Pensiero
Un partito per liberare la Sicilia e la sua ricchezza. Intervista al candidato alle regionali Mario Pagliaro
Il 25 settembre non sarà solo la fatidica data delle elezioni politiche 2022. Quel giorno si voterà anche in Sicilia per rinnovare l’Assemblea Regionale Siciliana – la mitica ARS, che i siciliani seguitano a chiamare convintamente «Parlamento». Renovatio 21 crede che quanto accada in Sicilia vada sempre seguito. Non solo perché è tecnicamente la regione più grande d’Italia, ma perché nei secoli ciò che muove dalla Trinacria – e dal suo sottosuolo – può sconvolgere gli equilibri degli uomini di tutto il mondo: l’Etna è una colossale metafora di ciò che stiamo dicendo, da prendere alla lettera.
Abbiamo appreso che il professor Mario Pagliaro, che già in passato abbiamo intervistato su Renovatio 21, si è ora candidato. Il professore , accademico di Europa, fra gli scienziati italiani più citati al mondo, è chimico esperto in materiali nanostrutturati, nonché tra i massimi conoscitori della tecnologia solare in Italia, che ha spiegato nel preziosissimo libro divulgativo Helionomics. La libertà energetica con il solare (2018).
Pagliaro è candidato per un piccolo partito, Siciliani Liberi, che si presenta alle elezioni regionali per la seconda volta dopo quelle del 2017. Per farlo, il partito ha dovuto raccogliere migliaia di firme in pochi giorni a cavallo di Ferragosto, mentre ai partiti già rappresentati in ARS non era ovviamente richiesta alcuna firma.
I ragazzi ce l’hanno fatta. Le firme sono arrivate, e i candidati sono stati presentati.
Renovatio 21 lo ha sentito per farsi raccontare del suo movimento e della Sicilia, nel presente e nella Storia – e nel futuro.
Professor Pagliaro, cosa è il Movimento Siciliani Liberi?
Un partito politico siciliano che viene da lontano ed è destinato ad andare lontano: perché ha per obiettivo quello di ridare ai siciliani il governo della Sicilia. Inoltre, in continuità con la migliore cultura siciliana, è un partito che esprime una netta dissidenza culturale rispetto a quel «radicalismo borghese» che da tempo domina la propaganda culturale in Italia e in Europa.
Sarete quindi presenti alle Regionali del 25 settembre, ma non alle politiche?
Esatto. Benché pressoché tutto ciò che riguarda la Sicilia venga di fatto deciso a Roma e Milano, il presidente della Regione Siciliana e il Parlamento regionale dispongono di amplissimi poteri. Che se ben utilizzati porterebbero enorme beneficio alla Sicilia.
Chi ha fondato il partito?
Il professore Massimo Costa, docente universitario di economia aziendale e storico. È autore di una storia istituzionale e politica della Sicilia divenuta in breve tempo una lettura fondamentale per chiunque voglia conoscere la storia politica della Sicilia.
Ciro Lomonte, architetto e fine intellettuale, ne è il Segretario. Fervente cattolico, per anni nella direzione della residenza universitaria «Segesta» dell’Opus Dei e per due volte candidato a sindaco di Palermo, ha mostrato in numerosi articoli come i nuovi occupanti piemontesi presero subito di mira le tradizioni e la cultura siciliana per impedire alla popolazione di identificarvisi.
Ad esempio, in un bel numero del Covile del 2017 dedicato alla sua candidatura a sindaco ha spiegato perché, con vari pretesti, i palermitani dovettero attendere il 1974 per ricominciare a festeggiare la loro Santa patrona.
Sul sito del partito leggo che si tratta di un partito indipendendista. È questo il vostro programma per la Sicilia?
Lo ha spiegato bene la candidata alla presidenza della Regione, Eliana Esposito. Quando i siciliani vedranno i benefici dell’autogoverno, saranno loro stessi a chiedere l’indipendenza. Il programma, adesso, è quello di ridare il governo della Sicilia ai siciliani all’interno dell’attuale ordinamento, che il partito rispetta pienamente, per migliorare ogni singolo aspetto dell’amministrazione regionale: che va dalla gestione delle acque e del patrimonio boschivo a quello storico-artistico, altrove in Italia competenze dello Stato.
In che senso ridare il governo della Sicilia ai siciliani? Non sono siciliani i presidenti della Regione o i «parlamentari» dell’ARS?
Certo che lo sono. Ma fanno tutti parte di partiti politici i cui vertici sono a Roma e a Milano e i cui interessi molto spesso non coincidono con quelli della Sicilia. A un importante avvocato siciliano molti rimproveravano di essere lui a fare le leggi regionali. Lui, sornione, rispondeva che non faceva le le leggi: ma che le scriveva, visto il livello culturale dei «parlamentari» regionali siciliani.
Non si riferiva a tutti, ovviamente, la Sicilia ha avuto dal 1946 al 1992 sia grandi presidenti della Regione che grandi parlamentari regionali.
La legge elettorale era proporzionale e i partiti e gli uomini politici siciliani disponevano di un autentico consenso popolare. Oggi però, con la fine del proporzionale e i partiti ridotti a semplici comitati elettorali, è sufficiente una riunione a Roma per far dimettere il presidente della Regione.
È mai accaduto?
Prenda il presidente uscente, il catanese Sebastiano «Nello» Musumeci, storico esponente del MSI. Ha scritto Ciro Lomonte che secondo lui il 25 Settembre voterà per Siciliani Liberi, convinto anche lui della necessità di sostenere un partito siciliano che ridia ai siciliani la possibilità di autogovernarsi.
Nonostante buoni risultati con le infrastrutture, con la gestione dei rifiuti durante la gestione dell’assessorato da parte del veneto Pierobon, e quella del patrimonio storico-artistico da parte del grande Sebastiano Tusa fino alla sua tragica scomparsa, gli è stato chiesto di dimettersi e di non ricandidarsi.
Nonostante ancora il 31 luglio dichiarasse le elezioni anticipate «un’ipotesi che non esiste» è bastata una riunione dei partitia Roma a fargli annunciare le dimissioni su Facebook.
Probabilmente, se la DC avesse trattato così Rino Nicolosi, ultimo grande presidente della Sicilia anche lui catanese, alle elezioni regionali o politiche avrebbe perso 300mila voti e avrebbe visto la rivolta nel partito.
E durante la prima Repubblica, come mai l’indipendentismo siciliano fu rapidamente riassorbito?
Il grande sviluppo economico conosciuto nei 45 anni della «prima Repubblica» (1947-1992) riassorbì rapidamente le istanze indipendentiste. Erede del Partito Popolare del siciliano Don Sturzo, la DC aveva in Sicilia un enorme consenso elettorale. Concesse dunque alla Sicilia una relativa autonomia e vi portò lo sviluppo economico attraverso grandi investimenti pubblici.
La Cassa per il Mezzogiorno guidata dal professore Pescatore e la Regione con l’Ente di sviluppo agricolo costruivano le uniche infrastrutture, incluse enormi dighe, mai costruite in Sicilia dal 1860 ad oggi.
L’ENI, oltre ad investire su petrolio e gas siciliani, faceva sorgere vicino ad Enna persino una fabbrica tessile che per decenni ha dato lavoro a 400 operai, mentre le banche pubbliche controllate dalla Regione erogavano credito all’intero sistema produttivo. Tutto finì con la liquidazione dei partiti popolari e la nascita della cosiddetta «seconda Repubblica».
Parliamo della Sicilia di oggi. Qual è ora il male che maggiormente l’affligge?
La drammatica situazione finanziaria che priva la Regione e gli enti locali (Comuni ed ex Province) delle risorse necessarie persino a riparare e manutenere le strade. Percorrendole, i turisti stentano a credere che si tratti di una regione europea nel 2022.
A differenza però della vulgata propagandata, la responsabilità dello stato delle finanze regionali non è dei famosi «forestali».
A fronte di innumerevoli competenze e costi, inclusi quelli della motorizzazione civile, Roma trattiene ogni anno oltre 10 miliardi di tasse che l’articolo 36 dello Statuto siciliano, formalmente recepito nella Costituzione, assegna in via esclusiva alla Regione Siciliana.
La DC, dominus dello Stato nella prima Repubblica, si guardò bene dal far varare i decreti attuativi dello Statuto riguardo l’articolo in questione che regolerebbe la distribuzione dei tributi fra Stato e Regione. Con la seconda Repubblica, le crescenti difficoltà finanziarie dello Stato, oggi arrivato a detenere 2800 miliardi di debito pubblico, hanno portato i governi nazionali a sottrarre al bilancio regionale siciliano sempre maggiori risorse.
Senza entrare nei dettagli, a partire dal 2014 si sono succeduti una serie di accordi fra Stato e Regione «in materia di finanza pubblica» con cui quest’ultima ha rinunciato a molti miliardi dovuti, peggiorando notevolmente lo stato di quelle regionali.
Si ha sempre l’impressione che la Sicilia sia terra di tesori immensi, moltissimi dei quali sconosciuti, inutilizzati.
Questo è del tutto vero. Mi lasci citare il caso di un carissimo amico e grande archeologo con il quale al CNR abbiamo a lungo collaborato, il compianto professore Sebastiano Tusa, poi assessore del governo Musumeci. Consapevole che i tesori sottomarini della Sicilia non venivano valorizzati ed anzi erano spesso rubati dai tombaroli subacquei, Sebastiano da archeologo della Regione prima fonda il Gruppo investigativo archeologico subacqueo regionale immergendosi lui stesso per molti anni.
Poi trova in un giovane e colto uomo politico di Siracusa assessore ai Beni culturali nel primo governo Cuffaro, Fabio Granata, il sostegno necessario alla nascita della Soprintendenza del Mare.
In pochi anni scopriranno ed esporranno nei musei della Sicilia autentici tesori come il Satiro Danzante oggi esposto a Mazara del Vallo o le teste marmoree di Giulio Cesare, Tito ed Agrippina rinvenute a Pantelleria ed oggi esposte nel castello dell’isola.
Cosa si può fare per mettere a frutto la ricchezza della Sicilia?
Darle una classe dirigente nuova, fiera innanzitutto di essere fatta di siciliani al servizio della Sicilia. Questo recupero dell’ethos pubblico tanto da parte degli uomini politici che dei funzionari regionali farà sì che i siciliani non svendano più la loro terra e le loro funzioni ad interessi esterni che spesso non coincidono con il bene della Sicilia.
In questo processo, il ruolo di avanguardia di un partito piccolo ma organizzato e ricco di idee concrete per dare soluzioni ai problemi della Sicilia come Siciliani Liberi potrà essere molto più grande del suo attuale consenso.
È possibile pensare ad una rinascenza industriale della Sicilia a partire dall’energia solare e da altri innovazioni tecnologiche darebbero all’isola un immenso valore strategico e materiale?
È possibile e sarebbe anche fattibile in pochi anni. Serve, appunto, una nuova classe dirigente capace di agire su due fronti: da un lato diminuire la tassazione facendo dell’intera regione una Zona Economica Speciale, come chiede il programma di Siciliani Liberi, e dall’altro ritornare all’intervento diretto dello Stato nell’economia, ricostituendo l’IRI e affidandogli la ricostruzione industriale di Italia e Sicilia, partendo proprio dalle nuove tecnologie dell’energia.
Prima ancora della guerra in Ucraina, il blocco e poi il forte aumento dei prezzi dei semilavorati e delle altre merci in arrivo dalla Cina hanno chiarito la fragilità dell’economia europea ormai in larga parte deindustrializzata.
Di fronte ai costi energetici divenuti insostenibili per imprese e famiglie, la Francia ha subito nazionalizzato l’industria elettrica. La Germania ha nazionalizzato il maggiore distributore di gas naturale e trasferito enormi risorse a tutte le aziende, partendo dalla compagnia di bandiera.
Se l’Italia vuole sopravvivere, non ha alternative all’immediata ricostituzione dell’IRI di cui parlammo un anno fa con Renovatio 21 anticipando la crisi energetica di cui allora non parlava nessuno.
Non vi è solo la terra, il sole e il mare: parliamo delle eccellenze scientifiche della Sicilia, del suo capitale umano.
È enorme. Come l’Armenia o la Grecia, la Sicilia occupata dal Piemonte nel Maggio del 1860 ha visto espatriare in un secolo che ha incluso due guerre mondiali una parte enorme della sua popolazione. Sono siciliani di seconda o terza generazione il cantante americano Zappa o il pilota di Formula 1 Ricciardo.
Sono siciliani grandi scienziati come i fisici Majorana, il chimico Cannizzaro, o direttori di orchestra come Gino Marinuzzi, definito da Paolino Isotta il più grande del XX secolo. E poi innumerevoli imprenditori, artisti e scrittori. Quasi tutti hanno fatto grandi cose fuori dalla Sicilia: ma quando la Regione Siciliana ha saputo investire bene, ad esempio creando l’Istituto regionale del vino oppure la Soprintendenza del Mare, in quei settori è cambiato tutto in pochi anni.
Quando, su incarico dell’Istituto del vino, il grande enologo piemontese Giacomo Tachis iniziò il suo lavoro in Sicilia da più parti si insisteva perché le vigne in Sicilia fossero estirpate. Oggi, in Sicilia le aziende vitivinicole che usano i metodi colturali insegnati da Tachis fatturano molti milioni di euro e i loro vini sono premiati nel mondo.
Lo stesso occorre fare adesso con l’energia solare: creare un Istituto regionale e far crescere il numero di impianti sui tetti da quello ridicolo attuale, 60.000, a un milione e 700mila. Tanti quanti sono gli edifici in Sicilia.
Parliamo di storia della Sicilia. Ci può raccontare la versione che non conosciamo?
Chi vuol conoscere quella vera, può leggere il libro di Massimo Costa. Praticamente nessuno in Sicilia sa che il Regno di Sicilia è durato ininterrottamente dall’incoronazione a Palermo di Re Ruggero da parte di Papa Anacleto la notte di Natale del 1130 all’anno successivo al Congresso di Vienna del 1815.
Reinsediati i Borbone dal Congresso di Vienna, Re Ferdinando nel 1816 pose la basi per la fine del Regno fondando un «Regno delle Due Sicilie» tramite cui sottrasse a Palermo tanto la corona che il Parlamento. Trasferì quindi la capitale e la corte a Napoli, allora come oggi la più bella città europea.
Furibonde, la nobiltà siciliana e la nascente borghesia si rivolsero a Londra, già ampiamente presente in Sicilia, per liberarsi dei Borbone. Si ritrovarono nel Maggio 1860 occupati da questi sconosciuti piemontesi.
Così quando a Bronte ad Agosto i contadini capirono che non ci sarebbe stata alcuna divisione del latifondo si ribellarono con le armi. Garibaldi inviò subito le truppe guidate da Bixio. I presunti capi della rivolta furono passati per le armi nellapiazza del paese di fronte alla popolazione atterrita. Bixio usò la moderna rete telegrafica fatta costruire dal Re Borbone per telegrafare a Palermo a Garibaldi: «Rivolta domata».
I siciliani prima, e i meridionali poco dopo, capirono subito che tipo di occupazione sarebbe stata quella piemontese
Quanto ai nobili siciliani che pure avevano tradito il Re Borbone può letteralmente assaporarne la disperazione di fronte al nuovo occupante ancora un secolo dopo in ogni pagina de Il Gattopardo. Come ricorderà, il libro è stato scritto da un principe siciliano che si intratteneva su questi temi con un altro grande intellettuale e nobile siciliano, il barone Corrado Fatta della Fratta.
C’è un importanza della Sicilia nella storia d’Europa e del mondo?
Centrale. E la ragione è geografica. Il Mar Mediterraneo, cerniera degli oceani, è il più importante al mondo. La Sicilia ne è al centro. Lo svela bene la mappa antropomorfa del mondo realizzata ad Ebstorf, in Sassonia, nel XIII secolo. In cima alla mappa, c’è la testa di Cristo in Oriente. Le sue mani segnano i limiti del mondo conosciuto. Al centro c’è Gerusalemme, la città santa. E poco più in basso, a forma di cuore c’è l’isola di Sicilia.
Che la Sicilia e il suo possedimento fossero strategici lo sapevano già i Romani, che conquistandola si proietteranno in poco tempo sul Nord Africa e sulle terre di Oriente con le loro immense ricchezze. Lei saprà che la legione romana che conquistò Gerusalemme era di stanza a Messina, la Legio X Fretensis, cioè dello stretto di Messina.
Lo sapevano i Normanni che già con Re Ruggero conquistarono un’ampia area del Nord Africa oltre che Malta. Lo sapevano i tedeschi che con Enrico VI di Svevia scendono in Sicilia per dare alla Germania la proiezione imperiale.
In mancanza di cambiamento, quale potrebbe essere il destino della Sicilia?
Una nuova, drammatica emigrazione di massa. Durante i due anni dei vari lockdown, un gran numero di giovani siciliani vi ha fatto ritorno dal Nord, in particolare da Milano e dal Veneto.
Oggi, la Sicilia vive di «reddito di cittadinanza» e di turismo, oltre ad assistere ad una vera rinascita dell’agricoltura con molte pregiate produzioni, dal frumento al ficodindia, dal vino al limone, tornate redditizie in pochi anni.
Per avere un’idea, in Sicilia lo scorso febbraio a percepire in media 613 euro mensili di reddito di cittadinanza erano 625.000 persone: oltre il 13 per cento della popolazione. Ciononostante, le tre città, Palermo, Catania e Messina, si stanno svuotando rapidamente. A Palermo ormai risiedono solo 630.000 persone. Nel 1981 gli abitanti erano 702.000.
Solo l’anno scorso, la capitale siciliana ha perso oltre 7.000 abitanti. Se la crisi finanziaria dello Stato dovesse aggravarsi insieme alla crisi dell’euro, con le relazioni internazionali in rapido deterioramento, finirebbero tanto il reddito di cittadinanza che il turismo.
A quel punto, la crisi diverrebbe così grave da portare all’abbandono della Sicilia di tutta la popolazione in età lavorativa. Sarebbe, sostanzialmente, il collasso economico, sociale e demografico della Sicilia.
Un’ultima domanda ci incuriosisce. Cosa intende quando dice che il vostro Partito è fatto da dissidenti che in Sicilia si oppongono al «radicalismo borghese»?
Glielo spiego con un esempio. Il medico Chevalier de Jaucourt, stretto collaboratore di Diderot, curò circa 17.000 voci della Enyclopedie francese ancora oggi propagandata agli studenti di tutto il mondo come luce della nuova «epoca dei Lumi». Fra di essa c’era la voce «Palerme» definita «ville détruite de la Sicile», ovvero città distrutta della Sicilia. E continuava: «Sede di arcivescovado provvista di un piccolo porto, prima della sua distruzione causata da un terremoto, disputava a Messina il titolo di capitale». Mentre alla voce «Sicile» il medesimo illuminato scienziato concludeva: «In breve: la Sicilia oggi non ha più altro d’ importante che le sue montagne e il suo Tribunale dell’inquisizione».
Esterrefatto nel constatare che persino la traduzione italiana dell’Encyclopedia curata a Livorno contenesse le stesse menzogne, il benedettino siciliano Salvatore Di Blasi nel 1775 diede alle stampe un libro nel quale rivendicava la tradizione di una «Sicilia antichissima coltivatrice di Lettere» liquidando giustamente la «crassissima negligenza dei signori enciclopedisti».
Oggi non è diverso dal 1775: non bisogna aver letto Feyerabend per capire che il radicalismo borghese, mascherato da scientismo, procede con la stessa ridicola petulanza intellettuale di de Jaucourt e Diderot ai tempi della Encyclopedie.
Allora come oggi, la migliore tradizione del pensiero siciliano insegna che la dissidenza culturale è la prima necessaria opposizione a questa rovinosa quanta falsa «cultura» .
Immagine di NASA Marshall Space Flight Center via Flickr pubblicata su licenza Creative Commons Attribution-NonCommercial 2.0 Generic (CC BY-NC 2.0)
Pensiero
Mosca bataclanizzata: qual è il messaggio?
Al momento in cui scrivo la conta dei morti del massacro di Mosca è di 60 morti e 140 feriti.
Abbiamo raccolto e mostrato qualche immagine agghiacciante: sì, un commando è entrato in un centro commerciale (su qualche canale ebete di Telegram avete letto che era un municipio: il traduttore automatico dei geni ha tradotto «Crocus City Hall» in «Municipio di Crocus», come se Crocus fosse un quartiere della capitale russa; gli ignoranti che seguite sui social fanno anche questo) con fucili automatici e hanno iniziato a sparare all’impazzata. Sono stati colpiti anche dei bambini, e due dodicenni sarebbero gravi.
È interessante notare quanto siano restii i nostri media a pronunziare, davanti allo schema perfettamente ripetuto, la parola che aveva inondato il discorso pubblico sul terrorismo quasi dieci anni fa: Bataclan.
Il disegno tecnico è il medesimo: colpire la popolazione comune, falciandola con armi a ripetizione e magari qualche bomba suicida o meno, nel momento di massimo svago e massima vulnerabilità – quando va a vedere un concerto. Sparare sulla gente quando è concentrata in un unico punto ed indifesa. Massacrare in maniera massiva per compiere il lavoro del terrorismo, e portare il suo messaggio.
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Mosca è stata bataclanizzata. I grandi media non vogliono dirvelo – perché significherebbe elevare il popolo russo a vittima, dopo due anni di campagna martellante per convincerci che la Russia è carnefice. E poi, soprattutto, nessuno ha voglia davvero di guardarci dentro: se il disegno è lo stesso del Bataclan, gli autori sono gli stessi? I mandanti pure?
Alla rivendicazione dell’ISIS, buttata subito in stampa da tante testate internazionali, non possiamo credere. Curioso, tuttavia, che l’ISIS possa voler colpire la Russia proprio ora, quando l’intervento in Siria è finito da anni…
L’Ucraina, per bocca di un ciarliero e molto visibile tizio consigliere di Zelens’kyj, Mikhailo Podolyak (quello che aveva insultato il papa e il cristianesimo) ha detto non siamo stati noi, mentre altri ucraini hanno ovviamente tirato fuori l’hastatoputin. Chiaramente, ci vogliono far credere, è un false-flag del Cremlino per scatenarsi, anzi, guarda, è la festa personale di Putin per aver vinto l’elezione con quasi il 90% dei voti. Come no. (in rete circolano meme divertenti con il passaporto di un terrorista miracolosamente, come al solito, ritrovato sul luogo del delitto: la foto è quella di un Putin barbuto)
Si tratta della più grande strage terrorista dai primi anni 2000. Qualcuno ricorderà i 130 morti (più quaranta terroristi) e i 700 meriti della crisi del Teatro Dubrovka, quando vennero sequestrati 850 civili da un gruppo di islamisti separatisti ceceni.
Dobbiamo capire che la vittoria sulla questione cecena – e sul terrorismo correlato – è stata la scala d’ingresso di Putin verso il Cremlino. La Cecenia era un disastro che poteva trascinare giù tutta la Russia: un alveare terrorista nel cuore del Paese, e allo stesso tempo un fattore di demoralizzazione devastante per la popolazione. Erano i primissimi tempi di internet, ma già circolavano i video, poi perfezionati da ISIS e compagni, di sgozzamenti di soldati e civili russi.
Putin fu colui che mise fine al pericolo. Da primo ministro ha vinto la Seconda Guerra Cecena, di fatto sottomettendo una fazione in lotta, quella di Kadyrov, il cui figlio ora al potere a Grozny manda i suoi soldati a combattere in Ucraina con adunate oceaniche negli stadi dove si grida «Allahu Akbar» e subito dopo «viva il presidente Putin».
La strage di Dubrovka non è stata la sola. Poco dopo, ci fu il massacro di Beslan, ancora più intollerabile nella volontà terrorista di colpire gli indifesi: il 1 settembre 2004 un gruppo di 32 fondamentalisti separatisti ceceni entrò in una scuola elementare e sequestrò 1200 persone, per maggior parte bimbi. Ricordate quell’immagine: una bomba pronta ad esplodere piazzata dentro il canestro della palestra, e i bambini sotto. Il conto, dopo che gli Spetsnats (le forze speciali russe) liberarono la scuola, fu di oltre trecento morti, di cui 186 bambini, e 700 feriti. Quasi tutta la scuola è stata ferita dal terrorismo.
Si tratta di traumi che i russi pensavano passati. Sono seguiti gli anni putiniani dove stipendi e pensioni sono saliti di 7, 15 volte. Dove il popolo russo, che dopo il 1991 aveva cominciato a perdere un milione di persone l’anno (alcol, disperazione) ha ritrovato la dignità, e, parola chiave per capire Putin e la Russia odierno, rispetto.
Il terrorismo, essenzialmente, è un linguaggio. Ogni atto terroristico ha un messaggio da portare al mondo – questo è quello che ci dicono, almeno. Sappiamo che il messaggio è, in genere, più di uno. C’è un messaggio di superficie, quello dei perpetratori: vogliamo l’indipendenza, vogliamo vendetta, vogliamo la shar’ia, vogliamo la fine dell’occupazione, cose così.
Poi c’è il messaggio profondo, quello dei veri mandanti, di cui non si può discutere, perché non si può saperne nulla.
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Le stragi dei primi 2000 avevano, come messaggio di superficie, la Cecenia: la terra dove Putin aveva riportato l’ordine, promettendo di inseguire i terroristi anche al cesso ed ucciderli lì, disse in una famosa dichiarazione.
Il messaggio profondo possiamo immaginare fosse un altro: lasciaci continuare a depredare la Russia. Il desiderio, profondo ed irrevocabile, dei veri mandanti, che non necessariamente stavano in russo.
I terroristi takfiri ceceni, si è detto, potevano aver legami con oligarchi nemici di Putin riparati all’estero. Era chiaro cosa volevano gli oligarchi ribelli: proseguire, anche per conto dei loro soci occidentali, la razzia resasi possibile con il crollo dell’Unione Sovietica nel decennio di Eltsin, come visibile, ad esempio, nel caso magnate del petrolio Mikhail Khodorkovskij, quello che Pierferdi Casini difendeva al Parlamento italiano, prima di essere imprigionato da Putin si diceva avesse trasferito le sue quote a Lord Nathaniel Jacob Rothschild, quello dei quadri satanici con Marina Abramovic spirato pochi giorni fa. Liberato dalla clemenza di Putin prima delle Olimpiadi 2014 (l’Occidente ringraziò organizzando poco dopo i Giochi di Sochi Piazza Maidan a Kiev), il Khodorkhovskijj ora è tornato a galla per la questione ucraine, i giornali lo definiscono «oppositore di Putin».
Vi sono tuttavia casi più evidenti. Rapporti tra terroristi ed oligarchi furono discussi per uno dei nemici più acerrimi di Putin, l’oligarca riparato a Londra Boris Berezovskij. Una trascrizione di una conversazione telefonica tra Berezovsky e il fondamentalista Movladi Udugov – attualmente uno degli ideologi e il principale propagandista del cosiddetto Emirato del Caucaso, un movimento militante panislamico che rifiuta l’idea di uno stato ceceno meramente indipendente a favore di uno stato islamico che comprenda la maggior parte del Caucaso settentrionale russo e si basi su principi islamici e sulla legge della shar’ia – fu trapelata su uno dei tabloid di Mosca il 10 settembre 1999. Udugov propose di iniziare la guerra del Daghestan per provocare la risposta russa, rovesciare il presidente ceceno Aslan Maskhadov e fondare la nuova repubblica islamica di che sarebbe stata amica della Russia pre-putiniana.
Dopo la Seconda Guerra Cecena, Berezovskij aveva mantenuto i rapporti con i signori della guerra islamisti. Nel 1997, nell’ambito di supposte attività di ricostruzione della Cecenia, fece una donazione di 1 milione di dollari (alcune fonti menzionano 2 milioni di dollari) per una fabbrica di cemento a Grozny. Per tale pagamento fu negli anni accusato di finanziare i terroristi ceceni.
Il 23 marzo 2013 Berezovskij, che bazzicava il World Economic Forum di Davos e aveva avuto un ruolo attivo nella rielezione di Eltsin nel 1996, fu trovato morto nel bagno nella sua villa nel Berkshire, vicino ad Ascot, luogo caro alla nobiltà britannica. Dissero dapprima che era depresso, perché aveva perso una causa con Roman Abramovic (ex patron del Chelsea, anche lui oligarca ebreo ultramiliardario che però si era sottomesso a Putin) e quindi aveva debiti; la polizia inglese invece disse che era una morte senza spiegazioni e volle lanciare un’inchiesta, ma non arrivò a nulla. Si dice prendesse farmaci antidepressivi, e un giorno prima di morire avrebbe detto ad un giornalista londinese che non aveva più niente per cui vivere.
Parlo della morte di Berezovskij perché all’epoca notai come potesse essere correlata ad una strage terrorista dall’altra parte del mondo: il 15 aprile dello stesso anno due bombe esplodono alla Maratona di Boston ammazzando tre persone e ferendone 250. Vengono accusati due fratelli ceceni, Dzhokar e Tamerlan Tsarnaev. Emerse che loro zio, che i giornali dissero subito si era dissociato dalla deriva islamista dei nipoti, era stato sposato con la figlia di un agente CIA, con cui avrebbe pure convissuto.
Difficile capirci qualcosa: tuttavia, la domanda che mi feci, all’epoca, era: il messaggio profondo della strage bostoniana è che, morto Berezovskij, qualcuno stava chiedendo il riequilibrio di questa rete antirussa occulta che attraversa il mondo.
La mia era solo una supposizione. Di certezze sulle connessioni tra gli americani e gli islamisti ceceni, invece, ne ha Vladimir Putin.
In una sequenza di tensione rivelatrice del documentario che Oliver Stone ha dedicato a Putin – un’intervista di ore e ore tra il 2015 e il 2016 – il presidente russo dà una notizia piuttosto gigantesca: racconta che gli USA, trovati ad aver contatti con i terroristi ceceni, hanno risposto alle rimostranze del Cremlino dicendo che essi erano autorizzati diplomaticamente a parlare con chi volevano.
Putin era visibilmente scosso: la Cecenia, per lui che l’aveva vinta come prima missione della sua carriera ai vertici, significava tanto: il dolore di tanti morti, il rischio di far finire la Russia, ancora una volta, in una spirale di razzia e violenza, in pratica di farla sparire dalla storia.
Discorsi simili sono stati fatti poche settimane fa nell’intervista che Putin ha concesso a Tucker Carlson. Il presidente russo lo aveva ripetuto ai giornalisti anche l’anno scorso: «nel Caucaso l’Occidente sosteneva Al-Qaeda». Washington appoggia il terrorismo antirusso, in sintesi. Per gli italiani che si ricordano quando – al tempo non c’era la parola «complottista» – si parlava della Strategia della Tensione, non è una storia tanto campata in aria.
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E quindi, qual è il messaggio della strage terrorista al Crocus di ieri sera?
È lo stesso, crediamo, di quello di quando l’anno scorso hanno bombardato a Mosca Darja Dugina o a San Pietroburgo il blogger Vladen Tatarskij: vogliono ri-cecenizzare la Russia.
Vogliono riportare le lancette indietro a quegli anni, quando Mosca era debole, il popolo incerto ed impaurito, e le risorse del bicontinente libere per i rapaci internazionali. Quando c’era il terrorismo islamico, usato come solvente da un potere superiore per distruggere definitivamente ogni potere indipendente per la Russia e piegare nella paura la psiche del popolo russo.
Tutto questo è durato fino a Putin. I mandanti non hanno mai accettato di aver perso. E quindi, nell’ora del trionfo politico e popolare di Putin, ripetono il messaggio. Puoi anche vincere le elezioni, puoi anche avere l’affetto del tuo popolo: noi te lo possiamo portar via a suon di mitragliate terrorista. Puoi vincere la guerra ucraina, noi massacreremo le famiglie ai concerti a Mosca. Lo faremo con i ceceni, con gli ucraini, con i daghestani, con i nazisti russi, con chiunque potremo manovrare.
Ora, da temere, più che il messaggio, che è chiaro, è la risposta che darà Putin.
Perché, come è evidente, potrebbe essere l’innesco della Terza Guerra, che di fatto l’élite occidentale, brama affannosamente.
Roberto Dal Bosco
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Occulto
Feto trovato in uno stagno. Chi ce lo ha messo? E soprattutto: perché?
Leesburg è storica cittadina di 40 mila abitanti nello Stato americano della Virginia. Si trova vicino al fiume Potomac, quello che passa per la capitale Washington.
Leesburg è il capoluogo di contea della contea di Loudoun – praticamente omonima della piccolo paesino francese che nel Seicento fu teatro della possessione di massa delle suore di un convento, da cui il romanzo I diavoli di Loudun di Aldous Huxley – il luogo finito nelle cronache negli scorsi mesi per il clamore seguito alle presunte molestie sessuali subite da una ragazzina adolescente in un «bagno transgender» ad opera di uno studente transessuale. Lo scandalo si moltiplicò quando la repressione si abbattè sui genitori che protestavano negli incontri con i dirigenti della scuola, con il padre della giovane vittima arrestato dalla polizia durante un meeting.
Lo scorso 12 marzo il dipartimento di polizia locale della piccola città americana ha emanato un comunicato stampa agghiacciante.
Vi si dichiara che l’11 marzo, «il dipartimento di polizia di Leesburg è stato allertato intorno alle 16:33 da un membro della comunità che ha scoperto il corpo di un feto a termine nello stagno dietro Park Gate Drive, a Leesburg». L’espressione inglese usata per il bambino, «late term», indica un bambino nato tra 41 settimane e 0 giorni e 41 settimane e 6 giorni.
Il feto è stato trasportato all’ufficio del capo medico legale della Virginia per l’autopsia.
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«Questa è una situazione profondamente tragica», ha detto il capo della polizia di Leesburg, Thea Pirnat. «Esortiamo chiunque abbia informazioni a farsi avanti, non solo per il bene delle indagini, ma anche per garantire che a chi ne ha bisogno ricevano cure e servizi medici adeguati».
La polizia ha anche ricordato alla gente del luogo le risorse disponibili per le donne incinte, inclusa l’opzione per la consegna sicura e anonima dei neonati secondo le leggi Safe Haven della Virginia, con le quali i genitori possono consegnare il proprio bambino se ha 30 giorni o meno, insomma come si faceva un tempo con la ruota degli esposti.
«La legge fornisce protezione dalla responsabilità penale e civile in alcuni procedimenti penali e procedimenti civili per i genitori che consegnano in sicurezza i loro bambini», dichiara il dipartimento. «La legge consente a un genitore di rivendicare una difesa affermativa davanti all’accusa se l’accusa si basa esclusivamente sul fatto che il genitore ha lasciato il bambino in un luogo sicuro designato».
«L’indagine viene trattata con la massima serietà e sensibilità» afferma il dipartimento nel comunicato. Per il resto, vista la mancanza di aggiornamenti sul caso, possiamo forse usare la famosa espressione giornalistica: la polizia brancola nel buio.
La verità è che, con grande probabilità, non si farà molto per risalire a chi ha abbandonato al bambino – anche se, a pensarci, la genetica di consumo in voga negli USA, con cui si stanno prendendo serial killer che l’avevano fatta franca per decenni, potrebbe aiutare ad avvicinarsi quantomeno ai genitori del piccolo.
Il vescovo della diocesi di Arlington Michael F. Burbidge ha espresso «grande dolore» per la scoperta. «Esorto i fedeli della diocesi e tutte le persone di buona volontà ad unirsi a me nella preghiera per la madre del bambino e per chiunque sia coinvolto in questo incidente».
Il problema è che chiunque in questo caso parte con un’idea che, per quanto non dimostrata, è persistente: si tratta di un caso di degrado, un segno orrendo di disagio sociale, un effetto del livello di bassezza cui è sprofondata la società… Cose così. Inevitabile, a questo punto, che salti fuori anche quello che dice che con l’aborto si risolveva tutto. È il tema dell’antica canzone di Elio e le Storie Tese: Cassonetto differenziato per il frutto del peccato.
Eccerto, se il bambino veniva fatto a pezzi nel grembo materno, gli sarebbe stato risparmiato di finire in uno stagno. La minuta voce utilitarista dentro ogni cittadino sincero-democratico dice: così non soffriva. In verità, in tanti, specie se interessati al mantenimento dell’establishment, vorrebbero dire che, uccidendolo semplicemente prima grazie alle leggi feticide, ci risparmiavamo l’orrore, lo scandalo, i quindici minuti di destabilizzazione sociale conseguenti all’orripilante scoperta.
Crediamo che ci sia la possibilità che si sbaglino tutti: polizia, abortisti, vescovi, pro-life pregatori vari. Potrebbe essere che si stiano ponendo la domanda sbagliata. Potrebbe essere che stiano guardando al dito invece che alla luna. Perché su Renovatio 21 stiamo, da tempo, sviluppando l’idea che tali ritrovamenti, che avvengono di continuo in tante parti del mondo, non siano casuali, e nemmeno siano tutti scaturigini del degrado sociale della società odierna.
Abbiamo sotto gli occhi tanti strani casi italiani, di cui da tempo stiamo tentando di iniziare un censimento.
Per esempio, nell’aprile 2006 a Terlizzi (provincia di Bari), in un cimitero, trovano sotterrato maldestramente un feto di sesso maschile di tre mesi: il bambino è inserito in un barattolo di vetro.
Nel 2017 in provincia di Benevento, i carabinieri del comando provinciale trovano «un barattolo in vetro, con all’interno un oggetto dalle presunte fattezze di un feto umano» che sarebbe stata messa, anche qui, nel verde, «in un’area prospiciente il fiume Calore, seminascosto dietro un terrapieno». Poco dopo, rientra tutto: si trattava di «due guanti in tessuto, avvolti tra loro con dello spago che erano stati riempiti con una sostanza spugnosa» scrivono i giornali. Insomma, uno «stupido scherzo», dissero. Caso chiuso.
A metà novembre 2019, in uno spazio verde di Piazza Benfica, a Torino, un signore che porta a passeggio un cane si accorge che qualcuno aveva messo lì un contenitore con all’interno, visibile nel liquido trasparente di conservazione, un feto embrionale. Dal primo esame svolto all’epoca dei sanitari fu detto che il feto aveva tra le 10 e le 15 settimane. Mesi dopo il Pubblico Ministero chiederà l’archiviazione. I giornali dicono che «il giallo è risolto» perché il feto risalirebbe ad almeno vent’anni prima. Ciò ovviamente non spiega nulla, ma basta trasmettere al lettore sincero-democratico che va tutto bene. Circolare, niente da vedere qui.
Giugno 2023, Bassano del Grappa, provincia di Vicenza: in una zona di campagna i carabinieri, secondo quanto riportato, stavano conducendo un’operazione antidroga, andando a cercare luoghi dove gli spacciatori potrebbero nascondere gli stupefacenti. Durante il setaccio, dietro un cespuglio, gli agenti scoprono un barattolo, con dentro un essere umano grande quanto il palmo di una mano. Un feto di sei mesi, conservato in un liquido che probabilmente è formalina. I giornali locali parlano di «ipotesi di riti satanici», ma come sempre, l’eterna «pista del satanismo» va a sparire dopo pochi giorni, come tutta la storia.
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Poi giace da qualche parte, enorme e dimenticato, il caso di Granarolo. Febbraio 2022: un ragazzo che recupera ferro vecchio e altri materiali nelle industrie si reca presso un capannone per eseguire una raccolta. Gli viene detto di portare via anche dei bidoni gialli, sono una quarantina, tutti accatastati lungo un muro, tra altri rifiuti. Il suo compito sarebbe di «smaltirli da qualche parte». Lui ne apre uno: è pieno di un liquido di colore verde. Dentro vi galleggia un feto umano. Il ragazzo si spaventa. Filma la situazione, poi chiama la polizia. Sembra di capire, quindi, che di feti mica ce ne era solo uno: forse che tutti quei bidoni gialli contenevano feti? Da dove provenivano? Di chi erano figli? Cosa ci facevano lì… quanti erano?
Come avevamo predetto su queste colonne, anche questa storia di feti abbandonati sparisce immediatamente dai radar. Non ci è chiaro cosa abbiamo fatto le autorità, se una qualche ricostruzione è stata data: avevano detto che forse centravano musei e università, ma era davvero così? Qualche responsabilità è stata assegnata? Qualche indagine è stata conclusa? Stiamo cercando, ma sembra proprio che, come avevamo preconizzato, notizie sulla vicenda non sono state più date – nel disinteresse totale di curia, politici locali, ebetudine pro-life organizzata varia. Va così.
Ora, il pensiero che stiamo sviluppando è quello per cui tutti questi casi di feti «abbandonati» non siano effetti casuali del disagio sociale. Potrebbe essere, invece, parti di un disegno «religioso» con forme e dimensioni ancora sconosciute. I feti non sono lasciati lì per caso: sembrano, in molti di questi casi, disposti appositamente, secondo regole precise, forse geografiche, ambientali.
Ci aveva colpito, ad esempio, che in Italia i bambini imbarattolati venissero trovati per lo più nel verde, in mezzo al nulla: cespugli, aiuole, campagne, lungo argine. Un po’ come il feto di Leesburg, trovato non in una fogna, ma in un placido specchio d’acqua, tra i verdi giardini delle casette residenziali lì attorno.
Renovatio 21 aveva fatto delle ipotesi: la società post-cristiana è in realtà divenuta anche post-satanista, dove il satanismo non più legato a messe nere e formule magiche varie, ma innestata invece nel discorso dei «diritti umani», come il feticidio e i rapporti contronatura, ora divenuti legge dello Stato moderno. Il caso del Tempio di Satana, che vuole aprire cliniche abortiste in nome della libertà religiosa, costruisce altari satanici da piazzare a Natale nei Palazzi del potere e organizza festoni satanici con green pass e mascherina obbligatori, va in questa direzione.
Ma quindi, perché la disseminazione dei feti?
Abbiamo pensato che forse, la disposizione di questi feti potrebbe suggerire che li si voglia nascondere, come si fa con gli amuleti maledetti affinché persistano la loro funzione contro la vittima: sepolti nell’erba, occultati, ma presenti nella loro drammatica verità. Delle bandierine dell’universo post-satanista, delle «antenne» con la loro funzione: reliquie occulte, ripetitori del messaggio, dell’energia del Male.
Un feto a termine ucciso e impiantato nel territorio può volere dire: qui si fa l’aborto. E il fatto che nel caso della Virginia si trattasse di un bambino late term, potrebbe fare pensare qualcuno: nel grande paradosso del presente americano, la Corte Suprema elimina l’aborto come diritto federale mentre una parte della politica parla apertamente di late term abortion, cioè della possibilità di abortire fino al momento della nascita, o pure dopo.
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Se vuole essere un segnale politico per la situazione attuale, il bambino a termine ucciso nello stagno offre un messaggio chiarissimo. Continueremo, andremo avanti anche con l’età dei sacrificandi. Questa terra è nostra.
Non è sbagliato pensare che, in questo piano metafisico, vi sia chi all’aborto dedica riti occulti – perché esso è la porta ideale per il ritorno del sacrificio umano, l’inversione definitiva della religione divina, per cui non è più Dio che si sacrifica per l’uomo (come sulla Santa Croce, come nella Santa Messa), ma l’uomo che si sacrifica per gli dei dei pagani – i quali sono, come dice il Salmo, tutti demòni.
Il sacrificio umano è, per il momento, illegale, l’aborto no – ed ecco che quindi che essi devono proteggerlo ad ogni costo, attendendo che la fetta superiore del panino, l’eutanasia, scenda giù schiacciando noi in mezzo, fino a rendere l’intera popolazione sacrificabile in ogni momento. Fino a disintegrare una volta per tutte la dignità umana, e rendere la vita spendibile, sprecabile a piacimento. Fino al Regno Sociale di Satana.
Vorremmo andare oltre. Stiamo tentando di raccogliere materiale per farci un’idea sui continui casi dei feti nei cassonetti che funestavano in passato le cronache italiane. Forse non era esattamente come pensavamo. Forse anche lì si trattava di un messaggio, della disposizione di antenne oscure, della diffusione del segnale dell’Inferno.
Quando avremo tempo, ce ne occuperemo.
Nel frattempo, preghiamo il lettore: dai gruppi che vi parlano di difesa della vita, di lotta contro l’aborto – magari chiedendovi con automatica insistenza dei danari – state alla larga.
Con evidenza, non hanno capito nulla di quello che sta accadendo. La loro funzione, forse, è proprio quella di farci continuare a non comprendere forme e proporzioni di questa guerra occulta.
Roberto Dal Bosco
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Immagine su licenza Envato, rielaborata
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