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Il privilegio israeliano di sparare sugli italiani. Più qualche domanda abissale

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Le implicazioni di quanto sta succedendo in Libano non pare siano state percepite appieno dai tanti commentatori lanciatisi nella materia. L’attacco israeliano alla missione di pace internazionale UNIFIL a guida italiana – cioè, l’aggressione pura e semplice di nostri soldati – ha, come tante slatentizzazioni che testimoniamo nell’ora presente, ramificazioni immani: e mica solo dal punto di vista politico, geopolitico, militare, storico – no, ci sono questioni che emergono in superficie che pertengono a piani superiori, all’empireo del metapolitico, del metastorico. Dello spirituale. Del divino.

 

Innanzitutto, lode al ministro della Difesa italiano, che ancora una volta dimostra di sapersi svegliare dalla parte giusta dell’universo. Chiamare quanto stanno facendo le Forze di difesa israeliane (oramai chiamate da tutti non più con il vecchio nome ebraico, Tsahal, ma con l’acronimo english IDF, un rebrand pronunziato ridicolmente dai corrispondenti TV proprio «ai-di-ef») contro i nostri soldati con il loro nome – «crimini di guerra», ha detto in conferenza stampa videografata, poco dopo aver incontrato l’ambasciatore dello Stato degli ebrei a Roma – non è cosa da poco.

 

Il Crosetto, ricordiamo, è quello che si è opposto pubblicamente a Macron quando quest’ultimo ha cominciato bizzarramente (per motivi che possiamo solo intuire) a parlare di guerra diretta alla Russia in Ucraina da parte di soldati occidentali.

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Il lettore sa pure che il ministro, sia pur timidamente, ha ammesso di aver ricevuto nocumento dall’iniezione di siero genico sperimentale COVID. Se per cominciare a comprendere qualcosa di Ucraina e Israele bisogna seguire il percorso, c’è da augurarsi il danno vaccinale a tutta la classe dirigente euro-americana: un sacrificio accettabile per impedire la guerra termonucleare mondiale, scoppiata via Kiev o Beirut non importa.

 

Ora, torniamo un secondo a capire cosa sta accadendo: l’esercito di Israele spara sui nostri soldati in missione di pace. E non una volta: dopo lo scandalo, e le parole del ministro, pare ci sia stata, una ventina di ore fa, un’ulteriore ondata di danni alla base italiana in Libano.

 

Secondo quanto hanno ricostruito i giornali – controvoglia, certo – italiani, i miliziani ebraici avrebbero avuto la cortesia di chiamare prima gli italiani, probabilmente l’unico contingente con cui mai vi erano stati problemi, anzi: provate a vedere i rapporti con i soldati irlandesi, che vengono da un Paese per decadi filo-OLP, e che ora non sembra aver tanto cambiato rotta.

 

Cioè, i soldati israeliani chiamano gli italiani in missione ONU, e dicono loro: attenti, vi bombardiamo, andate nel bunker. I nostri connazionali – come topi! – corrono a nascondersi, obbedendo. Poi, a quanto si legge, avrebbero colpito proprio l’ingresso del bunker. Una scena stile Tom & Jerry, con il gatto che danneggia il buco in cui si è rifugiato il muride in fuga.

 

Ora, per quanto riguarda la politica e la geopolitica, facciamo presente che non è niente di personale: gli italiani si trovano solo a capo di una cosa con l’etichetta UN (cioè, da noi, ONU) davanti – forse abbiamo dimenticato i bombardamenti sui rifugi delle Nazioni Unite a Gaza neanche un anno fa.

 

E chi ci segue, sa che Renovatio 21 ha provato in questo anno a registrare tutta l’estenuazione dei rapporti tra Stato Ebraico e Palazzo di Vetro, il cui ultimo capitolo è il bando del segretario Guterres da Israele come persona non grata, ma che prima aveva visto vette altissime grazie all’ambasciatore Israel Katz (lui), ma anche alle continue dichiarazioni di personale ONU che parlano di Gaza come «inferno» «non adatto alla vita umana».

 

In pratica, Israele non vuole l’ONU tra le scatole mentre deve far pulizia nel Paese limitrofo, così da assicurare il ritorno a casa dei 70 mila israeliani che vivono nel Nord e che ora sono sfollati. Tecnicamente, non un piano difficile da capire.

 

Il procedimento è ancora più interessante se si guarda invece alla teoria: Israele sta dicendo, in maniera anche convicente, che del diritto internazionale non se ne fa nulla, che esso non vale niente: a questo punto, c’è da dire pure con ragione. Cosa vale, a questo punto, l’intero impianto legale tra le Nazioni, se davanti pure a questo caso non si fa nulla?

 

E ancora: cosa vale l’ONU? Cosa vale l’UE? Cosa vale la NATO? Perché, uno si chiede, a quanti strati diplomatico-militari siamo qui dall’articolo 5 del Trattato?

 

Domanda ancora più profonda: cosa vale lo Stato italiano, se non reagisce davvero?

 

Si tratta di una dichiarazione di coraggio estremo, di importanza storica, metastorica, politica, metapolitica. Lo Stato Ebraico – il Paese messianico del Popolo Eletto – non si cura delle leggi, e, ancora più rilevante, delle relazioni internazionali: sparare sugli italiani? Perché no? Perché preoccuparsi? Cosa possono farci?

 

Si tratta di un privilegio non da poco: pensiamo che poche ore fa la nostra intera classe politica era in sinagoga con la kippah a ricordare la nuova ricorrenza «olocaustica», il 7 ottobre. C’era la Meloni, cui è risparmiato il copricapo sinagogale in quanto donna. C’era, zucchetto in testa, il ministro con l’aquila fascista tatuata sul petto. C’era l’ex deputato antigender papillonato. C’erano tutti, post-mussolinici o meno, incuranti che – visto che c’è perfino un caso aperto all’Aia dove la parola «genocidio» ha perso il copyright, con tanti Paesi dietro – in un futuro prossimo la data potrebbe essere ricordata, più che come la tragedia tremenda del rave (stranamente fatto al confine…) e dei rapiti, come l’inizio di un programma di massacro che fa impallidire i racconti del nonno partigiano sulla legge del taglione: di qua 1.200 ammazzati, di là, solo a Gaza, almeno 40.000…

 

È la chuzpah, la hybris ebraica, la tracotanza sionista al suo meglio – quella che già il teorizzatore dello Stato di Israele Teodoro Herzl aveva mostrato durante l’udienza concessagli da Papa San Pio X 120 anni fa. Abbiamo immaginato, ma non abbiamo prova alcuna, che forse sia lo stesso fenomeno che ha irritato Crosetto, arrivato incazzato nero davanti alle telecamere l’altro giorno.

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Il governo italiano sperimenta così un grande problema dell’ora presente: l’impotenza di chiunque rispetto alla questione israeliana. Potete chiedere all’uomo più potente della Terra, sulla carta, Joe Biden, ma non è detto che vi risponda. Potete chiedere pure a Donald Trump, che nelle ultime ore della presidenza arrivò a graziare e liberare e spedire in Israele Jonathan Pollard, una spia israeliana che ha danneggiato gli USA in mondo insuperabile, per poi trovarsi senza tante sponde da parte di Netanyahu quando si era sul fotofinish della contestata competizione elettorale con Biden. (Va detto, qua e là Donald ha lasciato qualche briciola interessante, come quando mesi fa ha rivelato che a fargli uccidere Soleimani sono stati gli israeliani, salvo poi sfilarsi all’ultimo… qualcuno dice che qui il biondo stia giocando un gioco a lungo termine, vedremo).

 

Ebbene, all’Italia e agli italiani, di tutte le religioni, vogliamo qui porre una ulteriore domanda da capogiro: ci sono cittadini italiani che in questo momento stanno combattendo con Israele?

 

Perché sapete, secondo il Codice Penale un cittadino italiano non può entrare in un esercito straniero. L’art. 244 C.P. scrive che «chiunque, senza l’approvazione del Governo, fa arruolamenti o compie altri atti ostili contro uno Stato estero, in modo da esporre lo Stato italiano al pericolo di una guerra, è punito con la reclusione da sei a diciotto anni; se la guerra avviene, è punito con l’ergastolo». Tale articolo pone problemi a chi ha una doppia cittadinanza con un Paese che prevede la naja obbligatoria.

 

Lo Stato Ebraico prevede un servizio militare obbligatorio per tutti i propri cittadini quando compiono 18 anni: 2 anni e otto mesi per i maschi e solo 2 anni per le femmine.

 

Quindi, ci si chiede come possano quegli ebrei italiani che hanno anche passaporto israeliano – fenomeno non raro presso le comunità ebraiche italiane, immaginiamo – a fare quando vanno a farsi i tre tremendi anni di leva in Terra Santa, dai quali molti ragazzini escono con la passione per la musica techno-trance e conseguentemente per le droghe sintetiche.

 

Un disegno di legge a firma Francesco Cossiga (chi, sennò) depositato al Senato durante la XV legislatura nel 2006 – cioè, un anno dopo che era stata abolita la leva in Italia … – prevedeva che «i cittadini italiani che siano iscritti all’Unione delle Comunita Ebraiche Italiane, ancorche non siano anche cittadini dello Stato d’Israele, possono liberamente e senza autorizzazione delle autorita italiane prestare servizio militare anche volontario nelle forze di difesa ed anche servizio in altre amministrazioni dello Stato d’Israele» (DDL 730/2006, art.3).

 

Non che abbiamo capito bene come funzioni questa cosa, soprattutto perché ci chiediamo: prima, nessun giudice si è mosso? In Italia non c’era per le toghe l’obbligo di azione penale? È un altro privilegio opaco, su cui è meglio tacere?

 

Sui numeri, un articolo de Il Giornale di un anno fa – all’altezza dello scoppio del patatracco – ci viene incontro. «Gli italiani residenti in Israele sono oltre 18mila tra cui numerosi cittadini con doppia cittadinanza. Di questi, circa mille ragazzi con doppio passaporto sono arruolati nell’esercito israeliano (IDF) per il servizio di leva secondo quanto riferito dal ministro degli Esteri, Antonio Tajani, nelle comunicazioni al governo sulla situazione in Medio Oriente».

 

Quindi, gli italiani che combattono con Israele sarebbero almeno un migliaio…

 

A questo punto, non è che possiamo evitare di domandarci: e se fossero degli italiani che hanno sparato contro gli italiani?

 

Ammettiamolo, è una bella domanda, ma per motivi su cui urge riflettere davvero. Così come ci sarebbe da fare un’ulteriore domanda birichina: nei nostri servizi c’è qualcuno che ha la doppia cittadinanza? Quanto la nostra Intelligence è legata a quella dello Stato Ebraico? Domande che ci siamo posti non solo vedendo che uomini che primi ministri volevano piazzare da qualche parte nei servizi nazionali sono diventati consoli israeliani, ma soprattutto quando è emerso che sul Lago Maggiore era scuffiata, con morti e feriti, una barca con sopra un incontro con una ventina di 007 italiani e israeliani (Cosa sia accaduto, cioè, la tromba d’aria che rovescia solo quella barchetta, non lo sappiamo, ma ad una certa, giuriamo, non avremo più paura delle ipotesi fantascientifiche).

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Ma anche qui, sono cose politiche, geopolitiche. Cose mondane. Robetta.

 

La domanda più profonda è: se un italiano israeliano spara su una base italiana, perché lo fa? Attenzione: non stiamo dicendo che sia accaduto, anche se non farebbe differenza. Dobbiamo solo tratteggiare uno scenario per far comprendere il ragionamento.

 

Se un israeliano italiano (cresciuto a Roma ar ghetto, tra le botteghe transgenerazionali, la Sinagoga, il tifo allo stadio, i romanzi celebrativi degli scrittori da premio letterario, il romanesco parlato come chiunque altro) spara su una base italiana, è perché, forse, la sua lealtà ultima non va verso uno Stato moderno, una «Repubblica laica», ma verso un’entità che rappresenta la sua identità ancestrale. Cosa viene prima? La cittadinanza, o la religione? Il tuo passaporto, o il tuo spirito? La carta o l’origine? L’anagrafe o Dio?

 

Cosa ti può far risuonare il sangue, sino a spingerti a volerlo versare? La tua nazionalità o la tradizione divina che investe il tuo essere, la tua famiglia, da generazioni, e per generazioni nel futuro?

 

Capite che non stiamo accusando nessuno: anzi. Stiamo dicendo, semplicemente, che siamo davanti ad una scelta obbligata, un nodo che prima o poi doveva venire al pettine. E, questo è il punto, non solo per gli ebrei.

 

Perché, parlo ai cristiani europei, a cosa andrebbe la vostra lealtà? Al Paese delle carte bollate, o ad una dimensione spirituale realizzata, ad uno Stato Cristiano, che difende i cristiani, che rappresenta spiritualmente – e, sì, messianicamente, apocalitticamente – il vostro credo, le vostre radici?

 

Non siamo a noi che dobbiamo rispondere a questa domanda: perché chi rispondesse mettendo la crocetta sul secondo caso finirebbe, non godendo di privilegi, per essere accusato di tradimento. Lo Stato moderno è così, inutile girarci intorno: lo Stato «laico» non può tollerare qualcosa di diverso da esso, e questo forse perché è stata concepita dai massoni nell’Ottocento, e il codice sorgente non è stato mai cambiato, né da Mussolini, né dai democristiani – con il risultato che abbiamo sotto gli occhi.

 

Lo Stato moderno è fondamentalista: certo, con le eccezioni che abbiamo davanti, ma anche lì ci sarà una spiegazione sulla quale ora non ci soffermeremo.

 

Qui, comunque, sta la vera domanda abissale di queste ore: la differenza tra uno Stato che si basa sulla politica e uno che si basa sulla metafisica. La differenza tra le nazioni moderne, e quelle metastoriche – quelle fondate sulla religione, cioè sulle cose ultime, cioè sull’eterno.

 

Questo per dire mai sarà possibile parlare la stessa lingua dello Stato Ebraico fino a che non vi sarà qualcuno che proverrà materialmente da uno Stato Cristiano.

 

E aggiungiamo pure che un vero Stato Cristiano non sarà possibile fino a che Gerusalemme sarà lasciata ai non-cristiani, che l’anno resa un luogo di desolazione, di degradazione, di violenza e di orrore, oltre che di blasfemo scherno contro Nostro Signore.

 

La posizione del Vaticano era stata, fino a Wojtyla con le sue scuse e i muri del pianto, che nella città Santa dovesse starci una forza internazionale – ma lasciamo pure perdere il Sacro Palazzo, il cui rappresentante principale ora finisce pure a cartone animato negli spot del ministero del Turismo israeliano.

 

Pensiamo, piuttosto, alla logica. Renovatio 21 lo aveva già scritto tempo fa: ad un certo punto, Stato Ebraico e Stato Islamico, qualche anno fa, confinavano. Nell’area mancava solo uno Stato espressione della prima religione mondiale: no, lo Stato Cristiano in Medio Oriente non si trova, in realtà non lo si vede da nessuna parte, e sappiamo pure il perché. Lo Stato moderno è stato creato per distruggere lo Stato Cristiano ed impedirne la resurrezione.

 

Di fatto, crediamo, a questo punto, sia in realtà il tassello che manca: senza lo Stato Cristiano non si avrà mai l’equilibrio in Medio Oriente. Né nel resto della Terra. Né – certo non parlo per tutti, ma in fondo anche sì – nella nostra anima.

 

Ecco perché la rabbia verso Israele, adesso, ci lascia indifferenti. Per i cristiani, non è più il tempo della lagna, e da un pezzo. Forse non è neppure il tempo di combattere: ma è, decisamente, il tempo di costruire. Costruire qualcosa di immenso – qualcosa di eterno. Qualcosa che – chiudete gli occhi, ascoltate dentro di voi – di fatto esiste già.

 

Quanti sono pronti a comprenderlo?

 

Roberto Dal Bosco

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Immagine di Israel Defense Forces via Flickr pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-NonCommercial 2.0 Generic

Bioetica

Corti Costituzionali, «madri intenzionali» e Cultura della morte: il vero ruolo della magistratura nello Stato moderno

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I conservatori sono sconvolti: la Corte Costituzionale della Repubblica ha sentenziato – udite udite! – a favore di una «famiglia» lesbica, introducendo l’eccezionale concetto di «madre intenzionale», che ci fa sognare future definizioni di «padri preterintenzionali» e altre cose bellissime di questo tipo.   Con la sentenza della settimana scorsa i supremi togati non hanno cambiato le leggi (già ingiuste sino all’indicibile) riguardo all’accesso alla provetta in Italia, che restano (in teoria, molto in teoria, sempre più solo in teoria) vietate agli arcobalenati. Tuttavia, riconoscendo i loro figli prodotti in laboratorio all’Estero, il buco nella ridicola diga bioetica repubblicana diviene una voragine: ci piacerebbe fare anche noi gli allarmisti e gridare che il Vajont omotransumanista è dietro l’angolo, ma in realtà sappiamo, come i lettori di Renovatio 21, che esso è già qui.   La catastrofe zootecnica già si è impadronita del Paese, con gli esisti apocalittici che descriviamo da anni e anni su queste pagine. Del ruolo delle istituzioni, compresa la Chiesa cattolica, in questo processo, non diremo di più qui.

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Ci preme solo ricordare a tutti, in ispecie i pisciatori di inchiostro conservatore, una cosa che a noi pare lapalissiana: l’ascesa dei diritti omotransessualisti è funzione della corsa programmata verso i bambini artificiali, gli umanoidi prodotti in laboratorio. Non viceversa: non è che tutto questo casino, che perdura nei decenni, lo hanno fatto per i «diritti civili» degli omofili, dei quali al manovratore finale interessa pochino (quel tanto che serve per pervertire la società al punto da farne crollare il pezzo assegnato all’operazione).   No: i padroni del mondo hanno fatto avanzare unioni, matrimoni, adozioni omosessuali – tra pellicole, serie TV, canzonette e infine leggi, come da schemino Overton – per il vero fine di sdoganare definitivamente l’alambicco degli homunculi FIVET. La provetta non solo è possibile, ora è giusta, è civile. Come il diritto, appunto.   Ci rendiamo conto che per molti, che non hanno una visione metastorica, metapolitica, metafisica dell’ora presente, tale concetto è assurdo. Chi crede che la storia sia una simpatica linea retta dove le cose avvengono spontaneamente, con un percorso verso emancipazioni varie già segnato che può al massimo essere mitigato, non può comprenderlo: egli è, appunto, un conservatore, un reazionario, uno che conserva e reagisce cose che gli consegnano altri, già corrotte a dovere da coloro che servono le fiches del giuoco.   Tuttavia non è per rivendicare il pensiero di un primato dell’avvento degli umanoide nell’agenda mondialista che scriviamo questo articolo (ne abbiamo già fatti tanti), ma per specificare quale sia il ruolo che in tale agenda pare avere la magistratura. E non solo in Italia, ma in tutto il mondo.   Non è la prima volta che la Corte Costituzionale italiana supplisce al legislatore, e se ne dice pure stufa: insomma, si sono lasciati scappare i super-giudici italici alcune volte, ci tocca lavorare perché il Parlamento non fa il suo lavoro. E quindi che le sentenze su fine vite etc. Come dire: ci sono capisaldi della Necrocultura che dobbiamo per forza tirare fuori e spalmare sul Paese: eutanasia, vaccini obbligatori, provette…. insomma ci siamo capiti.   Da dove venga questa impellenza di legiferare invece della politica non è dato sapere: non dicono nemmeno, stavolta, «ce lo chiede l’Europa». Eppure eccoci qui.   Ripetiamo: non è una questione del solo Belpaese. Due settimane fa la Corte Suprema dell’Estonia ha stabilito che il suicidio assistito è un «diritto» costituzionale. L’Alta Corte dell’Ecuador ha legalizzato l’eutanasia l’anno passato. In Belgio (lui), tre anni fa l’Alta Corte belga ha dichiarato che la legge nazionale sull’eutanasia era incostituzionale, perché non abbastanza permissiva. Nel 2023 la Corte Suprema messicana era arrivata ad inventarsi il «diritto all’aborto»: un’innovazione portata a compimento dalla Francia di Macron, che ha piazzato (primo Paese al mondo) il feticidio in Costituzione.  
  E non si tratta delle sole Corte Costituzionali e surrogati vari. E non si tratta solo dei temi «bioetici» – cioè pertinenti all’avanza della Cultura della Morte. A tutti i livelli, in tutti i Paesi, troviamo magistrati che sembrano voler assecondare furiosamente – fuori da ogni logica, da ogni diritto, da ogni grazia di Dio – il programma mondialista. In USA c’è il caso dei magistrati che, dopo aver perseguitato Trump chiedendo tre quarti di millennio di galera per l’ex presidente, liberano gli immigrati criminali impedendone la deportazione. In Germania un giudice ha dato ad un uomo che aveva criticato un immigrato stupratore una multa doppia rispetto a quella comminata al violentatore stesso. A Parigi i giudici buttano fuori Marine Le Pen dalle prossime presidenziali. In Sudafrica le toghe supreme stabiliscono che cantare «uccidi il boero» non è incitamento all’odio razziale. In Austria è inquisito il leader FPO. In Romania abbiamo visto giudici che invalidano le elezioni contro il candidato che vuole la pace. Dello strapotere del giudice supremo brasiliano De Moraes (il «Darth Vader di Brasilia», secondo Elon Musk), che mette in galera chiunque – soprattutto Bolsonaro e i suoi supporter – e sequestra i social stranieri, abbiamo segnalato tante cose.   Pensate un attimo a tutti i processi sull’immigrazione in Italia, con ministri portati in tribunale dai magistrati – e le intercettazioni che comprovano quelle che sono di fatto cospirazioni giudiziarie per attaccare determinate figure politiche. La volontà popolare, espressa da partiti che vincono le elezioni con determinati programmi, non conta nulla. Comandano, sembra che ci stiano dicendo, i giudici.   E quindi, non viviamo in repubbliche democratiche, ma in giudicati. Si tratta di una bella trasformazione della «democrazia», a cui tanto teniamo, a cui tutti dobbiamo credere, e senza la quale certo non si può vivere. Non c’è che dire: ci avevano insegnato che la democrazia quando si corrompe diviene preda di tiranni, dittatori, re ed imperatori: e invece, eccoci sottomessi in un giudicato.   È una novità? No. Chiunque abbia ancora in mente il disastro di Mani Pulite – tipo, non Travaglio e i suoi lettori ebeti – sa bene di cosa si tratta. Di recente, ha provato a definire il fenomeno lo studioso degli apparati statal-censorii promanati dallo Stato profondo USA Mike Benz, che ha parlato di «giustizia transizionale». Il ruolo di una magistratura che persegua senza sosta una determinata parte politica e determinate questioni è, dice il Benz, parte integrante del ruolino di marcia previsto dai programmi di regime change ingegnerizzati nel ventre oscuro di Washington – e da svariati decenni.   Ora, certo, non ci sono sono segni negativi. In Portogallo la Corte Costituzionale due anni fa aveva invalidato la legge eutanatica. A Tokyo la Corte suprema ha stabilito che sterilizzare forzatamente le persone è incostituzionale. In Uganda la massima corte ha confermato la legge anti-Sodoma…   E poi, per tornare al nostro tema, i giudici supremi dell’Alabama, che hanno stabilito che gli embrioni prodotti in vitro sono bambini, quindi con veri diritti: una sentenza rivoluzionaria, che sembra poter invertire l’intero macchinario in moto, almeno per un po’.   Tuttavia, nessuno di questi episodi ferma la nostra analisi: la magistratura, ad ogni latitudine, agisce come complice dell’Ordine mondiale. O meglio, opera limpidamente come vero strumento dello Stato moderno, il sistema sociopolitico per il quale l’umanità non è così importante, anzi, andrebbe ridotta con ogni modo possibile.   Se comprendiamo che è questo il frame in cui opera la giurisprudenza – la filosofia utilitarista in superficie, la Necrocultura in profondità – non diviene difficile realizzare che stiamo assistendo alla morte definitiva del diritto naturale e l’instaurarsi, una volta per tutte, del diritto positivo, dove la legge è sganciata dal dato di natura, per cui la legge è legge solo perché inflitta dall’alto. Dove è possibile coniare, così al volo, il concetto giuridico di «madre intenzionale», qualunque cosa possa voler dire.

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Il diritto positivo, capiamolo, è di fatto l’unico compatibile con uno Stato che si proclama apertis verbis «non-etico». Si tratta quindi solo della slatentizzazione di qualcosa che era in nuce già perfettamente presente nel sistema sin dalla sua creazione: uno Stato che rifiuta la morale come sua base non può che finire per essere lesivo per l’essere umano, anzi, non può che essere riconfigurato proprio per divenire una macchina da massacro. Cioè, in sintesi, un sistema satanico.   Senza la legge morale, cosa possiamo aspettarci se non la distruzione? Senza la legge naturale, crediamo sia possibile un esito che non vada contro il disegno di Dio?   Ora, è proprio vero che i giudici «stanno solo facendo il loro mestiere», come si sente dire sempre da chi ne difende l’operato.   Facciamo un bel respiro, dunque, e mettiamoci in testa che il problema è ben più radicale. La soluzione, pure.   Si tratta solo di avere un po’ di coraggio. Quantomeno, ad ammettere l’abisso infernale dove ci hanno infilato.

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Eutanasia

Suicidio assistito, diritto manipolato e distruzione della società

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La legge sul suicidio assistito di recente approvata dalla Regione Toscana, è di certo l’approdo di fattori concomitanti e connessi.

 

Fattori che hanno a che fare, nella società contemporanea omogeneizzata, sia con la perdita dei principi etici fondamentali e con l’allontanamento da quelli religiosi che ne erano interpreti privilegiati, sia con le manipolazioni e le distorsioni di un’opinione pubblica sempre più in balia di suggestioni indotte mediaticamente, con le inclinazioni individualistiche e nichilistiche che hanno offuscato, fino quasi alla cancellazione, il senso e la idea stessa del bene comune ormai totalmente fagocitata da quella della priorità dei desideri e delle esigenze individuali.

 

Ma l’impoverimento culturale diffuso e generalizzato, ha travolto inevitabilmente, insieme alla politica, all’etica e all’estetica, in modo particolare anche il diritto, sotto ogni profilo formale e sostanziale, E bisogna subito mettere in luce come la sua crisi sia anzitutto una crisi di identità, cioè di sfaldamento delle sue basi concettuali, di ‘offuscamento delle sue finalità costitutive, della sua tecnica costitutiva, e dei confini entro i quali è chiamato ad operare.

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La crisi del diritto si dispiega inoltre, sia all’interno, nello scadimento della sua funzione regolatrice della società, sia all’esterno, nella percezione distorta che di quella funzione si fa strada nel sentire comune. Mentre la distorsione investe tanto il diritto soggettivo, cioè la pretesa individuale riconosciuta meritevole di tutela nell’interesse della collettività (ecco la creazione di «diritti» che non possono essere considerati tali proprio perché non hanno nulla a che fare con il diritto soggettivo), quanto il diritto oggettivo, cioè l’insieme delle norme che costituiscono l’ordinamento giuridico, di cui la società si dota per proteggersi, consolidarsi ed espandersi culturalmente e materialmente.

 

Questa crisi del diritto che investe sia la sua produzione e attuazione, sia la sua percezione generalizzata, si avvale del fenomeno dello slittamento semantico anch’ esso generalizzato, spesso forgiato ad arte, per cui sono le parole a creare la realtà e non viceversa, e sotto la loro cortina fumogena viene eliminato l’ingombro del pensiero.

 

Su questo sfondo va letta dunque la vicenda che qui ci interessa, del cosiddetto «suicidio assistito» nella quale tutti questi aspetti si riassumono in modo esemplare: la degenerazione normativa, la distorta percezione del fenomeno giuridico, il travisamento dei suoi contenuti e delle sue finalità nel comune sentire, ovvero in quel senso comune di manzoniana memoria, venutosi a creare sotto la pressione della rieducazione mediaticamente imposta.

 

Occorre perciò richiamare alcuni concetti elementari quanto fondamentali.

 

Il diritto, e quello penale in particolare, è lo strumento che una società organizzata si dà per potersi garantire una convivenza ordinata e pacifica.

 

La legge penale in primo luogo assolve questa funzione ordinatrice e pacificatrice individuando i valori fondamentali che debbono essere tutelati per consolidare i fondamenti etici irrinunciabili su cui si può reggere la società.

 

La tutela come è noto avviene attraverso la minaccia di una sanzione che andrà a colpire chi mette in pericolo questi valori, che chiamiamo «beni giuridici» perché appunto riconosciuti meritevoli di tutela dalla legge penale, in quanto fondativi di una convivenza pacifica e ordinata.

 

Fra questi va individuata altresì la rosa dei «diritti indisponibili», ovvero di quei valori, quali la vita, la integrità fisica, la libertà personale etc. che sono ritenuti tali per la loro importanza capitale, e vanno difesi ad oltranza erga omnes, anche nei confronti di chi ne sia titolare particolare, perché stanno a presidio della conservazione e persino della stessa sopravvivenza della intera comunità organizzata.

 

Etiamsi deus non daretur, secondo la locuzione di Grozio ricordata più volte da Benedetto XVI, a proposito dei «valori non negoziabili».

 

Qui bisogna sottolineare, appunto, come l’indisponibilità da parte del titolare particolare sancita dall’ordinamento, deve essere riconosciuta da ogni società che non voglia votarsi alla autodistruzione.

 

Inoltre la necessità di una difesa avanzata di questi beni, è bene sottolinearlo, opera non soltanto nei confronti di chi fra i consociati li possa aggredire, ma anche nei confronti dello stesso potere politico che potrebbe violarli abusando degli strumenti di coercizione di cui dispone.

 

In altre parole, la tutela dei valori fondamentali rappresenta anche un baluardo nei confronti della entità statuale che, attraverso un uso arbitrario del potere, operi non per il bene comune ma per la propria perpetuazione, violando proprio le norme destinate a regolare i comportamenti del cittadino comune. Il potere politico può utilizzare gli apparati di cui dispone, per fini contra legem.

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Sicché quanto più strette sono le maglie della norma penale in tema di diritti indisponibili, tanto più forte sarà la funzione difensiva della legge anche nei confronti del potere politico, in quel quadro di stato di diritto che tanto viene invocato a sproposito nei giorni nostri da chi ne ignora proprio il significato.

 

Alla luce di queste considerazioni dovrebbe essere letta l’esigenza di non ammettere deroghe di sorta alla punibilità delle violazioni delle norme poste a difesa della vita umana con la sola eccezione della legittima difesa, che introduce il criterio del bilanciamento degli interessi, dove il valore della vita di chi si è messo al di fuori delle regole dell’ordinamento, cede il passo al valore della vita messa in pericolo dall’aggressore.

 

Se passiamo a considerare la norma dell’articolo 580 C.P., che punisce con la reclusione da uno a cinque anni, «chiunque determina altri al suicidio, o rafforza l’altrui proposito di suicidio, ovvero ne agevola in qualsiasi modo l’esecuzione, se il suicidio avviene» vediamo come il legislatore abbia inteso difendere l’attacco al valore della vita umana anche quando esso sia portato dal soggetto che ne è titolare particolare.

 

Proprio perché si tratta della difesa oggettiva di un bene al quale l’ordinamento assegna un valore superiore al valore attribuitogli dal singolo che ne è portatore. In altre parole non viene lasciato spazio alla considerazione soggettiva di questi, perché si tratta di un bene che riguarda l’intera comunità e come tale viene tutelato oggettivamente.

 

La punizione dell’omicidio del consenziente conferma in modo incontrovertibile questa base concettuale, infatti il consenso della vittima non esclude l’omicidio anche se ne attenua la sanzione ad un massimo di quindici anni di reclusione.

 

Ma ecco che l’irrompere del soggettivismo e del nichilismo adottato da forze diventate culturalmente più prepotenti che dominanti, diventa l’ariete volto a scardinare non soltanto un assetto etico, ma anche il sistema giuridico che dovrebbe concorrere a tenerlo saldo. Perché il diritto, se deve essere tenuto concettualmente distinto dalla morale, ha pur tuttavia una funzione etica fondamentale, e che dovrebbe essere salvaguardata per la tenuta stessa della società.

 

La locuzione, «suicidio assistito», divenuta corrente, tradisce già l’aggiramento della norma di cui all’articolo 580 che è già stata aggredita dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 243 del 2019.

 

Da questa ha preso le mosse la recente legge regionale toscana, salutata dal governatore Giani, come «un forte messaggio di civiltà».

Non si tratta di negare che il divenire dei tempi comporti mutamenti oggettivi del comune sentire di cui si deve tenere conto. Ma questi mutamenti, che possono interessare aspetti secondari e a volte quasi folcloristici della vita comunitaria, come il sempre fluttuante e frivolo mutare dell’abbigliamento e delle abitudini quotidiane, non ha nulla a che fare con i fondamenti della vita comunitaria. Qui infatti, anche piccole incrinature sono destinate ad allargarsi fino alla distruzione totale di un edificio che è indispensabile tenere saldo per la sopravvivenza di una qualunque società umana civilizzata.

 

Come nella antica favola del piccolo buco nella diga olandese che il bambino tenta di chiudere col proprio ditino, conscio dell’immane pericolo che da quella falla può derivare. Ma ecco che, e qui entriamo nel vivo del nostro tema, la falla viene prodotta e poi allargata proprio dagli organi che dovrebbero mirare alla salvaguardia del sistema normativo.

 

E non possiamo non fare riferimento alla Corte Costituzionale, istituita per assicurare l’aderenza delle leggi dello Stato ai principi fondamentali fissati come intangibili dalla Carta Fondamentale.

 

La Corte ha elaborato nel tempo, in perfetta e intoccabile autonomia, l’autopotenziamento, ovvero lo allargamento dei propri poteri decisori che dal controllo sulla legittimità delle leggi esistenti ha finito per sconfinare, e continua a sconfinare sempre più vistosamente, verso l’appropriazione di poteri sostanzialmente legislativi. Non senza il farisaico e immancabile richiamo alla necessità di un intervento diretto da parte di quel Parlamento al quale risparmia la fatica di legiferare con generosità democraticamente ostentata.

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La Corte Costituzionale come è noto ha elaborato accanto alla tipologia di sentenze previste dalla legge istitutiva, anche le sentenze cosiddette non per nulla «manipolative» con le quali introduce novità normative dichiarandola incostituzionale per quello che non c’è (sentenze additive), cioè quello che ritiene un vuoto illegittimo. Ma anche aggiungendo direttamente qualcosa a quello che c’è (sentenze sostitutive).

 

Insomma un paradosso che, al di là delle critiche sparse, è stato accettato per quello che è, sicché una invenzione sostanzialmente arbitraria si è trasformata in prassi riconosciuta. Questo a partire dai lontani anni Sessanta del Novecento quando attraverso una sentenza di tal fatta si estesero all’istruzione sommaria del Pubblico Ministero i diritti già garantiti all’imputato nella istruzione formale tenuta dal giudice istruttore, secondo il rito di allora.

 

Forse la benevolenza con cui fu accolta la trovata della Corte Costituzionale, mise in ombra la finestra che si apriva su una vera e propria usurpazione di potere nei confronti del Parlamento. E oggi sappiamo berne come il principio della separazione dei poteri consacrato da Montesquieu quale antidoto all’arbitrio, sia diventato un superato pezzo di antiquariato nella contemporaneità del caos istituzionale e istituzionalizzato.

 

Va aggiunto che se la Corte Costituzionale si sostituisce di fatto al Parlamento, pur invocando farisaicamente un suo successivo intervento «riparatore», mostra di fare da cassa di risonanza di istanze provenienti dalla collettività e quindi rappresentative di esigenze profonde e generalizzate. Quando sappiamo che certi orientamenti, enfatizzati dai mezzi di comunicazione e dettati da poteri sovraordinati impegnati ad imporre idee fittizie spesso in conflitto col sentire comune.

 

Veniamo dunque alla iniziativa legislativa della Regione Toscana, che il governatore ha definito con orgogliosa sicurezza «un forte messaggio di civiltà».

 

La Corte Costituzionale con la sentenza 242 del 2019, ha risposto prontamente alle spinte propagandistiche di una ben orchestrata campagna mediatica. Quella che facendo leva non sulla ragione, sull’etica, e tanto meno sulla logica giuridica, punta sulle «emozioni», la nebulosa che ha sostituito il buon senso con il senso comune e che costituisce il grimaldello capace di scardinare il pensiero, le ragioni dell’etica e del diritto, qualunque spazio di trascendenza e di saggezza, anche religiosamente ispirato.

 

Ma a dispetto di ogni esigenza superiore, oggi le emozioni si comprano e si vendono a buon mercato nella società del consumo di massa, con la Chiesa in ritirata e la incapacità diffusa di guardare filosoficamente e soprattutto razionalmente, al di là della materialità quotidiana e della prospettiva personale.

 

Questo il terreno favorevole perché il nuovo zeitgeist facesse sentire i giudici della Corte obbligati a forzare il contenuto e il senso della norma penale che fissa e sancisce la indisponibilità della vita umana.

 

Anche se non si arriva ancora a introdurre norme penali incriminatrici in via di sentenza, dato che vige ancora, bontà loro. Il principio di legalità «nullum crimen sine lege», viene introdotta tuttavia una causa di non punibilità la quale, se sfugge a quel principio, si presenta comunque come una novità introdotta di fatto nel codice penale. «Non è punibile chi agevola l’altrui suicidio se la persona è tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale».

 

Poi con la sentenza n.153 del 2024 la Corte ha indicato i soggetti, all’interno delle strutture ospedaliere competenti ad accertare le condizioni capaci di legittimare la condizione di non punibilità dell’aiuto al suicidio, aggirando l’ostacolo di una inaccettabile e sconveniente invasione normativa in campo penale. Insomma, ha stabilito sempre in via surrettizia, che la decisione sull’assistenza al suicidio venga presa in ambito sanitario, affidata alla direzione e al controllo di organi interni alle strutture ospedaliere.

 

Questa ospedalizzazione dell’aiuto al suicidio è non solo un escamotage per aggirare gli straripamenti di potere, ma anche per aprire la strada, volontariamente o meno, questo non sappiamo, ad interventi «regionali» come quello puntualmente arrivato dalla Regione Toscana, che si sottraggono apparentemente al conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato.

 

Infatti mentre la materia penale è sottratta alle competenze legislative della Regione, la materia sanitaria rientra nelle competenze concorrenti, per cui a determinate condizioni la Regione può legiferare legittimamente e, appunto così ha preteso di fare, applicando tutte le direttive pratiche indicate dalla Corte, circa la procedura per la «assistenza al suicidio».

 

Ora non va dimenticato a questo proposito come la strada per legittimare questo marchingegno sia stata inaugurata già nel 2009 col caso Englaro, quando sulla scia dell’altrettanto tragica vicenda dell’americana Terri Schiavo, di qualche anno prima, abbiamo assistito impotenti alla uccisione in sede ospedaliera su autorizzazione del giudice di Cassazione.

 

Il fenomeno si è poi amplificato in con l’esempio inaudito offerto ripetutamente in questi anni dagli ospedali londinesi e dal sistema giudiziario britannico per cui un giudice ha potuto affidare ai «sanitari» il potere di uccidere impunemente bambini di pochi mesi, ritenuti socialmente inutili perché malati, e nella impossibilità imposta ai genitori di sottrarli a quella «condanna a morte».

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Doppia inaudita mostruosità, che mentre esibisce il capovolgimento dei valori morali fondamentali, manda al macero secoli di cultura giuridica sbandierata dall’Occidente come propria conquista distintiva.

 

Una inedita ferocia praticata impunemente in ambiente sterile (sotto ogni punto di vista) e impunemente imposta ad una società che appare ormai lobotomizzata, perché se non lo fosse si ribellerebbe a tante mostruosità.

 

Perché si renderebbe conto che il trasferimento in ambito ospedaliero del potere di uccidere da parte di una autorità giurisdizionale, rappresenta in modo esemplare proprio quella micidiale confusione e commistione di poteri in cui si consuma il sopravvento di un potere politico emancipato da ogni principio regolatore e da ogni criterio di legittimazione.

 

Per questo occorre tenere sempre presente il problema del circolo vizioso della legge che in quanto espressione necessaria del potere politico che la pone, è esposta a divenire oggetto del suo arbitrio anche se nasce proprio per sottrarre la società al caos e all’arbitrio. Insomma il pericolo dello abuso del diritto per finalità contrarie a quelle che il diritto è chiamato a perseguire.

 

Basterebbe ricordare come tra Settecento e Ottocento sulla scia dell’illuminismo si sia formata quella scienza del diritto penale che, occorre ripeterlo, nell’epoca in cui è ancora in auge la tortura, mirava a proteggere il cittadino, attraverso la precisa determinazione dei delitti e delle pene, e le regole per la applicazione della legge, dallo arbitrio del giudice e dall’arbitrio del potere.

 

In ultima analisi va detto come si venga consolidando di nuovo uno slittamento semantico volto a creare l’ambiente psicologicamente adeguato per l’accettazione diffusa di questa nuova realtà. Infatti non si nomina più neppure il suicidio, ma genericamente il «fine vita» che oscura «la morte inflitta» a sé o ad altri, per coprirla con il mantello eterno e destinale della natura che fa il proprio corso.

 

L’ennesimo gioco di parole già messo a segno, perché adottato da molti inconsapevolmente, per l’ennesimo oltraggio al diritto come alla natura e alla dignità immutabile dell’uomo. Perché quest’ultima è cosa diversa dal concetto mutevole e variegato che ogni congrega di nichilisti in carriera, cerca di imporre per riempire il vuoto delle proprie idee con il vuoto delle parole senza copertura di un pensiero vitale, l’unico meritevole di essere trasmesso.

 

In questo quadro va collocato da ultimo per motivi di cronologia, ma di importanza capitale nel l’ambito delle considerazioni espresse sopra, anche il tema della cosiddetta intelligenza artificiale.

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La nuova sirena in breve tempo ha già acquistato il potere di abbacinare le moltitudini che incantate dai suoi prodigi, sono incapaci di guardare al di là delle luci, una enorme voragine già spalancata.

 

Nel campo della istruzione come del comune sentire, della guerra come della normale vita di relazione, delle capacità cognitive e del normale sviluppo delle maturazioni esistenziali, nella elaborazione del pensiero in generale.

 

E se torniamo all’argomento specifico di cui qui si è parlato, questo strumento a dir poco allarmante, dovrebbe presentarsi in tutta la sua inquietante forza distruttiva.

 

Non so se i giudici, il legislatore, i politici o i vari Cappati, si siano posti il problema di come anche la vita e la morte, oltre al tutto il resto, possano essere allegramente affidati ad un o giocattolo perverso del quale si perde il controllo e al quale vengono affidate le chiavi dell’esistenza. Perché è ad esso che domani sarà delegato il potere soprannaturale di decidere, chi, come e quando e fino a quando si può vivere, morire o sopravvivere.

 

Il gigante è pronto a divorare i suoi figli come negli antichi miti premonitori.

 

Patrizia Fermani

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Persecuzioni

La nuova Costituzione della Siria post-Assad sancisce la legge islamica della sharia

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La scorsa settimana il capo del movimenti islamista Hayat Tahrir al-Sham (HTS) e autoproclamato presidente Ahmed al-Sharaa (già noto, e ricercato dagli USA, come il terrorista di Al Qaeda e ISIS Abu Mohammad al-Jolani) ha firmato una nuova dichiarazione di una Costituzione provvisoria per la nuova Siria.   Un comitato di nominati dall’HTS l’ha elaborato (o almeno una bozza parziale) in una commissione, e rende chiaramente la legge islamica o sharia la nuova legge del Paese.   Per la prima volta nella storia della Siria, la costituzione riconosce la legge islamica come fonte principale della giurisprudenza. In precedenza, il governo di Assad riconosceva la legge islamica solo come fonte, o una delle tante fonti.

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La famiglia Assad apparteneva risaputamente alla fede islamica alawita, e quindi ha operato in modo tale da garantire protezione a tutte le minoranze religiose non sunnite. Tuttavia queste protezioni sono state chiaramente ora rimosse, nel mezzo di un massacro in corso che ha preso di mira principalmente gli alawiti nelle regioni costiere della Siria, dove migliaia di persone sono morte.   Sotto Assad, i cristiani in particolare vivevano la loro fede in modo molto pubblico, il che includeva parate nelle strade delle principali città durante festività come Natale e Pasqua. La festa di San Giorgio era spesso accompagnata anche da celebrazioni pubbliche in varie città cristiane. Aveva fatto scalpore il caso degli alberi di Natale dati alle fiamme negli scorsi mesi.   Sappiamo che ora i cristiani vivono nella paura, e tutte le feste della chiesa sono state cancellate del tutto o almeno notevolmente attenuate. Di recente ci sono state segnalazioni secondo cui a Damasco i militanti di HTS hanno invaso ristoranti e bar, rimproverando e insultando i cristiani per aver mangiato e bevuto durante il digiuno musulmano del Ramadan.   I cristiani sono tra le vittime dei massacri della nuova Siria in mano ai takfiri, definiti ridicolmente da Israele come «jihadisti educati». Cristiani e alawati sono oggi oggetto di stragi che qualcuno ha chiamato «neo-ottomane», perpetrate da forze armate nelle cui posizioni di rilievo sono stati nominati jihadisti da tutto il mondo. – basti pensare che il nuovo capo dell’Intelligence damascena è un uomo designato come terrorista dall’ONU.   Tra le poche voci levatesi in loro difesa, quella di monsignor Viganò.   «Questo genocidio si compie oggi sotto i nostri occhi, nel silenzio dei parlamenti delle Nazioni «democratiche» e di una Gerarchia «cattolica» asservita agli interessi del globalismo» ha detto il vescovo in una dichiarazione.   «I nostri fratelli Cristiani sono barbaramente uccisi nelle città e nei villaggi. Anziani, donne e bambini vengono crocifissi e massacrati solo a causa della loro Fede: una Fede che decenni di compromessi e cedimenti hanno quasi completamente cancellato nei Paesi occidentali e specialmente nei loro governanti».

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«Non possiamo rimanere in silenzio né inerti dinanzi al martirio dei nostri fratelli Cristiani» esclama l’arcivescovo. «Quelle scene di violenza disumana e crudeltà che vediamo accadere in terre remote potrebbero domani replicarsi nelle nostre Nazioni, che il tradimento di governanti corrotti ha fatto invadere da orde di fanatici maomettani in età militare, per imporre all’Europa la sostituzione etnica e la cancellazione definitiva della Civiltà cristiana».   Esorto i Cattolici, in questi giorni della Santa Quaresima, a pregare, a digiunare e a fare penitenza per impetrare al Cielo protezione sui fedeli perseguitati e martirizzati in Siria, a Gaza e in molte altre parti del mondo» dice monsignore. «Possa il loro esempio di eroica fermezza nella professione della vera Fede animare, prima che sia troppo tardi, un risveglio delle coscienze dei Cristiani e un ritorno a Dio, dal quale dipende la pace, la concordia e prosperità dei popoli».   Viganò terminava il messaggio con delle parole latine di grande significato: «Deus vult!».

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