Persecuzioni
Gerusalemme, nuovo attacco di coloni ebraici (e polizia) al quartiere armeno
Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.
Nel mirino le proprietà contese nella zona denominata «Giardino delle Vacche», da tempo al centro di una controversia anche legale. Le forze dell’ordine, senza presentare alcun mandato, hanno sostenuto gli assalitori nel tentativo di sgombero. Il patriarcato in una nota chiede «ai cristiani di tutto il mondo» di difendere e sostenere la battaglia della comunità di Terra Santa.
All’ombra della guerra a Gaza, anche sul fronte interno israeliano si consumano attacchi, abusi e violazioni da parte di polizia, gruppi radicali e autorità governative che passano in gran parte sotto silenzio.
Prova ne è quanto successo – di nuovo – ieri mattina verso le 11 nel quartiere armeno di Gerusalemme, in una zona denominata «Giardino delle Vacche» (Goveroun Bardez): le forze dell’ordine e un gruppo di coloni ebraici hanno cercato di attuare uno sfratto «illegale», in un’area contesa da tempo al centro di una controversia finita anche nelle aule di tribunale.
Il tentativo di esproprio, sottolinea una nota del Patriarcato armeno di Gerusalemme, «è iniziato con la distruzione delle proprietà» e con «assalti al clero e agli armeni locali».
Gli avvocati che rappresentano la comunità armena di Gerusalemme hanno condannato il comportamento della polizia e dei coloni, che hanno beneficiato della «copertura» degli agenti nel tentativo di entrare illegalmente nel “Giardino”.
L’obiettivo era di cacciare con la forza – e contro il diritto – gli armeni e di modificare lo status quo dell’area. Fonti rilanciate dal Tatoyan Foundation Center for Law and Justice riferiscono che le forze dell’ordine hanno «rimosso illegalmente» le barricate a protezione «senza un ordine del tribunale e preavviso».
A seguire è scoppiata «una rissa» tra membri della comunità «compreso il clero» e gli assalitori spalleggiati dalla polizia.
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La nota del patriarcato armeno precisa che a guidare «lo sgombero era Assaf Harel», ufficiale di polizia, e il gruppo di agenti intervenuti, seppure sollecitati, non ha saputo mostrare i documenti che autorizzavano l’operazione, compreso «l’allontanamento fisico dei sacerdoti».
«I permessi o gli ordini del tribunale – prosegue la dichiarazione – non sono stati presentati», ma gli agenti hanno continuato a «proteggere e assistere i rappresentanti di Xana Gardens nella loro distruzione di proprietà».
«È chiaro che le provocazioni di oggi sono un tentativo di creare un precedente contro il quartiere armeno e le sue terre legittime. Continueremo a difendere la nostra posizione e chiederemo ai cristiani di tutto il mondo – conclude la nota patriarcale – di mettere in luce queste invasioni senza fine della pacifica comunità cristiana armena».
La vicenda è esplosa nel maggio scorso, ma il contratto era stato firmato in gran segreto nel luglio 2021 e prevede l’affitto per quasi un secolo di «Cow’s Garden», oggi un parcheggio utilizzato per recarsi al muro del pianto.
L’uso – assieme ad altre proprietà menzionate nel contratto – da parte degli ebrei ha provocato l’ira degli armeni, che da tre anni si battono per tornare a disporne a pieno titolo.
A originare lo scontro l’affitto per 99 anni – una cessione di fatto – di proprietà immobiliari a un imprenditore ebreo australiano dall’impero economico opaco, che muove da dietro le quinte. Di recente la comunità armena ha presentato ricorso in tribunale, con l’obiettivo di «invalidare» la locazione fra patriarcato e Xana Capital.
L’azione si basa sul presupposto che i terreni sono detenuti in via fiduciaria a beneficio della comunità con un fondo waqf istituito oltre 400 anni fa e non possono essere venduti o affittati se la transazione non va a beneficio della comunità o è approvata.
Il prete «traditore» che ha mediato e sottoscritto l’atto è Baret Yeretzian, ex amministratore dei beni immobili del Patriarcato armeno di Gerusalemme, oggi in «esilio». Con lui hanno operato il patriarca armeno ortodosso Nourhan Manougian, l’arcivescovo Sevan Gharibian e l’uomo d’affari Daniel Rubenstein (conosciuto come Danny Rothman), che intende costruire un hotel di lusso.
La vicenda ha toccato anche la carica patriarcale, col primate armeno «sfiduciato» dalla comunità, parte dei fedeli ne hanno invocato le dimissioni, mentre Giordania e Palestina hanno «congelato» di fatto l’autorità, così come gli stessi «Accordi di Abramo»: una delle compagnie coinvolte, infatti, è la One&Only, con base a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti (EAU).
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Immagine di ekeidar via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-Share Alike 3.0 Unported
Persecuzioni
Continuano i massacri di cristiani in Nigeria
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Persecuzioni
Pakistan, conversioni forzate: tentato avvelenamento di un cristiano di 13 anni
Renovatio 21 pubblica questo articolo su gentile concessione di AsiaNews. Le opinioni degli articoli pubblicati non coincidono necessariamente con quelle di Renovatio 21.
Saim era uscito di casa per andare a tagliarsi i capelli, quando una guardia di sicurezza, che aveva notato addosso al ragazzo una collana con la croce, ha iniziato a chiedergli di recitare preghiere islamiche. Il giovane, dopo essersi rifiutato, è stato costretto a ingerire una sostanza nociva.
In Pakistan si è verificato l’ennesimo tentativo di conversione forzata nei confronti di un ragazzo cristiano di 13 anni, costretto a ingerire una sostanza tossica dopo essersi rifiutato di abbracciare l’Islam.
L’episodio è avvenuto nella città di Lahore il 13 aprile: Saim era uscito di casa per andare a tagliarsi i capelli, ma è stato fermato da una guardia di sicurezza musulmana che aveva notato che il ragazzo aveva al collo una croce.
La guardia, di nome Qadar Khan, ha strappato la collana e costretto Saim a recitare una preghiera islamica, ma il ragazzo si è rifiutato, dicendo di essere cristiano. L’uomo ha quindi costretto Saim a ingerire una sostanza tossica nel tentativo di avvelenarlo.
Sono stati i genitori del giovane a trovare il corpo del figlio senza conoscenza dopo diverse ore che Saim mancava da casa. Il padre, Liyaqat Randhava, si è rivolto alla polizia ma ha raccontato di aver ricevuto un trattamento iniquo.
Gli agenti hanno registrato la denuncia solo dopo diverse insistenze e una copia del documento non è stata rilasciata alla famiglia di Saim, che ha detto inoltre che diverse parti del racconto non sono state incluse nella denuncia (chiamata anche primo rapporto informativo o FIR).
Joseph Johnson, presidente di Voice for Justice, ha espresso profonda preoccupazione per i crescenti episodi di conversioni religiose forzate in Pakistan e ha condannato quanto successo a Saim, aggiungendo che la polizia sta mostrando estrema negligenza nel caso. «Evitando di includere i dettagli cruciali nel FIR, la polizia ha sottoposto Saim e la sua famiglia a ulteriori abusi», ha affermato Johnson, chiedendo l’intervento del governo per un’indagine.
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Immagine di Guilhem Vellut via Flickr pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic
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