Pensiero

La canzone della madrepatria interiore

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Capitò sull’autostrada Kiev-Odessa.

 

Venivamo da due giornate in auto sperduti per le strade di campagna dell’Ucraina occidentale. Chiamarle «strade» è altamente inesatto. Anche se sono segnate dalle mappe come vie principali, sono piuttosto «piste», appena buone per i carretti con l’asino e sopra le babushke con il velo – una di esse con probabilità ci maledì, e di fatto avevamo perso uno pneumatico, nel mezzo del nulla ucraino.

 

Le strade non esistevano perché, nonostante l’Ucraina fosse partita non troppi anni prima (1992) con zero debito – 100 miliardi se li era accollati Mosca! – nessuno sviluppo sembrava essere arrivato, probabilmente a causa dell’idrovora oligarchica: i fondi internazionali, i danari del e per il popolo ucraino se li erano pappati quegli stessi oligarchi di merda di cui ora Zelens’kyj è il pupazzo di morte.

 

Eravamo stanchi, stremati – sfiniti soprattutto dal pensiero che non sapevamo dove eravamo, e se mai fossimo usciti da quel dedalo stupendo di campagne dorate infinite. Noi volevamo andare ad Odessa, ma era chiaro che avevamo miscalcolato tante cose.

 

L’apparizione di un’autostrada quasi di livello europeo, quella che collega la capitale alla prima città del Mar Nero, fu una sorta di momento celestiale. Corrado, il mio compagno di viaggio, decise di addormirsi immantinente, guidavo io.

 

Sentivo con ogni membra la meraviglia della strada dritta, la mente che non deve prepararsi alle buche… ricordo quel senso di conforto, come se stessimo percorrendo, senza sforzo, a velocità costante, una discesa distesa dolcemente su centinaia di chilometri.

 

Ricordo il senso di pace. Ricordo la dolcezza di quegli attimi. E anche, il senso di introversione che mi prese.

 

Quello era stato per me un anno tremendo, con alcuni mesi passati a rovistare dentro me stesso. Shiftare la mente in una modalità di introspezione allora veniva automatico, perché la mia psiche era ancora magnetizzata dai giorni bui.

 

Decisi allora di ascoltare musica. Abbandonato dal mio primo iPod, da dei cinesi di Paolo Sarpi a Milano avevo comperato il lettore mp3 più osceno mai visto, era a forma di croce, con un microschermo sul braccio orizzontale. Lo avevo riempito, come sempre, di musica che non conosco, lanciata in shuffle, in riproduzione casuale. Mi infilai le cuffiette.

 

Capitò quindi di incappare in questa canzone mai sentita, di cui lessi fugacemente il titolo: Motherland. Cioè, «madrepatria».

 

 

«Tanto, tanto tempo fa /ho raccolto fiori e cantato su una collina lontana / Sto ancora cantando / Tanto, tanto tempo fa / ho sentito l’amore per la prima volta / è ancora con me adesso»

 

Il gruppo si chiama Single Gun Theory, faceva elettronica a cavallo tra gli Ottanta e i Novanta. Australiani, forse il nome è un riferimento all’omicidio di Kennedy. Erano noti nella cerchia degli appassionati del genere perché, oltre ai pezzi di dance elettronica dura, mischiavano il sound del genere downtempo con la voce eterea della cantante Jacqui Hunt.

 

Tutto questo lo avrei appreso dopo, e non ha nessuna importanza. Conta solo il paesaggio interiore in cui quella canzone mi stava sprofondando.

 

«Attraverso gli anni, attraverso gli anni / ho portato con me dolore e perdita assieme al mio amore»

 

La musica mi stava gettando in uno stato in cui affioravano memorie profonde. Antiche. Enormi. Importanti. Cose dalle quali la mente si tiene ad una certa distanza: essa sa che esistono, ma la loro contemplazione richiede sforzo, e rischio – il rischio di dover aprire il cuore, il rischio di dover riconsiderare segmenti immensi dell’esistenza.

 

Il rischio di dover sconvolgere la propria configurazione intima: è il costo dell’illuminazione, quando arriva.

 

Pensavo a tante cose che avevo passato. A cose orribili. A cose meravigliose. A cose irrisolte. A cose finite. Al dolore. Alla gioia. Alla tenebra. Alla voglia di vivere.

 

(Avevo nella mente anche una persona, ma quello che vorrei dire qui non è personale: è una funzione cosmica, oggettiva, e di vitale importanza in questo momento)

 

Compresi che tutte quelle cose, piccole e grandi, ridicole e grandiose, buie e luminose, erano mie. Ne sentivo il possesso totale, pacifico – anche se in verità esse non mi appartenevano davvero, perché riguardavano altre anime.

 

Eppure, sentivo, ciò che era irrisolto si era già rovesciato in qualcosa di risolto, senza per questo cambiare natura. Cioè che era irrisolto, cioè, pareva non irradiare più afflizione, pur rimanendo tale. È difficile spiegarlo.

 

Stavo accettando, nella pace del cuore, quello che mi aveva servito l’esistenza: la sofferenza come la felicità, che avevo avuto in abbondanza. Perché esse erano ciò che mi legavano ad altri, e definivano l’intero mio mondo – restando per sempre mie, destinate alla fibra più profonda del mio essere.

 

Sentii immediatamente dentro di me un bisogno: quelle cose andavano conservate, andavano non solo custodite, ma protette con ogni mia forza. Non c’ero solo io, in quei ricordi. In essi esistevano le storie di altre persone: e anche a questi segmenti del creato andava offerta protezione, perché erano anche quelli miei, erano nostri. Erano quello che erano: immutabilmente giusti e necessari. Più di così, non riesco a descrivere.

 

Quella cosa tirata fuori da una canzone nel mezzo di un’autostrada ucraina era un pezzo intero della vita, e nemmeno solo della mia.

 

Era l’importanza di essere vivi, di esserlo stati, non importa in che condizioni – e non rimpiangerlo mai.

 

Era la vittoria sul Niente e sulla sua seduzione.

 

Era il primato dell’Essere.

 

Motherland si traduce come «patria», o forse meglio con «madrepatria». È strana questa parola italiana, madrepatria: un termine androgino, per significare… che cosa? Un territorio? Un Paese? Uno Stato con la sua burocrazia e i suoi soldati? Un’idea geografica? Storica? Linguistica? Un drappo con colori decisi da qualche assassino secoli fa?

 

La madrepatria, forse, è invece questa cosa qui che sto cercando di descrivere. Un blocco di esistenza, un intreccio di anime, di dolore e di gioia, iscritto dentro di noi, legato a noi come il nostro stesso destino.

 

La madrepatria, come un padre e una madre, ci genera, attraverso gli anni, attraverso il ricordo e il destino, in ogni istante.

 

La madrepatria è l’insieme delle storie umane, delle persone dove siamo capitati – e che vanno protette ad ogni costo.

 

La madrepatria è l’accettazione dell’immensità e dell’unicità dell’esistenza umana.

 

La madrepatria è la continuazione dell’Essere.

 

La madrepatria è la vita.

 

È con questo pensiero che voglio ricordarmi da chi è necessario difenderla oggi.

 

Se mi seguite, sapete perfettamente che, da secoli, vi sono forze che desiderano distruggere la vita umana. Tuttavia, è bene pensare che esse quindi vogliono cancellare anche la vostra madrepatria interiore. Vogliono resettarla.

 

Il padrone del mondo sposta ogni giorno sempre di più il suo desiderio di controllo sul foro interno dell’umanità. Su questo sito ne abbiamo dato tanti esempi.

 

Alla fine, non sarà nemmeno la sovranità biologica l’ultimo fronte che il Male vorrà infrangere. Vi hanno tolto la sovranità politica, economica, famigliare, e poi – da prima dell’era mRNA – la biologica.

 

Vorranno togliervi i ricordi, vorranno riformularveli – o meglio, vorranno fare in modo che non vi ci affezionate, perché sono blocchi di marmo bianco che riluce nella notte in un mondo che vogliono liquefatto, perché potrebbe servire al potere di uccidere i protagonisti delle vostre memorie (magari, con l’eutanasia, o con un bell’omicidio del consenziente legalizzato, o con una guerra, che è la Cultura della Morte portata a livello nazionale) e magari anche i loro figli, con i metodi che conosciamo, più quelli nuovi.

 

Ebbene, tutto questo non è la fine. Perché l’obbiettivo finale è oltre le vostre cellule e le vostre molecole: è la vostra anima immortale.

 

«Prendi un pezzo di bellezza / e moltiplicalo / prendi un po’ di dolore/ e sommergilo finché non muore/ cavalca un’anima irrequieta fino alla pace del rifugio / e moltiplica l’amore»

 

Dobbiamo combattere chiunque voglia impedirci di moltiplicare la bellezza, e affogare il nostro dolore più intimo per correre con l’anima fino alla pace.

 

Dobbiamo combattere i signori della guerra moderna, la guerra contro le nostre anime – e i nostri corpi.

 

Quanto alla nostra madrepatria interiore, essa è l’unica patria per cui oggi abbia senso combattere. So con certezza che milioni di persone in tutto il mondo, guardando alle fiamme della guerra attuale, concordano con me.

 

Possiamo solo dire ai nemici della nostra madrepatria interiore, a coloro che la vogliono rubare, rovinare, interrompere: provate a venire a prenderla.

 

Non avete idea di cosa possiamo fare per difenderla. Non avete idea.

 

 

Roberto Dal Bosco

 

 

 

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