Pensiero
La canzone della madrepatria interiore

Capitò sull’autostrada Kiev-Odessa.
Venivamo da due giornate in auto sperduti per le strade di campagna dell’Ucraina occidentale. Chiamarle «strade» è altamente inesatto. Anche se sono segnate dalle mappe come vie principali, sono piuttosto «piste», appena buone per i carretti con l’asino e sopra le babushke con il velo – una di esse con probabilità ci maledì, e di fatto avevamo perso uno pneumatico, nel mezzo del nulla ucraino.
Le strade non esistevano perché, nonostante l’Ucraina fosse partita non troppi anni prima (1992) con zero debito – 100 miliardi se li era accollati Mosca! – nessuno sviluppo sembrava essere arrivato, probabilmente a causa dell’idrovora oligarchica: i fondi internazionali, i danari del e per il popolo ucraino se li erano pappati quegli stessi oligarchi di merda di cui ora Zelens’kyj è il pupazzo di morte.
Eravamo stanchi, stremati – sfiniti soprattutto dal pensiero che non sapevamo dove eravamo, e se mai fossimo usciti da quel dedalo stupendo di campagne dorate infinite. Noi volevamo andare ad Odessa, ma era chiaro che avevamo miscalcolato tante cose.
L’apparizione di un’autostrada quasi di livello europeo, quella che collega la capitale alla prima città del Mar Nero, fu una sorta di momento celestiale. Corrado, il mio compagno di viaggio, decise di addormirsi immantinente, guidavo io.
Sentivo con ogni membra la meraviglia della strada dritta, la mente che non deve prepararsi alle buche… ricordo quel senso di conforto, come se stessimo percorrendo, senza sforzo, a velocità costante, una discesa distesa dolcemente su centinaia di chilometri.
Ricordo il senso di pace. Ricordo la dolcezza di quegli attimi. E anche, il senso di introversione che mi prese.
Quello era stato per me un anno tremendo, con alcuni mesi passati a rovistare dentro me stesso. Shiftare la mente in una modalità di introspezione allora veniva automatico, perché la mia psiche era ancora magnetizzata dai giorni bui.
Decisi allora di ascoltare musica. Abbandonato dal mio primo iPod, da dei cinesi di Paolo Sarpi a Milano avevo comperato il lettore mp3 più osceno mai visto, era a forma di croce, con un microschermo sul braccio orizzontale. Lo avevo riempito, come sempre, di musica che non conosco, lanciata in shuffle, in riproduzione casuale. Mi infilai le cuffiette.
Capitò quindi di incappare in questa canzone mai sentita, di cui lessi fugacemente il titolo: Motherland. Cioè, «madrepatria».
«Tanto, tanto tempo fa /ho raccolto fiori e cantato su una collina lontana / Sto ancora cantando / Tanto, tanto tempo fa / ho sentito l’amore per la prima volta / è ancora con me adesso»
Il gruppo si chiama Single Gun Theory, faceva elettronica a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta. Australiani, forse il nome è un riferimento all’omicidio di Kennedy. Erano noti nella cerchia degli appassionati del genere perché, oltre ai pezzi di dance elettronica dura, mischiavano il sound del genere downtempo con la voce eterea della cantante Jacqui Hunt.
Tutto questo lo avrei appreso dopo, e non ha nessuna importanza. Conta solo il paesaggio interiore in cui quella canzone mi stava sprofondando.
«Attraverso gli anni, attraverso gli anni / ho portato con me dolore e perdita assieme al mio amore»
La musica mi stava gettando in uno stato in cui affioravano memorie profonde. Antiche. Enormi. Importanti. Cose dalle quali la mente si tiene ad una certa distanza: essa sa che esistono, ma la loro contemplazione richiede sforzo, e rischio – il rischio di dover aprire il cuore, il rischio di dover riconsiderare segmenti immensi dell’esistenza.
Il rischio di dover sconvolgere la propria configurazione intima: è il costo dell’illuminazione, quando arriva.
Pensavo a tante cose che avevo passato. A cose orribili. A cose meravigliose. A cose irrisolte. A cose finite. Al dolore. Alla gioia. Alla tenebra. Alla voglia di vivere.
(Avevo nella mente anche una persona, ma quello che vorrei dire qui non è personale: è una funzione cosmica, oggettiva, e di vitale importanza in questo momento)
Compresi che tutte quelle cose, piccole e grandi, ridicole e grandiose, buie e luminose, erano mie. Ne sentivo il possesso totale, pacifico – anche se in verità esse non mi appartenevano davvero, perché riguardavano altre anime.
Eppure, sentivo, ciò che era irrisolto si era già rovesciato in qualcosa di risolto, senza per questo cambiare natura. Cioè che era irrisolto, cioè, pareva non irradiare più afflizione, pur rimanendo tale. È difficile spiegarlo.
Stavo accettando, nella pace del cuore, quello che mi aveva servito l’esistenza: la sofferenza come la felicità, che avevo avuto in abbondanza. Perché esse erano ciò che mi legavano ad altri, e definivano l’intero mio mondo – restando per sempre mie, destinate alla fibra più profonda del mio essere.
Sentii immediatamente dentro di me un bisogno: quelle cose andavano conservate, andavano non solo custodite, ma protette con ogni mia forza. Non c’ero solo io, in quei ricordi. In essi esistevano le storie di altre persone: e anche a questi segmenti del creato andava offerta protezione, perché erano anche quelli miei, erano nostri. Erano quello che erano: immutabilmente giusti e necessari. Più di così, non riesco a descrivere.
Quella cosa tirata fuori da una canzone nel mezzo di un’autostrada ucraina era un pezzo intero della vita, e nemmeno solo della mia.
Era l’importanza di essere vivi, di esserlo stati, non importa in che condizioni – e non rimpiangerlo mai.
Era la vittoria sul Niente e sulla sua seduzione.
Era il primato dell’Essere.
Motherland si traduce come «patria», o forse meglio con «madrepatria». È strana questa parola italiana, madrepatria: un termine androgino, per significare… che cosa? Un territorio? Un Paese? Uno Stato con la sua burocrazia e i suoi soldati? Un’idea geografica? Storica? Linguistica? Un drappo con colori decisi da qualche assassino secoli fa?
La madrepatria, forse, è invece questa cosa qui che sto cercando di descrivere. Un blocco di esistenza, un intreccio di anime, di dolore e di gioia, iscritto dentro di noi, legato a noi come il nostro stesso destino.
La madrepatria, come un padre e una madre, ci genera, attraverso gli anni, attraverso il ricordo e il destino, in ogni istante.
La madrepatria è l’insieme delle storie umane, delle persone dove siamo capitati – e che vanno protette ad ogni costo.
La madrepatria è l’accettazione dell’immensità e dell’unicità dell’esistenza umana.
La madrepatria è la continuazione dell’Essere.
La madrepatria è la vita.
È con questo pensiero che voglio ricordarmi da chi è necessario difenderla oggi.
Se mi seguite, sapete perfettamente che, da secoli, vi sono forze che desiderano distruggere la vita umana. Tuttavia, è bene pensare che esse quindi vogliono cancellare anche la vostra madrepatria interiore. Vogliono resettarla.
Il padrone del mondo sposta ogni giorno sempre di più il suo desiderio di controllo sul foro interno dell’umanità. Su questo sito ne abbiamo dato tanti esempi.
Alla fine, non sarà nemmeno la sovranità biologica l’ultimo fronte che il Male vorrà infrangere. Vi hanno tolto la sovranità politica, economica, famigliare, e poi – da prima dell’era mRNA – la biologica.
Vorranno togliervi i ricordi, vorranno riformularveli – o meglio, vorranno fare in modo che non vi ci affezionate, perché sono blocchi di marmo bianco che riluce nella notte in un mondo che vogliono liquefatto, perché potrebbe servire al potere di uccidere i protagonisti delle vostre memorie (magari, con l’eutanasia, o con un bell’omicidio del consenziente legalizzato, o con una guerra, che è la Cultura della Morte portata a livello nazionale) e magari anche i loro figli, con i metodi che conosciamo, più quelli nuovi.
Ebbene, tutto questo non è la fine. Perché l’obbiettivo finale è oltre le vostre cellule e le vostre molecole: è la vostra anima immortale.
«Prendi un pezzo di bellezza / e moltiplicalo / prendi un po’ di dolore/ e sommergilo finché non muore/ cavalca un’anima irrequieta fino alla pace del rifugio / e moltiplica l’amore»
Dobbiamo combattere chiunque voglia impedirci di moltiplicare la bellezza, e affogare il nostro dolore più intimo per correre con l’anima fino alla pace.
Dobbiamo combattere i signori della guerra moderna, la guerra contro le nostre anime – e i nostri corpi.
Quanto alla nostra madrepatria interiore, essa è l’unica patria per cui oggi abbia senso combattere. So con certezza che milioni di persone in tutto il mondo, guardando alle fiamme della guerra attuale, concordano con me.
Possiamo solo dire ai nemici della nostra madrepatria interiore, a coloro che la vogliono rubare, rovinare, interrompere: provate a venire a prenderla.
Non avete idea di cosa possiamo fare per difenderla. Non avete idea.
Roberto Dal Bosco
Pensiero
Renovatio 21 saluta Giorgio Armani. Dopo di lui, il vuoto che inghiottirà Milano e l’Italia

È morto quello che si può definire il più grande stilista vivente, e al contempo un gigante, imprenditoriale e finanche morale, dell’Italia moderna e della sua immagine. È il caso di dire pure, cercando di dimostrarlo nelle prossime righe, che la sua morte apre gli occhi su un vuoto pericoloso che potrà inghiottirsi la moda, Milano, l’Italia.
Quindi non scriviamo il solito coccodrillo, per quello ci sono gli altri giornali, anche internazionali. Vogliamo salutare Giorgio Armani con alcuni flash personali che testimoniano come la sua semplice grandezza era tale che, anche senza conoscerlo di persona, ha attraversato giocoforza le nostre vite.
Le testimonianze che posso raccogliere sono tante: ho un amico di ottant’anni, praticamente spesi tutti nella moda, che mi racconta che sì, vero, faceva il vetrinista alla Rinascente, lo aveva conosciuto così, fino a che non era arrivato a scoprirlo il biellese Nino Cerruti (1930-2022). Ho in testa altre storie che mi arrivavano da amici di famiglia che lo avevano conosciuto, sempre lavorando nel tessile, agli albori, quando passava per Valdagno. Impossibile verificare: sono tutti morti, e quelle storie sono andate via con loro…
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Un primo flash: ho diciannove anni, e ho messo via i soldi per comprare un completo Armani (di brand minore dell’impero, certo, non «Le Collezioni»), con il quale, non solo nelle occasioni importanti, rifiutare il conformismo coetaneo di t-shirt e scarpe da ginnastica. Ricordo la sensazione di appagamento che dava quel vestito, come cascava bene sulle spalle, sui fianchi, ricordo come mi piaceva indossarlo anche con una maglia a maniche corte sotto, con le braccia accarezzate dal fodero in seta.
L’eleganza era possibile. Era diffusa, distribuita. Un’eleganza che non era ostentosa. Era decisa, precisa. Era reale.
Un secondo flash: decido di prendere un altro vestito Armani per appagare il mio desiderio di arrivare al matrimonio di mia sorella, in centro all’Africa, con un completo bianco, come Klaus Kinski nella giungla amazzonica di Fitzcarraldo. Il piano ebbe un effetto collaterale: l’aereo da Londra tardò enormemente su Johanessburg, facendomi perdere la coincidenza per Livingstone, e inserendo uno stop imprevisto in un hotel della città più violenta del mondo. Quando uscii dalla porta del ritiro bagagli dell’aeroporto sudafricano mi ritrovai di fronte ad una muraglia umana di autoctoni nerissimi (più un albino, epperò geneticamente nero anche lui) che aspettano un turista straniero a caso per spennarlo portandogli la valigia: si videro innanzi l’icona di un colonizzatore in abiti firmati, non ci credettero, e mi inseguirono per tutta l’aviosuperficie per un’oretta buona. (Storia da raccontare un’altra volta)
Vi fu poi la festa notturna delle nozze di mia sorella, dove partecipava una varietà impressionante di personaggi, tra cui uno zoccolo durissimo di allevatori di crocodilus niloticus, una delle attività della zona. Uno in particolare, che si era presentato non esattamente elegantissimo e a cui certo inizialmente non stavo simpatico, cominciò a chiamarmi «Armani», come fosse un insulto. Bizzarro: avevo, sì, un ulteriore abito armaniano, quindi aveva indovinato, al contempo nella sua zoticheria esibita stava di fatto ammettendo che il vertice della monda mondiale era anche per lui, farmer di coccodrilli dello Zambia, Giorgio Armani. (Se non credete che esista, ho una foto di quest’uomo paonazzo a tavola con quella che sarebbe divenuta la moglie di un sindaco di una grande città del Nord Italia, purtroppo mancata mesi fa. Ciao, A.)
Ricordo antico: ho si è no sei anni, i miei genitori mi porta in vacanza a Pantelleria, allora non ancora luogo di jet-set euroamericano ed architetti omosessuali, ma isola selvaggia tra mare blu, segni di attività vulcanica e tombe fenicie che spuntavano in mezzo ai boschi. C’era un posto, chiamato arco dell’elefante, dove una colata lavica copiosa e antichissima si era solidificata gettandosi in mare e creando, appunto, l’immagine di una proboscide. Lì vicino, una nave affondata a pochi metri dalla riva, dalla quale giovani facevano tuffi acrobatici. Per arrivarci si scendeva un pendìo scoseso, tra le terre brulle tipiche dell’isola.
È lì che appariva, d’un tratto, una casetta stupenda. Non era enorme, non era una reggia, eppure sprigionava un tale buon gusto – che mai cadeva nello sforzo – che era leggibile persino a me, bambino piccolo: vedevo che aveva il giardino a prato inglese, cioè aveva l’erba verde a differenza del resto del giallo pantesco, in un’isola dove l’acqua, mi raccontavano, arrivava in nave – e non si poteva bere dal rubinetto. Lui probabilmente, mi diceva mio padre, utilizzava quella del mare, fatta risalire sulla scogliera e ripulita con l’osmosi… un esempio, anche qui, più che di lusso, di gusto e ingegnosità, di organizzazione.
Anni dopo ricordo un’apparizione dell’uomo a pochi metri da me: oramai due decadi fa, erano gli ultimi anni della fabbrica di famiglia, e amici che erano già fornitori del gruppo ci avevano combinato un breve appuntamento con qualcuno delle vendite… avevamo escogitato dei braccialetti eccezionali oro e schiena di coccodrillo (fornito da mia sorella, che allora viveva presso il più grande allevamento di niloticus al mondo, in Zambia).
Dall’incontro con la gentile signora che ci accolse non cavammo nulla, tuttavia ricordo con nitore quando appena fuori dalla sede del gruppo in via Borgonuovo comparve una manipolo di persone (bodyguard? Collaboratori? Troppo veloci per capire) con al centro lui, piccolino, ma con il passo rapidissimo, e questa chioma canuta luminescente da aristocratico ricchissimo… Non trasmetteva, tuttavia, le vibrazioni che davano gli aristocratici e i ricchissimi, anzi: era, in chiarezza, uno che stava facendo delle cose.
A dire il vero, Armani di persona lo aveva già veduto: quando ancora esisteva il cinema in centro a Milano, c’era in corso Vittorio Emanuele, nella galleria dove era anche Palazzo Colla, una sala chiamata Pasquirolo. Lì si poteva intravedere in tranquillità Armani il mercoledì, nel giorno del cinema a prezzo scontato. Più avanti, lo avrei rivisto, sempre senza gorilli e bodyguardie varie, in un cinema sopravvissuto all’olocausto delle sale attorno al Duomo, l’Eliseo: si accompagnava con una donna tra i quaranta e i cinquanta chissà da che Paese, bellissima, elegantissima, che sorrideva come lui.
Al cinema, alla storia del cinema, lui aveva partecipato attivamente, vestendo i personaggi indimenticabili dei maestri cineasti di Nuova York (American Gigolo di Paul Schrader, poi tanto Scorsese, che gli dedicò un documentario introvabile, Made in Milan), eppure eccotelo lì, che andava ritualmente al cinematografo il mercoledì, come tanti, come tutti.
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Tutto questo per dire: non solo era una persona concreta, umana, ma era un milanese. E qui si innesta un discorso meno personale, e più serio, se non terrificante.
Armani, piacentino, era in realtà il milanese quintessenziale, l’uomo che amava Milano, la conosceva, la aiutava, non vi fuggiva, mai.
Lo proposero brevemente come sindaco, ma lui – che di fatto andava d’accordo con tutti – non accettò. Il suo senso civico si espresse, se posso dire, con la sponsorizzazione della squadra basket di Milano, dove lo vedevi tifare in prima fila tutte le domeniche di campionato. Capito: non scappava, nel weekend, ma stava con il popolo urlante a tifare per la squadra della città. Facciamo i conti – in diciassette anni come proprietario dell’Olimpia, Armani ha conquistato quindici trofei: sei campionati, quattro Coppe Italia e quattro Supercoppe italiane. Un vincente. Con la città che vince con lui.
Mi rammento poi di quando riaprirono, dopo tanti lavori, il Piccolo Teatro di Milano. Il suo dominus, il celebratissimo Giorgio Strehler, era morto da poco, era probabilmente attorno al 1997. Tra i VIP convenuti al vernissage, la TV intervistò Armani, che disse che gli pareva che ci fosse solo una persona che mancava… comprendevo quindi che Armani conosceva, frequentava pure Strehler – elementi della scena milanese che hanno attraversato tante ere, gli anni di piombo, i socialisti craxiani, la «Milano da bere» tangentopoli, lavorando e sopravvivendovi, e prosperandovi.
La milanesità vissuta integralmente. La comparazione con il presente è terrificante: qualche tempo fa emerse che, durante un podcast, Fedez – personaggio forse egemone della scena «culturale» milanese attuale – non sapeva chi fosse Strehler, quasi non avesse mai preso la metrò, dove il nome del regista è stampigliato sempre vicino alla fermata Lanza (Piccolo Teatro).
Il vuoto per Milano è anche di altro tipo. La moda dopo Armani, cosa sarà? Beh, lo sappiamo. Negli anni, quando la città ha finito per identificarsi sempre più con la fashion week, gli «stilisti» hanno portato, con le loro perversioni di ogni livello, un mondo di degrado e di disperazione – se non di Necrocultura vera e propria – sotto la Madonnina. Si tratta di un argomento su cui ho dovuto ragionare, specie guardando la quantità di amiche che sono state di fatto sterilizzate dal sistema della moda, degenerato in modo invincibile negli ultimi 25 anni. (Ne scriverò più avanti)
Armani, al contrario dei «colleghi» che ora calcano le scene, non ha mai imposto le sue inclinazioni agli altri, non ne ha fatto spettacolo, notizia, rivendicazioni estetica o politica. Viveva con l0understatement di chi lavora davvero, e non perde tempo come i traffici.
Come quando, sempre negli anni Novanta, le forze dell’ordine di Parigi bloccarono una sua sfilata a Saint-Germanin-des-Pres, cuore della capitale francese che aveva perso concretamente lo scettro di regina del modismo: «Armani go home» gridavano frotte di sciovinisti francesi mentre davanti a loro si consumava lo spettacolo di modelle in ghingheri fermate da gendarmi. Non fece un plissé, si rifiutò di dare la colpa alla polizia, che eseguiva ordini dall’alto della Prefettura di Parigi (dove, immaginiamo, abbia la tessera della massoneria anche quello che pulisce i pavimenti).
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La cifra dell’italianità nell’impresa: ecco, gestire tutto in famiglia, circondato da nipoti, è già un capolavoro, e se aggiungiamo la resistenza alla lusinga dei megagruppi transalpini (Arnault-Pinault) capiamo che siamo oltre, siamo davanti ad un esempio da scolpire nel marmo milanese, quello non occupato dalle bombolette dei graffitari leoncavallari o dalle orine dei maranza, se ne è rimasto.
La morte di Giorgio Armani non solo priva il mondo del suo equilibrio, ma va letto come ennesimo episodio dell’imbarbarimento di Milano: che siano ragazzini criminali marocchini o stilisti gay, il vuoto che stiamo vedendo crearsi, in mancanza di esempi e di virtù, minaccia di inghiottirsi tutta la metropoli, e poi, come sempre, il resto d’Italia, ridotta a bolo dell’anarco-tirannia.
La soluzione, abbiamo cercato di dirlo tante volte su Renovatio 21, non può essere che il ritorno ad Ambrogio, il santo che scacciò gli eretici e unì la città – il santo che probabilmente ancora oggi la protegge dalla sua distruzione definitiva, mentre anche gli ultimi pezzi della Milano per bene, la Milano bella, elegante, benevola se ne vanno senza poter essere sostituiti.
Roberto Dal Bosco
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Immagine di Bruno Cordioli via Wikimedia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 2.0 Generic
Bizzarria
Ecco la catena alberghiera dell’ultranazionalismo revisionista giapponese


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Fumiko Motoya, di hirune5656 via Wikimedia CC BY 3.0






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Geopolitica
«L’era dell’egemonia occidentale è finita»: parla un accademico russo

Farhad Ibragimov, docente presso la Facoltà di Economia dell’Università RUDN e docente ospite presso l’Istituto di Scienze Sociali dell’Accademia Presidenziale Russa di Economia Nazionale e Pubblica Amministrazione, ha pubblicato il 1° settembre sulla testata governativa russa in lingua inglese Russia Today un interessante editoriale sulla recente riunione dell’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai (SCO), intitolato «L’Occidente ha avuto il suo secolo. Il futuro appartiene ora a questi leader».
Lo scritto tratta il tema della decadenza del potere planetario occidentale.
«Il vertice della Shanghai Cooperation Organization in Cina si è già affermato come uno degli eventi politici più significativi del 2025» ha scritto l’Ibragimov. «Ha sottolineato il ruolo crescente della SCO come pietra angolare di un mondo multipolare e ha evidenziato il consolidamento del Sud del mondo attorno ai principi di sviluppo sovrano, non interferenza e rifiuto del modello occidentale di globalizzazione. Ciò che ha conferito all’incontro un ulteriore livello di simbolismo è stato il suo collegamento con la prossima parata militare del 3 settembre a Pechino, che celebra l’80° anniversario della vittoria nella guerra sino-giapponese e la fine della Seconda Guerra Mondiale».
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«Parate di questo tipo sono una rarità in Cina – l’ultima si è tenuta nel 2015 – a sottolineare quanto questo momento sia eccezionale per l’identità politica di Pechino e il suo tentativo di proiettare sia la continuità storica che l’ambizione globale. L’ospite principale sia al vertice che alla prossima parata è stato il presidente russo Vladimir Putin» continua il professore. «La sua presenza ha avuto non solo un peso simbolico, ma anche un significato strategico. Mosca continua a fungere da ponte tra i principali attori dell’Asia e del Medio Oriente, un ruolo che conta ancora di più sullo sfondo di un ordine di sicurezza internazionale frammentato».
Il Programma di Sviluppo della SCO, adottato al vertice, è una «roadmap volta a definire il percorso strategico dell’organizzazione per il prossimo decennio e a trasformarla in una piattaforma a tutti gli effetti per il coordinamento di iniziative economiche, umanitarie e infrastrutturali», continua l’articolo. «Altrettanto significativo è stato il sostegno di Mosca alla proposta cinese di istituire una Banca di Sviluppo della SCO. Un’istituzione del genere potrebbe fare di più che finanziare progetti congiunti di investimento e infrastrutture; aiuterebbe anche gli Stati membri a ridurre la loro dipendenza dai meccanismi finanziari occidentali e ad attenuare l’impatto delle sanzioni, pressioni che Russia, Cina, Iran, India e altri paesi affrontano a vari livelli».
L’evento, ha affermato il professor Ibragimov, «ha confermato l’esistenza di un ordine mondiale multipolare, un concetto che Putin promuove da anni. La multipolarità non è più una teoria. Ha assunto una forma istituzionale nella SCO, che si sta espandendo costantemente e sta acquisendo autorevolezza in tutto il Sud del mondo».
L’ampia partecipazione delle nazioni arabe, aggiunge l’accademico, «sottolinea che un nuovo asse geoeconomico che collega l’Eurasia e il Medio Oriente sta diventando realtà e che la SCO sta emergendo come un’alternativa interessante ai modelli di integrazione incentrati sull’Occidente».
La SCO «non è più una struttura regionale, ma un centro di gravità strategico nella politica globale. Unisce paesi con sistemi politici diversi, ma con una determinazione condivisa a difendere la sovranità, promuovere i propri modelli di sviluppo e rivendicare un ordine mondiale più equo».
«L’era dell’egemonia occidentale è finita» conclude lo studioso. «Il multipolarismo non è più una teoria: è la realtà della politica globale, e la SCO è il motore che la spinge avanti».
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L’idea della fine della primazia dell’Occidente sul mondo circola da diverso tempo in ambienti accademici e diplomatici. Essa è stata ripetuta più volte, negli scorsi mesi, dal premier ungherese Vittorio Orban. Il ministro degli esteri russo Sergio Lavrov due anni fa ha parlato del termine del «dominio di 500 anni» da parte dell’Ovest.
Putin in questi anni ha ribadito, in discorsi che puntavano il dito contro le élite occidentali», che «il mondo unipolare è finito».
Come riportato da Renovatio 21, all’incontro SCO di Tianjin della settimana passata lo stesso presidente Xi Jinpingo ha parlato di resistenza «all’egemonismo e alla politica di potenza», cioè di sfida vera e propria al predominio occidentale. Subito dopo, a Pechino, ha mostrato armi di nuovo tipo (come i razzi ipersonici) nella colossale parata in Piazza Tian’anmen, nonché ha esibito gli apparati della triade nucleare (aerei, missili balistici, sommergibili) a disposizione della Repubblica Popolare Cinese.
Discorsi sul declino occidentale da parte di studiosi russi erano scivolati, come nel caso del politologo Sergej Karaganov, in ipotesi di lanci nucleari contro le città europee.
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Immagine di President of Russia pubblicata su licenza Creative Commons Attribution 4.0 International (CC BY 4.0)
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