Il vero volto del suicidio Kessler
Vi è tutta una tradizione di geremiadi sulle stragi perpetrate dai tedeschi in Italia, che va dal Sacco di Roma dei Lanzichenecchi (1527) agli eccidi compiuti dai soldati nazisti alla fine della Seconda Guerra Mondiale. Una strage ulteriore è partita in queste ore, ma pare non ci sia nessuno a cercare di fermarla: anzi, consapevoli o no, i funzionari dell’esablishment, e di conseguenza il quivis de populo, sono impegnati ad alimentarla.
Esiste infatti un fenomeno sociologico preciso, conosciuto ormai da due secoli, chiamato «effetto Werther», che descrive l’aumento dei suicidi in seguito alla diffusione mediatica di un caso di suicidio, per imitazione o suggestione emotiva. Esso prende nome dal romanzo I dolori del giovane Werther di Goethe (1774), la cui pubblicazione fu seguita da una serie di suicidi imitativi tra i giovani europei, tanto da spingere alcune nazioni a vietarne la vendita.
Quella del suicidio come contagio non è un residuo dello scorso millennio. Vogliamo ricordare, specie all’Ordine dei Giornalisti e alle autorità preposte, che le direttive per il discorso pubblico sui suicidi sono molto precise: le cronache del suicidio vanno limitate, soppesate, controllate, perché è altissima la possibilità che i lettori ne traggano un’ulteriore motivazione per farla finita. Perfino nei motori di ricerca, alla minima query sulla materia, spuntano come funghi i numeri di telefono delle linee anti-suicidio.
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«Le norme deontologiche indicano chiaramente le cautele con cui devono essere esposti questi casi per non provocare dei fenomeni di emulazione: ci sono dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che dimostrano in modo chiaro che parlare dei suicidi fa aumentare il numero delle persone che decidono di togliersi la vita» scrive l’Ordine, che sull’argomento organizza pure abbondanti corsi di aggiornamento.
Tutto questo pudore civile e spirituale è stato completamente inghiottito dalla propaganda sulle nuove frontiere dell’autodeterminazione, quella che vuole convincere tutti di essere padroni incontrastati della propria vita e della propria morte, e ci sta riuscendo alla grande. La morte assistita assume pure, in quest’era grottesca, le forme delle gambe delle Kessler – che, forse temendo un cortocircuito di senso, non si sono rivolte per la pratica all’Associazione Coscioni.
Il loro è stato un bel finestrone di Overton aperto sull’autosoppressione pianificata: basta guardare come ne parlano i giornali, le TV, gli ebeti al bar, per comprendere come esso serva a sdoganare definitivamente il suicidio come valore.
E per giunta una forma di suicidio nuova, con conseguenze sul racconto pubblico ancor più insidiose: par di capire infatti che si tratti di un suicidio per «vita completa», cioè il caso in cui l’aspirante morituro sente di aver esaurito, con più o meno soddisfazione, la sua esistenza. In Olanda, dove la fattispecie trova la naturale assistenza dello Stato eutanatico fondamentalista, la chiamano voltooid leven, e si adatta agli anziani (di solito tra i 70–75 anni) che non soffrono gravemente e spesso godono di una salute relativamente buona, ma che vogliono concludere la vita dettando loro le condizioni: i tempi, il contesto, la scenografia.
Le Kessler avevano deciso di morire. La piccola autostrage omozigotica era perfettamente programmata: la disdetta dell’abbonamento al quotidiano bavarese spedita per lettera con la data esatta del suicidio (la precisione tedesca!), i regalini inviati per arrivare a destinazione post mortem, la disposizione di essere cremate (ovvio) e di mettere in un’urna unica le proprie ceneri insieme a quelle della madre e del cane Yello. Particolare, quest’ultimo che, nel finestrone, apre un altro finestrino.
Le gemelle erano, come tante persone morbosamente legate a cani e gatti, nullipare: niente figli, per scelta emancipativa (tra le cronache che le immortalavano accompagnate a questo o quel divo, dicevano di aver visto il papà picchiare la mamma i fratelli morire in guerra: come in effetti non è mai accaduto a nessuno).
Morire così, facendosi trovare in una casa vuota, è qualcosa che ripugna al pensiero di chiunque abbia una famiglia. Perché, nella scansione naturale per cui si è figlie, ragazze, fidanzate, spose, madri, nonne, la casa si riempie di consanguinei e nemmeno solo di quelli. Nella famiglia (non fateci aggiungere l’aggettivo «tradizionale») non si può morire soli: la tua mano è stretta tra quelle di tante persone di generazioni diverse. Abbiamo in mente il caso di una nonna veneta, che, attorniata da una dozzina di figli, nipoti e pronipotini, mentre moriva pronunciò due semplici e inaspettate parole: «me spiaze», mi dispiace. Del resto, si accingeva a lasciare un intero universo che non solo non era vuoto, ma che materialmente, incontrovertibilmente, le voleva bene.
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Ecco la condanna definitiva che proviene dal mondo creatosi con il dopoguerra e il boom economico: egotismo infinito e terminale che arriva ad impedire, oltre che la trascendenza, pure la discendenza. Persone narcotizzate e sterilizzate dalla TV, o per chi come loro stava dall’altra parte, catturate dal culto dell’immagine e del successo; soggetti che, programmaticamente rifiutando di procreare – e quindi di tramandare un pezzo della propria vita biologica, un pezzo di codice, un pezzo di cuore – coltivano una visione solipsista dell’esistenza suscettibile di sfociare nel nichilismo sociopatico. Si precludono così quella forma istintiva di empatia che, antivedendo il danno che un gesto estremo può provocare ad altri, tiene in conto la possibilità concreta che questo si traduca in pedagogia distorta.
Le Kessler in apparenza incarnavano il simbolo di un’era di gioia morigerata, di eleganza e di innocenza – mostravano al massimo le gambe chilometriche, mentre l’economia prosperava e il mondo costruiva una pace con il tetto di armi termonucleari – ma quell’era (che mai dobbiamo rimpiangere!) non ha fatto altro che preparare il terreno all’ambiente malato in cui ci tocca vivere nell’ora presente. Dove non c’è nulla al di fuori di me, non c’è l’al di là, ma neppure l’al di qua: no figli, no nipoti, no amici, no consorzio umano in generale. Perché, sì, l’utilitarismo edonista caricatosi nelle menti dei boomer così come nel sistema della medicina di Stato e dello Stato moderno tutto, è un orizzonte disumano e disumanizzante.
La vita svuotata di ogni dimensione che non sia il piacere, la vita che non contempla il dolore, non può non portare che al desiderio di morte quando la percezione del piacere sfuma, o quando appare il dolore, o anche quando, in assenza di dolore, c’è la paura che esso prima o poi si manifesti. La soglia che legittima la compilazione del modulo con la richiesta di morte si anticipa sempre di più, e lo Stato genocida è pronto ad assolverla sotto la maschera bugiarda della pietà anche per chi semplicemente desideri allestire il proprio teatrino funebre curando e controllando ogni dettaglio della scena, per chiudere il sipario definitivo sotto la propria esclusiva regia.
Lo scrittore francese Guy Debord, proprio negli anni in cui le Kessler allungavano i loro arti a favore di telecamere RAI, aveva pubblicato un piccolo saggio, invero un po’ sopravvalutato, intitolato La società dello spettacolo. Ebbene, ora che quella generazione è arrivata alla raccolta, potremmo aggiungerci una specificazione e parlare di società dello spettacolo della morte.
Come fosse il loro ultimo balletto, la morte procurata delle soubrette non è dipinta dai media alla stregua di un fatto tragico – anzi. Se neanche troppi anni fa di un suicidio si dava conto sulle pagine della cronaca (con relativa descrizione di particolari squallidi e disturbanti), oggi potrebbe finire tranquillamente nella rubrica degli spettacoli perché, in fondo, anche quello fa parte della carriera.
Quando una decina di anni fa, lanciandosi dalla finestra, si suicidò il regista Mario Monicelli, il cui successo fu coevo a quello delle Kessler, non fu del tutto possibile, per questioni organolettiche, esaltarne il gesto. Ora invece sì, perché non c’è la star spiaccicata sull’asfalto, non c’è nulla da pulire, il quadretto è asettico come nella brochure di un mobilificio.
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Forse, inzuppati e inflacciditi dentro il brodo avvelenato della pubblicità progresso, non ci rendiamo più nemmeno conto di cosa alligni dietro la stomachevole apologia della carriera televisiva delle ballerine e del loro gesto orrendo, impacchettati entrambi nello stesso cartoccio mediatico che vuole profumare di teutonica, himmleriana, perfezione – quando in realtà puzza di cadavere e di impostura.
Non ci rendiamo conto di cosa significhi un messaggio patinato così violento nella sua apparente dolcezza per chi ne viene investito quando magari debba ancora capire, perché nessuno glielo ha trasmesso, il senso del vivere e il senso del morire, l’ineludibilità della sofferenza e la nobiltà che risiede nella forza di farsene carico.
Ci resta, ora, la conta impossibile di quanti ci faranno un pensiero a togliersi di mezzo dopo l’esempio delle gemelle suicide. Magari persone che un tempo le guardavano ballare in TV, che hanno lavorato e penato una vita intera, alle quali il suicidio di due soubrette VIP dovrebbe suonare come uno schiaffo in faccia e invece un sistema putrescente vuole far apparire come un addio di gran classe.
Chi può contrapponga subito a loro, nella mente, l’antidoto più naturale: il ricordo della propria nonna, che ha figliato, patito, lavorato per la discendenza con infinite ore-uomo, con un’eternità di pranzi della domenica e di racconti e di ricami, la nonna saggia e piena di affetto per chi veniva dopo di lei.
Perché dopo di lei qualcosa c’è: ci siamo noi, c’è la vita e c’è un mondo da ricostruire.
Roberto Dal Bosco
Elisabetta Frezza
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Immagine di pubblico dominio CC0 via Wikimedia; immagine modificata
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